lunedì 25 marzo 2019

Qualcuno fermi Giuttari!

Alla fine dell’articolo La moglie del farmacista eravamo giunti alla perquisizione del 7 luglio 1998 nelle proprietà di Francesco Calamandrei, uno dei possibili “mandanti” individuati da Michele Giuttari. Anche se l’esito era stato nullo – e nulla c’era contro di lui, se non le vecchie accuse della moglie malata di mente già archiviate da anni – con il mastino che gli stava addosso il farmacista di San Casciano non aveva di che stare  troppo tranquillo. Ma per il momento la fortuna parve guardare dalla sua parte.

Promozione e trasferimento. Nell’ambito di un’indagine formalizzata – come era quella sul Mostro – da un punto di vista operativo la squadra mobile dipende strettamente dalla procura, alla quale deve chiedere i permessi per effettuare interrogatori e perquisizioni. Ma, in quanto parte della Polizia di Stato, gerarchicamente e amministrativamente la dipendenza è dal Ministero dell’Interno, organo di governo con sede a Roma. Si legge ne Il Mostro:

Non faccio in tempo a riesaminare gli atti del primo processo e gli elementi e le testimonianze raccolte successivamente, alla luce dell'indicazione dei giudici di indagare sull'eventuale presenza di uno o più mandanti dei delitti […] che ricevo un telegramma con la convocazione del ministero dell'Interno, a Roma, “per conferire presso la Direzione Centrale del Personale”. È la sera del 19 agosto 1998. [..]
Il giorno dopo, come richiesto, mi presento davanti al funzionario competente che, dopo i normali convenevoli, mi prospetta la promozione a vicequestore vicario e, nello stesso tempo, il cambio della sede di servizio.
Non c'è una motivazione particolare, una zona che richieda con urgenza le competenze che ho sviluppato nei miei anni di servizio e prioritaria rispetto all'indagine ancora incompiuta sul “mostro”.
Sono perplesso, e non lo nascondo.

Il libro prosegue, facendoci partecipi della tempesta di pensieri che si agitava nella mente dell’investigatore durante il viaggio di ritorno a Firenze.

Riparto da Roma ancora incredulo. I 250 chilometri che la separano da Firenze servono a calmarmi e a riordinare le idee. Cerco di capire la mossa dei miei superiori ma non ci riesco. Posso comprendere che ormai per molti la storia del “mostro” sia diventata obsoleta, sorpassata, in fondo tutto sommato risolta con l'arresto dei complici di Pacciani e la sua morte, più che sufficienti ad appagare la curiosità dell'opinione pubblica forse ormai distratta da altri eventi. Per molti, ma non per i vertici della polizia di Stato che certo non possono ignorare le indicazioni dei giudici che hanno condannato Vanni e Lotti.
No, qualcosa non torna.
Se c'è qualcuno che dovrebbe non poterne più di questa storia, e che potrebbe uscirne all'apice del successo perché ha dimostrato inequivocabilmente l'esistenza di complici e con essa in modo indiretto la colpevolezza di Pacciani, e assicurato i complici alla giustizia, quello sono proprio io. Potrei limitarmi a godere i frutti del mio successo invece di tornare a sporcarmi le mani con un'inchiesta difficile e già contrastata.
Ho deciso lungo il percorso che costi quel che costi devo rinunciare alla promozione e resistere a quel trasferimento: lo devo all'integrità della mia professione, alle vittime del “mostro”, alla sete di giustizia del padre di Pia Rontini, all'opinione pubblica che ha il diritto di sapere la verità fino in fondo e non solo ciò che aggrada agli organi di stampa o conviene a qualcuno per suoi imperscrutabili motivi.

Quindi Giuttari, a suo dire con stoica determinazione e per amor di giustizia, per di più rischiando la propria appena raggiunta reputazione di poliziotto di successo, decise di opporsi al trasferimento (e al conseguente blocco delle indagini sui mandanti, che senza di lui senz’altro si sarebbero fermate).
Ma torniamo un momento sulla frase “lo devo […] all'opinione pubblica che ha il diritto di sapere la verità fino in fondo e non solo ciò che aggrada agli organi di stampa o conviene a qualcuno per suoi imperscrutabili motivi”. Lasciamo perdere la stampa, il cui interesse era soltanto quello di vendere, quindi sarebbe stata ben contenta di sfornare altri articoli sulla vicenda del Mostro, e concentriamoci su quel qualcuno che avrebbe cercato di bloccare le indagini di Giuttari per incomprensibili ragioni. Il libro non fornisce elementi né per assegnare un’identità a quel qualcuno, né per almeno ipotizzare la natura delle sue ragioni. Questa mancanza di chiarezza più alcune sibilline risposte dell’ex superpoliziotto rilasciate nel corso di varie interviste hanno favorito la nascita di convinzioni poco ragionevoli. Trova infatti ancor oggi molto credito – si leggano a tal proposito le fantasiose teorie di cui si discute nel forum “I Mostri di Firenze” – l’ipotesi che forze oscure avessero tramato nell’ombra per proteggere personaggi potenti a rischio di essere smascherati. Chi scrive non lo crede affatto, e quindi, nello spirito dichiarato per questo blog – sgomberare il campo dalle mistificazioni che gravano sulla vicenda – verrà esaminata la documentazione disponibile alla ricerca dei veri motivi che indussero il Ministero dell’Interno a decretare il trasferimento di Giuttari.

Quattro si potevano salvare. Il 23 giugno 1997, a processo ai compagni di merende appena iniziato, Giuttari prese posto sul banco dei testimoni (vedi), per la prima di quattro lunghissime deposizioni durante le quali fornì un resoconto completo delle proprie indagini, dedicando la partenza ai “testimoni dimenticati”, ben 20 persone le cui testimonianze dell’epoca non sarebbero state prese in esame per come avrebbero meritato. Bisogna dire che risultò abbastanza evidente a tutti un certo tono critico verso chi aveva investigato prima di lui: “Testimonianze per me ritenute utili […] che mi accorsi purtroppo non erano state portate alla conoscenza della Corte di Assise che aveva giudicato Pacciani”; “[…] può dare l'idea di quanto importanti dovevano essere quelle circostanze e quanto importante sarebbe stato portarle alla valutazione del Giudice della Corte di Assise”; “Sempre per il delitto dell'84 […] già all'epoca c'erano altre testimonianze importanti che non erano state valutate”.
È probabile che di per sé le velate critiche non avrebbero poi suscitato così grande interesse, se non ci si fossero messi di mezzo i giornalisti, che naturalmente approfittarono dell’occasione per interrogare Giuttari – che da par suo di certo non si tirò indietro – sul ghiotto argomento. Leggiamo, tra i tanti, il resoconto di Giulia Baldi su “L’Unità” del giorno dopo (vedi), dal titolo eloquente: “Il mostro di Firenze poteva essere fermato”.

Se fosse vero gli ultimi quattro ragazzi uccisi dal «mostro» di Firenze potrebbero essere ancora vivi. Se fosse vero Pia Rontini, Claudio Stefanacci, Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili potevano essere salvati: se le indagini non si fossero incaponite sul serial killer isolato, forse, la feroce lista dei delitti del maniaco si sarebbe fermata al 1983. Ne sembra convinto il capo della mobile di Firenze, Michele Giuttari […]
Le prime quattro ore di deposizione di Giuttari sono un vero e proprio atto d’accusa a stile e strategie delle indagini precedenti: sono decine le segnalazioni di una macchina rossa e di tipo sportivo (Lotti a metà degli anni ‘80 aveva una 128 coupé rossa) nei luoghi degli ultimi tre delitti del «mostro», ma nessuno se ne è curato. La prima è del 13 settembre 1983, quattro giorni dopo il delitto di Giogoli, dove morirono Uwe Rusch e Horst Meyer. Giovanni Nenci, un operaio argentiere che abitava nella zona, si presenta spontaneamente ai carabinieri e dice di aver visto nella piazzola non solo il camper dei due tedeschi ma anche una macchina sportiva con la parte posteriore tronca e di colore rosso. […] Ma nessuno […] approfondì la segnalazione. […]
La testimonianza più sconvolgente, dice Giuttari alla corte, è quella di Maria Grazia Frigo a proposito del delitto di Vicchio, nell’84. La signora avrebbe ben visto un uomo su una macchina che procedeva a grande velocità intorno a mezzanotte, a due passi dal luogo dove i due ragazzi erano stati uccisi. Lo disse ai carabinieri, ma della sua deposizione non c’è traccia.
L’investigatore, formalmente, se la prende con i criminologi: «Posso soltanto dire che queste testimonianze citate sono tutte testimonianze importanti […] Il fatto che non siano state portate alla valutazione – io non ho fatto la prima indagine – è perché probabilmente c’è stato un condizionamento in quell’inchiesta dei risultati dei periti criminologi, che sostenevano con fermezza che l’autore di quei delitti era un serial killer solitario. E quindi tutte le circostanze che portavano alla presenza di più macchine e quindi di più persone non interessavano a quella ricostruzione sposata dagli investigatori dell’epoca che però è stata smentita dai fatti. I fatti sono questi qua. Sono dati oggettivi che non si potevano non registrare: sono persone serie, umiliate perché non credute, convinte di fare il loro dovere».

Significativo anche il titolo dell’articolo uscito su “Repubblica” in cronaca di Firenze: “Mostro, il superpoliziotto accusa: Indagini sbagliate qualcuno poteva salvarsi” (qui, qui e qui), mentre “La Nazione” attribuì allo stesso Giuttari la seguente frase: “Quattro vittime del mostro potevano essere salvate”, scritta a grandi caratteri sopra una foto che ritraeva l’investigatore attorniato dai microfoni dei giornalisti.
Letti i giornali, Carlo Papini, segretario del S.A.P. (Sindacato Autonomo di Polizia), fece affiggere in tutte le bacheche sindacali degli uffici dipendenti dalla questura di Firenze un durissimo comunicato (vedi):

Solo due righe perché ci sentiamo in dovere, come rappresentanti dei Poliziotti, di chiedere scusa alle persone presenti in aula che hanno ascoltato le dichiarazioni del Dirigente la Squadra Mobile Fiorentina, Dott. Michele GIUTTARI, e riassunte dagli organi d'informazione nella frase "QUATTRO VITTIME DEL MOSTRO POTEVANO ESSERE SALVATE".
La cosa ci sembra molto grave, sia per la deontologia professionale che avrebbe dovuto portare il Dott. GIUTTARI solo all'escussione dei fatti che lo hanno indirizzato al coinvolgimento nell'inchiesta di altre persone e non alle valutazioni personali di errori commessi dagli investigatori precedenti.
Le dichiarazioni rese dal Dott. GIUTTARI sarebbero dovute rimanere nella pertinenza del processo che si stava svolgendo, tenendo conto che ogni parola detta nel dibattimento, anche se emessa senza pensarci troppo (o pensandoci molto) screditando l'operato di altri Poliziotti, viene ascoltata oltre che dai giornalisti (utili sempre per far carriera ed emarginati quando non sono in sintonia con la Dirigenza N.d.R.) anche dai familiari delle vittime che dopo la sofferenza straziante trascorsa in questi anni per la perdita di una persona cara, hanno dovuto sentirsi dire dalla stessa Polizia che si sarebbero potuti salvare e potevano essere sempre lì insieme a loro.
Chiediamo di nuovo scusa ai familiari che sono passati in secondo ordine lasciando il posto a lotte interne per un posto Dirigenziale più ambito, a cui la risoluzione del caso "mostro di Firenze" porterebbe.
Il Dott. GIUTTARI, che giorni fa dichiarava sui giornali "che qualcuno vuol gettare fango sulla Polizia di Stato", non si è accorto che con le sue dichiarazioni si è trasformato proprio in uno di loro, con la differenza che oggi si sta parlando senza pensare al dolore delle famiglie coinvolte.
In ultimo vogliamo porgere gli auguri per il nuovo incarico del Dott. GIUTTARI e cioè di nuovo Dirigente il Centro Criminalpol Toscana di Firenze.
Ancora scusa a tutti.

Immediata partì la denuncia di Giuttari per diffamazione contro Papini. Vedremo tra non molto come andò a finire, intanto è il caso di spendere qualche parola sulla possibilità che, se si fosse indagato sulla Fiat 128 rossa vista a Giogoli da Giovanni Nenci, si sarebbero potuti evitare i due delitti successivi. Va però premesso che difficilmente Giuttari poté esprimere un giudizio così diretto di fronte ai giornalisti, i quali comunque quello intesero (in effetti pare che quel 23 giugno la sua risposta a una domanda in tal senso fosse stata questa: “Io questo non l’ho detto, certamente i miei colleghi avranno lavorato bene, fatto di tutto, io ho riferito i fatti, le conclusioni non le posso fare io…”). Poi: l’auto poteva anche essere stata quella di Giancarlo Lotti – anzi, chi scrive lo ritiene probabile –, però il presupporlo andava contro la credibilità dello stesso Lotti, che lo aveva sempre negato, affermando invece di essere stato condotto sulla piazzola quella stessa sera da Vanni e Pacciani, senza alcun preavviso.

La teste Frigo. Nella deposizione del 23 giugno 1997, Giuttari aveva insistito moltissimo su uno dei “testimoni dimenticati”, l’imprenditrice Maria Grazia Frigo. Rincasando dopo essere stata ospite di amici, la donna avrebbe visto due auto – una bianca di modello Ford guidata da Pacciani, una a coda tronca di colore rosso sbiadito guidata da una persona di fisionomia simile a quella di Lotti – su una sterrata non lontana dalla piazzola di Vicchio la notte del delitto. Senza riserva le lodi alla sua affidabilità:

La signora è molto precisa ha, una memoria devo dire, formidabile ed è stata molto, molto precisa. […]
Vedremo che è una testimone che mi ha impressionato veramente in una maniera eccezionale, positivamente e che devo dire, quando l'ho sentito, era mortificata perché non era stata quasi creduta nel '92, quando si era presentata spontaneamente”.

Abbiamo già visto (qui) che in realtà la testimone era pronta a tutto pur di rendersi utile, anche a modificare totalmente i propri ricordi. Ecco una breve sintesi delle sue dichiarazioni.
Dopo aver taciuto per otto anni sullo strano incontro, il 2 dicembre 1992 la Frigo telefonò a Canessa (vedi) dichiarando di aver visto Pacciani alla guida di un’auto rossa. Sentita due giorni dopo dalla SAM (vedi), quell’auto divenne genericamente scura. Il relativo verbale fu trasmesso a Canessa (vedi), che decise di non convocarla al processo, suscitando il suo vivo disappunto. Segnalata al PM – assieme ad altri testimoni, erano i tempi della ricerca di un’auto rossa – nella nota SAM del 12 ottobre 1995 (vedi), il 26 marzo 1996 venne interrogata da Giuttari (vedi), e il successivo 29 condotta sui luoghi (vedi), con il sorprendente risultato che le auto divennero due: una bianca guidata da Pacciani, una rossa guidata da Lotti. Con nota del 30 marzo (vedi) Giuttari segnalò la testimonianza alla procura, valorizzandola moltissimo. Infine il 15 aprile la donna venne sentita da Vigna e Canessa (vedi).
La signora Frigo rilasciò la propria deposizione il 7 luglio 1997 (vedi), suscitando molte perplessità. Di fronte alle contestazioni di Pepi e Bagattini, difensori di Vanni e Faggi, cercò di cavarsela come meglio poteva ma senza convincere nessuno. Bagattini la incalzò in particolare sulle differenze di colore dell’unica auto della quale aveva detto nella telefonata del 1992 a Canessa (rossa), e nell’audizione di due giorni dopo davanti alla SAM (scura). Dopo aver cercato inutilmente di uscire dall'angolo affermando di essersi confusa con la seconda auto – della quale però avrebbe detto soltanto quattro anni dopo – la donna lanciò pesanti accuse alla serietà di chi l’aveva ascoltata:

Frigo: Durante questo interrogatorio ho guardato tutte le fotografie. Senza esitazione ho trovato quella che corrispondeva a quello che a me interessava per il mio ricordo della persona che avevo visto nella macchina bianca. Era tutto un via vai di entro dall'ufficio, esco dall'ufficio, tipo andare a consultarsi con qualcuno, una cosa e un'altra. Poi, a un certo punto, io ho accusato una certa fretta di stilare il verbale, perché, insomma, bisognava chiudere, diciamo, quella... come si può chiamare? Verbale. […] E una di queste persone ha detto: «Non possiamo scrivere del colore bianco, perché la signora ha detto al PM. che era rossa, e quindi diciamo genericamente che è scura».
Bagattini: «Genericamente che è scura», scusi?
Frigo: Cioè, per loro non era particolarmente importante che si segnasse...
Bagattini: E questo, scusi signora, nonostante che lei avesse fatto presente: «Ma guardate che io l'ho vista, bianca»?
Frigo: Ascolti, può darsi che anche io, dopo due ore fossi stata un po' giù di tono. Per me la cosa importante, quella che io ritenevo importante, era che avevo riconosciuto la persona che avevo visto quella sera. [...]
Bagattini: Comunque, ecco, questa frase «Non voglio esprimermi con assoluta certezza, anche se ritengo che propendesse sullo scuro»...
Frigo: Come le ripeto, è stata una decisione delle persone che stavano in ufficio. Mi dice: «Guarda, al PM la signora ha detto che era rossa, non possiamo scrivere che era bianca. Allora mettiamo genericamente che era scura».
Avevano tutti una gran premura di andare a mangiare, scusi se glielo dico.

Poco dopo che la donna fu congedata, intervenne Pepi:

All'esito delle dichiarazioni oggi rese dalla Frigo Maria Grazia, chiedo che la Corte voglia sentire immediatamente – ovviamente nei tempi necessari, quindi magari domani – i verbalizzanti dell'interrogatorio 04/12/92, che sarebbero l'ispettore Lamperi, Frillici, Di Genova e Scirocchi. Mi pare che tre di questi sono già indicati anche dal Pubblico Ministero nella lista.
Io chiedo l'audizione soprattutto a chiarimento di queste affermazioni fatte dalla Frigo, perché, a avviso di questo difensore, se emergesse la conferma di quanto la signora Frigo oggi ha dichiarato, vi potrebbero essere anche delle responsabilità di ordine penale di cui la difesa, in questo momento, si riserva eventualmente di esperire le vie necessarie.

Naturalmente i giornalisti presenti non si lasciarono sfuggire l’occasione, e negli articoli del giorno dopo soffiarono sul fuoco delle polemiche, come in questo di “Repubblica” (vedi), intitolato: “«Quella notte vidi l’auto di Pacciani» Ed esplode la polemica con la SAM”, e questo della “Nazione” (vedi), intitolato: “In udienza nuove ombre sulla squadra antimostro”. È bene precisare che nei primi mesi del proprio mandato Giuttari aveva sciolto quanto era rimasto della SAM, due componenti della quale, Riccardo Lamperi e Alessandro Venturini, si erano poi fatti trasferire alla Criminalpol. Lamperi rimase male di fronte a insinuazioni – che si aggiungevano ad altre precedenti – ritenute lesive della propria onorabilità e del proprio lavoro, e volentieri sarebbe andato in aula, come richiesto da Pepi, a fornire le spiegazioni richieste, ma capì presto che ciò non sarebbe mai avvenuto – l’unico dei quattro verbalizzanti chiamato a deporre sarebbe stato Pietro Frillici, il 27 dicembre 1997 (vedi), ma non sulla questione sollevata dalla Frigo. Quindi, assieme all’ex collega Alessandro Venturini, che quasi sempre lo aveva affiancato nel lavoro alla SAM, il 28 luglio 1997 prese carta e penna e indirizzò la propria protesta al vicecapo della Polizia (vedi), in quel momento il ben noto Gianni De Gennaro. Ecco qualche frammento dello scritto:

Duole constatare come da mesi ed in particolare in questi ultimi tempi, in coincidenza dell’avvio del processo di primo grado a carico di VANNI Mario, LOTTI Giancarlo ed altri, siano frequenti gli articoli di giornale pubblicati anche in cronaca nazionale, in cui sono raccolte dichiarazioni secondo cui gli investigatori della SAM […] “hanno dimenticato di valutare nella giusta luce testimonianze ed hanno omesso di compiere le doverose indagini”.
Tali affermazioni, peraltro presenti anche in sede dibattimentale, sono gratuite e false ed inoltre ledono l’onorabilità e la professionalità degli scriventi che  – si ribadisce – non hanno nulla, ma proprio nulla da rimproverarsi.
Tutti gli spunti investigativi di cui si fa ora un gran parlare sono stati da anni rappresentati nella loro interezza e consistenza in atti formali diretti alla A.G. che  – è bene ricordarlo – ha sempre coordinato le indagini.[…]
Alla luce di queste considerazioni e del fatto che l’avvocato Giangualberto PEPI, difensore di VANNI Mario, ha richiesto in dibattimento l’audizione degli uomini della SAM poiché a loro carico potrebbero concretizzarsi anche delle responsabilità penali per aver omesso di portare in giudizio di primo grado contro Pietro PACCIANI delle testimonianze importanti, si fa rilevare come la continua opera di delegittimazione e di svilimento del lavoro da noi svolto unitamente ad altri abbia prodotto i suoi frutti nefasti che hanno instillato nella mente di coloro che seguono il processo l’erronea convinzione che le indagini siano state affidate a persone di scarsa capacità, poco professionali e molto superficiali.
Questa situazione ha determinato nei confronti degli scriventi danni immeritati e gravissimi al loro prestigio ed alla loro onorabilità, ingenerando l’idea sbagliata che tutta la verità sia dovuta “alle attente riletture” che altro non sono che l’utilizzo sistematico dell’ottimo lavoro investigativo già svolto.
Si può concludere con la riflessione secondo la quale la lista dei testi non la compila la polizia giudiziaria, bensì l’ufficio del P.M. il quale, sicuramente ben informato su tutte le testimonianze raccolte – fatte passare ora per inedite o trascurate – decise, molto opportunamente, di portare in primo grado quelle che riteneva più utili per resistere agli attacchi del collegio di difesa in sede di controesame.
Quanto sopra si riferisce, con la speranza che la S.V. vorrà accertare la verità dei fatti sulla base di dati oggettivi.

Il 3 settembre successivo Lamperi e Venturini vennero convocati a Roma nella sede dello SCO (Servizio Centrale Operativo), ufficio della Polizia di Stato che coordina il lavoro di tutte le squadre mobili delle questure italiane. Lì vennero accolti da un funzionario di alto rango, il questore Vincenzo Caso, che li intrattenne in un colloquio insolitamente lungo, dimostrando di comprendere le loro ragioni e dichiarandosi preoccupato per il clima poco sereno creatosi a Firenze tra gli uomini della polizia. Si tenga presente che in quel momento era già in essere la denuncia di Giuttari contro Papini, quindi, al di là dei torti e delle ragioni degli uni e degli altri, si può ben comprendere l’irritazione dei vertici della Polizia di Stato, che senz’altro va ritenuta una significativa componente nella loro futura decisione di trasferire Giuttari.
Prima di concludere il presente paragrafo, è il caso di riportare il giudizio sulla testimonianza Frigo contenuto in sentenza. L’estensore, dopo aver elencato tutta una serie di ragioni che squalificavano la credibilità della teste, scrisse:

Il che sta chiaramente a significare o che la Frigo si è inventata tutto (per la sua mania di protagonismo o per apparire comunque nella vicenda di Vicchio) o che quell’auto non era quella condotta dal Pacciani, come è dato cogliere anche dalle dichiarazioni del Lotti, che ha parlato di un diverso percorso fatto nel viaggio di ritorno dalla piazzola, a delitto avvenuto. […]
Ritiene quindi la Corte di non riconoscere credibilità alla suddetta teste, a prescindere da ogni considerazione sulla certezza dell’asserito riconoscimento del Pacciani e sull’asserita “memoria fotografica” della stessa teste, di cui ha in particolare parlato il marito nella medesima udienza del 7.7.97.

Compagni di sangue. Il processo a Vanni e Lotti si concluse il 24 marzo 1998; appena un mese dopo uscirono le prime notizie su un libro in preparazione. Da “Repubblica” del 25 aprile (vedi):

L'idea di scrivere un libro sul mostro di Firenze l'accarezzava da tempo. Non un romanzo ispirato a uno dei casi di cronaca più inquietanti degli ultimi trent'anni, ma un true crime, ovvero qualcosa di più di un giallo: una narrazione in forma di saggio dove si raccontano fattacci accaduti davvero, appoggiandosi a documenti e prove, rinunciando alla fiction. Quelle di Carlo Lucarelli, il miglior giovane giallista italiano e da qualche mese conduttore televisivo di successo (Mistero in blu, viaggio nei casi irrisolti delle cronaca nera italiana) sono prove eccellenti: per scrivere il suo libro sui delitti delle coppiette che per anni hanno seminato l'incubo nella campagna toscana (probabile titolo Compagni di sangue, lo pubblicherà a metà maggio la casa editrice Le Lettere), ha utilizzato i documenti fornitigli da Michele Giuttari, capo della squadra mobile di Firenze: interrogatori, verbali dei processi e delle deposizioni in folkloristico vernacolo toscano, che Lucarelli ha inserito senza cambiare una virgola, mantenendo integro il tono grottesco. Il libro uscirà a doppia firma “e sarà strutturato in tre parti – racconta Lucarelli – una iniziale e una finale, scritta in terza persona, dove è il giallista a parlare, a raccontare i fatti dall'esterno; in mezzo, una corposa porzione in prima persona dove la parola passa a chi ha condotto le indagini.

Il 18 maggio Giuttari e Lucarelli presentarono il libro in una conferenza stampa alla quale era presente anche Canessa. Come prevedibile, l’attenzione maggiore non fu per le vicende, oramai chiuse, di Vanni, Lotti e Pacciani, ma per gli sviluppi delle indagini verso i mandanti, una pista che il libro abbondantemente adombrava. L’argomento fu oggetto di dibattito al Maurizio Costanzo Show del giorno dopo, dove erano presenti Lucarelli, Nino Filastò, Francesco Bruno, Renzo Rontini, Gianpaolo Curandai e Ugo Fornari. Anche Giuttari avrebbe dovuto essere della partita, ma i suoi superiori lo bloccarono: “Sarebbe stata l’occasione di far sentire per una volta anche la voce di chi ha fatto l’indagine. Ma sono un funzionario di polizia e quindi obbedisco ai miei superiori” (“L’Unità”, 19 maggio 1998, vedi).
Purtroppo la registrazione del programma non è nelle disponibilità di chi scrive; peccato, poiché sarebbe stato interessante ascoltare le bibliche sciocchezze pronunciate in quella che dovette essere stata una gara, senza esclusione di colpi, a chi la sparava più grossa. Accontentiamoci di questo resoconto apparso sulle pagine fiorentine di “Repubblica” del 20 maggio (vedi):

Un mandante ricco, colto e potente che usa i rozzi compagni di merende come massacratori delle coppie e poi interviene sulla scena del delitto, forse per eseguire personalmente le mutilazioni. È lo scenario che emerge dalle ultime indagini sui delitti del mostro.
«Credevo di avere delle idee, adesso non le ho più. Sono confuso», sintetizza Maurizio Costanzo al termine del dibattito andato in onda ieri su Canale 5 su Compagni di sangue, il libro scritto dal giallista Carlo Lucarelli e dal capo della squadra mobile Michele Giuttari. Lanciando l'ipotesi di un mandante ricco, raffinato, medico, anzi ginecologo, un Doctor Jeckill in micidiale connubio con un Mister Hyde rappresentato da Pacciani e C., e gettando qualche fascio di luce sull'inchiesta ter sui delitti, il libro ha già scatenato notevoli polemiche. La trasmissione di Costanzo, a cui Giuttari non ha potuto partecipare, probabilmente le dilaterà.
Confrontandosi con Carlo Lucarelli, con Renzo Rontini, con il criminologo Francesco Bruno (che ha fatto sensazione sostenendo che a suo avviso il mostro è probabilmente l'esponente di una nobile famiglia toscana), e con gli avvocati Nino Filastò, difensore di Vanni, e con l'avvocato Giampaolo Curandai di parte civile, lo psichiatra forense Ugo Fornari ha rivelato dettagli inediti sulla nuova inchiesta. «Sto lavorando sul secondo livello dei delitti, per incarico della procura di Firenze», ha spiegato il professore, che da anni fa con il collega Lagazzi ha eseguito una consulenza psichiatrica su Giancarlo Lotti, il «compagno pentito». «Alcune cose non posso dirle. Il materiale trovato nella villa dove viveva il pittore svizzero è molto inquietante». Ci sono, in quel materiale, foto di cadaveri di donna mutilati.
«Avete visto le foto delle vittime del mostro?», chiede il professor Fornari: «Una storia è stata scritta su quei cadaveri». Una storia che bisogna decifrare, a suo avviso, con il metodo della falsificazione, e cioè mettendo continuamente in dubbio ogni ipotesi, «mentre qui ciascuno giura sulla sua verità». «Il materiale esaminato - sostiene il professor Fornari - mi fa pensare che il serial killer usi altre persone per prepararsi il campo. Poi interviene. Potrebbe essere stato lui a eseguire i tagli. Potrebbe essere un necrofilo in preda a un delirio mistico-religioso. E certamente è stato lui ad aprire e rovistare nelle borse delle vittime. La mia ipotesi è che si tratti di una persona non necessariamente toscana, certamente molto ben protetta, forse chiusa in qualche istituto». Parole che aprono orizzonti ancora tutti da sondare. «Questa - avverte Lucarelli - è una vicenda talmente fondamentale nella storia criminale italiana che occorre sviscerarla fino in fondo».

Intanto in procura si erano confrontati Fleury e Canessa, con il primo a far le veci di procuratore capo verso il collega più giovane. Nella medesima pagina di cui sopra si poteva leggere:

Prima una riunione a quattr’occhi, l’aggiunto Francesco Fleury e il sostituto Paolo Canessa. Dopo la conferenza per presentare il libro-bomba «Compagni di sangue» scritto dal capo della quadra mobile Michele Giuttari, non si erano ancora confrontati. Poi con molta calma ma altrettanta franchezza, arriva il commento secco di Fleury.
«Stiamo valutando se in quelle pagine c'è stata una violazione del segreto istruttorio. Di sicuro non è stato opportuno rivelare certi particolari ed è altrettanto sicuro che gli argomenti di questo libro ce li troveremo pari pari dei motivi di appello della difesa alla sentenza ai compagni di merende».
Insomma un libro che poteva essere evitato, per contenuti e tempi di uscita. E che potrebbe costare qualche fastidio anche a chi lo ha scritto […]
Fleury dice che «la procura sta valutando e che non è solita anticipare le proprie iniziative a mezzo stampa […]. Sui mandanti dei duplici delitti del mostro c'è un'indagine in corso su cui questo ufficio sta lavorando da tempo e di cui non abbiamo intenzione di parlare. E questo sia chiaro non vuol dire confermare quello che si ipotizza nel libro». […]
Paolo Canessa non ha voluto commentare il contenuto del libro. Lunedì mattina era presente alla conferenza stampa di presentazione. Ma appena le domande dei giornalisti si sono accentrate sui particolari dell’inchiesta ter, quella sui mandanti dei delitti, Canessa ha immediatamente lasciato l’aula dell’hotel Baglioni.

A Giuttari la reprimenda di Fleury non fece né caldo né freddo, come si deduce da un’intervista da lui rilasciata allo stesso quotidiano, e pubblicata il 21 (vedi). Eccone qualche stralcio:

Pentito di avere scritto il libro?
No, assolutamente, ci ho pensato molto prima di dire sì alla casa editrice Le Lettere. Ma ora rifarei esattamente quello che ho fatto. Perché i bisogni che mi hanno spinto sono ancora forti dentro di me.
Quali bisogni?
Volevo far riflettere sull’inchiesta bis. Alcuni elementi hanno reso la vicenda unica e irripetibile. La durata dei delitti, il dolore infinito di tanti familiari, l’incredibile mondo di perversione affiorato giorno dopo giorno. […]
Resta il fatto che molti non hanno gradito l’idea del libro. A cominciare dai magistrati fiorentini. Addirittura in procura sembrano decisi a non affidarle più le indagini. È vero?
Non mi risulta. La delega ce l’ho io, e continuerò il mio lavoro come sempre. […]
E il particolare del blocco da disegno sequestrato al pittore svizzero simile a quello sequestrato a Pacciani, che secondo l’accusa era di uno dei tedeschi uccisi nell’83?
È un’analogia inquietante, ma da valutare. Al momento sappiamo solo che Pacciani e il pittore svizzero hanno frequentato la stessa villa di San Casciano.
Probabilmente proprio perché è un episodio da valutare la procura preferiva tenerlo segreto.
Ma è significativo, come gli altri contenuti del libro. E io volevo che la gente conoscesse per la prima volta tutta la storia dell’inchiesta. Non da un altro, ma da chi l’ha vissuta dall’interno. Il racconto dell’investigatore insomma, qualcosa di diverso dai tanti libri scritti finora sul mostro con presupposti e obiettivi differenti dal mio.
Quasi uno sfogo?
No, nessuno sfogo, ma un messaggio.
Lanciato a chi?
Al mandante dei delitti della calibro 22. A chi finora è rimasto nell’ombra e continua a nascondersi dietro le quinte. Un modo per avvisarlo e dirgli: so che ci sei e lavorerò per scoprirti.

Il lettore capisce anche da sé quanto poco plausibili suonassero le parole di Giuttari, la cui discutibile iniziativa poteva essere nata soltanto da ambizioni personali – legittime certo, ma anche poco opportune, considerata la sua posizione –, come dimostrava la presenza di un coautore giallista di grande successo e come la storia futura avrebbe confermato. Poi, in un articolo del settimanale “Panorama” uscito in quei giorni (numero 1676 datato 28 maggio 1998, vedi), Giuttari rincarò la dose, affermando: “Mi hanno tappato la bocca. Sono un poliziotto e obbedisco, ma con molta amarezza: un funzionario avrebbe anche il diritto e il dovere di contribuire ad una corretta informazione su vicende come i 16 omicidi di Firenze”. Per di più il giornalista firmatario dell’articolo – Maurizio Bono – si lanciava in considerazioni molto irriguardose verso funzionari di grande prestigio:

Un poliziotto descrive in un libro verità l’indagine su Pacciani & C. e gli errori dei colleghi. Ma viene zittito. Ecco perché.
[…] la ragione va cercata forse nelle pagine in cui narra come si è imbattuto negli errori di colleghi e giudici che l’hanno preceduto: ‘indizi trascurati’, ‘testimoni incomprensibilmente dimenticati’. Come quella signora dal grande senso civico, Maria Grazia Frigo che sentì sparare e tornando […] vide in faccia il guidatore […]. E lo disse nel 1992 ma non fu presa in considerazione […]
Qui sta il bello. Quasi tutti i protagonisti dell’inchiesta scalcinata hanno fatto nel frattempo carriera. Piero Luigi Vigna, pubblico ministero a Firenze dall’inizio delle indagini, è ora a capo della Procura Antimafia. Uno dei sostituti incaricati delle indagini, Silvia Della Monica, adesso ha per le mani a Perugia l’inchiesta bollente sull’alta velocità. La Squadra Antimostro era coordinata dal Capo del Nucleo Centrale Anticrimine Gianni De Gennaro, da poco vicario del Capo della Polizia Fernando Masone. Il funzionario che dirigeva la squadra regge da allora l’Unità analisi crimine violento, vantato gioiello tecnologico dell’indagine all’americana. Che sfortuna, Giuttari: la sua carriera la stava facendo anche lui… Ora invece circola la voce di un trasferimento per aver detto la sua.

Pur se le frasi precedenti non gli erano state messe in bocca, agli occhi di qualsiasi lettore – quindi anche a quelli dei propri superiori – Giuttari risultava comunque responsabile del loro contenuto, almeno moralmente. Tra l’altro vale la pena ricordare che le pagine del libro avevano messo in piazza i sospetti su persone rivelatesi poi del tutto innocenti, come la vedova di Zucconi e le proprietarie della villa di San Casciano della quale era stato ospite il pittore svizzero.

Problemi giudiziari. Un mese dopo la presentazione del libro, il 18 giugno, venne archiviata la denuncia di Giuttari verso Papini. Nella sostanza il giudice per le indagini preliminari, Giuseppe Soresina, ritenne che le affermazioni di Papini fossero sì state gravi, ma non abbastanza da costituire reato, se commisurate all’eccessivo protagonismo di Giuttari. Dalla sentenza (qui):

Le dichiarazioni pubbliche successive, e il libro dato alle stampe, dimostrano nella sostanza la correttezza della lettura fatta a suo tempo delle interviste seguite alla deposizione dibattimentale, vale a dire l’atteggiamento fortemente critico nei confronti dei colleghi i quali avevano investigato sugli omicidi seriali, e l’essere tale atteggiamento critico non limitato al dissenso sulle scelte investigative, ma allargato a vere e proprie censure di dimenticanza, dunque di negligenza, d’incapacità.
Coerente con tali censure era la forte affermazione pubblica del proprio ruolo centrale e, si direbbe, la vera e propria personalizzazione dell’inchiesta e dei suoi risultati, giunta fino alla pubblicazione di un volume nel quale il proprio ruolo, in ciò che si era compiuto nell’esercizio di una pubblica funzione, relativamente a grave vicenda processuale tuttora al vaglio della magistratura giudicante, veniva esaltato tanto quanto era riprovato il ruolo dei predecessori simile esaltazione traendo alimento proprio dalla auto riconosciutasi capacità di valorizzare elementi dimenticati colposamente da altri.
Non essendo qui in discussione l’opportunità, o meno, di ergersi a protagonista pubblico di una vicenda processuale vissuta dall’interno quale inquirente e quale testimone nella veste di ufficiale di polizia giudiziaria, è peraltro evidente come tale atteggiamento di esaltazione pubblica del proprio ruolo e della propria abilità investigativa, anche attraverso gli apprezzamenti pesantemente negativi verso i colleghi suoi predecessori nell’inchiesta, autorizzasse il rappresentante sindacale, nella cura degli interessi di costoro, a registrarsi su toni altrimenti eccedenti i limiti della legittima critica.
L’attribuzione del perseguimento da parte del dr. Giuttari di scopi di carriera, dimentico delle ulteriori sofferenze per i familiari della vittime, è infatti critica aspra, a sua volta demolitrice, impropria e tendenziosa, la quale peraltro trova giustificazione sul piano della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 595 cod. pen. in tale atteggiamento di esasperata personalizzazione e autoesaltazione, tenuto al di fuori delle sedi istituzionali proprie del pubblico ufficiale che aveva operato nell’ambito della propria funzione di polizia giudiziaria, e tale quindi da rendere penalisticamente tollerabili le allusioni in questione, con cui si dava risposta al plausibile interrogativo suscitato dalla volontaria assunzione di un’immagine e di un ruolo presso il pubblico, ultronei rispetto a quelli istituzionali (e da ultimo clamorosamente confermati con il dare alle stampe addirittura un volume contenente la narrazione in prima persona, fortemente autogratificante).

Balza agli occhi la dura critica del giudice all’immagine pubblica che si era dato Giuttari, dalla quale anch’egli trasse il sospetto di ambizioni travalicanti il suo ruolo istituzionale di dirigente della Polizia di Stato.
Preoccupati per ulteriori denigrazioni del loro lavoro, già alle prime notizie sull’uscita del libro Lamperi e Venturini avevano inviato una lettera di protesta a Piero Luigi Vigna, capo dell’antimafia (29 aprile 1998, vedi), riportante più o meno il medesimo testo di quella del luglio dell’anno prima indirizzata a Gianni De Gennaro. Infine, dopo la presentazione ufficiale e il can can mediatico conseguente, i due ex uomini della SAM saltarono il fosso e il 22 maggio successivo sporsero formale denuncia inviando una lettera a Fleury (vedi) nella quale chiedevano di verificare se in Compagni di sangue fosse ravvisabile il reato di diffamazione nei loro confronti. Si legge nel documento:

In particolare si segnala il capitolo intitolato “L’INCHIESTA - I testimoni dimenticati” ove il funzionario di polizia, parlando in prima persona, dichiara ripetutamente (pagg. 30-31-32-34-35-37-41-42) che numerose testimonianze importanti erano state trascurate dagli investigatori della SAM, i quali non avevano ritenuto, inspiegabilmente, di utilizzarle nel dibattimento di primo grado a carico di PACCIANI Pietro. Solo grazie alla sua “rilettura” queste testimonianze erano state riesumate dall'oblio ove erano state colpevolmente riposte e l’indagine aveva potuto decollare e riprendere nuovo vigore.
È di tutta evidenza come tali affermazioni, peraltro assolutamente confutabili come si dimostrerà qui di seguito, insinuino nei lettori la convinzione che gli investigatori della SAM furono un manipolo di persone superficiali, incapaci e incompetenti. […]

La lettera approfondisce la testimonianza Frigo, proprio quella su cui più si era concentrata la critica di Giuttari.

Alla luce di queste considerazioni e del fatto che l'avvocato Giangualberto PEPI, primo difensore di VANNI Mario, richiese in dibattimento l'audizione degli uomini della SAM poiché a loro carico avrebbero potuto concretizzarsi anche delle responsabilità penali per aver omesso di portare in giudizio di primo grado contro Pietro PACCIANI delle testimonianze importanti (il riferimento è in particolare, tra 1e altre numerosissime, alla deposizione di Maria Grazia FRIGO e alle totali discordanze tra le dichiarazioni rese ripetutamente da questa alla SAM e al PM nel 1992, con quelle rese successivamente dalla donna al  nuovo dirigente della Squadra Mobile), si fa rilevare come la continua opera di delegittimazione e di svilimento del 1avoro  da noi svolto, unitamente ad altri, abbia prodotto i suoi frutti nefasti che hanno instillato nella mente di coloro che hanno seguito i1 processo l'erronea convinzione che 1e indagini furono affidate a persone di scarsa capacità, poco professionali e molto superficiali.
Si aggiunge che per quanta riguarda specificamente la deposizione della FRIGO innanzi a1 dirigente della Mobile (pagg. da 130 a 139) È BENE CHE SI SAPPIA che i coniugi BIANCHI (BIANCHI Edmondo e FALCHETTI Lydia) furono sentiti dalla SAM direttamente e in tempi diversi – non solo per telefono come afferma GIUTTARI – presso l'ufficio dell‘uomo […] presso la loro abitazione […]. In entrambi i casi dichiararono di conoscere la coppia FRIGO/BERTACCINI ma di non ricordare assolutamente se questi ultimi erano stati loro ospiti la sera del duplice omicidio di Vicchio.
Anche il marito della FRIGO, signor BERTACCINI Giampaolo, sentito dalla SAM e dal ROS presso la sua abitazione, dichiarò di non poter confermare in alcun modo il racconto della moglie perché non ricordava nulla dell’episodio riferito dalla donna.
Per opportunità, cioè per non pregiudicare un eventuale futuro utilizzo della testimonianza FRIGO, che conteneva indubitabili ed interessanti elementi di contatto con il racconto dei coniugi CAINI/MARTELLI, fu deciso di non formalizzare in alcun modo queste testimonianze così negative perché avrebbero potuto invalidare (anche in forma di semplice relazione di servizio) uno spunto investigativo da poter sfruttare utilmente in un prossimo futuro.

Viene toccato anche l’argomento della macchina rossa di Lotti:

Questa denuncia-querela non ha sinora toccato un altro aspetto, certamente non secondario e, a nostro avviso gravissimo, circa i1 modo con il quale sono rappresentati da GIUTTARI ai lettori i fatti oggetto dei successivi capitoli a quello de “I testimoni dimenticati”. Egli parla in prima persona come il dominus dell'indagine attribuendosi interamente attività e meriti non suoi, come, ad esempio, l‘identificazione dell’auto FIAT 128 sport coupé di colore rosso sbiadito intestata a LOTTI Giancarlo.
Si ricorda che GIUTTARI, da una sua prima “rilettura” della fine del 1995 aveva concentrato la sua attenzione su una vettura Volkswagen Maggiolino di colore rosso aragosta e che la predetta FIAT 128 coupé rossa emergeva con tutta chiarezza da una annotazione da noi redatta, unitamente all'Agente Sc. Lidia SCIROCCHI, in data 26.07.1994, circa l'attività di indagine svolta circa la presenza del PACCIANI Pietro a Signa, le sue frequentazioni con VANNI Mario e LOTTI Giancarlo e i rapporti di questi ultimi con Nicoletti Filippa.

Si muove il Ministero. A questo punto il lettore dovrebbe aver chiaro lo scenario generale in cui i vertici della Polizia, il 20 agosto 1998, comunicarono a Giuttari il suo trasferimento ad altra questura. È pacifico che le loro motivazioni nulla avevano a che fare con la necessità di tener fuori dalle indagini qualche personaggio importante, come tanti oggi pensano, ma riguardavano il clima poco sereno che si era creato in questura e in procura a Firenze.
È notorio tra gli addetti ai lavori come anche le più sgradite disposizioni del Viminale non ammettano repliche, pena il pericolo di incorrere in provvedimenti ancora più severi. Ma in questo caso al Ministero avevano fatto i conti senza l’oste, come avrebbero dimostrato gli eventi successivi. Da Il Mostro:

Tornato a Firenze senza perdere tempo metto al corrente Paolo Canessa, che più stupito di me scrive subito ad Antonino Guttadauro che nel frattempo ha sostituito Piero Luigi Vigna al vertice della Procura di Firenze. È una lettera fermissima che conclude dicendo senza mezzi termini che “nell'ipotesi del trasferimento ci sarebbe una responsabilità sul punto dello stesso ufficio della Procura della Repubblica essendo il funzionario impegnato nelle indagini e, in particolare, in quel filone che mira a far luce sul mandante dei duplici omicidi che, secondo le risultanze dibattimentali, sarebbe stato un medico conoscente di Pacciani”.

Giuttari seppe giocare più che bene le proprie carte, approfittando dell'errore del Ministero che evidentemente non si era accertato a sufficienza del bisogno che avevano di lui in procura. Se infatti la Polizia a livello gerarchico dipende dal Ministero dell’Interno, nello spostarne i dirigenti questo deve tener conto delle esigenze dei magistrati per i quali detti dirigenti stanno eventualmente lavorando. Ecco quindi che Giuttari chiese aiuto a Canessa, il quale prese carta e penna e scrisse al proprio capo, l’anziano e stanco Antonino Guttadauro ormai prossimo alla pensione.
Evidentemente Guttadauro trovò il modo di farsi ascoltare e bloccò il trasferimento. Intanto però i motivi di malumore nell’ambiente della questura non si placavano. Il SAP si fece forte della sentenza Papini per attaccare Giuttari (“Il Giornale”, 28 novembre 1998, vedi) chiedendo i danni. Si aggiunsero persino questioni politiche, incentrate su presunti rapporti privilegiati dell’investigatore con il PDS. Dall’edizione fiorentina di “Repubblica” del 28 novembre 1998 (vedi):

«BATTITORE libero o inviato molto speciale?». Che ci fa tutti i giorni in questura il responsabile della sicurezza dcl Pds? Lo chiede l'onorevole Roberto Tortoli di Forza Italia, che annuncia una interrogazione parlamentare sulla vicenda riferita ieri da «Repubblica». II responsabile della  sicurezza del Pds «da un po' di tempo sarebbe di casa negli uffici della questura di Firenze»: «Una presenza giornaliera, sempre a contatto con i funzionari con i quali avrebbe colloqui anche a porte chiuse per informazioni, per conoscere il come e il perché dell'inchiesta sul mostro o di altre indagini della polizia».
«Perché, a qual fine?», chiede l’onorevole Tortoli, che si rivolgerà al Ministro dell'Interno per sapere «se risponde a verità quanto è stato pubblicato sulla stampa e le motivazioni di una presenza così assidua e così inusuale negli uffici della Questura di Firenze». In ogni caso l'onorevole Tortoli chiede «che sia ristabilito un clima di garanzia e imparzialità rispetto a qualsiasi eventuale influenza politica sulla questura di Firenze».

Dal canto suo Giuttari continuò a buttare benzina sul fuoco – al posto dell’acqua che di sicuro sarebbe stata più opportuna – con la poco nota vicenda della presunta frode processuale sulla cartuccia di Pacciani.

La cartuccia Pacciani. I quotidiani del 4 febbraio 1999 dettero notizia dell’esistenza di un clamoroso rapporto inviato dalla questura alla procura. Leggiamo il resoconto de “L’Unità” (vedi):

Qualcuno ha barato? Qualcuno ha nascosto filmati, registrazioni e carte? Qualcuno ha fatto sì che al processo arrivasse una documentazione «monca» e, in quanto tale, fuorviante per chi doveva giudicare? Fatti gravi, anche se si fosse trattato di una semplice vicenda di ladri di polli. Ma ancora più gravi perché le «manomissioni» avrebbero riguardato il processo sul «mostro di Firenze», che in primo grado si era concluso con la condanna all'ergastolo di Pietro Pacciani. Ora, a distanza di anni, stanno emergendo spezzoni di un'altra verità.
Fatti, documenti. Tutti diligentemente annotati in un rapporto alto un palmo che la squadra mobile ha inviato alla procura di Firenze. Un rapporto che può davvero essere definito esplosivo. Destinato a provocare polemiche, sconquassi e una severissima inchiesta giudiziaria per frode processuale, abuso di potere, falsa testimonianza e quant’altro. Il tutto mentre riprende vigore un vecchio sospetto: qualcuno fabbricò ad arte alcune prove per incastrare Pacciani? […]
Nel 1992 – secondo la versione data all'epoca – il proiettile venne ritrovato durante una mega-perquisizione nell’orto di Pacciani, infilato nel foro di un paletto di cemento, di quelli utilizzati per sostenere i filari di vite. La scoperta – fu detto – sarebbe stata fatta personalmente dal commissario capo Ruggero Perugini […]. «Vidi uno scintillio – raccontò il funzionario davanti alla corte d’Assise – passando davanti al paletto spezzato, che in precedenza era stato rimosso».
Perugini, a quel punto, chiese l'intervento di un operatore della scientifica che filmò tutta l’operazione, ricavandone quattordici cassette. Quella versione, adesso, è messa in discussione dalla squadra mobile. Infatti gli investigatori hanno scoperto che una parte di quei filmati non sono mai arrivati in Corte d'Assise e, quindi, non sono stati visionati né dai giudici, né dai difensori dell'imputato.
Un fatto – viene rilevato – molto strano per un semplice motivo: il filmato (corredato dal sonoro) era stato «depurato» di un passaggio significativo. Infatti, ad un tratto, si sentirebbe distintamente la voce di Perugini chiedere a mezza bocca ad un poliziotto non ancora identificato: «Sei tu che l’hai notato?». Al che il poliziotto risponderebbe affermativamente. Una frase che dimostrerebbe, secondo il rapporto della squadra mobile, che l’autore materiale del ritrovamento non sarebbe il capo della Sam. […]
Ma come si è giunti a ipotizzare questo nuovo scenario? Lo spunto è venuto dall’avvocato Pietro Fioravanti, difensore di Pietro Pacciani, il quale, ascoltato nell’ambito dell’inchiesta ter sui mandanti, ha fornito alcuni spunti sulla vicenda del proiettile che poi si sono rivelati non privi di fondamento. […]
E adesso? La parola passa di nuovo alla procura di Firenze. Quello che è certo è che il rapporto della squadra mobile è durissimo: qualcuno – si sostiene – ha barato. Qualcuno ha tenuto nascosti ai giudici filmati e registrazioni. Qualcuno ha avallato verbali irregolari. Chi? Lo dovranno dire le prossime indagini. Di fronte ad un rapporto tanto duro quanto circostanziato, non sarà facile fare finta di nulla.

Naturalmente nessuno aveva interesse a riaprire una questione del genere, quindi il rapporto di Giuttari creò non pochi imbarazzi in procura: “«Una guerra fra bande» si mormora con fastidio in procura, sottointeso fra bande di poliziotti. Ci sono nuovi strascichi al veleno per il processo sul mostro di Firenze” (“la Repubblica”, 5 febbraio 1999, vedi); “Imbarazzo. Sconcerto. E una lunga riunione in procura tra i magistrati che si occupano dell’inchiesta-ter (quella sui mandanti) sul mostro di Firenze. Sul loro tavolo il durissimo rapporto della mobile fiorentina […]” (“L’Unità”, 5 febbraio 1999, vedi).
Peraltro non si comprende quale giovamento avrebbero potuto trarre le indagini di Giuttari sui mandanti dal mettere sulla graticola Ruggero Perugini, che già molto prima del suo arrivo aveva tolto il disturbo e in seguito aveva evitato ogni interferenza nella nuova inchiesta. Forse con la sua clamorosa iniziativa l’investigatore aveva cercato di valorizzare delle indagini che stentavano a fornire risultati, oppure più facilmente era alla ricerca di pezze d’appoggio per il proprio atteggiamento critico verso l’inchiesta precedente, di cui rischiava a breve di essere chiamato a rispondere in sede penale. In effetti la sua memoria difensiva (6 aprile 1999) per l'udienza preliminare avrebbe richiamato vari passaggi della sentenza Ferri, dove abbondavano le critiche alle indagini di Perugini, compresa la questione della cartuccia, sul rinvenimento della quale si paventava la presenza di “ampie zone d'ombra e di obbiettive e consistenti perplessità in ordine alla genuinità dell'elemento di prova”. In ogni caso tutto finì in niente, poiché non si ha notizia di ulteriori sviluppi.

Il Ministero non demorde, ma invano. È chiaro che il perdurare di questo clima di veleni mantenne alto il livello di preoccupazione negli ambienti dirigenziali di questura, procura e ministero. Negli scambi di comunicazioni più o meno riservate tra gli uffici preposti si stigmatizzavano i difficoltosi rapporti di Giuttari sia con gli organi istituzionali sia con gli stessi agenti e si evidenziava l’opportunità di procedere a una assegnazione ad altro incarico. E infatti il 3 marzo il Ministero reiterò la propria proposta di trasferimento – in questo caso alla questura di Pesaro, mentre della precedente destinazione chi scrive nulla sa – con annesso avanzamento di carriera; ma ancora una volta l’interessato rifiutò di ubbidire.
Dopo aver ascoltato le sue ragioni il 16 febbraio, il 15 marzo il pubblico ministero Rodrigo Merlo chiese il rinvio a giudizio di Giuttari per diffamazione nei confronti di Lamperi e Venturini (vedi), la qual cosa, comunicata per legge, fu senz’altro di ulteriore stimolo al Ministero dell’Interno per inasprire il proprio atteggiamento, fino ad allora tutto sommato paziente. Ottenuto il 20 aprile il nulla osta del Procuratore della Repubblica e il 23 quello del Procuratore Generale – in questo modo cautelandosi da eventuali recriminazioni, come era accaduto in precedenza –, il 14 luglio il Ministero emise un decreto di trasferimento all’Ufficio Stranieri della stessa questura di Firenze, notificato a Giuttari il successivo 5 agosto.
Il provvedimento del Ministero suonò come una punizione (la qual cosa, lo vedremo presto, fu un secondo errore). Immediatamente il sindacato cui era iscritto Giuttari, il S.I.U.L.P. (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia) si fece sentire su tutti i giornali attraverso il proprio segretario Antonio Lanzilli (vedi “la Repubblica” del 7, per esempio): “Si tratta di una punizione, non c’è dubbio, è lampante. Non è certo una promozione, visto che come prestigio la squadra mobile è un gradino superiore all’ufficio stranieri”. C’è da dire che Lanzilli attribuì il provvedimento del Ministero proprio alle polemiche che c’erano state in precedenza, e delle quali abbiamo fin qui discusso, quindi anche per lui niente poteri forti che volevano proteggere chissà chi: “Una punizione per quelle polemiche? Penso proprio di sì”.
Naturalmente anche Giuttari la prese male – da Il Mostro: “Dopo anni di lavoro dedicati a contrastare la criminalità organizzata e mafiosa […] vengo destinato a un ufficio burocratico molto meno importante di quello attuale” –, e probabilmente qualsiasi altro poliziotto a quel punto avrebbe chinato la testa. Ma non lui: dopo essersi messo in aspettativa per motivi di salute – il suo posto fu preso da Gilberto Caldarozzi –, fece ricorso al TAR del Lazio, organo regionale preposto a dirimere i conflitti in materia di pubblica amministrazione (del Lazio poiché il Ministero dell’interno aveva sede a Roma). Richiese poi il trasferimento da Firenze a Prato del proprio procedimento giudiziario per diffamazione – la casa editrice del libro aveva una stamperia a Calenzano, che rientrava sotto la giurisdizione di Prato; in questo modo evitò d'incontrare di nuovo il GIP Giuseppe Soresina, che nel caso Papini non si era mostrato benevolo verso di lui – e denunciò a sua volta Lamperi e Venturini per calunnia (27 settembre).
Chi scrive non ha consultato alcuna documentazione al riguardo, si può però supporre che nel proprio ricorso Giuttari fosse riuscito a dimostrare il carattere punitivo del provvedimento del Ministero, al quale aveva contrapposto i propri indubitabili successi nell’inchiesta sul Mostro, ben evidenziati da tutti gli organi di stampa e stigmatizzati da un elogio del tutto inusuale contenuto nella sentenza di primo grado di condanna a Vanni e Lotti, depositata il 30 luglio 1998:

Dopo la predetta sentenza [condanna di Pacciani in primo grado] venivano quindi riprese ed intensificate le indagini a tutto campo, nel senso indicate dalla Corte di Assise. Ad esse si dedicava in particolar modo il dott. Michele Giuttari, nella sua qualità di nuovo dirigente della Squadra Mobile presso la Questura di Firenze, che, dall'ottobre 1995 (da quando assunse tale carica), vi si applicava con grande impegno e capacità, riuscendo ben presto ad ottenere i primi risultati utili.

In ogni caso il 2 dicembre il TAR dette ragione a Giuttari, sospendendo il provvedimento e costringendo il Ministero a rivolgersi al Consiglio di Stato – l’equivalente di un tribunale di secondo grado –, dove l’8 febbraio 2000 vennero ancora una volta riconosciute le ragioni dell’investigatore.
Al termine del periodo di aspettativa di cui stava usufruendo, il 28 febbraio Giuttari riprese il proprio posto in servizio alla squadra mobile, ma per poco, poiché il 25 marzo il Ministero di nuovo decretò il suo trasferimento all’Ufficio Stranieri. Ancora Giuttari fece ricorso, ma questa volta il provvedimento doveva essere stato motivato meglio, poiché il TAR non ebbe nulla da eccepire. Fu allora Giuttari a rivolgersi al Consiglio di Stato, che il 27 luglio gli dette ragione. A quel punto al Ministero si dichiararono sconfitti, e non emisero altri provvedimenti. Giuttari poté così riprendere stabilmente il proprio posto a capo della squadra mobile e soprattutto le indagini alla ricerca dei mandanti, pressoché ferme da due anni.
Prima di passare a qualche commento sui fatti narrati, un cenno alla conclusione dello scontro con Lamperi e Venturini, su cui chi scrive ha per ora una documentazione soltanto parziale. Il 30 novembre 2000 il PM di Prato, Christine Von Borries, rinviò a giudizio Giuttari per diffamazione, ma il 26 gennaio 2001 il GUP archiviò il procedimento riconoscendo all’imputato l’esercizio del diritto di cronaca. La procura di Firenze, che aveva ancora in capo l’eventuale reato di falsa testimonianza commesso durante il dibattimento – sempre per la questione delle indagini precedenti mal riportate – due giorni prima ne aveva chiesto l’archiviazione. Ultimo atto la sentenza di Francesco Carvisiglia, il quale, nella veste di GIP, il 9 marzo 2001 prosciolse Giuttari dal reato di falsa testimonianza e Lamperi e Venturini da quello di calunnia.
Tutti innocenti, quindi, la qual cosa appare però contraddittoria, poiché almeno una delle due parti avrebbe dovuto trovarsi in torto.

Considerazioni. Probabilmente la stragrande maggioranza dei lettori si sarà molto annoiata nel leggere il presente articolo, nel quale la fanno da padrone diatribe tutte interne alle forze dell’ordine, con la vera e propria vicenda dei delitti del Mostro a fare da debolissimo sfondo. Ma era importante raggiungere un risultato: la dimostrazione che i due anni di blocco delle indagini di Giuttari, da tanti appassionati attribuiti a forze oscure impegnate a proteggere fantomatici mandanti, avevano avuto motivazioni assai più prosaiche. Non erano stati né la massoneria né l’Ordine della Rosa Rossa e della Croce d'Oro Indipendente e Rettificato a voler trasferire Giuttari ad altro incarico, ma un Ministero dell’Interno irritato per la sua esposizione mediatica e preoccupato per i conflitti da essa suscitati.
La vittoria alla fine fu di Giuttari, ma oggi è possibile e legittimo chiedersi: ci guadagnò anche la giustizia? A conti fatti si direbbe di no, poiché quei mandanti che con tanta caparbietà il superpoliziotto voleva cercare sappiamo bene che dopo tanti anni non sarebbero stati trovati, nonostante l’enorme dispendio di energie da lui messo in campo. E che ancora in anni recenti dichiari, o almeno lasci intendere: “Eravamo a un passo dalla svolta, la procura di Firenze ci bloccò” (vedi) suona francamente fuori luogo. Quale svolta? Davvero i misteriosi mandanti stavano per essere stanati? Vedremo più avanti che la lotta tra Giuttari e chi lo voleva fermare continuò, ma senza nessuna forza oscura che operava dietro le quinte; in ogni caso lui riuscì ad andare avanti per la propria strada fino addirittura al 2007, mettendo in campo risorse non certo indifferenti (è legittimo chiedersi: con quali costi per la collettività?).
A scuola ci hanno insegnato che “con i se e con i ma la storia non si fa”, si potrebbe però ugualmente scommettere che se Vigna fosse rimasto al proprio posto le indagini si sarebbero fermate subito. Anni dopo, a bocce ormai quasi ferme, l’ex procuratore capo avrebbe scritto (In difesa della giustizia, 2011):

Esistono i mandanti di quei delitti, tanto tenacemente ricercati dalla procura e dall’investigatore Michele Giuttari?
Da ex procuratore non posso che affermare che, nonostante le indagini, non si è mai giunti all’individuazione dei mandanti. E, francamente, non credo che esistano.
Mi sembrerebbe strano infatti che chi ha commesso tante volte questi terribili omicidi possa averlo fatto obbedendo ad un input esterno, per esaudire la richiesta di altri. L’ipotesi, già inverosimile per un solo omicidio, lo è ancora di più per una scia di morte tanto lunga e dilatata nel tempo. E poi, questi soldi, dove sarebbero finiti? Si è parlato del patrimonio di Pacciani come se si trattasse di un tesoro. Ricordiamo però che si tratta di un contadino che ha lavorato per quarant’anni, sicuramente parsimonioso, uno che dava da mangiare alle figlie il cibo per cani.
E a Vanni e Lotti non sarebbe andato niente di quel compenso? Lotti addirittura viveva in un alloggio della parrocchia che condivideva con alcuni immigrati. Il vantaggio patrimoniale per una serie ripetuta di omicidi avrebbe dovuto essere cospicuo e invece non se n’è trovata traccia.
E credo che mai si troverà.

C’è a questo punto una domanda alla quale sarebbe utile rispondere per poter meglio valutare gli accadimenti successivi: la tenacia di Giuttari nel voler portare avanti a tutti i costi le indagini sui mandanti, rifiutando anche un avanzamento di carriera, era davvero frutto di un alto senso del dovere, come lui afferma con decisione? Sono in molti a ritenere le sue ambizioni di scrittore non del tutto estranee alla volontà di percorrere una strada che gli offriva un ottimo palcoscenico dal quale farsi conoscere; un sospetto inevitabile, visti anche i successivi sviluppi della sua attività di giallista di successo, che indubbiamente deve molto al ruolo, sempre ben pubblicizzato, di investigatore sui delitti del Mostro. Un successo che però sembra sia andato calando via via che si allontanavano i tempi delle sue imprese investigative, tantoché oggi ci si chiede se e quando uscirà il prossimo romanzo, dopo la cadenza quasi annuale dei precedenti e i sei anni di distanza dall’ultimo, Il cuore oscuro di Firenze,  con l’autobiografia di Confesso che ho indagato a costituire il possibile canto del cigno.

I mandanti e le sentenze. Per trovare giustificazione alla propria incrollabile volontà di proseguire nella ricerca dei mandanti, Giuttari si è sempre fatto scudo delle “indicazioni dei giudici che hanno condannato Vanni e Lotti”. Proviamo ad approfondire la questione.
In effetti nella sentenza di primo grado viene accolta, come ipotesi di lavoro, la possibile esistenza dei mandanti. Ma molto flebilmente.

Le risultanze processuali non hanno invece portato ad alcuna conferma delle dichiarazioni del Lotti in ordine al "dottore", che avrebbe commissionato i delitti e che avrebbe acquistato le parti escisse dal cadavere delle ragazze, pagandole materialmente al Pacciani.
La Corte ha cercato di acquisire elementi anche su tale punto (ex art. 507 CPP, al fine di avere il maggior materiale probatorio possibile relativamente alle dichiarazioni del Lotti sugli omicidi), ma il risultato non è stato positivo, nel senso che non vi è stato alcun "riscontro" preciso sul predetto "dottore”.
Non sembra, tuttavia, che il Lotti possa aver mentito solo su tale circostanza, non avendo avuto alcun ragionevole motivo per farlo.

A dire il vero, secondo gli stessi giudici, questa non sarebbe stata l’unica circostanza nella quale Lotti avrebbe mentito, poiché già non avevano creduto alla sua ricostruzione del delitto di Giogoli. In ogni caso aggiungono poi ulteriori elementi per avvalorare in qualche modo l’ipotesi dei mandanti.

D'altra parte, l'istruttoria dibattimentale ha lasciato intravedere "qualcosa", che porta nella direzione indicata dal Lotti e, quindi, del predetto fantomatico "dottore". È emerso infatti:
1) che, in occasione dei duplici omicidi di Scopeti e di Vicchio (che furono appunto caratterizzati dall'asportazione del seno sinistro e della zona pubica dal corpo delle ragazze), il Pacciani ed il Vanni, al termine di tutta l'operazione, avrebbero lasciato un "fagotto" al limite di tali piazzole, poggiandolo delicatamente per terra nella zona dei cespugli, il che lascia ragionevolmente presumere che si sia trattato delle parti escisse dal corpo delle ragazze, che venivano lasciate temporaneamente lì, a disposizione di altro soggetto che avrebbe dovuto rimuoverle e portarle via; […]
Ciò porta ancora a ritenere che possa esserci stato, in occasione dei duplici omicidi, anche qualche altro "personaggio" nascosto tra i cespugli, personaggio che non si voleva far vedere da tutti quelli che partecipavano ai delitti e che chiaramente interveniva subito dopo, per prelevare e portar via le parti escisse, non appena gli altri si fossero allontanati dalla piazzola. […]
2) che le indagini di carattere finanziario, eseguite dalla PG sul conto di Pacciani, hanno portato ad una situazione economica del tutto incompatibile con la sua condizione di contadino, che lavorava i terreni altrui e che guadagnava appena il sufficiente per vivere […]
3) che una situazione un po’ simile si riscontra anche relativamente al Vanni, per quanto costui abbia fatto per anni il "postino" ed abbia preso una "liquidazione" all'atto della sua andata in pensione, essendo risultati a suo carico notevoli investimenti di denaro […]
Le predette situazioni vanno comunque meglio verificate da parte del PM, ai fini di una valutazione più sicura, nell’ambito delle nuove indagini in ordine al predetto "dottore". D’altra parte, la Corte non poteva non segnalare anche tutte le predette circostanze, che possono portare a maggiori risultati ed a fare finalmente completa luce sulla presente vicenda, che si trascina purtroppo da molti anni.

Questo blog si è già occupato delle assurdità delle quali è infarcita la sentenza di condanna di Vanni e Lotti in primo grado, e, come si vede, il passaggio precedente è del tutto in linea. Ci si domanda infatti come sia stato possibile anche soltanto ipotizzare uno scenario dove le parti di donna sarebbero passate dagli esecutori ai committenti – nascosti tra i cespugli! – attraverso fagotti lasciati sul posto, anzi, addirittura sepolti, secondo certe indicazioni di Lotti. Poi i soldi. Di quelli di Pacciani si è già detto (vedi), mentre di quelli di Vanni non c’è nulla da dire, poiché si trattava di una cifra del tutto compatibile con i risparmi di chi aveva lavorato una vita intera.
È pur vero tuttavia – quindi formalmente Giuttari ha ragione – che in qualche modo i giudici di primo grado avevano invitato l’autorità giudiziaria a indagare sul “dottore” di Lotti. Vediamo però quanto ne avrebbero scritto quelli di secondo grado un anno dopo.

Né ha trovato riscontro alcuno la ipotesi adombrata dalla impugnata decisione per la quale probabilmente vi era un medico che acquistava le dette parti anatomiche.
La cosa è stata riferita dal Lotti il quale ha detto di aver saputo dal Vanni che le parti escisse venivano vendute ad un non identificato “dottore” il quale pagava il tantundem al Pacciani.
Lotti ha dichiarato di non sapere chi fosse mai questo dottore e se la cosa riferitagli dal Vanni potesse rispondere o meno a verità: conseguentemente pare del tutto inutile ipotizzare, come ha fatto il primo giudice, oscuri personaggi che nottetempo si sarebbero nascosti nei boschi in attesa che il Pacciani e il Vanni consegnassero loro le parti anatomiche appena tagliate. Si tratta di mere illazioni che non meritano alcun commento o esame critico.

Come si vede i giudici di secondo grado badarono bene di togliere di mezzo, peraltro in modo sprezzante, l’assurda ipotesi dei fagotti, mentre ai soldi di Vanni e Pacciani neppure accennarono. Secondo loro i delitti trovavano spiegazione all’interno della stessa combriccola dei compagni di merende, poiché non c’era alcuna ragione di escludere che

alcuni criminali di provincia, certamente afflitti da personalità psicopatologica, chi in misura maggiore e chi in misura minore, ben protetti dalle omertà dell'ambiente che li circondava, ogni tanto decidessero di uccidere coppie di giovani durante o prima i rapporti amorosi, o successivamente, traendo da ciò, probabilmente ma non certamente, un qualche gradimento sessuale.

A pensar male, considerando che il documento venne scritto tra il giugno e l’agosto 1999 – durante il primo tentativo di trasferire Giuttari all’Ufficio Stranieri – si potrebbe anche sospettare che i giudici avessero voluto dare una mano al Ministero. In ogni caso il 26 aprile 2000 la sentenza di secondo grado fu confermata dalla Cassazione; possiamo quindi concludere che alla fine, visto che il verdetto valido è sempre quello più recente, non c’è stato alcun invito dei giudici a effettuare indagini sul “dottore” di Lotti.

Nasce la leggenda. Vedremo in un prossimo articolo quali furono le mosse investigative di Giuttari al suo rientro in piena fase operativa dopo i due anni di contrasti con il Ministero. Intanto vale la pena dare un’occhiata al modo in cui, fin da subito, l’investigatore cercò di capitalizzare la propria vittoria in termini di immagine mediatica, dando così inizio alla leggenda dei poteri forti che avrebbero cercato di fermarlo per proteggere i mandanti, proprio quella che il presente articolo si è proposto di confutare. A darci una mano è questo gustoso servizio, “C’è un mostro dietro il mostro”, uscito sul mensile “GQ” (Gentlemen's Quarterly) del settembre 2000 (vedi) a firma Marco Gregoretti.

L’uomo del sigaro ha un appuntamento con qualcuno. Meno gente lo sa, meglio è: Firenze per lui, poliziotto investigatore senza padrini, è sempre più calda. Quell’incontro con un giornalista che viene da fuori può essere pericoloso. Un cenno veloce del capo. Un sorriso che ricorda vecchi tempi quando le cose andavano senz’altro meglio. C’è poco tempo per parlare. Soltanto un caffè. E un pacchetto che velocemente passa dalle mani del poliziotto a quelle del giornalista. Poi Michele Giuttari, siciliano di Messina, uno dei cinque migliori investigatori d’Italia, per sette anni capo della Squadra mobile di Firenze, ovvero colui che ha scoperto e inchiodato i compagni di merende, se ne va rapido e silenzioso.

Che cosa ci sarà stato mai dentro quel misterioso pacchetto che Giuttari consegnò di soppiatto al giornalista investigativo Gregoretti?

Il giornalista aspetta un paio di minuti e scompare anche lui. Si avvia verso l’albergo […]. Sale in camera, la 162. Appoggia il pacchettino sul comodino. Lo apre. Vorrebbe farlo lentamente. La foga curiosa lo spinge a strappare con veemenza la carta. «Pensa te! Un libro, soltanto un libro. Il suo libro. Tutto ‘sto mistero per una copia di Compagni di sangue, di Michele Giuttari e Carlo Lucarelli». Ma un segno giallo sul nome di Michele Giuttari cattura la sua attenzione. Mah. Sfoglia il volume. A fianco della parola Epilogo, titolo dell’ultimo capitolo, c’è scritto in stampatello: «È l’ultima vittima del Mostro».

Svelato il primo mistero, se ne apre subito un secondo: quale fu l’ultima vittima del Mostro di Firenze tra le tante che gli vennero attribuite dopo l’ultimo duplice omicidio?

Il giornalista si incuriosisce. Legge quel capitolo. […] Le parole scritte da Giuttari sono messaggi rivolti a una persona precisa e a chi la copre, o ne protegge il buon nome. «Ma sì, certo», si convince il giornalista. «È lui, è Giuttari, l’ultima vittima del mostro». Il poliziotto con il sigaro ha capito che […] i compagni di merende agivano anche per conto di un uomo misterioso e potente che pagava. Il magistrato Paolo Canessa gli crede. E lui comincia a indagare. Si avvicina sempre più all‘uomo. Ne delinea i contorni: un medico appartenente a una famiglia molto importante. Ma un decreto del ministro degli Interni lo catapulta fuori dalla Squadra mobile. Mandato a dirigere all'Ufficio stranieri della Questura […]. Ricorre al Tar. Che gli dà ragione. Ma il ministro lo sposta di nuovo. E a fine luglio, il 27, proprio mentre questo articolo sta per andare in macchina, il Consiglio di Stato annuncia: «Il 25 luglio abbiamo sospeso il trasferimento del dottor Michele Giuttari all’Ufficio stranieri». Come dire: deve tornare a dirigere la Squadra mobile di Firenze.

Dunque l’ultima vittima era stato proprio Giuttari, per fortuna niente di fisico, ma “soltanto” un tentativo di bloccare le sue indagini.

Sì, il giornalista si convince: questa è la dimostrazione che quel trasferimento puzzava. Che forse era meglio non dare volto, nome e cognome al secondo livello. Al mostro, o ai mostri, dietro i mostri. In Italia si possono scoprire solo mezze verità. E al suo amico Michele, invece, interessano quelle intere: non crede che nelle storie criminali esistano soltanto gli esecutori. Lo chiama al cellulare: «Sono contento che ti abbiano dato ragione. Vediamoci, ho capito». «No, non ci vediamo. Non posso dirti nulla». «Solo una cosa, per favore: sei tu l’ultima vittima?».
«Sì».

E così la leggenda ebbe inizio.

Il mandante, e le persone a lui collegate, sono così potenti che sono riusciti a muovere le fila fino a far trasferire il loro nemico numero uno. «Non potevano ammazzarmi», ha confidato Giuttari a un amico, «perché nell’ultimo capitolo del libro faccio intendere che conosco la verità e che, oltre a me, la conoscono anche altri»

Questa dunque fu la versione che Giuttari lasciò passare, poiché non si ha notizia di sue smentite riguardo il contenuto dell'articolo.

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