martedì 8 giugno 2021

Una dinamica errata per Scopeti (2)

Segue dalla prima parte

Dopo un tempo che a qualcuno è parso interminabile, è giunto il momento di tornare sulla dinamica di Scopeti proposta da Enrico Manieri. Dal mio primo interessamento l’autore ha aperto un suo canale Youtube (vedi), dove ha pubblicato alcuni video, parte a pagamento, nei quali ha proseguito per la propria strada – profondamente errata, a parere di chi scrive – fornendo altri dettagli relativi alle convinzioni che ne stanno alla base. E non solo. Ha anche colto l’occasione per rivelare un paio di “scoperte” inedite, su una delle quali è il caso di approfondire, prima ancora di riesaminare in modo critico la sua proposta di dinamica vera e propria.
Ricordo che il mio interessamento è volto soltanto a contrastare la nascita di ulteriori inquinamenti, che in questo caso potrebbero rivelarsi assai nocivi, provenendo da persona competente e ben accreditata tra gli appassionati in rete. E che non esita a propagandare le sue presunte “scoperte” come un fatto epocale. Si veda a puro titolo di esempio l’articolo “Mostro di Firenze, Pietro Pacciani incastrato? ‘Il depistaggio decisivo, chi c'è dietro’: la svolta”, a firma Francesco Amicone, su Libero del 4 maggio 2021 (qui), sul quale torneremo.
In più la dinamica disegnata da Manieri si pone in netto contrasto con quella che giudico una verità densa di conseguenze, e che per essere smentita abbisogna di ben altre argomentazioni: a Scopeti il Mostro aveva sparato impugnando la pistola con la mano sinistra.

Bossoli che camminano. Le due foto seguenti ci mostrano la posizione dei sei bossoli ritrovati il giorno dopo la scoperta dei cadaveri, al martedì mattina (queste e altre immagini sono tratte dai video di Manieri).



Così si legge nel verbale della scientifica:

L'anno 1985, addì 10 del mese di settembre, dalle ore 10 alle ore 12,30, in San Casciano Val di Pesa (FI).
Noi sottoscritti Sov. della Polstato SIMPATIA Giovanni, MATTA Silverio ed Agente Scelto della Polstato AUTORINO Giovanni, tutti operatori tecnici addetti al Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica della Questura di Firenze, su richiesta del Dr. CANESSA, Sost. Proc. e per disposizione Superiore, ci siamo recati in San Casciano Val di Pesa, in quella via Degli Scopeti, all'altezza del civico 124, per ivi eseguire ulteriore sopraluogo nell'area di rinvenimento dei cadaveri.
Si è proceduto ad una ispezione con uso del metaldetector, del terreno adiacente la tenda biposto di cui al verbale precedente. Detta operazione ha portato al ritrovamento, tra i ciuffi di erba secca antistanti l'apertura principale della tenda (quella rivolta a via degli Scopeti) di nr. 6 bossoli calibro 22, marca Winchester, con il fondello percosso. I suddetti bossoli, contrassegnati con le lettere: A-O-Q-H-F-E, distano rispettivamente (A) mtr. 1,40 dall'albero di abete che nel precedente verbale è stato preso come punto di riferimento, e cm. 95 dal materassino; (O) mtr. 1,90 dall'albero e cm. 25 dal materassino; (Q) mtr. 1,85 dall'albero e cm. 11 dal materassino; (H) mtr. 1,40 dall'albero e cm. 8 dal materassino; (F) mtr. 1,20 dall'albero e cm. 5 dal materassino; (E) mtr. 1,5 dall'albero e cm. 4 dal materassino.


Evidentemente il pomeriggio del giorno precedente – quello della scoperta dei cadaveri – i sei bossoli non erano visibili, perché infossati nel terreno sabbioso ed erboso, almeno questo si era sempre pensato. Ebbene, Manieri ha provveduto ad analizzare la nota foto dove si vede il corpo della povera Nadine Mauriot ancora all’interno della tenda, scattata proprio quel lunedì pomeriggio e, a suo dire, sul terreno antistante avrebbe visto emergere i sei bossoli nascosti! Ma non solo, la loro posizione non sarebbe stata affatto la stessa descritta dal verbale e illustrata dalle foto ufficiali, ci sarebbero state delle differenze che nel caso del bossolo (A) risultano davvero abissali. Questo, infatti, si collocherebbe non a “cm. 95 dal materassino”, ma ben più vicino, a occhio una decina di cm.
Nel video Manieri non fa vedere in modo chiaro la foto originale, ma preferisce soffermarsi su una versione da lui opportunamente trattata, tutta in bianco e nero (desaturata) con il colore a evidenziare i soli bossoli. Lo si vede bene in questi due fotogrammi, dove ogni bossolo è stato da me contrassegnato con la stessa lettera delle foto ufficiali scattate il martedì.



Si legge nell’articolo di Amicone citato in avvio:

«Il giorno in cui un ricercatore di funghi scopre i corpi delle ultime vittime, una coppia di francesi», mi dice l'esperto balistico Enrico Manieri, «intervengono anche gli agenti della polizia scientifica, che però non notano i bossoli di fronte alla tenda. Gli stessi saranno individuati l'indomani in altre posizioni». Manieri con il nickname “Henry62” gestisce un seguito blog dedicato al serial killer fiorentino dove entra nello specifico di delicate questioni tecnico-balistiche. «È un errore gravissimo commesso da chi indaga», osserva, «cambia la ricostruzione del delitto e, quindi, la verità processuale esistente mai revisionata dall'autorità giudiziaria». […]
«Le pistole calibro .22, compresa quella del Mostro, solitamente espellono il bossolo almeno a un metro di distanza, verso destra e all'indietro. Per questo, è scientificamente molto improbabile che i bossoli finiti davanti all'ingresso della tenda appartengano ai primi colpi che attinsero i francesi, come erroneamente verrà dedotto, dopo il loro spostamento», spiega Manieri. Chi ha mosso inavvertitamente i bossoli prima che fossero individuati ha alterato la scena del crimine, inducendo chi avrebbe ricostruito gli eventi in vari errori, tra cui attribuire una posizione sbagliata allo sparatore nelle prime fasi del delitto.
«A differenza di quanto riporta la ricostruzione ufficiale, basata sulle posizioni errate dei bossoli, i primi colpi vengono sparati a poca altezza dal terreno. Si deduce quindi che il serial killer iniziò a sparare con i piedi a un livello più basso, cioè nella scarpata che divide la piazzola dalla strada».


Ma davvero la “scoperta” di Manieri sarebbe in grado di sovvertire in modo così clamoroso la dinamica deducibile dalle posizioni dei bossoli ufficialmente note? Non pare proprio. L’unica differenza eclatante risiede nel bossolo (A), che abbiamo visto spostarsi accosto alla tenda assieme agli altri cinque, la qual cosa non sembra davvero che possa cambiare granché la dinamica omicidiaria. Una dinamica omicidiaria sbagliatissima, nella proposta di Manieri, come vedremo tra poco. Ma prima è il caso di chiedersi: davvero i bossoli davanti alla tenda furono spostati durante i rilievi, e davvero Manieri è riuscito a risalire alla loro posizione originaria?

I bossoli fantasma. La prima domanda che viene da porsi è naturalmente questa: è possibile che gli uomini della Scientifica non avessero visto dei bossoli che dalla foto trattata da Manieri risultano così evidenti? Pare davvero difficile, anche perché altri tre invece li ritrovarono, il (G) sul tessuto e i due (C) e (D) sul lato destro della tenda. Quindi in qualche modo una ricerca la fecero, e perché proprio davanti no? C’è poi il problema del successivo cambio di posizione, a detta di Manieri dovuto al maldestro calpestio di chi smontò e rimontò la tenda – del resto se no a che cosa, a un gesto di consapevole depistaggio? Se i sei bossoli non erano stati notati da chi aveva osservato la zona, si deve almeno pensare che non fossero semplicemente appoggiati in superficie, ma almeno in parte infossati. E allora, in queste condizioni, l’unico effetto del calpestio sarebbe stato quello d’infossarli ancora di più. È possibile, soprattutto, che il bossolo (A) avesse viaggiato per quasi un metro senza che nessuno se ne fosse reso conto? Ma guardiamo l’immagine sottostante, nella quale, secondo Manieri, sarebbe rappresentato proprio il bossolo (A) assieme al suo compagno (H) prima del loro spostamento.


Potrebbe trattarsi di ramoscelli o formazioni simili? Cominciamo con l’osservare che la probabilità che due cilindretti su sei (dimensioni: 15x6 mm) fossero caduti uno accosto all’altro è prossima allo zero. Il calcolo è difficile, ma per farsene un’idea basti pensare che in una striscia di terreno larga 10 cm e lunga un metro potrebbero entrarvene almeno mille senza alcun contatto tra di loro. Naturalmente questo non vuol dire che soltanto il numero 1001 andrebbe in sormonto, certo però che in questo caso in sormonto c’era andato al massimo il sesto, la qual cosa lascia abbastanza perplessi. Ma supponiamo che il destino avesse deciso così. In questo caso sarebbe aumentata la probabilità che i due bossoli fossero stati visti, sommandosi le rispettive superfici, peraltro affatto schiacciate nel terreno, come ci restituisce la prospettiva. Poi, come sarebbe potuto accadere che soltanto uno fosse schizzato a 80 cm di distanza mentre l’altro, invece, quasi non si sarebbe spostato? A questo proposito guardiamo l’immagine sottostante, successiva al taglio della tenda, nella quale Manieri individua un bossolo.


Il bossolo sarebbe l’(H), con il suo compagno (A) già schizzato via. Ma i conti non tornano, poiché i bossoli (O), (Q), (F), ed (E) in quella foto non si vedono, il che Manieri lo spiega con l’afflosciamento della base della tenda – conseguenza del taglio – che li avrebbe ricoperti. Già, ma anche (H) si trovava a una distanza comparabile – senz’altro più vicino di (O) – dunque anch’esso sarebbe dovuto risultare coperto. Pertanto il supposto bossolo (H) potrebbe essere soltanto l’(A) colto in posizione intermedia, per un camminamento a maldestri calcioni al quale risulta davvero difficile credere.
Senza dover per forza mettere in dubbio la sua buona fede, è lecito avanzare più di una riserva sui metodi con i quali Manieri, in mezzo alla miriade di rametti e formazioni varie sul terreno, ha individuato, e soprattutto evidenziato, i presunti bossoli. Sappiamo bene che Photoshop fa miracoli, e che è facile farsi prendere la mano, tantoché qualcuno riesce persino a trasformare la strega Bacheca in Biancaneve…
Vediamo dunque, per quanto possibile, d’indagare.

In cerca di una foto. Vista la millantata importanza della sua “scoperta”, l’autore avrebbe fatto bene a rendere disponibile sia il materiale di partenza – la foto originale, facente parte del fascicolo fotografico – sia la metodologia di lavoro adottata, dando così modo a tutti di verificare i suoi risultati. Niente di tutto questo. Nel luogo migliore per farlo, il suo blog Il Mostro di Firenze, si limita a riportare pubblicità e link ai filmati, senza alcun approfondimento e senza alcuna immagine. Non si tratta certamente del miglior modo per rendersi credibile, tanto più a chi paga per ascoltare le sue argomentazioni. Per la doverosa verifica mi sono dunque dato da fare, cercando innanzitutto la foto non trattata che gli aveva fatto da base. Era pacifico che essa dovesse possedere una definizione ben maggiore di quelle circolante in rete, tutte di derivazione televisiva.
Un primo tentativo presso Francesco Cappelletti mi ha procurato un’immagine di buona qualità, tratta da un PDF, nella quale però non è stato possibile neppure intuire la presenza di qualsivoglia bossolo. Ma dal filmato di Manieri si capiva che la sua immagine era di qualità ancora migliore. Allora ho provato a sentire l’avvocato Vieri Adriani, presso il cui studio qualche anno fa avevo avuto occasione di vedere qualche terribile immagine cartacea tratta dal fascicolo fotografico. E con grande disponibilità Adriani mi ha fatto il favore di recarsi presso una copisteria dove ha scansionato alla massima risoluzione possibile la foto che m’interessava, inviandomi poi il relativo PDF. Il risultato è stato assai migliore, ma non ancora del medesimo livello della foto di Manieri. Il fascicolo cartaceo di Adriani è costituito da fotocopie a colori degli originali, di ottima qualità ma sempre fotocopie. Evidentemente Manieri è riuscito a scansionare una delle copie ufficiali. In ogni caso questa volta la qualità poteva giudicarsi sufficiente, e se bossoli ci fossero stati, bossoli si sarebbero dovuti almeno intravedere.
Nell’immagine sottostante sono visibili i risultati del mio lavoro (qui l’immagine di partenza in versione bitmap, qui quella modificata, anch’essa in versione bitmap, quindi senza perdita di definizione rispetto all’originale di Adriani).


Né io né il mio collaboratore Leonardo Settimelli, videomaker e fotografo professionista, siamo riusciti a intravedere neppure uno dei bossoli colorati di Manieri. In quei punti tracce ce n’erano, ma tutto potevano sembrare fuorché bossoli. Il lettore può verificarlo scaricando le due immagini bitmap, in ogni caso spiego brevemente il significato delle piccole immagini apposte su quella da me modificata. La striscia in basso riporta le cinque zone della foto dove Manieri avrebbe trovato i bossoli, con i segmenti a indicarne la posizione – per confronto è stato aggiunto il bossolo (G). La striscia soprastante riporta le stesse zone tratte dalle sequenze del video con immagine desaturata e bossoli colorati. La striscia più in alto sulla sinistra riporta invece le cinque zone come appaiono sulla stessa immagine tratta dal video ma non desaturata, e senza l’evidenziazione dei bossoli.
A questo punto il lettore può giudicare da solo. La “scoperta” di Manieri potrebbe essere un fake (qui una fantasia di bossoli realizzata con pochi tocchi di Photoshop da Settimelli), ma anche un’interpretazione troppo ottimistica di tracce poco intellegibili, oppure, infine, il risultato di un pregevole lavoro effettuato su una foto talmente più definita da evidenziare quello che sulla mia non è possibile evidenziare. Sempre pronto a ricredermi davanti alle prove, personalmente sospetto un fake, soprattutto per l’affermazione di Manieri secondo la quale sui suoi bossoli non sarebbe stato sparso alcun colore, la loro evidenziazione sarebbe dipesa soltanto dall’aver desaturato tutto il resto. Si può però notare che in origine il presunto bossolo (Q) appare molto scuro, mentre altri sono più chiari, per esempio l’(O). E allora perché tutti appaiono di uno stesso brillante color ottone?
Come tutti sanno il web è pieno di venditori di fumo, e se Manieri non vuole rischiare di confondersi con loro deve sempre fornire le prove di quello che afferma, distinguendo bene tra fatti e opinioni. In questo caso, se il suo lavoro sui bossoli fantasma è stato onesto, non può dimostrarlo in altro modo se non rendendo disponibile a tutti la foto non trattata e illustrando la sua metodologia di lavoro, come, fin dal principio, avrebbe fatto qualsiasi ricercatore scientifico serio.

Affumicature e orletti. È bene ribadire che, rispetto alla dinamica da me proposta (vedi) e anche rispetto a quella ufficiale – entrambe prevedono uno sparatore vicinissimo alla zanzariera – l’eventuale “scoperta” di Manieri conta poco: cinque bossoli su sei rimangono infatti più o meno al loro posto, vengono solo raggiunti da quello che se ne discostava, l’(A). Nella mia ricostruzione avevo supposto che tale bossolo fosse rimbalzato contro l’abete, se lo mettiamo assieme agli altri semplicemente tale rimbalzo non si rende più necessario. In questo caso gli spari con la mano molto ruotata in senso orario, e perciò impugnata con la mano sinistra, divengono quattro. Piuttosto, a dar modo a Manieri di proporre una dinamica del tutto inedita è la sua insistita affermazione secondo la quale sulla zanzariera non sarebbero stati trovati aloni di affumicatura, con la canna della pistola che quindi se ne sarebbe discostata di 25-30 cm almeno, se non di più. La qual cosa rende impossibile che qualche bossolo dei cinque corrispondenti ai fori sulla zanzariera possa esser finito accosto alla tenda, a meno di strani rimbalzi poco plausibili.
Il cosiddetto “alone di affumicatura” è un deposito di residui carboniosi (fuliggine) usciti dalla canna della pistola assieme al proiettile. La fuliggine viaggia formando più o meno un cono, e se prima di volatilizzarsi incontra una superficie idonea, la impregna. Sul fenomeno intervengono molteplici fattori. Al più intuitivo, la distanza della superficie dalla canna, si aggiungono almeno potenza e tipologia della cartuccia, lunghezza della canna e capacità della superficie investita di fissare le particelle carboniose. Buone superfici fissanti sono i vestiti e la pelle. Lo è anche il tessuto traforato di una zanzariera? Probabilmente no. L’impressione è che la rada trama del tessuto sintetico lasci passare, più che trattenere. In ogni caso quel che possiamo dire con certezza è che di aloni di affumicatura nei documenti non si parla, né affermando che ne fossero stati trovati, né affermando che non ne fossero stati trovati. Sul primo video di Manieri, quello sul canale “Le notti del Mostro” (vedi), a mia domanda: “Da dove risulta agli atti che siano stati esclusi effetti di affumicatura sulla zanzariera che invece avrebbero dovuto esserci?”, così rispose Manieri: “Se vuoi riscrivere gli atti, prego, nessun problema”. Risposta sciocca a una domanda più che lecita, che oggi reitero.
Dai documenti in mio possesso non risulta che eventuali aloni di affumicatura sulla zanzariera fossero stati cercati. Né di loro presenza né di loro assenza parlano Maurri e i suoi collaboratori abbozzando una dinamica. Si legge nel fascicolo “G” della loro perizia collegiale:

La distanza da cui furono esplosi i colpi non è determinabile con assoluta sicurezza; si può però preliminarmente dire che non ci sono stati colpi esplosi né a contatto né a bruciapelo. Tuttavia, tenendo conto della posizione e delle dimensioni della tenda, della presumibile posizione dei corpi, dei fori di ingresso a livello della zanzariera, della posizione in cui furono rinvenuti i bossoli, in parte all’esterno e in immediata vicinanza del lato anteriore della tenda, in parte dentro la tenda stessa, si può dire che tutti questi colpi siano stati esplosi da distanza ravvicinata, dell’ordine di poche decine di cm. per quelli esplosi dal di fuori della tenda e di pochissime decine di cm. per quelli esplosi dal di dentro.

È evidente che se il dato fosse stato rilevato, in tale perizia se ne sarebbe in qualche modo tenuto conto. Del resto i periti suppongono una posizione dello sparatore addossata alla zanzariera. Anche nella pur sbagliatissima ricostruzione dell’equipe De Fazio non v’è cenno alcuno alla mancanza di aloni di affumicatura sulla zanzariera, dal che, una volta di più, si deve dedurre che di essi nessuno si preoccupò. A conferma va preso atto che nel verbale di sopralluogo della Scientifica della zanzariera non si parla, mentre la ben più ponderosa relazione collegiale non nomina aloni di affumicatura. Quest’ultima invece, descrivendo con minuzia i fori di proiettile, rileva la presenza di aloni nerastri sui contorni.

Le soluzioni di continuo sono sulla metà sinistra della zanzariera e grosso modo tutte su una linea verticale che può essere calata dal vertice della zanzariera stessa. Le soluzioni di continuo sono 5.
La prima dal basso verso l’alto si trova a 10 cm al di sopra della cerniera che delimita inferiormente la zanzariera. Il foro è pressoché regolarmente rotondo, del diametro di 6 mm con margini nettamente introflessi e con alone nerastro che lo contorna dalle ore 9 alle ore 3. L’alone di larghezza uniforme è di circa 1 mm.
La seconda, 10 cm al di sopra della precedente, quasi esattamente sulla stessa linea verticale, è anch’essa rotonda, lievemente più piccola della precedente (circa 5 mm) con margini introflessi e con alone nerastro, dalle ore 10 alle ore 13, più sottile del precedente. Altro alone appena accennato tra le ore 6 e le ore 7.
La terza è all’incirca a 4 cm al di sopra della precedente, spostata 6 cm sulla destra (si tratta dell’unico foro che non è posto con gli altri sulla stessa linea verticale), anch’essa quasi regolarmente rotonda di diametro di 5 mmi, margini introflessi, alone dalle ore 12 alle ore 6, appena accennato tra le ore 12 e le 13 e fra le 4 e le 6, ben evidente tra le 2 e le 3 per circa 2-3 min.
Il quarto foro, esattamente a 46 cm dalla cerniera inferiore ed a circa 7 cm a sinistra del primo e del secondo foro, più ampio dei precedenti (circa 1 cm di diametro), con margini la cui flessione non è precisabile e con un sottile, totale, perfettamente uguale alone nerastro.
Il quinto ed ultimo foro, è a 56 cm dalla cerniera inferiore, grosso modo sulla stessa linea longitudinale del primo e del secondo, con caratteristiche morfologiche uguali ai primi tre con margini introflessi, alone appena accennato alle 7 e appena più evidente tra le 2 e le 3.


Concentriamoci sugli aloni nerastri, i quali, secondo Manieri, sarebbero “orletti di detersione”. Si denomina “orletto di detersione” un deposito di sostanze attorno al foro d’ingresso di un proiettile, sostanze che, originariamente, si trovavano sopra il proiettile stesso e che la superficie attraversata ha trattenuto. Che tipo di sostanze? In genere sostanze grasse usate per la manutenzione dell’arma, compreso l’interno della canna, che lasciano un alone untuoso grigiastro, più scuro se intervengono anche grani di fuliggine derivanti dai gas di sparo. Manieri sostiene che un ruolo potrebbe averlo pure il sottilissimo velo di silicone antiossidante che in certi casi ricopre i proiettili in piombo nudo all’uscita dalla fabbrica. In ogni caso c’è da dire che la consistenza dell’orletto di detersione non dipende soltanto dalla quantità di materiale sul proiettile, ma anche dalla capacità di pulizia della superficie attraversata: più la superficie risulta consistente, e quindi in grado di “strizzare”, più l’orletto aumenta. E una sottile zanzariera non sembra affatto una superficie granché pulente, anzi.


In realtà gli aloni nerastri riscontrati sulla zanzariera di Scopeti potrebbero facilmente essere stati degli “orletti di ustione”, che compaiono quando la canna si trova a contatto o quasi – per piccoli calibri massimo 5 cm – di una superficie non ignifuga. In questo caso i gas incandescenti, la cui temperatura può raggiungere anche i 3 mila gradi, bruciano la superficie attraversata dal proiettile attorno al foro. Nel caso della zanzariera di Scopeti la bruciatura fu facilitata dal tipo di tessuto, sottile e sintetico. È emblematico il caso del quarto foro descritto nella relazione collegiale: il diametro doppio rispetto a quello del proiettile e la perfetta circolarità dell’orletto nerastro ci descrivono lo scenario di una canna premuta contro la zanzariera, tanto da farla cedere con la formazione di un cono. In quelle condizioni i gas di sparo ebbero l’effetto maggiore, producendo essi stessi il foro che, infatti, risultò bruciato in modo uniforme ai margini, peraltro non introflessi – unici tra i cinque – quindi non prodotti dall’impatto del proiettile. Del resto in quel caso non avrebbe senso parlare di orletto di detersione, vista la grandezza del foro assai maggiore del diametro del proiettile.

Un sabato trascorso a Scopeti? Manieri sostiene con grande convinzione l’ipotesi – completamente inedita – secondo la quale il delitto sarebbe avvenuto all’alba della domenica mattina. Approfondiamo innanzitutto gli argomenti con i quali fa trascorrere ai poveri turisti francesi l’intera giornata di sabato in Italia. È oramai ben noto che sono rimasti veramente in pochi a credere alla collocazione del delitto nella serata della domenica, e chi scrive non è certo tra questi. Indipendentemente dalle valutazioni medico-legali, logica vorrebbe che i due fossero stati uccisi la sera stessa del loro arrivo a Scopeti, il venerdì. Non è il caso di elencare la miriade di ragioni che portano verso questo scenario, basti dire che non ce n’è una che invece lo confuti, escludendo naturalmente le sciocchezze raccontate da Lotti e Pucci in strategico accordo con la tesi ufficiale. Anzi, a ben guardare una c’è, ed è proprio quella della quale Manieri si fa forte per collocare il delitto all’alba di domenica mattina: la questione del rigor mortis. Si legge nei verbali d’autopsia disponibili in rete, relativamente a Nadine (fascicolo A):

Per quanto riguarda i fenomeni tanatologici sul cadavere della ragazza, essi sono stati controllati nel corso del primo sopralluogo, inizialmente verso le ore 17 del 9 settembre e poco dopo verso le ore 18,30-19. Al primo controllo, allorché il cadavere era ancora sotto la tenda si poté constatare, sia pure sommariamente che il rigor era ancora ovunque in atto, senza segni nemmeno iniziali di risoluzione, nemmeno a livello dei muscoli del collo.[...]
A distanza di circa 6-7 ore dal primo riscontro, e cioè verso la mezzanotte, quando il cadavere era già stato rimosso e trasportato all’Istituto di Medicina Legale […] il rigor era risolto ovunque, anche alle articolazioni delle dita dei piedi, in parte anche artificialmente nelle manovra di sollevamento e di trasporto del cadavere.
In conclusione il rigor è ancora presente ovunque alle ore 17, ma dopo 7 ore esso è risolto.


E relativamente a Michel (fascicolo E):

Per l’uomo alla prima osservazione verso le ore 17, rigor ovunque in atto, anche alle piccole articolazioni dei piedi, ovunque valido, con iniziale minor validità alla nuca. […]
Un ulteriore controllo verso le ore 19 dà conferma della presenza del rigor anche a tutte le articolazioni delle dita dei piedi, bilateralmente. Verso le ore 21, prima della rimozione del cadavere, la rigidità nucale è completamente risolta.
Alla mezzanotte i fenomeni cadaverici sono controllati presso l’Istituto di Medicina Legale. La rigidità è risolta anche agli arti superiori ed alle anche e, parzialmente, alle ginocchia, alle caviglie, alle dita dei piedi. […]
In conclusione, la rigidità nel cadavere maschile comincia a farsi meno valida alla nuca verso le ore 18, con ulteriore diminuzione alle 21. Ad altre 3 ore di distanza, anche a causa del trasporto del cadavere, esso è risolto ovunque totalmente, ma dal ginocchio in giù solo parzialmente.


Sembra insomma di poter affermare che a mezzanotte del lunedì il rigor mortis fosse pressoché scomparso in entrambi i cadaveri, con una presenza residua soltanto in quello del ragazzo. La qual cosa, considerando che tale fenomeno avviene a distanza di tre e anche quattro giorni dalla morte, rende la serata del venerdì ben compatibile con il momento del delitto. Ma nel verbale di autopsia di Michel, fascicolo C, si legge qualcosa di diverso:

Verbale di indagine autoptica eseguito l’11.9.1985 sulla salma di JEAN MICHEL KRAVEICHVILI dal Prof. Mauro Maurri, dal Dr. Aurelio Bonelli e dal Dr. Antonio Cafaro per incarico della Procura della Repubblica di Firenze.
Il cadavere giace supino sul tavolo anatomico completamente nudo. Trattasi di cadavere di sesso maschile, dell’apparente età di 25-30 anni, della lunghezza di cm. 170.
La rigidità cadaverica è presente nei vari distretti corporei, ma vincibile a livello delle grandi articolazioni degli arti.


Nell’insieme dei documenti disponibili è compreso anche il verbale di autopsia di Nadine (fascicolo B), ma in esso non compaiono né una data né considerazioni sul rigor mortis. Limitiamoci dunque alla rilevazione del fenomeno all’atto dell’autopsia su Michel, della quale non abbiamo un orario, ma che possiamo collocare a inizio mattina del mercoledì. Va innanzitutto evidenziato il contrasto con quanto dichiarato nel fascicolo E. Contrasto spiegabile in modo benevolo o in modo malevolo, oppure magari con una combinazione di entrambi.
A pensar bene si potrebbe ritenere che la conservazione del corpo in cella frigorifera a partire dalla notte del lunedì avesse molto rallentato i processi tanatologici. Quindi, combinando una valutazione un po’ troppo spostata verso una risoluzione del rigor al lunedì notte, una cella frigorifera molto efficiente e una valutazione un po’ troppo spostata su una residua presenza del rigor al mercoledì mattina, il venerdì sera potrebbe anche tornare possibile.
A pensar male, invece, si potrebbe ritenere che la scelta di collocare il delitto alla domenica, effettuata da Maurri dopo le valutazioni della notte di lunedì e prima di quelle del mercoledì mattina, avesse strategicamente fatto giudicare “rigidità cadaverica” quella che invece poteva non esserlo più tanto.
Rimane in ogni caso la valutazione del lunedì notte, sulla quale Manieri preferisce soprassedere, guardando soltanto a quella del mercoledì. In una discussione in rete parla di rigidità vinta meccanicamente e poi ripristinatasi, ma non si comprende per quali motivi i medici legali si sarebbero messi a scrocchiare persino le dita dei piedi del cadavere del povero Michel. Si deve invece pensare che la rigidità fosse stata vinta soltanto per quel che serviva al trasporto del cadavere, quindi alle grandi articolazioni di braccia e gambe. Del resto si legge anche: “Verso le ore 21, prima della rimozione del cadavere, la rigidità nucale è completamente risolta”.

Un Mostro mattiniero. Ma quel che più sconcerta nell’ipotesi di Manieri non è tanto il giorno, quanto l’orario: la mattina all’alba! Se prendiamo per buona la domenica, abbiamo il sole che a Scopeti sorgeva alle ore 6:48, con il crepuscolo civile partito 29 minuti prima (vedi). In sostanza attorno alle 6 e un quarto la luce del sole già cominciava a rischiarare l’ambiente, aggiungendosi a quella della luna calante, luminosa quasi per metà. Secondo Manieri, quello sarebbe stato il momento dell’attacco. Par di capire che i motivi di tale strana collocazione siano due: il fatto che l’assassino si fosse preoccupato di nascondere i cadaveri, e la necessità di una piazzola illuminata per consentire al ragazzo di scappare e al Mostro di vedere dove stesse andando.
Dunque, secondo Manieri, il Mostro avrebbe nascosto i cadaveri perché, con la luce dell’alba, qualcuno avrebbe potuto scoprirli troppo presto, ostacolando così il suo rientro in sede. Ma la giustificazione appare tirata per i capelli, e non regge. Supponiamo che mentre lui si inoltrava nel bosco già qualcuno fosse capitato sul posto. Tra l’andare ad avvertire i carabinieri – a quei tempi non c’erano i cellulari! – e il loro intervento sarebbero trascorse varie decine di minuti, anche un’ora, e a quel punto il Mostro chi l’acchiappava più? È il caso di ricordare che il motivo del nascondimento dei cadaveri si è sempre ritenuto fosse rintracciabile nella necessità di andare a imbucare la lettera con il frammento di seno, quindi senza posti di blocco a costituire intralcio. Si tratta di un’ipotesi molto logica, che non si vede come possa essere confutata.
Veniamo al secondo motivo, la necessità di luce per consentire la fuga al ragazzo. Ma allora è inevitabile chiedersi il perché, potendo veder bene, Michel non fosse fuggito in cerca di aiuto verso via Scopeti, invece di inoltrarsi per boschi. In realtà, con una mezza luna – sorta alle 23:29 di sabato (vedi) e alle 22:53 di venerdì (vedi) – in un cielo sereno, quindi stellato, in orario serale compatibile con quello del delitto di luce non doveva essercene così poca. Era di sicuro sufficiente per almeno qualche metro di visibilità, quella che consentì al ragazzo di muoversi ma non d’individuare la direzione opportuna.
Va infine presa in esame una perplessità ulteriore. Quella di attaccare all’alba era stata una scelta consapevole oppure casuale? In sostanza il Mostro aveva adocchiato già il giorno prima le sue vittime e aveva deciso di ucciderle aspettando l’alba, oppure si era trovato a passare per caso alle sei di mattina? Questa seconda eventualità appare estremamente improbabile, sia perché a quell’ora di coppiette in giro non poteva certo sperare di trovarne, sia perché non avrebbe potuto sapere chi fossero i turisti, se un uomo e una donna oppure no, quindi escludiamola. Ci si deve allora chiedere per quale motivo, vista la tenda e la coppia il giorno prima, per uccidere i malcapitati avesse deciso di attendere l’alba. In questo modo si sarebbe rassegnato al concreto pericolo d’esser visto, in una zona boschiva piuttosto frequentata e davanti a una strada comunale di traffico non trascurabile da cui la tenda si vedeva bene (vedi). È logico che il momento migliore per attaccare sarebbe stato quello in cui i due campeggiatori si erano ritirati da poco, e magari si dedicavano ai loro interessi a luce accesa. Come si deve presumere fosse andata.
Qualche parola infine sul contenuto gastrico, argomento del quale mi sono già occupato nella prima parte ma che, per completezza, è utile ricordare. Rivediamo ciò che venne trovato nello stomaco di Nadine:

È da mettere in particolare evidenza che lo stomaco contiene circa 100 cc. di residuo alimentare ben riconoscibile perché si tratta di pasta tipo tagliatella con scarsissimi residui grigio-marroni probabilmente di carne e con isolati frammenti di buccia di pomodoro rossi.

In quello di Michel:

Stomaco: mucosa arrossata con evidenziazione del reticolo venoso putrefattivo, contenente scarsa quantità di materiale alimentare quasi completamente indigerito con le stesse caratteristiche di quello riscontrato nella cavità gastrica della ragazza.

Entrambi i poveretti avevano mangiato un piatto di tagliatelle al ragù che ancora dovevano digerire. È davvero sorprendente come con l’ausilio di studi americani e relativi grafici – e un diluvio di parole – Manieri riesca a far credere a qualcuno dei suoi ascoltatori che quel piatto di tagliatelle i due lo avessero mangiato 8-9 ore prima di essere uccisi! Neppure l’avvocato Azzeccagarbugli avrebbe saputo fare di meglio…

I primi quattro colpi. Ma veniamo finalmente alla dinamica omicidiaria vera e propria, nella quale Manieri ancora una volta dà sfogo alla sua voglia di distinguersi, ma, ancora una volta, con risultati pessimi. Come in altri casi – emblematico è il delitto di Baccaiano, dove più d’uno si è lanciato in fantasiose ricostruzioni, ma anche la recente proposta su Giogoli, vedi – si tratta in sostanza di una dinamica costruita attorno a convinzioni a prescindere, nella quale, proprio per questo, logicamente i conti non tornano, nonostante gli sforzi di farli tornare con varie pezze, in alcuni casi peggiori del buco. Prima di partire un avvertimento: avendo Manieri evitato di pubblicare un documento scritto, ma affidato le sue proposte soltanto a filmati – per di più di lunghezza estenuante e in molti casi in contraddizione tra di loro – chi scrive farà il possibile per non travisare il suo pensiero, senza però assoluta garanzia di risultato.


Cominciamo con l’esaminare la figura soprastante, ottenuta da Manieri partendo dalla piantina originale della Scientifica arricchita delle opportune correzioni su tenda e auto, in origine malamente ruotate. Poi vi ha tracciato quelli che, secondo lui, sarebbero stati i percorsi del Mostro e del ragazzo. S1, S2 e S3 sono invece i punti di sparo inseriti da chi scrive, dedotti in base ai filmati. Ecco la sequenza delle varie azioni.
Il Mostro viene su dalla scarpatina antistante la tenda – quindi dal basso – cominciando a sparare contro la zanzariera da posizione S1 (tale punto viene dedotto da Manieri sulla base del foro di proiettile sullo spigolo posteriore destro della tenda allineato con quelli sulla zanzariera, e la convinzione che lo sparo fosse avvenuto a distanza). A quel punto il ragazzo riesce a uscire prendendo alla sua sinistra, gira intorno alla tenda fino a raggiungere l’auto (lasciando sul montante la nota macchia di sangue), poi cambia direzione puntando verso il centro della piazzola e infilandosi nel corridoio sulla destra. Nel frattempo il Mostro si avvicina all’ingresso e spara un colpo contro Nadine da posizione S2. Poi si sposta in posizione S3 da dove spara i colpi restanti verso il ragazzo in fuga. Infine decide di tagliargli la strada correndo verso l’uscita del corridoio, intercettandolo e uccidendolo a coltellate.
In questa ricostruzione niente torna, tantoché risulta davvero difficile mettere in ordine gli elementi sbagliati. Cominciamo con il chiederci perché il Mostro avrebbe sparato contro la zanzariera da lontano. Nell’ipotesi di Manieri l’interno della tenda sarebbe stato completamente al buio, con gli occupanti ancora nel mondo dei sogni, di conseguenza lo sparatore non avrebbe avuto nessuna possibilità d’inquadrarli. Pertanto – ed ecco la pezza – avrebbe sparato raso terra con la certezza di coglierli ugualmente, considerato che dovevano essere coricati. Già, ma pur non avendo avuto modo di vedere dove avessero le teste, proprio quella parte scelse!
In realtà non si comprende davvero il motivo per il quale lo sparatore non si sarebbe invece accostato alla zanzariera, con la speranza di riuscire almeno a distinguere qualcosa. Peraltro, a far escludere l’ipotesi di Manieri non è soltanto la logica del buonsenso, ma anche l’insieme dei fori: con spari da distanza questi avrebbero dovuto formare una rosa, e non certo una linea più o meno verticale. Linea verticale che invece diventa ben plausibile nello scenario di uno sparatore a contatto, il quale semplicemente alzò via via il braccio. Non sfugga infine la coincidenza che i proiettili transitarono tutti dalla zanzariera, neppure uno dalla tela piena. Perché se comunque l’interno, da lontano, risultava invisibile? Per pura combinazione posizionale oppure perché lo sparatore era accostato alla zanzariera e da quella, invece, l’interno lo vedeva?
Nel bailamme di dettagli che non tornano ci sono naturalmente i bossoli, i più implacabili censori di ogni ricostruzione sbagliata. In visibile difficoltà, Manieri ha cambiato versione più volte – ne ricordo una nella quale aveva un ruolo il trascinamento del corpo di Nadine – vediamo l’ultima, e vediamo come se la cava nella collocazione di quelli corrispondenti ai colpi esplosi per primi. Secondo la sua ipotesi dal punto S1 i colpi sparati sarebbero stati quattro, e i relativi bossoli si sarebbero persi tra la vegetazione sottostante la tenda. Bossoli non soltanto non trovati, ma neppure cercati (chissà se qualcuno dei suoi ascoltatori entusiasti non si sia già recato in loco con il metal detector…). Quindi il problema viene semplicemente aggirato: bossoli non cercati --> bossoli non trovati --> loro posizione da non giustificare. Il prezzo pagato, naturalmente, è la mancanza di qualsiasi prova a sostegno, che non sembra neppure troppo salato, almeno per un pubblico di bocca buona irretito da proclami di alta competenza.
Ma torniamo all’azione. A questo punto Manieri deve far uscire Michel dalla tenda. Come? Non lo spiega troppo bene, parla confusamente di colpi che gli sarebbero stati sparati mentre era in ginocchio all’interno, i quali, naturalmente, possono risiedere soltanto nella sua fantasia, visto che dalla posizione S1 nessuno avrebbe potuto inquadrarlo. In ogni caso Michel riuscì ad aprire la zanzariera e a fuggire andando alla sua sinistra. Sì, ma intanto il Mostro che stava facendo? Dando per buono il percorso attorno all’albero di pino, necessario, a dire di Manieri, per la non fattibilità di quello diretto – qui bisogna credergli sulla parola, essendo il terreno di adesso tutta un’altra cosa – di quanti secondi avrà avuto bisogno il Mostro per raggiungere la zanzariera? Dieci? Venti? Se in dieci secondi Borzov faceva 100 metri, il Mostro sarebbe pur riuscito a farne tre o quattro, anche sopra un terreno disagevole! E ritenere che 10 secondi dopo l’ultimo dei quattro colpi Michel sarebbe riuscito a svegliarsi, riaversi dalla sorpresa, alzarsi, trovare al buio la clip della zanzariera, aprirla, uscire – tutto questo ostacolato dal corpo di Nadine, come vedremo tra breve – e raggiungere il retro della tenda prima che il Mostro lo intercettasse e gli sparasse è fantascienza. Se poi ci mettiamo dentro il fatto che il ragazzo trovò anche il tempo d’infilarsi i pantaloni… ma questo è un argomento da affrontare per suo conto in un futuro prossimo venturo, per adesso lasciamolo da parte. Facciamo finta invece che il Mostro avesse avuto un problema qualsiasi, dando così modo al poveretto di uscire.
La presenza di sangue compatibile sul montante sinistro del parabrezza dell’auto ci dice inequivocabilmente che il ragazzo vi appoggiò una mano – la sinistra – mentre stava fuggendo. Quindi logica vorrebbe che la direzione presa in uscita dalla tenda fosse alla sua destra, basta guardare la piantina per rendersene conto. Ma qui interviene ancora una volta la tendenza di Manieri a cercare la complicazione anche nelle cose più semplici, così lo fa uscire alla sua sinistra, girare intorno alla tenda – per frapporre un ostacolo tra sé e lo sparatore, lui sostiene... ma se la tenda era alta un metro e 40, quale ostacolo? – raggiungere l’auto, infine cambiare direzione attraversando la piazzola al centro. Un percorso assolutamente assurdo, che Manieri giustifica asserendo che tra tenda e frasche non ci fosse abbastanza spazio per passare. E a sostegno presenta questa foto.


In effetti lo spazio era scarso, ma si deve osservare che un po' di frasche certamente non avrebbero potuto costituire un muro invalicabile, al massimo avrebbero lasciato delle abrasioni sulla pelle del poveretto, che però in quei momenti aveva tutt’altro di cui preoccuparsi. Del resto a rendere l’ipotesi di Manieri poco ragionevole è il fatto che il ragazzo, uscendo alla sua sinistra, si sarebbe trovato di fronte la discesa per raggiungere via Scopeti, dove più facilmente avrebbe potuto trovare aiuto, o comunque scoraggiare il suo carnefice dall’inseguirlo. Tanto più con l’ipotizzata luce del mattino, ma anche fosse stato di sera il giro intorno alla tenda fino all’auto avrebbe avuto poco senso comunque.

La morte di Nadine. Mettiamoci adesso nella posizione S2, dalla quale, mentre Michel stava fuggendo, il Mostro avrebbe sparato un colpo, il quinto, contro Nadine. Il bossolo corrispondente sarebbe stato, a detta di Manieri, il (D), quello vicino all’albero di abete. Dalla figura sottostante si vede bene però che tale ipotesi non regge.


Lo stesso Manieri mostra in video che i bossoli venivano espulsi in direzione mediana tra destra e dietro rispetto alla canna. Quindi, affinché il quinto bossolo finisse in (D) da posizione S2 la canna doveva puntare verso il bosco, e non certo verso Nadine.
Facciamo adesso, il contrario, dirigiamo da S2 la canna verso i fori della zanzariera a cercare il torace di Nadine.


Come si vede dalla figura soprastante, vicino o lontano dalla zanzariera che fosse lo sparatore, il bossolo non sarebbe mai andato in (D), al massimo, con una parabola fin troppo minima, in (A), dove però, secondo Manieri, ci sarebbe finito soltanto dopo un calcione dei maldestri agenti che avevano armeggiato attorno alla tenda.
Nella dinamica di Manieri i colpi esplosi contro Nadine finirebbero qui. Facciamo dunque quel che lui si è ben guardato dal fare: diamo un’occhiata alle ferite della donna, riportando la figura dal mio articolo, dove esse vengono anche descritte.


Nell’ipotesi di Manieri la donna stava dormendo, e poiché i fori d’ingresso sono tutti sul lato destro del corpo, non poteva trovarsi che bocconi e a ridosso della zanzariera, con Michel alla sua sinistra (ecco perché l’uscita del ragazzo dalla tenda ne sarebbe stata ostacolata). Cominciamo con il notare che i tramiti sono tutti più o meno longitudinali alle spalle, un po’ dall’alto verso il basso, come se il corpo fosse messo in diagonale, piedi più lontani e testa più vicina allo sparatore. Ma dalla posizione S1 nessuno dei quattro colpi avrebbe mai potuto percorrere quei tramiti, sarebbero stati tutti angolatissimi dal basso verso l’alto. Si pensi soltanto all’angolo necessario per allineare fori sulla zanzariera e ferite alla testa: in pratica lo sparatore avrebbe dovuto trovarsi quasi sull’angolo sinistro della tenda, come si deduce da questa immagine.


Pertanto, sulla piantina di Manieri, una volta aggiustata in modo innaturale la posizione di Nadine (molto in tralice, quasi allineata all'asse minore della tenda) il punto S1 sarebbe da spostarsi qualche metro verso nord, non più sulla scarpatina ma in mezzo alla vegetazione! Riesce anche molto difficile spiegarsi il colpo numero 4, che colse la donna al seno sinistro: ci si deve chiedere come sarebbe potuto accadere, visto che dormiva bocconi. L’unica possibilità sarebbe stata quella di una fase in cui, prima del colpo mortale numero 5, si sarebbe tirata su. Ma si presume che i quattro colpi dalla scarpatina fossero stati sparati tutti in rapida sequenza contro un bersaglio non visibile, dunque senza alcuna utilità o necessità di pause tra un colpo e l’altro.
Manieri dovrebbe anche spiegare quali tra i cinque proiettili sparati attraverso la zanzariera finirono uno nell’angolo destro della tenda, uno in un cuscino e uno nel piumone. I conti non tornano, poiché due proiettili rimasero nel corpo di Nadine e uno cadde a terra dopo aver probabilmente colto Michel alla bocca. Quindi in tutto sei, uno in più dei fori sulla zanzariera.

La fuga di Michel. Dopo aver sparato il quinto colpo verso Nadine, il Mostro dovette preoccuparsi del ragazzo in fuga. Come si vede, la linea rossa tracciata sulla piantina, e che intende rappresentare il suo percorso, non passa per S3, dove invece Manieri lo colloca durante la fase degli spari. In realtà in una prima versione il punto di sparo sarebbe coinciso più o meno con S2, dove Michel si sarebbe inginocchiato, difficile capire il perché. In ogni caso in questo modo nessun bossolo sarebbe mai potuto finire davanti alla tenda, ecco allora il rimedio, con un cambio di percorso (senza però il necessario aggiornamento della piantina). Da S3, infatti, i bossoli espulsi sarebbero caduti sul tetto della tenda, sette di loro scivolando sul davanti, compreso (G) che invece sarebbe entrato dentro attraverso la zanzariera aperta, e uno sul lato destro, (C).
Gli assidui lettori del mio blog si ricorderanno della bizzarra ipotesi del colonnello Innocenzo Zuntini sul percorso dei bossoli a Borgo San Lorenzo, che avrebbero rimbalzato contro l’interno di un vetro dell’auto per cadere dalla parte opposta. Qui siamo in una situazione analoga, con l’aggravio di inverosimiglianze ulteriori. Perché il Mostro sarebbe rimasto fermo a sparare ben otto colpi in S3 mentre Michel stava fuggendo, invece di sparare inseguendolo? Proviamo a suppore che in quel modo gli fosse venuto più comodo prendere la mira (scenario che naturalmente non regge, ma che ci serve soltanto per andare avanti). Già, ma quale mira? Su otto colpi soltanto uno andò davvero a segno, quello al gomito destro.


Il colpo alla bocca non era compatibile con spari da tergo, e almeno uno dei due alla mano sinistra era preesistente, visto che, toccando con quella mano il montante dell’auto, il ragazzo vi lasciò del sangue. Tutto insomma lascia pensare che tutte e tre queste ferite fossero state il prodotto degli spari contro la tenda. E allora, possibile che il Mostro fosse stato così incapace come sparatore?
In ogni caso, a tagliare le gambe allo scenario immaginato da Manieri c’è un ostacolo insormontabile: la capienza del caricatore della pistola. Quando il Mostro avrebbe iniziato a sparare in S3 gli erano rimasti quattro colpi, considerando un caricatore da otto più il colpo in canna. Per giustificare gli otto bossoli caduti sul tetto della tenda all’appello ne mancano quattro. Ecco allora che Manieri mette l’ennesima pezza, tirando in ballo un caricatore di riserva del quale mai era stata ipotizzata l’esistenza. Già, ma quando il Mostro lo avrebbe inserito al posto di quello vuoto? Per quanto veloce, almeno una quindicina di secondi l’operazione sarebbe durata, tra il togliere quello vuoto, cercare l’altro in tasca, inserirlo e arretrare il carrello per caricare il colpo in canna. E intanto Michel non sarebbe riuscito a percorrere i pochi metri che lo separavano dalla boscaglia? Infine, con ancora quattro colpi disponibili nel caricatore nuovo, perché il Mostro mise via la pistola e prese il coltello, per un successivo corpo a corpo contro un avversario sì ferito, ma giovane e vigoroso? Una situazione ben più difficile per lui di quella dell’anno prima, quando, probabilmente per risparmiare munizioni, aveva preferito il coltello per finire Claudio Stefanacci, che però era moribondo. Nelle prime coltellate da tergo fece molta fatica a inquadrare Michel mentre scava scappando, un paio di colpi di pistola gli avrebbero risolto il problema.

La mutilazione di Nadine. Nel precedente articolo sul tema avevo dimostrato la non fattibilità dell’ipotesi di Manieri secondo la quale il corpo di Nadine, mutilato all’esterno della tenda, sarebbe stato rimesso dentro tirandolo dal taglio posteriore. Dopo le prime arrampicate sui vetri, di fronte all’evidenza pare che Manieri si sia convinto, anche se l’estenuante lunghezza dei suoi video e l’inaccessibilità di quelli a pagamento non mi consente certezze. Facendo l’analisi delle macchie di sangue sul corpo di Nadine parla infatti di corpo infilato nella tenda, e non più tirato dallo squarcio posteriore. In ogni caso, a parere di chi scrive, è già sbagliata la sua ipotesi che l’escissione fosse avvenuta all’esterno. Come più volte ribadito, da via Scopeti la tenda era ben visibile (vedi). Alle precedenti argomentazioni si può aggiungere l’immagine sottostante:


La foto mostra come, chi fosse passato davanti alla piazzola venendo da Firenze, avesse avuto la visione completa della sterrata che portava alla tenda. Ora, come si può immaginare un Mostro che compie la macabra operazione all’aperto con il chiaro del mattino? Se poi il tutto fosse avvenuto di notte, il problema sarebbe stato la necessità di una luce, che avrebbe comunque potuto attirare gente. Ma anche la stessa operazione di estrazione sarebbe stata molto difficoltosa. Sollevare un corpo morto è già di per sé difficile, dato che tende a scivolare senza offrire appigli. In questo caso la difficoltà sarebbe stata ancora maggiore, vista la collocazione dentro la tenda, con una piccola apertura dalla quale non era semplice sporgersi verso l’interno senza sconquassare tutto. Dove erano le ginocchia del Mostro mentre teneva il corpo tra le braccia? Fuori o dentro? Dentro non è possibile, considerando la ristrettezza dell’apertura, e fuori altrettanto, per una semplice questione di baricentro.
Il corpo di Nadine fu semplicemente tirato per i piedi e ruotato con le gambe fuori ma seno e pube dentro, senza alcun sollevamento. In questo modo il Mostro fece molta meno fatica, non rovinò la tenda e, ultimo ma non ultimo, poté usufruire di una luce interna che da fuori si vedeva poco. Quella stessa luce che i due campeggiatori dovevano avere, e che lui si portò via avendovi impresso le sue impronte. Alla fine della mutilazione il corpo venne ruotato in senso inverso e le gambe, una volta flesse, furono risospinte dentro. L’immagine seguente rende bene l’idea.


Come si vede, la grande macchia di sangue verticale segna la posizione del corpo durante la mutilazione. Quella sul terreno indica il punto dove vennero appoggiate le parti tagliate. Questa ulteriore immagine conferma il tutto.


Manieri afferma di aver visto dei fili d’erba secca sul corpo di Nadine, come suo solito senza fornire prove – fidatevi… – accampando ragioni di opportunità per la crudezza delle immagini. Sarebbe però bastato presentare qualche dettaglio ristretto. Questi fili d’erba dimostrerebbero l’estrazione del corpo. Supponiamo che tale presenza sia reale, ma essa potrebbe spiegarsi anche con un trasferimento durante le manovre del Mostro.

Conclusioni. Rimango in attesa di riscontri a questo mio articolo, sempre pronto a ricredermi di fronte ad argomentazioni adeguate e, ancora meglio, a riscontri oggettivi.
A questo punto il lettore potrebbe chiedersi: ma, se non altro per sbaglio, a parere di Segnini, almeno una Manieri è riuscito ad azzeccarla? Sì, almeno una sì: la spiegazione della presenza di tracce di gesso sui bossoli, per la quale venne eseguita una perizia apposita che non portò a nulla. Pare plausibile che la causa fosse stata l’uso di frammenti di una mattonella rotta per segnare le posizioni, come viene ben illustrato da questo video.

domenica 28 febbraio 2021

Ultime precisazioni su telefonate e notizia di reato

Eccomi ancora qui a dover replicare a un nuovo intervento di Giuliano Mignini, pubblicato il 21 febbraio scorso dal blog “Mostro di Firenze – Un caso ancora aperto” (vedi; per sicurezza il testo è salvato in pdf qui) relativo ai miei ultimi articoli sull’inchiesta Narducci. Il lavoro non mi è troppo simpatico, non piacendomi per nulla contraddire un magistrato in pensione che difende con così grande veemenza il suo storico lavoro. Non sono contento neppure per i miei pochi fidati lettori, che di questo botta e risposta ne avranno di sicuro le scatole piene. Ma si tratta di un’incombenza alla quale sono costretto, altrimenti non terrei fede ai propositi dichiarati anni fa all’apertura di questo blog (vedi), e da allora sempre onorati. Sarà però l’ultima mia replica sul tema, semmai ulteriori considerazioni le inserirò a suo tempo in un futuro articolo, dove ripercorrerò i primi mesi dell’inchiesta, affrontando tra l’altro l’ormai mitica figura dell’ispettore Napoleoni.
Entriamo dunque nel vivo di questa replica, esaminando lo scritto dell’ex PM suddiviso secondo i tre capisaldi dell’articolo cui fa diretto riferimento (Telefonate minatorie e notizie di reato).


Narducci nelle telefonate. Scrive Giuliano Mignini:

Ecco la mancanza di competenza. Lei ha visto la consulenza svolta dal dr. Calzoni, nominato ausiliario di pg più o meno nella primavera del 2002 e, con molta disinvoltura, ha desunto che quelle fossero le uniche trascrizioni delle telefonate registrate e allora ha concluso che non potevo avere le registrazioni un anno prima quando ho aperto il procedimento. Ma le pare che avrei aperto il procedimento nell’ottobre 2001, utilizzando trascrizioni sopraggiunte solo nella primavera del 2002? E che di questo si sia “accorto” solo un tecnico informatico come lei? E nulla abbia osservato il collega Canessa e tanti altri.
Mi segua. Io la informo di fatti, non di giudizi. L’estetista riceveva le telefonate minacciose (prima aveva anche subito danneggiamenti) e cominciò a registrarle su consiglio della Polizia, dapprima il Commissariato di Foligno poi la Squadra mobile di Perugia. La Polizia, dovendo subito informare il magistrato delle minacce, ha provveduto a operare una trascrizione urgente e sommaria delle registrazioni e a trasmetterle di volta in volta, nonché a fare le indagini. Mi trasmetteva anche le registrazioni che ho ascoltato più volte insieme ai poliziotti della Mobile. Quindi, le trascrizioni operate in via d’urgenza dalla Polizia furono fatte proprio nel 2001. Ad esse seguirono, nella primavera del 2002, le trascrizioni operate dal Consulente dr. Calzoni.


Diamo la parola alle carte, valide di per sé, indipendentemente dalla presunta competenza di chi le stia esibendo. Come dimostrano i due documenti riuniti in questo pdf, l’estetista consegnò le prime due cassette alla questura di Perugia il 29 settembre 2001, e la relativa trascrizione venne ultimata il 23 ottobre successivo, due giorni prima dell’apertura del procedimento sul presunto omicidio di Narducci. Non si trattava affatto di una trascrizione “urgente e sommaria”, ma di quella definitiva allegata agli atti, effettuata dall’ispettore Furio Fantauzzi, dal sovrintendente Stefano Savelli e dall’ausiliare Giovanni Calzoni (il quale quindi si mise all’opera molto prima della primavera 2002, come invece affermato erroneamente dall’ex PM). Riguardo il contenuto, il lettore curioso – nonché maggiorenne – può leggerselo per intero, quello frettoloso può invece consultare il seguente documento, datato 16 giugno 2004, riportante la ricerca dei termini (o meglio: frammenti) più significativi contenuti nelle prime 18 cassette. Ebbene, nella numero uno – la due era soltanto una copia parziale di questa – i termini sono: “Pacciani” e “colline del Mugello”. Di Narducci neppure l’ombra.
I due documenti riuniti in questo secondo pdf attestano invece la consegna delle cassette 3 e 4, sempre in questura, il giorno 15 novembre 2001, e la relativa trascrizione il giorno 15 dicembre successivo. A trascrivere furono gli stessi tre poliziotti, compreso l’ausiliare Giovanni Calzoni, con l’aggiunta dell’assistente capo Salvatore Emili. Tra i termini significativi emerge soltanto “Pacciani”, mentre Narducci continua a latitare.
Delle cassette 5 e 6 chi scrive non ha la disponibilità della trascrizione. In ogni caso non dovevano essere state ritenute utili alle indagini, come dimostra la loro assenza nel documento di ricerca dei termini significativi.
Prendiamo adesso in esame la cassetta numero 7. Questo pdf ne colloca la consegna al 21 maggio 2002 e la trascrizione – operata ancora da Fantauzzi, Emili e Calzoni – al giorno dopo, 22 maggio. Finalmente, in aggiunta al solito “Pacciani”, vi si leggono i primi termini in qualche modo riconducibili a Narducci: “il dottore”, “lago”, “lago Trasimeno”. È il caso di riportare anche le relative frasi: “Verrai uccisa e seppellita come l’amico di Pacciani del lago Trasimeno”, “Guarda il tuo bambino e finirai nel lago uccisa”, “Tu ricorda il dottore amico di Pacciani”. Dal verbale di consegna risulta che la Falso aveva iniziato a ricevere tali telefonate il giorno 18 maggio 2002.
A questo punto abbiamo quindi un dato di fatto inconfutabile: quando nelle telefonate comparvero i primi riferimenti a Narducci, erano trascorsi già sette mesi dall’apertura del procedimento giudiziario riguardante il suo presunto omicidio.
Ma proseguiamo. Dopo una cassetta non significativa, arrivò la numero 9 (vedi), consegnata il 27 giugno e trascritta il 15 luglio sempre da Fantauzzi, Emili e Calzoni. Qui i termini significativi aumentano, e tra di essi compare anche quello più importante, “Narducci”. Gli altri sono: “il grande medico”, “il dottore”, “il grande dottore”, “ammazzato”, “ucciso”, “lago” e infine l’immancabile “Pacciani”.
La successiva cassetta, la 10, venne consegnata il 17 luglio e trascritta il 24 agosto. Frammenti significativi sono “come i morti di Firenze” e vari con radice “sfregi”. Questa volta Pacciani fu lasciato a riposo.
Fermiamoci qua, avendo dimostrato ad abundantiam che le telefonate all’estetista nulla avrebbero dovuto aver a che fare con la partenza dell’inchiesta Narducci. Che per quella partenza il relativo procedimento fosse stato preso a semplice pretesto è dunque un fatto storico, sul quale ognuno può elaborare il proprio personale giudizio. Quello di chi scrive, che si sente preso in giro, è particolarmente severo.

I telefonisti. Scrive Giuliano Mignini:

Poi c'è un “capitolo” dal contenuto caotico e pressoché incomprensibile in cui lei si perde, letteralmente, sui “telefonisti”. Il procedimento si è concluso definitivamente con la condanna patteggiata di Pietro Bini, un disoccupato di Foligno o Cannara che, secondo me, si è assunto la piena paternità delle telefonate, per chiudere la questione nella quale era rimasto coinvolto, diciamo, un poliziotto.
Sono rimasto sempre perplesso da questa storia, tutti lo sanno e, a un certo punto, mi sono concentrato sulle indagini collegate con Firenze e ho lasciato che le ultime udienze le trattasse una vice procuratrice onoraria. […]
Lei parla di un “toscano” che era presente nelle telefonate. Io ho sentito solo una voce “appenninica” dell’area di Foligno e una “piemontese”. Di toscani in quelle telefonate neppure l’ombra. E se anche ci fosse stata e fosse stata trascurata che rilevanza avrebbe?


L’ex PM parla di “contenuto caotico e pressoché incomprensibile”. Di sicuro per lui l’argomento è molto più chiaro, e le ragioni sono ovvie, ma la documentazione della quale dispone chi scrive non consente di redigere una cronaca più precisa. In essa rimangono molti buchi, riempibili soltanto con delle ipotesi; la qual cosa non è per nulla facile, e fa buon gioco a chi preferisce buttare tutto in caciara. Ma quel che ne emerge è comunque un quadro assai inquietante. Innanzitutto è bene sia stabilito un fatto certo: ad affermare che in quelle telefonate c’era un toscano non sono io, ma i poliziotti che le trascrissero: Fantauzzi, Savelli, Emili e Calzoni. Nei relativi documenti, fino alla cassetta 9 si legge di un interlocutore maschile dall’accento toscano (per comodità riporto ancora i link: cassette 1 e 2, cassette 3 e 4, cassetta 7, cassetta 9). Per la cassetta 1 si parla addirittura di “<H> aspirata tipica toscana”, intendendo probabilmente il "ch". Poi dalla cassetta 10 l’accento toscano sparisce, e, per il motivo che ho già spiegato (la doppia “B” di “subbito”) probabilmente entra quello denominato “appenninico” dal dottor Mignini.

Edit 1/9/2021. Da un controllo più accurato è emerso che l'indicazione di accento toscano sparì dalle trascrizioni con la cassetta 11 – data verbale 19/11/2002 – e che la parola “subbito” nella cassetta precedente era stata pronunciata dalla voce femminile.

Si dovrebbe dunque pensare che i tre poliziotti incaricati delle trascrizioni – in un caso quattro – avessero tutti preso un abbaglio? Si tratta di uno scenario francamente improbabile. C’è piuttosto da chiedersi il perché nessuna telefonata con quell’accento toscano avesse fatto parte delle 20 del CD fornito ai due esperti ai quali, il 19 luglio 2005, venne commissionata la perizia fonica (vedi). Ce n’erano 6 della donna con accento piemontese e 14 dell’uomo con accento di Cannara, senz'altro Bini. Evidentemente non interessava indagare su chi ci fosse dietro quell’accento toscano, la qual cosa porta a sospettare che lo si sapesse già.
Ci sono altre questioni sulle quali chi finanziò quella perizia fonica e tutte le altre indagini avrebbe diritto di saperne di più. Quale era stato il ruolo del poliziotto indagato, un dirigente di buon livello che adesso ha una posizione di grande responsabilità? Quali le sue motivazioni, e quali i suoi rapporti con i colleghi fiorentini?
Infine Bini, che non risulta neppure interrogato nell'ambito del procedimento sul presunto omicidio di Narducci. Non interessava chiedergli se ne sapeva qualcosa? Tra l'altro gli fu concesso il patteggiamento, a quanto pare senza pretendere che rivelasse i nomi dei suoi complici. Si tratta di normale amministrazione nei tribunali italiani? E qual era stato il suo compenso per essersi preso tutta la colpa? Soldi? Uno scambio di favori?

La notizia di reato. Scrive Giuliano Mignini:

Lei non ha capito che la notitia criminis per l’apertura del procedimento 17869/01/44 furono le dichiarazioni del medico legale prof.ssa Francesca Barone che riferì delle lesioni di cui le parlò lo Zoppitelli, mi pare che si chiamasse così (che era sul pontile) a proposito del cadavere ripescato che, nel 2001, non dubitavamo coincidesse col Narducci.
E che il cadavere (dell’uomo ripescato) presentasse segni di lesioni lo dice anche l’appuntato dei carabinieri Aurelio Piga che tentò di richiamare l’attenzione dei presenti ma fu subito bloccato dal questore. […]
Perché, consapevole della sua incompetenza, lei si avventura in un terreno così “tecnico”? Io non la capisco proprio.


Prima di andare avanti mi si consenta di aprire una parentesi, mettendo da parte Zoppitelli e prendendo in esame Piga. Ma insomma, la famiglia Narducci avrebbe avuto la bella pensata di sostituire il cadavere del congiunto con quello di un uomo di colore 20 centimetri più basso, altrettanti più largo e per di più con evidenti lesioni? Il tutto al fine di nascondere un omicidio che sarebbe stato compiuto con la pressione di un pollice sul collo, quindi senza produrre ferite evidenti? Qui non si tratta di competenza ma di semplice logica, per la quale non serve una laurea in legge. Peraltro, come anche le sentenze Pacciani e Vanni dimostrano, non pare che ai magistrati ne venga richiesta una troppo ferrea.
Ma torniamo a bomba. Nel mio scritto mi pare di aver dimostrato di aver capito bene che cosa sia una notitia criminis, in caso contrario mi si dovrebbero indicare gli errori. Sia come sia, a questo punto conviene comunque ripartire dalla attuale affermazione dell’ex PM: la notitia criminis del presunto omicidio di Narducci sarebbe nata dalle dichiarazioni della professoressa Francesca Barone (vedi). Su questo argomento ho già scritto, quindi devo purtroppo ripetermi. Leggiamo allora le dichiarazioni della Barone che avrebbero fatto ipotizzare l’omicidio di Narducci. Siamo al 22 ottobre 2001:

Per pura casualità incontrai dei pescatori, uno dei quali, di cui non ricordo il nome, aveva partecipato al recupero del cadavere; quest'uomo […] mi disse che il cadavere di Francesco Narducci presentava delle macchie rosse, come se avesse sbattuto contro qualcosa o che comunque avesse subito colpi violenti. Le macchie erano presenti soprattutto sul volto; il pescatore aggiunse che il cadavere aveva le mani ed i piedi legati dietro la schiena. Il pescatore mi disse che dovevano avergli dato tantissime botte per come era ridotto il volto.

Gli eventi narrati si riferiscono al giorno del ripescaggio del cadavere, il 13 ottobre 1985. Il dottor Mignini avrebbe dunque elaborato la notitia criminis sulla base di questo racconto, sono le sue testuali parole (in effetti il relativo procedimento venne aperto tre giorni dopo). Ma come, senza neppure verificare chi fosse questo pescatore e tantomeno interrogarlo? Una scommessa molto azzardata. Se infatti lo avesse identificato e interrogato, avrebbe anche scoperto che non aveva visto un bel niente, come ammesso da lui stesso cinque mesi più tardi, dopo un confronto con la Barone. Si trattava di Giancarlo Zoppitelli, non pescatore ma imbianchino. Dal verbale del 13 marzo 2002 (vedi):

Ora che ho visto la Prof.ssa Barone ricordo che effettivamente nel pomeriggio del 13.10.1985 riferii a quest'ultima che il cadavere aveva il volto tumefatto, il naso rotto e le mani legate, ma questo non l'ho visto di persona. L'ho sentito dire quel giorno da molta gente sul pontile, nel momento del ritrovamento da persone del paese che hanno ripetuto queste affermazioni anche nel bar “Menconi”, gestito da tale Menconi, non ricordo se il padre o il figlio. Mi dispiace di essermi infilato in questo impiccio.

Era dunque questa l’origine della notitia criminis che avrebbe fatto partire un’inutile inchiesta costata chissà quanti milioni di euro di noi poveri contribuenti e la sofferenza di tanta gente? E il cui unico risultato giuridico è la sentenza di archiviazione De Robertis, nella quale – questo lo si deve riconoscere – la sintonia con il collega PM risultò perfetta?

mercoledì 17 febbraio 2021

Telefonate minatorie e notizie di reato

Come mi ero ripromesso, pur disponendo di poco tempo, eccomi qui ad approfondire la risposta provvisoria (vedi) alle recenti rimostranze di Giuliano Mignini riguardanti i miei ultimi articoli sull’inchiesta Narducci. Nel frattempo l’ex PM è intervenuto ancora (vedi) con uno scritto che riporto qui sotto.

Gentile dr. Segnini, la sua risposta mi conferma quello che ho sempre detto. Lei ha una concezione tutta sua del processo penale e, soprattutto, della sua genesi e sono costretto a cercare di chiarirlo fermo restando che, di fronte a qualcuno che ha fatto il magistrato, lei ascolti con la volontà di capire quello che le sto dicendo del processo visto che lei non è assolutamente competente in materia giudiziaria come io non lo sono in ambito medico o ingegneristico. Per mia scelta culturale, mi interesso invece personalmente di storia, locale e non solo.
Detto questo e riservandomi di risponderle più dettagliatamente in seguito, io le rispondo subito sui tre punti che lei ha creduto di individuare come critici nelle indagini da me condotte.
Allora, cominciamo con la genesi delle indagini, un argomento di cui ho sentito parlare in relazione alle indagini da me condotte mentre generalmente si parla dell’esito dei processi.
L’inquirente deve partire da qualcosa che è la notizia di reato. C’è una notizia che può essere riferita dalla polizia giudiziaria, o appresa direttamente dal magistrato o emersa in altro procedimento e che dà luogo ad un procedimento distinto.
Il magistrato non sa nulla di questa notizia. Può anche saperne dalle voci correnti che sono più o meno determinate ma, come tali, non valgono finché non siano confermate.
La notizia è all’inizio, più o meno circostanziata ma va verificata e le indagini servono a questo. E deve essere verificata perché in Italia vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
E allora il magistrato fa le indagini che possono portare alla conferma della fondatezza della notizia o alla sua negazione.
Quando io dico che è indiscutibilmente indifendibile quello che è stato fatto sul pontile aggiungo che, per di più, non si trattava di bazzecole ma di una vicenda che, in ipotesi (per allora), c’era di mezzo la vicenda del Mostro di Firenze per la quale il Narducci era sospettato sin da prima della morte come riferito, tra gli altri, dall’App. CC. Pasquale Pierotti. L’isp. Napoleoni, presente sul pontile, è quello che aveva svolto indagini relative al Narducci sin dal delitto degli Scopeti.
Ho fatto le indagini e il procedimento principale, quello De Robertis, si è concluso con l’ordinanza irrevocabile che ha recepito integralmente l’assunto accusatorio. E questo provvedimento è rimasto in piedi a differenza di quello Micheli che è stato definitivamente travolto dalla Cassazione che ha salvato il capo sull’associazione solo per discutibili ragioni di opportunità ma aveva riconosciuto la fondatezza del mio ricorso anche sull’associazione. Poi i ritardi gravissimi, sottolineo gravissimi, verificatisi non certo per colpa mia hanno determinato la prescrizione di tutti i reati meno uno.
E allora ? Di che stiamo discutendo?
Quanto all’aspetto linguistico e, aggiungo, storico, non ha alcuna rilevanza sulle telefonate Falso. Quanto all’Umbria, esisteva al tempo di Augusto ma non comprendeva Perugia che era una delle capitali dell’Etruria e andava, l’Umbria o Sexta Regio, da Assisi fino all’Adriatico. Comunque, a quanto ricordo, le voci delle telefonate erano tutte dell’Umbria orientale e, quella femminile, era piemontese ma i dialetti o parlate non seguono quasi mai i confini amministrativi odierni.
Passiamo alla competenza. Le assicuro che l’inquirente ed io nella fattispecie sono stato sempre animato dalla ricerca della verità che non è un’opinione.
Per questo, ho pagato, insieme all’amico Giuttari, un prezzo altissimo ma ne sono uscito vincitore e ora è in piedi una causa di responsabilità civile contro magistrati della Procura ma soprattutto del Tribunale di Firenze.
Chi non ha fatto il suo dovere, invece, non ha subito danni di sorta. Questa è una certa Italia.
Chi è competente, ha titolo per parlare di un certo argomento. Chi non lo è, non ha titolo giuridico.
La saluto.
Perugia 8 febbraio 2021


Egregio dottor Mignini, nel suo precedente intervento lei mi ha rimproverato “la confusione, la prolissità e la conseguente mancanza di chiarezza dell’esposizione. Scrivere tanto non serve a nulla”. Non è lo stesso giudizio di altri, ma prendo comunque atto del suo legittimo punto di vista, di conseguenza in questa sede farò quanto è nelle mie possibilità per migliorarmi, condensando in un paio di pagine di Word, o poco più, i miei scritti sulle telefonate minatorie e la partenza dell’inchiesta Narducci. A beneficio suo, che se vorrà potrà fare le sue osservazioni, e di tutti quei lettori che non hanno voglia di addentrarsi in una vicenda narrativamente poco gradevole, nondimeno storicamente significativa. Ma prima sento il bisogno di una replica sulla questione della competenza in materia giudiziaria, che lei mi rimprovera di non possedere bocciandomi sul nascere ogni velleità di analizzare la sua inchiesta. Ne devo arguire che il suo lavoro possa essere giudicato soltanto da un collega? Mi sembra una pretesa un po’ eccessiva, neppure fosse un trattato di fisica quantistica!
Che io non sia competente in materie giudiziarie è vero, solo però quando per competenza s’intenda la capacità di esercitare il mestiere di magistrato. Per la ricostruzione storica che sto cercando di portare avanti, infatti, una laurea in legge non mi è necessaria, come non mi è mai stata necessaria – mi si perdoni la digressione – una conoscenza specialistica delle varie materie che in una ormai lunghissima attività di professionista nel campo del software applicativo sono stato costretto ad affrontare. Davanti alla necessità di produrre strumenti di lavoro per le tipologie di committenza più varie mi sono sempre rimboccato le maniche e ho studiato la materia. Non sono divenuto né un assicuratore, né un contabile, né un agente letterario, né un amministratore di condomini, neppure un investitore di valori mobiliari e tantomeno un progettista di cavi elettrici – potrei continuare ancora per po’ – ma ho imparato il linguaggio di tutti, anzi, ho dovuto imparare il linguaggio di tutti, pena il cambio di mestiere.
Lo studio della vicenda del Mostro di Firenze è per me una semplice passione, non un lavoro, ma in esso applico la medesima metodologia, cercando sempre di acquisire le informazioni necessarie prima di affrontarne i vari aspetti. Nel caso di specie – la partenza dell’inchiesta Narducci – sono andato a documentarmi su come viene aperto un procedimento giudiziario, potrà verificarlo leggendo qui. Mi sono soffermato sui cinque registri, e, avvalendomi di questo testo, anche sulla notitia criminis, sulla quale lei mi ha recitato la sua lezione, e la ringrazio. Non avevo capito nulla? Può darsi, però chi intende sostenerlo lo deve dimostrare, trovandomi in quel caso più che disponibile a ogni rettifica che si renda necessaria.
Ancora una premessa prima di andare sul concreto. Lei mi rimprovera la mancanza di chiarezza, ma dove sta la chiarezza nei suoi due scritti? In essi ha bocciato il mio lavoro senza rispondere su nessuna delle questioni che vi vengono sollevate, disquisendo di tutt’altro. Argomenti importanti, beninteso, ma fuori tema, e sui quali avrò modo di esprimere il mio parere in altra sede. Scrive giustamente un mio lettore, riferendosi al suo primo intervento:

Più che rileggo l'intervento di Mignini più che mi sembra veramente fuori fuoco, forse hai ragione e magari l'ha letto di fretta. Di tutto quello che hai scritto si è indignato per la storia degli accenti? Io, francamente aspettavo sì delle risposte, ma su cose ben più importanti come la telefonata minatoria partita da un commissariato umbro o il fatto che oggi, grazie a questi documenti, possiamo affermare con certezza che l'inchiesta Narducci partì prima delle telefonate alla Falso.

Nel secondo intervento parla di tre punti che, secondo lei, avrei creduto di individuare come critici nelle indagini ma poi non li elenca né tantomeno li affronta. In verità, pur molto sbrigativamente, uno sì, quello della notizia di reato, ma gli altri? Spero non abbia voluto intendere l’aspetto linguistico e l’identificazione dell’Umbria storica…
Ma adesso è davvero arrivato il momento di andare sul concreto, con l’esposizione sintetica in tre capisaldi del mio lavoro di ricerca sulle telefonate e sulla partenza dell’inchiesta Narducci. Va da sé che la lettura dei due articoli originali (qui e qui) risulta comunque necessaria se si pretendono le relative dimostrazioni.

Narducci nelle telefonate. Per anni si è creduto che l’inchiesta Narducci fosse stata innescata dalle telefonate minatorie a un’anonima estetista di Foligno, la signora Dorotea Falso: “Ricorda il dottore amico di Pacciani... traditori di Satana... I traditori Pacciani e il grande medico... Narducci... finito nel lago strangolato”. A sostenerlo, oltre a Giuttari nei suoi libri – invero non sempre rispettosi della verità – era stato anche lo stesso pubblico ministero, come in un frammento della sua requisitoria leggibile qui. Pertanto mi stupii moltissimo scoprendo, una volta entrato in possesso delle trascrizioni di quelle telefonate, che Francesco Narducci vi veniva nominato per la prima volta – come “l'amico di Pacciani… del lago Trasimeno” – il 18 maggio 2002 alle ore 12:36! Quindi ben sette mesi dopo l’apertura del procedimento giudiziario sul suo presunto omicidio (25 ottobre 2001) e il successivo ascolto di qualche decina di testimoni, nonché il presumibile completamento della perizia sugli atti del professor Pierucci (giorno di consegna ufficiale: 22 maggio 2002).
E allora cosa diavolo c’entrano le ridicole minacce telefoniche all’anonima estetista di Foligno con la partenza dell’inchiesta Narducci, la quale, alle ore 12:36 del 18 maggio 2002, non soltanto era partita, ma aveva già percorso chilometri e chilometri?

I telefonisti. Le sorprese nate dall’esame della documentazione non erano affatto finite, anzi, ne emergeva una parte ancora più inquietante. Chi erano questi telefonisti e perché avevano fatto riferimento a Pacciani e in seguito anche a Narducci? Sappiamo che l’unico condannato – con patteggiamento – è stato un certo Pietro Bini, di Cannara, un individuo che dai documenti sembra non avesse avuto nulla a che spartire con Dorotea Falso. E con la questione Narducci c’entrava qualcosa? Parrebbe di no, poiché in nessuno dei relativi procedimenti risulta mai essere stato interrogato, il che francamente appare strano, visto che proprio grazie alle sue minacce quei procedimenti sarebbero partiti. Viene da chiedersi: e se avesse fatto parte della setta che stava dietro ai delitti del Mostro e le sue telefonate fossero state un depistaggio?
In realtà lo studio della documentazione porta a ritenere Bini un personaggio dietro il quale è rimasto nascosto il gioco di chi ha tramato per spingere la pista Narducci attraverso le telefonate. Per un anno e più a minacciare l’estetista erano stati il fratello del marito e la moglie di questi, dei cognati insomma, per motivi che non travalicavano il campo delle beghe familiari, con anche l’incendio di un fienile, il taglio delle gomme di un’auto e un foglietto intimidatorio lasciato in giardino. Dopo varie denunce presentate al commissariato e ai carabinieri di Foligno, il 29 settembre 2001 avviene un fatto nuovo: Dorotea Falso consegna alla questura di Perugia due cassette dove ha registrato le ultime telefonate minatorie. E al fatto nuovo delle cassette se ne accompagnano almeno altri due, con una concomitanza francamente sospetta. Innanzitutto in alcune telefonate, cosa mai successa prima, viene fatto riferimento a Pacciani. Poi il cambio dei due telefonisti. A dircelo sono le questioni linguistiche. Chi trascrisse le telefonate rilevò nella voce maschile un accento toscano, mentre una perizia fonica di qualche anno dopo avrebbe individuato in quella femminile un accento piemontese; entrambi i cognati della Falso erano nativi di Foligno e ivi residenti.
Bisogna a questo punto chiedersi di chi fosse stata l’iniziativa di registrare le telefonate; poco credibile della Falso, soprattutto per le concomitanze sopra indicate. E viene anche da chiedersi che cosa avesse avuto a che fare con questa faccenda il dirigente di polizia che risultò indagato e poi prosciolto. Indagato perché e prosciolto perché? Il sospetto che qualcuno si fosse inserito in una questione personale della Falso introducendovi le vicende fiorentine è legittimo, come è legittimo il sospetto che in qualche modo questo qualcuno avesse avuto a che fare con le forze dell’ordine. Va anche detto che indagata e prosciolta risulta pure la baby sitter del figlioletto della Falso, il cui marito era un poliziotto fratello di altri due poliziotti. Una coincidenza?
Dopo la consegna delle prime due cassette le telefonate continuarono, poi ebbero un momento di stasi. Fino a quando, nel maggio 2002, l’inchiesta non cambiò passo, con la consegna della perizia sugli atti da parte del professor Pierucci, la conseguente decisione di riesumare la salma e l’uscita del tutto sui giornali. Con un sospetto anticipo di pochi giorni – accesso a informazioni riservate? – le telefonate ricominciarono e finalmente entrò Narducci.
Dopo questa ripresa le telefonate andarono avanti, e, come si desume dai verbali di trascrizione, ancora per un po’ con la voce maschile dall’accento toscano. Poi, a partire dalla trascrizione della cassetta 10 datata 24 agosto 2002, l’accento toscano sparì e probabilmente entrò quello umbro, in seguito rilevato dalla perizia fonica. Il trascrittore, infatti, non scrisse più di accento toscano, in compenso evidenziò la parola “subbito”, con un raddoppio della “b”, molto probabilmente compatibile con la parlata di Cannara. Se così fosse si potrebbe associare tale cambiamento all’arrivo di Pietro Bini, quello stesso Bini che si sarebbe dichiarato colpevole ottenendo un patteggiamento che si fa fatica a comprendere, non avendo denunciato i suoi complici.
Edit 1/9/2021. Da un controllo più accurato è emerso che l'indicazione di accento toscano sparì dalle trascrizioni con la cassetta 11 – data verbale 19/11/2002 – e che la parola “subbito” nella cassetta precedente era stata pronunciata dalla voce femminile.

La notizia di reato. Non è questa la sede per disquisire attorno alla locuzione “notizia di reato”, che il codice penale usa senza definirla. Basti il suo significato intuitivo, e la consapevolezza che una notizia di reato sta alla base di ogni procedimento giudiziario: non può esserci procedimento giudiziario senza notizia di reato, e data una notizia di reato (s'intenda: della quale sia stato verificato il fondamento) deve esserci un procedimento giudiziario, lo impone la legge con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ma una notizia di reato è anche una notizia in senso generico, e non tutte le notizie sono anche notizie di reato, nonostante una loro eventuale vicinanza all'ambito giudiziario. Immagino che per un magistrato distinguere non sia sempre facile, non a caso esiste il registro modello 45.
La notizia di reato con la quale venne aperto il procedimento giudiziario 17869/01/44, il 25 ottobre 2001, era quella del presunto omicidio di Francesco Narducci (art 575 e relative aggravanti). Ebbene, faccio fatica a comprendere il modo in cui, fra i tre elencati nell’intervento di Giuliano Mignini, tale notizia fosse nata. Riferita dalla polizia giudiziaria? No, poiché l’informativa dove Angeloni chiedeva di poter procedere non parlava affatto di presunto omicidio, ma di presunto suicidio (vedi) e comunque si trattava soltanto di voci di popolo. Emersa in un altro procedimento? Non si comprende quale, a meno che non si voglia intendere quello delle minacce telefoniche, dove però di Narducci non c’era neppure l’ombra. Appresa direttamente dal magistrato? Si tratta dell’unica strada percorribile, previa la necessaria sostituzione del termine “appresa” con il più appropriato “ipotizzata”. Allora percorriamola, questa strada, come fossimo stati noi il PM che doveva decidere.
Vediamo gli elementi in gioco. Sopra il tavolo c’erano le irregolarità sulla tumulazione della salma, la cui più ovvia origine andava però ricercata nel desiderio di una famiglia potente di evitare l’autopsia e nello zelo con cui alcune autorità locali si erano messe a sua disposizione. Con il che non c’era alcuna notizia di reato, comunque non tale da consentire l’apertura di un procedimento giudiziario, poiché eventuali reati risultavano ormai prescritti. L’unica era guardare dietro le quinte e chiedersi il perché: perché la famiglia Narducci aveva voluto evitare l’autopsia? Anche in questo caso c’era una risposta ovvia: se il loro congiunto si fosse suicidato, come era sempre parso probabile – lo aveva scritto lo stesso Angeloni nella sua informativa – l’autopsia e l’esame tossicologico lo avrebbero fatto emergere. Per i familiari un’eventualità da evitare a ogni costo, data la notorietà del cognome Narducci in ambito locale: tutti ne avrebbero parlato, i giornali ne avrebbero scritto, e il loro dolore non avrebbe potuto far altro che crescere.
Sul tavolo c’erano però anche i sospetti sul coinvolgimento di Narducci nelle vicende del Mostro di Firenze. Sospetti sui quali in verità la procura aveva già indagato, giungendo alla conclusione che erano ingiustificati, sia per la mancanza di elementi a sostegno sia e soprattutto perché il soggetto era impossibilitato a compiere almeno il delitto di Calenzano, trovandosi in quel periodo negli Stati Uniti. In ogni caso, se anche Narducci fosse stato il Mostro, il suo suicidio avrebbe già chiuso la questione, quindi all’orizzonte ancora nessuna notizia di reato.
Ma qui entra un elemento del tutto nuovo: l’ipotesi di Giuttari che i delitti del Mostro di Firenze fossero delitti su commissione, eseguiti dalla scalcagnata banda dei compagni di merende per conto di una fantomatica setta satanica che avrebbe ucciso Narducci per impedirgli di parlare. Nel nuovo scenario poteva quindi configurarsi la notizia di reato dell’omicidio, costruita a tavolino sulla base di tre elementi tutti molto deboli, dei quali due ipotetici e un terzo reale ma spiegabile in modi assai più semplici. Quello spiegabile riguardava le irregolarità di tumulazione, delle quali si è già detto. Il primo degli ipotetici poggiava sulle chiacchiere della gente. Ma chiacchiere simili avevano colpito molte altre persone innocenti, e non si vede perché a quelle su Narducci si sarebbe dovuto attribuire maggior spessore. Il secondo è l’ipotesi dei delitti su commissione, basata su una valutazione malevola e sbagliata dei soldi di Pacciani – mi è bastato far due conteggi e incrociare qualche data per dimostrarlo (vedi) – e sul labilissimo e sospettosissimo accenno di Lotti al dottore (vedi), peraltro respinto dalla sentenza di secondo grado. Del resto, pur ostacolato dai tentativi dei superiori di porgli un freno (vedi), sui mandanti Giuttari aveva già indagato a lungo, non rimediando null'altro se non la brutta figura alla villa dei C. a San Casciano.
Dove si è arrivati partendo da questa notizia di reato costruita in un modo quanto meno artificioso, alla quale non credo si potesse applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale? A nessun risultato processualmente valido. I presunti uccisori di Narducci, come anche i mandanti dei delitti del Mostro di Firenze, sono rimasti dei fantasmi alla cui esistenza oggi come ieri è davvero difficile credere, sia per una questione di semplice buonsenso, sia perché non hanno lasciato neppure una traccia. In compenso si sono spesi milioni di euro che di sicuro il contribuente avrebbe avuto maggior interesse a vedere impiegati in inchieste più ordinarie. Esclusa forse qualche decina di appassionati, felici di potersi baloccare all’infinito con i misteri delle sette e dei doppi cadaveri.