domenica 28 febbraio 2021

Ultime precisazioni su telefonate e notizia di reato

Eccomi ancora qui a dover replicare a un nuovo intervento di Giuliano Mignini, pubblicato il 21 febbraio scorso dal blog “Mostro di Firenze – Un caso ancora aperto” (vedi; per sicurezza il testo è salvato in pdf qui) relativo ai miei ultimi articoli sull’inchiesta Narducci. Il lavoro non mi è troppo simpatico, non piacendomi per nulla contraddire un magistrato in pensione che difende con così grande veemenza il suo storico lavoro. Non sono contento neppure per i miei pochi fidati lettori, che di questo botta e risposta ne avranno di sicuro le scatole piene. Ma si tratta di un’incombenza alla quale sono costretto, altrimenti non terrei fede ai propositi dichiarati anni fa all’apertura di questo blog (vedi), e da allora sempre onorati. Sarà però l’ultima mia replica sul tema, semmai ulteriori considerazioni le inserirò a suo tempo in un futuro articolo, dove ripercorrerò i primi mesi dell’inchiesta, affrontando tra l’altro l’ormai mitica figura dell’ispettore Napoleoni.
Entriamo dunque nel vivo di questa replica, esaminando lo scritto dell’ex PM suddiviso secondo i tre capisaldi dell’articolo cui fa diretto riferimento (Telefonate minatorie e notizie di reato).


Narducci nelle telefonate. Scrive Giuliano Mignini:

Ecco la mancanza di competenza. Lei ha visto la consulenza svolta dal dr. Calzoni, nominato ausiliario di pg più o meno nella primavera del 2002 e, con molta disinvoltura, ha desunto che quelle fossero le uniche trascrizioni delle telefonate registrate e allora ha concluso che non potevo avere le registrazioni un anno prima quando ho aperto il procedimento. Ma le pare che avrei aperto il procedimento nell’ottobre 2001, utilizzando trascrizioni sopraggiunte solo nella primavera del 2002? E che di questo si sia “accorto” solo un tecnico informatico come lei? E nulla abbia osservato il collega Canessa e tanti altri.
Mi segua. Io la informo di fatti, non di giudizi. L’estetista riceveva le telefonate minacciose (prima aveva anche subito danneggiamenti) e cominciò a registrarle su consiglio della Polizia, dapprima il Commissariato di Foligno poi la Squadra mobile di Perugia. La Polizia, dovendo subito informare il magistrato delle minacce, ha provveduto a operare una trascrizione urgente e sommaria delle registrazioni e a trasmetterle di volta in volta, nonché a fare le indagini. Mi trasmetteva anche le registrazioni che ho ascoltato più volte insieme ai poliziotti della Mobile. Quindi, le trascrizioni operate in via d’urgenza dalla Polizia furono fatte proprio nel 2001. Ad esse seguirono, nella primavera del 2002, le trascrizioni operate dal Consulente dr. Calzoni.


Diamo la parola alle carte, valide di per sé, indipendentemente dalla presunta competenza di chi le stia esibendo. Come dimostrano i due documenti riuniti in questo pdf, l’estetista consegnò le prime due cassette alla questura di Perugia il 29 settembre 2001, e la relativa trascrizione venne ultimata il 23 ottobre successivo, due giorni prima dell’apertura del procedimento sul presunto omicidio di Narducci. Non si trattava affatto di una trascrizione “urgente e sommaria”, ma di quella definitiva allegata agli atti, effettuata dall’ispettore Furio Fantauzzi, dal sovrintendente Stefano Savelli e dall’ausiliare Giovanni Calzoni (il quale quindi si mise all’opera molto prima della primavera 2002, come invece affermato erroneamente dall’ex PM). Riguardo il contenuto, il lettore curioso – nonché maggiorenne – può leggerselo per intero, quello frettoloso può invece consultare il seguente documento, datato 16 giugno 2004, riportante la ricerca dei termini (o meglio: frammenti) più significativi contenuti nelle prime 18 cassette. Ebbene, nella numero uno – la due era soltanto una copia parziale di questa – i termini sono: “Pacciani” e “colline del Mugello”. Di Narducci neppure l’ombra.
I due documenti riuniti in questo secondo pdf attestano invece la consegna delle cassette 3 e 4, sempre in questura, il giorno 15 novembre 2001, e la relativa trascrizione il giorno 15 dicembre successivo. A trascrivere furono gli stessi tre poliziotti, compreso l’ausiliare Giovanni Calzoni, con l’aggiunta dell’assistente capo Salvatore Emili. Tra i termini significativi emerge soltanto “Pacciani”, mentre Narducci continua a latitare.
Delle cassette 5 e 6 chi scrive non ha la disponibilità della trascrizione. In ogni caso non dovevano essere state ritenute utili alle indagini, come dimostra la loro assenza nel documento di ricerca dei termini significativi.
Prendiamo adesso in esame la cassetta numero 7. Questo pdf ne colloca la consegna al 21 maggio 2002 e la trascrizione – operata ancora da Fantauzzi, Emili e Calzoni – al giorno dopo, 22 maggio. Finalmente, in aggiunta al solito “Pacciani”, vi si leggono i primi termini in qualche modo riconducibili a Narducci: “il dottore”, “lago”, “lago Trasimeno”. È il caso di riportare anche le relative frasi: “Verrai uccisa e seppellita come l’amico di Pacciani del lago Trasimeno”, “Guarda il tuo bambino e finirai nel lago uccisa”, “Tu ricorda il dottore amico di Pacciani”. Dal verbale di consegna risulta che la Falso aveva iniziato a ricevere tali telefonate il giorno 18 maggio 2002.
A questo punto abbiamo quindi un dato di fatto inconfutabile: quando nelle telefonate comparvero i primi riferimenti a Narducci, erano trascorsi già sette mesi dall’apertura del procedimento giudiziario riguardante il suo presunto omicidio.
Ma proseguiamo. Dopo una cassetta non significativa, arrivò la numero 9 (vedi), consegnata il 27 giugno e trascritta il 15 luglio sempre da Fantauzzi, Emili e Calzoni. Qui i termini significativi aumentano, e tra di essi compare anche quello più importante, “Narducci”. Gli altri sono: “il grande medico”, “il dottore”, “il grande dottore”, “ammazzato”, “ucciso”, “lago” e infine l’immancabile “Pacciani”.
La successiva cassetta, la 10, venne consegnata il 17 luglio e trascritta il 24 agosto. Frammenti significativi sono “come i morti di Firenze” e vari con radice “sfregi”. Questa volta Pacciani fu lasciato a riposo.
Fermiamoci qua, avendo dimostrato ad abundantiam che le telefonate all’estetista nulla avrebbero dovuto aver a che fare con la partenza dell’inchiesta Narducci. Che per quella partenza il relativo procedimento fosse stato preso a semplice pretesto è dunque un fatto storico, sul quale ognuno può elaborare il proprio personale giudizio. Quello di chi scrive, che si sente preso in giro, è particolarmente severo.

I telefonisti. Scrive Giuliano Mignini:

Poi c'è un “capitolo” dal contenuto caotico e pressoché incomprensibile in cui lei si perde, letteralmente, sui “telefonisti”. Il procedimento si è concluso definitivamente con la condanna patteggiata di Pietro Bini, un disoccupato di Foligno o Cannara che, secondo me, si è assunto la piena paternità delle telefonate, per chiudere la questione nella quale era rimasto coinvolto, diciamo, un poliziotto.
Sono rimasto sempre perplesso da questa storia, tutti lo sanno e, a un certo punto, mi sono concentrato sulle indagini collegate con Firenze e ho lasciato che le ultime udienze le trattasse una vice procuratrice onoraria. […]
Lei parla di un “toscano” che era presente nelle telefonate. Io ho sentito solo una voce “appenninica” dell’area di Foligno e una “piemontese”. Di toscani in quelle telefonate neppure l’ombra. E se anche ci fosse stata e fosse stata trascurata che rilevanza avrebbe?


L’ex PM parla di “contenuto caotico e pressoché incomprensibile”. Di sicuro per lui l’argomento è molto più chiaro, e le ragioni sono ovvie, ma la documentazione della quale dispone chi scrive non consente di redigere una cronaca più precisa. In essa rimangono molti buchi, riempibili soltanto con delle ipotesi; la qual cosa non è per nulla facile, e fa buon gioco a chi preferisce buttare tutto in caciara. Ma quel che ne emerge è comunque un quadro assai inquietante. Innanzitutto è bene sia stabilito un fatto certo: ad affermare che in quelle telefonate c’era un toscano non sono io, ma i poliziotti che le trascrissero: Fantauzzi, Savelli, Emili e Calzoni. Nei relativi documenti, fino alla cassetta 9 si legge di un interlocutore maschile dall’accento toscano (per comodità riporto ancora i link: cassette 1 e 2, cassette 3 e 4, cassetta 7, cassetta 9). Per la cassetta 1 si parla addirittura di “<H> aspirata tipica toscana”, intendendo probabilmente il "ch". Poi dalla cassetta 10 l’accento toscano sparisce, e, per il motivo che ho già spiegato (la doppia “B” di “subbito”) probabilmente entra quello denominato “appenninico” dal dottor Mignini.

Edit 1/9/2021. Da un controllo più accurato è emerso che l'indicazione di accento toscano sparì dalle trascrizioni con la cassetta 11 – data verbale 19/11/2002 – e che la parola “subbito” nella cassetta precedente era stata pronunciata dalla voce femminile.

Si dovrebbe dunque pensare che i tre poliziotti incaricati delle trascrizioni – in un caso quattro – avessero tutti preso un abbaglio? Si tratta di uno scenario francamente improbabile. C’è piuttosto da chiedersi il perché nessuna telefonata con quell’accento toscano avesse fatto parte delle 20 del CD fornito ai due esperti ai quali, il 19 luglio 2005, venne commissionata la perizia fonica (vedi). Ce n’erano 6 della donna con accento piemontese e 14 dell’uomo con accento di Cannara, senz'altro Bini. Evidentemente non interessava indagare su chi ci fosse dietro quell’accento toscano, la qual cosa porta a sospettare che lo si sapesse già.
Ci sono altre questioni sulle quali chi finanziò quella perizia fonica e tutte le altre indagini avrebbe diritto di saperne di più. Quale era stato il ruolo del poliziotto indagato, un dirigente di buon livello che adesso ha una posizione di grande responsabilità? Quali le sue motivazioni, e quali i suoi rapporti con i colleghi fiorentini?
Infine Bini, che non risulta neppure interrogato nell'ambito del procedimento sul presunto omicidio di Narducci. Non interessava chiedergli se ne sapeva qualcosa? Tra l'altro gli fu concesso il patteggiamento, a quanto pare senza pretendere che rivelasse i nomi dei suoi complici. Si tratta di normale amministrazione nei tribunali italiani? E qual era stato il suo compenso per essersi preso tutta la colpa? Soldi? Uno scambio di favori?

La notizia di reato. Scrive Giuliano Mignini:

Lei non ha capito che la notitia criminis per l’apertura del procedimento 17869/01/44 furono le dichiarazioni del medico legale prof.ssa Francesca Barone che riferì delle lesioni di cui le parlò lo Zoppitelli, mi pare che si chiamasse così (che era sul pontile) a proposito del cadavere ripescato che, nel 2001, non dubitavamo coincidesse col Narducci.
E che il cadavere (dell’uomo ripescato) presentasse segni di lesioni lo dice anche l’appuntato dei carabinieri Aurelio Piga che tentò di richiamare l’attenzione dei presenti ma fu subito bloccato dal questore. […]
Perché, consapevole della sua incompetenza, lei si avventura in un terreno così “tecnico”? Io non la capisco proprio.


Prima di andare avanti mi si consenta di aprire una parentesi, mettendo da parte Zoppitelli e prendendo in esame Piga. Ma insomma, la famiglia Narducci avrebbe avuto la bella pensata di sostituire il cadavere del congiunto con quello di un uomo di colore 20 centimetri più basso, altrettanti più largo e per di più con evidenti lesioni? Il tutto al fine di nascondere un omicidio che sarebbe stato compiuto con la pressione di un pollice sul collo, quindi senza produrre ferite evidenti? Qui non si tratta di competenza ma di semplice logica, per la quale non serve una laurea in legge. Peraltro, come anche le sentenze Pacciani e Vanni dimostrano, non pare che ai magistrati ne venga richiesta una troppo ferrea.
Ma torniamo a bomba. Nel mio scritto mi pare di aver dimostrato di aver capito bene che cosa sia una notitia criminis, in caso contrario mi si dovrebbero indicare gli errori. Sia come sia, a questo punto conviene comunque ripartire dalla attuale affermazione dell’ex PM: la notitia criminis del presunto omicidio di Narducci sarebbe nata dalle dichiarazioni della professoressa Francesca Barone (vedi). Su questo argomento ho già scritto, quindi devo purtroppo ripetermi. Leggiamo allora le dichiarazioni della Barone che avrebbero fatto ipotizzare l’omicidio di Narducci. Siamo al 22 ottobre 2001:

Per pura casualità incontrai dei pescatori, uno dei quali, di cui non ricordo il nome, aveva partecipato al recupero del cadavere; quest'uomo […] mi disse che il cadavere di Francesco Narducci presentava delle macchie rosse, come se avesse sbattuto contro qualcosa o che comunque avesse subito colpi violenti. Le macchie erano presenti soprattutto sul volto; il pescatore aggiunse che il cadavere aveva le mani ed i piedi legati dietro la schiena. Il pescatore mi disse che dovevano avergli dato tantissime botte per come era ridotto il volto.

Gli eventi narrati si riferiscono al giorno del ripescaggio del cadavere, il 13 ottobre 1985. Il dottor Mignini avrebbe dunque elaborato la notitia criminis sulla base di questo racconto, sono le sue testuali parole (in effetti il relativo procedimento venne aperto tre giorni dopo). Ma come, senza neppure verificare chi fosse questo pescatore e tantomeno interrogarlo? Una scommessa molto azzardata. Se infatti lo avesse identificato e interrogato, avrebbe anche scoperto che non aveva visto un bel niente, come ammesso da lui stesso cinque mesi più tardi, dopo un confronto con la Barone. Si trattava di Giancarlo Zoppitelli, non pescatore ma imbianchino. Dal verbale del 13 marzo 2002 (vedi):

Ora che ho visto la Prof.ssa Barone ricordo che effettivamente nel pomeriggio del 13.10.1985 riferii a quest'ultima che il cadavere aveva il volto tumefatto, il naso rotto e le mani legate, ma questo non l'ho visto di persona. L'ho sentito dire quel giorno da molta gente sul pontile, nel momento del ritrovamento da persone del paese che hanno ripetuto queste affermazioni anche nel bar “Menconi”, gestito da tale Menconi, non ricordo se il padre o il figlio. Mi dispiace di essermi infilato in questo impiccio.

Era dunque questa l’origine della notitia criminis che avrebbe fatto partire un’inutile inchiesta costata chissà quanti milioni di euro di noi poveri contribuenti e la sofferenza di tanta gente? E il cui unico risultato giuridico è la sentenza di archiviazione De Robertis, nella quale – questo lo si deve riconoscere – la sintonia con il collega PM risultò perfetta?

mercoledì 17 febbraio 2021

Telefonate minatorie e notizie di reato

Come mi ero ripromesso, pur disponendo di poco tempo, eccomi qui ad approfondire la risposta provvisoria (vedi) alle recenti rimostranze di Giuliano Mignini riguardanti i miei ultimi articoli sull’inchiesta Narducci. Nel frattempo l’ex PM è intervenuto ancora (vedi) con uno scritto che riporto qui sotto.

Gentile dr. Segnini, la sua risposta mi conferma quello che ho sempre detto. Lei ha una concezione tutta sua del processo penale e, soprattutto, della sua genesi e sono costretto a cercare di chiarirlo fermo restando che, di fronte a qualcuno che ha fatto il magistrato, lei ascolti con la volontà di capire quello che le sto dicendo del processo visto che lei non è assolutamente competente in materia giudiziaria come io non lo sono in ambito medico o ingegneristico. Per mia scelta culturale, mi interesso invece personalmente di storia, locale e non solo.
Detto questo e riservandomi di risponderle più dettagliatamente in seguito, io le rispondo subito sui tre punti che lei ha creduto di individuare come critici nelle indagini da me condotte.
Allora, cominciamo con la genesi delle indagini, un argomento di cui ho sentito parlare in relazione alle indagini da me condotte mentre generalmente si parla dell’esito dei processi.
L’inquirente deve partire da qualcosa che è la notizia di reato. C’è una notizia che può essere riferita dalla polizia giudiziaria, o appresa direttamente dal magistrato o emersa in altro procedimento e che dà luogo ad un procedimento distinto.
Il magistrato non sa nulla di questa notizia. Può anche saperne dalle voci correnti che sono più o meno determinate ma, come tali, non valgono finché non siano confermate.
La notizia è all’inizio, più o meno circostanziata ma va verificata e le indagini servono a questo. E deve essere verificata perché in Italia vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
E allora il magistrato fa le indagini che possono portare alla conferma della fondatezza della notizia o alla sua negazione.
Quando io dico che è indiscutibilmente indifendibile quello che è stato fatto sul pontile aggiungo che, per di più, non si trattava di bazzecole ma di una vicenda che, in ipotesi (per allora), c’era di mezzo la vicenda del Mostro di Firenze per la quale il Narducci era sospettato sin da prima della morte come riferito, tra gli altri, dall’App. CC. Pasquale Pierotti. L’isp. Napoleoni, presente sul pontile, è quello che aveva svolto indagini relative al Narducci sin dal delitto degli Scopeti.
Ho fatto le indagini e il procedimento principale, quello De Robertis, si è concluso con l’ordinanza irrevocabile che ha recepito integralmente l’assunto accusatorio. E questo provvedimento è rimasto in piedi a differenza di quello Micheli che è stato definitivamente travolto dalla Cassazione che ha salvato il capo sull’associazione solo per discutibili ragioni di opportunità ma aveva riconosciuto la fondatezza del mio ricorso anche sull’associazione. Poi i ritardi gravissimi, sottolineo gravissimi, verificatisi non certo per colpa mia hanno determinato la prescrizione di tutti i reati meno uno.
E allora ? Di che stiamo discutendo?
Quanto all’aspetto linguistico e, aggiungo, storico, non ha alcuna rilevanza sulle telefonate Falso. Quanto all’Umbria, esisteva al tempo di Augusto ma non comprendeva Perugia che era una delle capitali dell’Etruria e andava, l’Umbria o Sexta Regio, da Assisi fino all’Adriatico. Comunque, a quanto ricordo, le voci delle telefonate erano tutte dell’Umbria orientale e, quella femminile, era piemontese ma i dialetti o parlate non seguono quasi mai i confini amministrativi odierni.
Passiamo alla competenza. Le assicuro che l’inquirente ed io nella fattispecie sono stato sempre animato dalla ricerca della verità che non è un’opinione.
Per questo, ho pagato, insieme all’amico Giuttari, un prezzo altissimo ma ne sono uscito vincitore e ora è in piedi una causa di responsabilità civile contro magistrati della Procura ma soprattutto del Tribunale di Firenze.
Chi non ha fatto il suo dovere, invece, non ha subito danni di sorta. Questa è una certa Italia.
Chi è competente, ha titolo per parlare di un certo argomento. Chi non lo è, non ha titolo giuridico.
La saluto.
Perugia 8 febbraio 2021


Egregio dottor Mignini, nel suo precedente intervento lei mi ha rimproverato “la confusione, la prolissità e la conseguente mancanza di chiarezza dell’esposizione. Scrivere tanto non serve a nulla”. Non è lo stesso giudizio di altri, ma prendo comunque atto del suo legittimo punto di vista, di conseguenza in questa sede farò quanto è nelle mie possibilità per migliorarmi, condensando in un paio di pagine di Word, o poco più, i miei scritti sulle telefonate minatorie e la partenza dell’inchiesta Narducci. A beneficio suo, che se vorrà potrà fare le sue osservazioni, e di tutti quei lettori che non hanno voglia di addentrarsi in una vicenda narrativamente poco gradevole, nondimeno storicamente significativa. Ma prima sento il bisogno di una replica sulla questione della competenza in materia giudiziaria, che lei mi rimprovera di non possedere bocciandomi sul nascere ogni velleità di analizzare la sua inchiesta. Ne devo arguire che il suo lavoro possa essere giudicato soltanto da un collega? Mi sembra una pretesa un po’ eccessiva, neppure fosse un trattato di fisica quantistica!
Che io non sia competente in materie giudiziarie è vero, solo però quando per competenza s’intenda la capacità di esercitare il mestiere di magistrato. Per la ricostruzione storica che sto cercando di portare avanti, infatti, una laurea in legge non mi è necessaria, come non mi è mai stata necessaria – mi si perdoni la digressione – una conoscenza specialistica delle varie materie che in una ormai lunghissima attività di professionista nel campo del software applicativo sono stato costretto ad affrontare. Davanti alla necessità di produrre strumenti di lavoro per le tipologie di committenza più varie mi sono sempre rimboccato le maniche e ho studiato la materia. Non sono divenuto né un assicuratore, né un contabile, né un agente letterario, né un amministratore di condomini, neppure un investitore di valori mobiliari e tantomeno un progettista di cavi elettrici – potrei continuare ancora per po’ – ma ho imparato il linguaggio di tutti, anzi, ho dovuto imparare il linguaggio di tutti, pena il cambio di mestiere.
Lo studio della vicenda del Mostro di Firenze è per me una semplice passione, non un lavoro, ma in esso applico la medesima metodologia, cercando sempre di acquisire le informazioni necessarie prima di affrontarne i vari aspetti. Nel caso di specie – la partenza dell’inchiesta Narducci – sono andato a documentarmi su come viene aperto un procedimento giudiziario, potrà verificarlo leggendo qui. Mi sono soffermato sui cinque registri, e, avvalendomi di questo testo, anche sulla notitia criminis, sulla quale lei mi ha recitato la sua lezione, e la ringrazio. Non avevo capito nulla? Può darsi, però chi intende sostenerlo lo deve dimostrare, trovandomi in quel caso più che disponibile a ogni rettifica che si renda necessaria.
Ancora una premessa prima di andare sul concreto. Lei mi rimprovera la mancanza di chiarezza, ma dove sta la chiarezza nei suoi due scritti? In essi ha bocciato il mio lavoro senza rispondere su nessuna delle questioni che vi vengono sollevate, disquisendo di tutt’altro. Argomenti importanti, beninteso, ma fuori tema, e sui quali avrò modo di esprimere il mio parere in altra sede. Scrive giustamente un mio lettore, riferendosi al suo primo intervento:

Più che rileggo l'intervento di Mignini più che mi sembra veramente fuori fuoco, forse hai ragione e magari l'ha letto di fretta. Di tutto quello che hai scritto si è indignato per la storia degli accenti? Io, francamente aspettavo sì delle risposte, ma su cose ben più importanti come la telefonata minatoria partita da un commissariato umbro o il fatto che oggi, grazie a questi documenti, possiamo affermare con certezza che l'inchiesta Narducci partì prima delle telefonate alla Falso.

Nel secondo intervento parla di tre punti che, secondo lei, avrei creduto di individuare come critici nelle indagini ma poi non li elenca né tantomeno li affronta. In verità, pur molto sbrigativamente, uno sì, quello della notizia di reato, ma gli altri? Spero non abbia voluto intendere l’aspetto linguistico e l’identificazione dell’Umbria storica…
Ma adesso è davvero arrivato il momento di andare sul concreto, con l’esposizione sintetica in tre capisaldi del mio lavoro di ricerca sulle telefonate e sulla partenza dell’inchiesta Narducci. Va da sé che la lettura dei due articoli originali (qui e qui) risulta comunque necessaria se si pretendono le relative dimostrazioni.

Narducci nelle telefonate. Per anni si è creduto che l’inchiesta Narducci fosse stata innescata dalle telefonate minatorie a un’anonima estetista di Foligno, la signora Dorotea Falso: “Ricorda il dottore amico di Pacciani... traditori di Satana... I traditori Pacciani e il grande medico... Narducci... finito nel lago strangolato”. A sostenerlo, oltre a Giuttari nei suoi libri – invero non sempre rispettosi della verità – era stato anche lo stesso pubblico ministero, come in un frammento della sua requisitoria leggibile qui. Pertanto mi stupii moltissimo scoprendo, una volta entrato in possesso delle trascrizioni di quelle telefonate, che Francesco Narducci vi veniva nominato per la prima volta – come “l'amico di Pacciani… del lago Trasimeno” – il 18 maggio 2002 alle ore 12:36! Quindi ben sette mesi dopo l’apertura del procedimento giudiziario sul suo presunto omicidio (25 ottobre 2001) e il successivo ascolto di qualche decina di testimoni, nonché il presumibile completamento della perizia sugli atti del professor Pierucci (giorno di consegna ufficiale: 22 maggio 2002).
E allora cosa diavolo c’entrano le ridicole minacce telefoniche all’anonima estetista di Foligno con la partenza dell’inchiesta Narducci, la quale, alle ore 12:36 del 18 maggio 2002, non soltanto era partita, ma aveva già percorso chilometri e chilometri?

I telefonisti. Le sorprese nate dall’esame della documentazione non erano affatto finite, anzi, ne emergeva una parte ancora più inquietante. Chi erano questi telefonisti e perché avevano fatto riferimento a Pacciani e in seguito anche a Narducci? Sappiamo che l’unico condannato – con patteggiamento – è stato un certo Pietro Bini, di Cannara, un individuo che dai documenti sembra non avesse avuto nulla a che spartire con Dorotea Falso. E con la questione Narducci c’entrava qualcosa? Parrebbe di no, poiché in nessuno dei relativi procedimenti risulta mai essere stato interrogato, il che francamente appare strano, visto che proprio grazie alle sue minacce quei procedimenti sarebbero partiti. Viene da chiedersi: e se avesse fatto parte della setta che stava dietro ai delitti del Mostro e le sue telefonate fossero state un depistaggio?
In realtà lo studio della documentazione porta a ritenere Bini un personaggio dietro il quale è rimasto nascosto il gioco di chi ha tramato per spingere la pista Narducci attraverso le telefonate. Per un anno e più a minacciare l’estetista erano stati il fratello del marito e la moglie di questi, dei cognati insomma, per motivi che non travalicavano il campo delle beghe familiari, con anche l’incendio di un fienile, il taglio delle gomme di un’auto e un foglietto intimidatorio lasciato in giardino. Dopo varie denunce presentate al commissariato e ai carabinieri di Foligno, il 29 settembre 2001 avviene un fatto nuovo: Dorotea Falso consegna alla questura di Perugia due cassette dove ha registrato le ultime telefonate minatorie. E al fatto nuovo delle cassette se ne accompagnano almeno altri due, con una concomitanza francamente sospetta. Innanzitutto in alcune telefonate, cosa mai successa prima, viene fatto riferimento a Pacciani. Poi il cambio dei due telefonisti. A dircelo sono le questioni linguistiche. Chi trascrisse le telefonate rilevò nella voce maschile un accento toscano, mentre una perizia fonica di qualche anno dopo avrebbe individuato in quella femminile un accento piemontese; entrambi i cognati della Falso erano nativi di Foligno e ivi residenti.
Bisogna a questo punto chiedersi di chi fosse stata l’iniziativa di registrare le telefonate; poco credibile della Falso, soprattutto per le concomitanze sopra indicate. E viene anche da chiedersi che cosa avesse avuto a che fare con questa faccenda il dirigente di polizia che risultò indagato e poi prosciolto. Indagato perché e prosciolto perché? Il sospetto che qualcuno si fosse inserito in una questione personale della Falso introducendovi le vicende fiorentine è legittimo, come è legittimo il sospetto che in qualche modo questo qualcuno avesse avuto a che fare con le forze dell’ordine. Va anche detto che indagata e prosciolta risulta pure la baby sitter del figlioletto della Falso, il cui marito era un poliziotto fratello di altri due poliziotti. Una coincidenza?
Dopo la consegna delle prime due cassette le telefonate continuarono, poi ebbero un momento di stasi. Fino a quando, nel maggio 2002, l’inchiesta non cambiò passo, con la consegna della perizia sugli atti da parte del professor Pierucci, la conseguente decisione di riesumare la salma e l’uscita del tutto sui giornali. Con un sospetto anticipo di pochi giorni – accesso a informazioni riservate? – le telefonate ricominciarono e finalmente entrò Narducci.
Dopo questa ripresa le telefonate andarono avanti, e, come si desume dai verbali di trascrizione, ancora per un po’ con la voce maschile dall’accento toscano. Poi, a partire dalla trascrizione della cassetta 10 datata 24 agosto 2002, l’accento toscano sparì e probabilmente entrò quello umbro, in seguito rilevato dalla perizia fonica. Il trascrittore, infatti, non scrisse più di accento toscano, in compenso evidenziò la parola “subbito”, con un raddoppio della “b”, molto probabilmente compatibile con la parlata di Cannara. Se così fosse si potrebbe associare tale cambiamento all’arrivo di Pietro Bini, quello stesso Bini che si sarebbe dichiarato colpevole ottenendo un patteggiamento che si fa fatica a comprendere, non avendo denunciato i suoi complici.
Edit 1/9/2021. Da un controllo più accurato è emerso che l'indicazione di accento toscano sparì dalle trascrizioni con la cassetta 11 – data verbale 19/11/2002 – e che la parola “subbito” nella cassetta precedente era stata pronunciata dalla voce femminile.

La notizia di reato. Non è questa la sede per disquisire attorno alla locuzione “notizia di reato”, che il codice penale usa senza definirla. Basti il suo significato intuitivo, e la consapevolezza che una notizia di reato sta alla base di ogni procedimento giudiziario: non può esserci procedimento giudiziario senza notizia di reato, e data una notizia di reato (s'intenda: della quale sia stato verificato il fondamento) deve esserci un procedimento giudiziario, lo impone la legge con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ma una notizia di reato è anche una notizia in senso generico, e non tutte le notizie sono anche notizie di reato, nonostante una loro eventuale vicinanza all'ambito giudiziario. Immagino che per un magistrato distinguere non sia sempre facile, non a caso esiste il registro modello 45.
La notizia di reato con la quale venne aperto il procedimento giudiziario 17869/01/44, il 25 ottobre 2001, era quella del presunto omicidio di Francesco Narducci (art 575 e relative aggravanti). Ebbene, faccio fatica a comprendere il modo in cui, fra i tre elencati nell’intervento di Giuliano Mignini, tale notizia fosse nata. Riferita dalla polizia giudiziaria? No, poiché l’informativa dove Angeloni chiedeva di poter procedere non parlava affatto di presunto omicidio, ma di presunto suicidio (vedi) e comunque si trattava soltanto di voci di popolo. Emersa in un altro procedimento? Non si comprende quale, a meno che non si voglia intendere quello delle minacce telefoniche, dove però di Narducci non c’era neppure l’ombra. Appresa direttamente dal magistrato? Si tratta dell’unica strada percorribile, previa la necessaria sostituzione del termine “appresa” con il più appropriato “ipotizzata”. Allora percorriamola, questa strada, come fossimo stati noi il PM che doveva decidere.
Vediamo gli elementi in gioco. Sopra il tavolo c’erano le irregolarità sulla tumulazione della salma, la cui più ovvia origine andava però ricercata nel desiderio di una famiglia potente di evitare l’autopsia e nello zelo con cui alcune autorità locali si erano messe a sua disposizione. Con il che non c’era alcuna notizia di reato, comunque non tale da consentire l’apertura di un procedimento giudiziario, poiché eventuali reati risultavano ormai prescritti. L’unica era guardare dietro le quinte e chiedersi il perché: perché la famiglia Narducci aveva voluto evitare l’autopsia? Anche in questo caso c’era una risposta ovvia: se il loro congiunto si fosse suicidato, come era sempre parso probabile – lo aveva scritto lo stesso Angeloni nella sua informativa – l’autopsia e l’esame tossicologico lo avrebbero fatto emergere. Per i familiari un’eventualità da evitare a ogni costo, data la notorietà del cognome Narducci in ambito locale: tutti ne avrebbero parlato, i giornali ne avrebbero scritto, e il loro dolore non avrebbe potuto far altro che crescere.
Sul tavolo c’erano però anche i sospetti sul coinvolgimento di Narducci nelle vicende del Mostro di Firenze. Sospetti sui quali in verità la procura aveva già indagato, giungendo alla conclusione che erano ingiustificati, sia per la mancanza di elementi a sostegno sia e soprattutto perché il soggetto era impossibilitato a compiere almeno il delitto di Calenzano, trovandosi in quel periodo negli Stati Uniti. In ogni caso, se anche Narducci fosse stato il Mostro, il suo suicidio avrebbe già chiuso la questione, quindi all’orizzonte ancora nessuna notizia di reato.
Ma qui entra un elemento del tutto nuovo: l’ipotesi di Giuttari che i delitti del Mostro di Firenze fossero delitti su commissione, eseguiti dalla scalcagnata banda dei compagni di merende per conto di una fantomatica setta satanica che avrebbe ucciso Narducci per impedirgli di parlare. Nel nuovo scenario poteva quindi configurarsi la notizia di reato dell’omicidio, costruita a tavolino sulla base di tre elementi tutti molto deboli, dei quali due ipotetici e un terzo reale ma spiegabile in modi assai più semplici. Quello spiegabile riguardava le irregolarità di tumulazione, delle quali si è già detto. Il primo degli ipotetici poggiava sulle chiacchiere della gente. Ma chiacchiere simili avevano colpito molte altre persone innocenti, e non si vede perché a quelle su Narducci si sarebbe dovuto attribuire maggior spessore. Il secondo è l’ipotesi dei delitti su commissione, basata su una valutazione malevola e sbagliata dei soldi di Pacciani – mi è bastato far due conteggi e incrociare qualche data per dimostrarlo (vedi) – e sul labilissimo e sospettosissimo accenno di Lotti al dottore (vedi), peraltro respinto dalla sentenza di secondo grado. Del resto, pur ostacolato dai tentativi dei superiori di porgli un freno (vedi), sui mandanti Giuttari aveva già indagato a lungo, non rimediando null'altro se non la brutta figura alla villa dei C. a San Casciano.
Dove si è arrivati partendo da questa notizia di reato costruita in un modo quanto meno artificioso, alla quale non credo si potesse applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale? A nessun risultato processualmente valido. I presunti uccisori di Narducci, come anche i mandanti dei delitti del Mostro di Firenze, sono rimasti dei fantasmi alla cui esistenza oggi come ieri è davvero difficile credere, sia per una questione di semplice buonsenso, sia perché non hanno lasciato neppure una traccia. In compenso si sono spesi milioni di euro che di sicuro il contribuente avrebbe avuto maggior interesse a vedere impiegati in inchieste più ordinarie. Esclusa forse qualche decina di appassionati, felici di potersi baloccare all’infinito con i misteri delle sette e dei doppi cadaveri.

lunedì 8 febbraio 2021

Giuliano Mignini protesta

Sono stato avvertito della pubblicazione di un intervento (vedi) del “solito sig. Mignini” – al quale ricordo che dottore sono anch’io – in risposta al mio ultimo articolo (vedi). Devo dire innanzitutto che non comprendo il perché l’ex PM non si sia avvalso della possibilità di un dialogo diretto. In ogni caso pubblico qui il suo scritto, con una breve replica, ripromettendomi, con la dovuta calma, di preparare un approfondimento successivo.

Gentili lettori, più volte sono intervenuto in forum e blog, di fronte ad affermazioni di persone la cui incompetenza in ambito giudiziario e investigativo balza all’evidenza sulla base delle loro stesse affermazioni. Quello che colpisce è la presunzione di parlare senza la necessaria preparazione e cognizione dei fatti. E quello che colpisce specie nell’ultimo intervento di cui sono stato informato, del solito Sig. Segnini è la confusione, la prolissità e la conseguente mancanza di chiarezza dell’esposizione. Scrivere tanto non serve a nulla. Bisogna andare al cuore dei problemi e cercare di fare la sintesi di vicende complesse.
Come si fa a tentare di difendere quello che fecero le Autorità il 13 ottobre 1985 sul pontile di Sant’Arcangelo del Trasimeno? Come si fa? Quello che è stato fatto, o meglio non è stato fatto, non si può in alcun modo difendere. C’è stata una messinscena incredibile destinata a perpetuarsi nel tempo.
Niente autopsia, niente foto, niente regolare visita esterna, niente medico legale, nulla osta al seppellimento intervenuto qualche giorno dopo i funerali, da parte del solito magistrato di allora… e a monte non c’erano bazzecole ma la vicenda del Mostro di Firenze. E ora Segnini si avventura sulle telefonate il cui processo si è concluso con una condanna patteggiata e addirittura si mette a disquisire, ho intravisto inorridito, sul dialetto “umbro” che non esiste perché, a semplificare, ce ne sono almeno cinque, diversissimi tra loro. Ma questo è solo un esempio della superficialità che traspare da certi interventi. Anche il più volte citato e osannato gup ternano sabino ha scritto tantissimo. Dimostrando un singolare interesse, in negativo, alla vicenda. Ha scritto tanto e ha impiegato qualche anno tra tutto. La conclusione è che si è prescritto tutto. E ora che rimane di quella “monumentale” sentenza annullata dalla IV sezione della cassazione?
Nessuno ricorda l’unico provvedimento che nessuno è riuscito a smontare, l’ordinanza De Robertis nel procedimento sull’omicidio, n. 1845/08/21.
Se qualcuno organizzerà un incontro in cui questi sostenitori della messinscena di Sant’Arcangelo possano mettere a confronto i loro argomenti con i miei, io lo invito a farlo.
Grazie.
Perugia 8 febbraio 21



Egregio dottor Mignini, vedo che ha evitato di entrare nel merito del mio articolo, nel quale vengono espresse molte perplessità sulla partenza dell’inchiesta Narducci, alcune delle quali assai inquietanti, e che è legittimo chiedersi quanto possano essersi riflesse su quello che è accaduto dopo. Se lei ha letto in fretta, magari con impeto, le consiglio di farlo adesso con più calma, poiché sono molte le domande alle quali le chiederò risposta, qui e in un eventuale dibattito pubblico al quale, con le dovute garanzie, non ho certo intenzione di sottrarmi. Le preannuncio, per esempio, che dovrà spiegarmi come faceva a sapere che, riguardo le irregolarità sulla tumulazione di Narducci, “a monte non c’erano bazzecole ma la vicenda del Mostro di Firenze”. Aveva non dico le prove, ma almeno qualche indizio migliore delle chiacchiere dei perugini e delle ipotesi tutte da verificare di Giuttari e Canessa sui mandanti? Questo, tra l'altro, il mio articolo ha inteso evidenziare, senza affatto disconoscere quelle irregolarità, ma attribuendole più banalmente a un desiderio comprensibile, seppur illecito, di una famiglia affranta. Del resto processualmente la sua inchiesta non è arrivata a nulla, se non ad alimentare le chiacchiere e trasferirle su internet.
Come ho scritto, le risponderò in modo approfondito più avanti, intanto però mi consenta di ribattere su due punti che mi sta a cuore affrontare subito. Il primo. Non ho scritto “dialetto umbro”, ma “parlata umbra”, il che tra l’altro mi conferma la sua eccessiva fretta nel leggere. Come specifica ad esempio il vocabolario online Treccani (vedi), il termine parlata “ha significato più generico e meno preciso che dialetto”. Non so se “parlata umbra” sia una locuzione frequente, di sicuro frequente è la locuzione “parlata toscana”, nonostante nella mia regione un fiorentino e un grossetano parlino in modo sensibilmente differente. In ogni caso non mi pare proprio che la sua osservazione sia in grado di confutare quello che ho affermato nell’articolo: la parlata di un umbro e la parlata di un toscano non si possono confondere, di qualsiasi zona essi siano. Quindi nessuna telefonata di quel toscano che minacciava l’estetista di Foligno poteva essere tra le 20 che sono state periziate.
Veniamo al secondo punto, “la presunzione di parlare senza la necessaria preparazione”. Seppur non illudendomi di valere neanche un millesimo del personaggio di cui si dice, ma rivendicando comunque il diritto di tentare e la speranza di riuscire a veder più chiaro in una vicenda nella quale la magistratura italiana ha fallito, lascio parlare Arthur Schopenhauer, con le parole inserite da C.W.Ceram nel libro Civiltà sepolte riferendole al grandissimo archeologo dilettante Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia e Micene:

Dilettanti! Dilettanti! Così vengono chiamati con disprezzo coloro che si occupano di una scienza o di un’arte per amore di essa e per la gioia che ne ricevono, per il loro diletto, da quanti si sono dedicati agli stessi studi per il proprio guadagno, poiché costoro si dilettano solo del denaro che con tali studi si procurano. Un tale disprezzo deriva dalla meschina convinzione che nessuno possa prendere qualcosa sul serio senza lo sprone della necessità, del bisogno e dell’avidità. Il pubblico ha lo stesso atteggiamento e la stessa opinione: e di qui nasce il suo rispetto per gli “specialisti” e la sua sfiducia verso i dilettanti. La verità è, al contrario, che per il dilettante la ricerca diventa uno scopo, mentre per il professionista rappresenta solo un mezzo, ma solo chi si occupa di qualcosa con amore e con dedizione può condurla al termine in piena serietà. Da tali individui, e non da servi mercenari, sono sempre nate le grandi cose.

sabato 6 febbraio 2021

E fu così che partì l'inchiesta Narducci; ma ne valeva la pena?

L’Italia è piena di cosiddette “Cattedrali nel deserto”. Si tratta di opere pubbliche che sono costate fior di quattrini, ma che non hanno mai funzionato. Rovine di fabbriche, ospedali, centri sportivi, dighe rimangono a testimoniare degli enormi sprechi di danaro che hanno contribuito a rendere quasi insostenibile il nostro debito pubblico. Da questo punto di vista anche tante ambiziose inchieste della magistratura possono essere considerate “Cattedrali nel deserto”. Nate su presupposti che non sempre avevano adeguata giustificazione nella ricerca di giustizia, si sono via via avvinghiate su loro stesse producendo soltanto danni.
Con l’istituzione del giudice per l’udienza preliminare (GUP), il nuovo codice ha cercato per quanto possibile di evitare che inchieste nate male finiscano per intasare i tribunali, ma prima dell’intervento del GUP passano anni durante i quali i pubblici ministeri (PM) possono far di tutto. Il nuovo codice ha assegnato loro poteri molto ampi, purtroppo calmierati in modo spesso insufficiente dal giudice per le indagini preliminari (GIP), il quale dovrebbe controllarne l’operato. Non è questa la sede per affrontare un problema annoso come quello della separazione delle carriere, ma il lettore provi a immaginarsi un GIP e un PM che lavorano negli stessi uffici e magari pranzano assieme, poi si metta nei panni dell’indagato che dal GIP pretenderebbe imparzialità. Imparzialità che a dire il vero la legge impone anche al PM, il quale invece s’innamora quasi sempre della propria inchiesta, ancor di più se mediaticamente esposta, facendola diventare una questione personale e dimenticando nel contempo che le indagini preliminari dovrebbero essere svolte anche nell’interesse dell’indagato. Lo dice l’articolo 358 del codice penale: “Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell'articolo 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Questo non avviene praticamente mai, anzi, i PM spesso e volentieri tendono a nascondere gli elementi a discarico per evidenziare maggiormente quelli a carico. Il peggio avviene quando elementi a carico non se ne trovano, essendo le indagini partite su presupposti sbagliati. E allora si finisce per crearli, interpretando in modo malevolo elementi che di per loro non avrebbero alcun significato probatorio.
Nell’inchiesta che cercava di trovare i fantomatici mandanti dei delitti attribuiti al Mostro di Firenze, e in quella collaterale sul presunto omicidio di Francesco Narducci – che di quei mandanti sarebbe stato parte – è facile intravedere tutte le negatività sopra elencate. Dopo dieci e più anni di inutili interrogatori, intercettazioni, perizie e processi – e quindi montagne di danaro pubblico buttato al vento – nulla è rimasto, se non tanta confusione sulla quale si baloccano gli appassionati in interminabili discussioni su Internet, dove ancora si evocano assurdi scenari di sette sataniche delle quali non è mai stata trovata traccia.
In questa sede prenderemo in esame la partenza dell’inchiesta Narducci, fino all’istituzione del noto procedimento giudiziario 17869/01/44 che ne costituisce l’origine formale. Cercheremo di capire il modo in cui, inseguendo un’ipotesi priva di validi riscontri – a giudizio di chi scrive, ma anche di personalità ben più prestigiose – fosse stato aperto un rubinetto dal quale sarebbe uscito soltanto un oceano di melma, senza alcun beneficio per la risoluzione dei misteri inerenti i duplici omicidi di Firenze, anzi, aggravandone la confusione.
Ma prima di cominciare riprendiamo l’argomento dell’articolo Firenze – Perugia andata e ritorno, con il quale si era illustrato il sorprendente scenario delle telefonate minatorie all’estetista di Foligno fatte apposta per stimolare la partenza delle indagini su Narducci.


Un documento inquietante. Dopo la pubblicazione dell’articolo sulle minacce telefoniche – che è necessario leggere prima di procedere con questo – sono pervenuti nella disponibilità di chi scrive altri documenti che consentono ulteriori riflessioni. Partiamo da una comunicazione di Giuliano Mignini a Paolo Canessa, datata 12 maggio 2004. Eccone il testo, con i cognomi e i dati anagrafici omessi:

Si trasmettono le copie delle trascrizioni delle telefonate ricevute da Falso Dorotea, di interesse per le indagini collegate, unitamente a copia della nota della Squadra Mobile della Questura di Perugia in data 24.01.2003.
Per il procedimento relativo alle minacce telefoniche, contraddistinto con il n. 9144/2001 R.G.N.R. (da cui è stato stralciato quello n. 17869/01 R.G. Mod. 44), è stato emesso avviso ex art. 415 bis c.p.p., nei confronti delle sottoindicate persone:


  • B. Francesco [omissis: nato e residente a Foligno]
  • F. Roberta [omissis: nata a Foligno, residente a Trevi]
  • C. Nadia [omissis: nata a Foligno, convivente di B. Francesco]
  • N. Tania [omissis: nata a Terni, residente a Foligno]
  • Dr. X.X. [omissis: nato a Foligno, domiciliato presso il commissariato di Foligno]

Continuano in ogni caso, nel procedimento n. 17869, le indagini per accertare eventuali rapporti esistenti tra la vicenda delle minacce telefoniche e il Prof. Francesco Narducci.

In sostanza Mignini avverte Canessa della fine delle indagini preliminari per cinque soggetti – questo è il significato della locuzione “ex art. 415 bis c.p.p.” – nell’ambito del procedimento sulle minacce telefoniche a Dorotea Falso, il 9144/01/21. Nell’occasione invia anche una nota della questura di Perugia, risalente al 24 gennaio 2003, alla quale erano allegate le relative trascrizioni (fino alla cassetta 13; sappiamo però che erano state consegnate altre cinque cassette, l’ultima attorno al 18 luglio 2003). È opportuno riflettere con grande attenzione sull’elenco degli indagati.
Innanzitutto va rilevata la presenza dei due cognati di Dorotea Falso, Francesco B. e la moglie Nadia C.. C’è poi tale Roberta F., la stessa persona nominata nell’articolo uscito sulle pagine umbre della “Nazione” del 30 marzo 2006 (vedi). A dire il vero in tale articolo c’era confusione tra Roberto e Roberta, ma doveva intendersi Roberta, visto che le età coincidono. In ogni caso in detto articolo si dice che questi tre soggetti vennero rinviati a giudizio.
Ci dovette invece essere proscioglimento per Tania C., il cui nome nell’articolo citato non c’è, ed è mancante anche dal resto della documentazione attualmente nella disponibilità di chi scrive. Stessa cosa per il dr. X.X., sul quale bisogna soffermarsi. Riprendiamo un frammento del libro Setta di stato, di Francesco Pini e Duccio Tronci:

Dall'analisi dei tabulati della Telecom, il 30% circa di queste telefonate non risultano. Ufficialmente mai effettuate. In un caso la chiamata arriva non da una cabina, ma da un cellulare. Il numero dell'utenza non è però registrato: come se fosse inesistente. Una telefonata di minacce proviene addirittura dal commissariato di Foligno, un’altra da un’utenza riconducibile ad un poliziotto.

Con grande probabilità il dr. X.X. è proprio il poliziotto cui si riferisce il libro. Chi scrive ha deciso di non fornire alcun dato che possa consentire di identificarlo, è comunque il caso di osservare che oggi ha una posizione di grande rilievo. Qual è stato il suo ruolo in questa torbida vicenda? Il lettore può dare libero sfogo alla propria immaginazione. In base agli elementi emersi, chi scrive ha il forte sospetto che qualcuno, nell’ambito delle forze dell’ordine, avesse avuto grande interesse a far partire l’inchiesta sulla morte di Narducci e sui suoi eventuali collegamenti con i delitti del Mostro. Per far questo approfittò di una preesistente vicenda di ridicole minacce telefoniche a un’anonima estetista, facendo in modo che vi entrassero Pacciani e le sette sataniche, entrambi argomenti caldi sul fronte fiorentino. Non per niente quell’estetista abitava a Foligno, e le sue denunce erano state presentate al commissariato di Foligno.
Lo si è già osservato nel precedente articolo, ma vale la pena ribadirlo: non pare un caso se le registrazioni delle telefonate da parte della Falso fossero iniziate proprio quando in esse era comparsa la figura di Pacciani. La coincidenza rende improbabile che l’iniziativa fosse stata della donna, qualcuno interno alle forze dell’ordine doveva averglielo suggerito. Forse quello stesso personaggio che quando l’inchiesta cambiò passo con la riesumazione del cadavere di Narducci vi introdusse anche la figura dello stesso. La qual cosa avvenne due giorni prima del momento topico corrispondente al deposito della perizia di Pierucci sugli atti – 20 maggio 2002 – quindi si deve presumere che le sue informazioni fossero state di prima mano.
Il documento ci dice ancora qualcosa: non vi si menziona Pietro Bini, che sarà poi l’unico soggetto condannato. Dal momento dell’apertura del procedimento 9144 ( attorno al 1° ottobre 2001) erano trascorsi due anni e mezzo; due sarebbero dovuti ancora trascorrere prima dell’inizio del processo (29 marzo 2006), nel quale era presente Bini, la cui richiesta di patteggiamento, lo abbiamo visto, sarebbe stata rifiutata. Quando entrò nell’inchiesta tale personaggio, se ai primi di maggio 2004 le indagini erano terminate? Che fossero terminate lo dice il documento precedente, e la controprova la troviamo nella sentenza Micheli, dove è lo stesso PM ad affermarlo nella sua requisitoria:

Nel frattempo, nel procedimento n. 9144/01/21 erano cessate le indagini ed era stato notificato l’avviso ex art. 415 bis c.p.p. da cui emergeva che le telefonate ricevute dalla FALSO provenivano da sedicenti appartenenti ad una sorta di setta satanica e riguardavano proprio il Narducci (e il Pacciani). Il quotidiano “La Nazione” pubblicava tali notizie e il Brizioli, con due telegrammi del 5 e dell’11.05.04, intimava alla giornalista Erika Pontini, autrice dell’articolo, di non pubblicare più notizie del genere sotto pena di azioni legali. Il giornalista Pino Rinaldi, nell’esame in data 5.05.05, ha ammesso di aver letto l’articolo della Pontini.

Ma allora Pietro Bini?

Edit: Dopo una rilettura della documentazione ritengo di poter affermare con una certa sicurezza che Tania C. altro non fosse che la baby sitter di Dorotea Falso, da lei nominata nelle dichiarazioni alla questura di Perugia del 29 settembre 2001. Tra l'altro moglie di un poliziotto.

La perizia fonica. Il lettore non se la prenda se si sente confuso, poiché risulta davvero difficile districarsi in questo incredibile guazzabuglio. Abbiamo visto nel precedente articolo (qui) che nel gennaio 2003 Bini era già stato segnalato al PM come elemento sospetto, ma non si sa se fosse anche stato iscritto nel registro degli indagati. Un tassello ulteriore ci viene offerto dalla perizia fonica ordinata il 18 agosto 2005 dal PM su 20 delle telefonate tratte dalle cassette della Falso. Tra l’altro ci si sarebbe aspettato che tale perizia fosse stata richiesta nell’ambito del procedimento 17869, quello sulla morte di Narducci, visto che sul 9144 le indagini erano terminate da più di un anno. E invece no, poiché nell’intestazione si legge che il procedimento è proprio il 9144. Si tratta dell’ennesima stranezza di questa inchiesta, forse un ripensamento del PM, forse una richiesta degli indagati. La legge consente infatti ulteriori investigazioni anche dopo la fine delle indagini preliminari, ma qui l’enorme ritardo – più di 15 mesi – non può non lasciare perplessi. È lecito chiedersi il perché tale perizia non fosse stata ordinata prima. In ogni caso eccone gli obiettivi:

Previo esame delle trascrizioni e della fonia delle telefonate per cui è processo, accerti il C.T.U. tutte le caratteristiche delle voci degli anonimi interlocutori di Falso Dorotea (in relazione all'avviso ex art. 415 c.p.p.), caratteristiche atte ad identificarli, vale a dire:

  • Sesso ed età degli interlocutori; timbro delle voci; caratteristiche 'linguistiche' delle voci; individuazione dell'aerea geografica di provenienza alla luce dell'inflessione dialettale, specie in relazione alle note distintive fonetiche, all'andamento della tonalità e a particolarità lessicali e/o morfologiche;
  • Comparazione dei risultati raggiunti con le caratteristiche linguistiche generali delle aree di Foligno (PG) e Cannara (PG), specie in relazione agli aspetti di cui all'ultima parte del punto 1;
  • Ulteriori particolarità espressive, atte a riferire le voci a particolari ambienti socio-culturali;
  • Eventuali anomalie di pronunzia e loro origine.

Il fatto che si suggerisse una possibile provenienza dei telefonisti da Cannara ci conferma i sospetti su Bini, il quale a Cannara era nato e a Cannara risiedeva. Questi i risultati:

  • Il supporto ottico esaminato contiene la registrazione di 20 conversazioni telefoniche, numerate dai periti progressivamente da 1 a 20 secondo l'ordine di presentazione;
  • Le prove di ascolto e l'analisi linguistica individuano come autori delle telefonate: un medesimo interlocutore maschile presente nelle conversazioni nn 2, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 18, 19, 20 e un medesimo locutore femminile nelle restanti conversazioni nn 1, 3, 4, 5, 6 e 17;
  • Il tema trattato, i termini impiegati e altre peculiarità insolite (come p.e. il modo di sghignazzare) sono in comune a entrambi i parlatori anonimi: la circostanza implica che l'uno sia al corrente delle modalità attuate dall'altro in fase di conduzione della conversazione (è ragionevole pensare quindi che sussista un tentativo di emulazione);
  • Le particolarità espressive rilevate manifestano per entrambi i locutori in verifica un lessico informale corretto, tecnico-settoriale che porterebbe a ipotizzare l'appartenenza a una setta o congregazione (per il tema trattato - esoterico) e una estrazione culturale medio-alta;
  • Il parlatore anonimo pone in essere una artefazione della propria naturale fonazione mediante laringalizzazione con conseguente voce arrochita e forzata. La voce della parlatrice anonima è verosimilmente priva di artefazione e pertanto utile a eventuali futuri confronti basati anche su analisi di tipo strumentale;
  • Dall'analisi linguistica (fonetico-articolatoria) si individua verosimilmente come zona di origine:
    per la voce maschile compatibile con quella di Cannara;
    per la voce femminile compatibile con quella piemontese.

Dunque la voce maschile era proprio quella di Pietro Bini, di Cannara, ma la voce femminile? L’inflessione piemontese ci dice che non apparteneva a nessuna delle tre donne presenti nel documento di chiusura delle indagini preliminari, tutte nate e residenti in Umbria. Quindi tale soggetto non venne individuato, almeno non fino all’udienza del 29 marzo 2006, nella quale il PM e l’avvocato di Bini avevano concordato una pena per il patteggiamento. Tra l’altro appare strano il fatto che si volesse concedere il patteggiamento a chi non aveva reso una confessione completa, tacendo l’identità della sua complice.
Tra i telefonisti non individuati, oltre a una donna di origini piemontesi ci doveva essere anche un uomo di origini toscane. La sua presenza risulta dalle trascrizioni delle prime cassette, dove si parla di “accento toscano” e di “-H- aspirata tipica toscana”. Quindi di sicuro non Bini, visto che è impossibile confondere parlata umbra e parlata toscana. Evidentemente le telefonate di questo soggetto non erano tra le 20 selezionate per la perizia fonica, che a questo punto si deve ritenere che avesse avuto più lo scopo di mettere la parola fine alla grottesca vicenda che quello d’individuare i telefonisti.
Sulla questione delle minacce telefoniche per adesso fermiamoci qui, restando in attesa di nuova documentazione – il massimo sarebbe la sentenza con la condanna di Bini – che possa portare chiarezza.

La notizia di reato. L’apertura di ogni procedimento giudiziario viene effettuata sulla base di almeno una “notizia di reato”– detta anche notitia criminis – attraverso la quale il magistrato ha preso atto di un reato da perseguire. Le fonti dalle quali tale notizia gli arriva possono essere molteplici, ma nella grande maggioranza dei casi si riducono a due tipologie: la denuncia, da parte delle forze dell’ordine o anche di comuni cittadini e il referto, segnalato dal sistema sanitario dopo l’esame di un soggetto offeso. A quel punto il magistrato deve iscrivere tale notizia in un apposito registro di cinque, ricevendo un numero progressivo annuale che, assieme all’anno e al tipo di registro, contraddistinguerà il relativo procedimento (per esempio 12345/20/21).
Dei cinque registri qui ne interessano tre. Nel registro detto “modello 21” vengono inserite le notizie di reato per le quali sono già state individuate una o più persone da indagare (registro delle notizie di reato a carico di persone note). Nel registro detto “modello 44” vengono inserite le notizie di reato per le quali tali persone non sono state ancora individuate (registro delle notizie di reato a carico di persone ignote).
Prima di parlare del terzo registro, è il caso di affrontare un tema spinoso, una delle fonti di possibili malfunzionamenti della giustizia italiana. Quando il reato è evidente di per sé la sua iscrizione in uno dei due registri citati è una logica conseguenza, anzi, la legge ne prevede l’obbligo. Saranno poi le indagini preliminari e il successivo processo a perseguire i responsabili, quando noti. In molti casi invece il reato non è evidente: potrebbe esserci stato ma anche no. L’esempio più eclatante è quello dell’abuso sessuale, i cui confini in certi casi sono davvero indefiniti. E quando il procedimento giudiziario viene aperto per un reato inesistente, il rischio è che tale reato, intercettazione dopo intercettazione, interrogatorio dopo interrogatorio, perizia dopo perizia, finisca per configurarsi davvero, con tutte le conseguenze negative che si possono immaginare. Soltanto l’esperienza e la sensibilità del magistrato possono risparmiare a persone innocenti l’ingresso in questi tunnel, evitando nel contempo che le risorse tutt’altro che illimitate di forze dell’ordine e magistratura vengano distolte dal perseguimento di reati reali.
Quando la sussistenza del reato non è certa, il magistrato può aprire un procedimento provvisorio avvalendosi del registro degli atti che non costituiscono notizia di reato (modello 45), senza avvertire il giudice per le indagini preliminari. Dopodiché procede con le proprie valutazioni, cercando di acquisire informazioni maggiori anche attraverso una limitata attività investigativa, che la legge non consentirebbe ma che appare evidente rendersi necessaria (per esempio sentire la persona offesa e il presunto responsabile). Alla fine di tale breve percorso, il magistrato deve quindi decidere se aprire un provvedimento a modello 21 o 44, oppure soprassedere semplicemente chiudendo il procedimento provvisorio.
Questo breve riassunto di una materia non troppo semplice servirà al lettore per seguire meglio gli eventi che dettero origine all’apertura delle indagini sulla morte di Francesco Narducci. Inevitabilmente sarà necessario sopportare qualche ripetizione di notizie già fornite dal precedente articolo.

Dal 9144/01/21 al 5202/01/45. Dopo la consegna alla questura di Perugia, il 29 settembre 2001, delle prime due cassette di minacce – dove compariva Pacciani – con una nota di due giorni dopo il capo della mobile Angeloni comunicò la notizia a Mignini, suggerendo come sospettato Francesco B., cognato della Falso. Il procedimento riferito è 1’11674/00/21, citato in varie occasioni dal magistrato come relativo a una vicenda di usura, nella quale evidentemente Francesco B. doveva risultare coinvolto. Ma scritto a penna compare anche il numero di un procedimento nuovo, il 9144/01/21, quello per le minacce telefoniche, che probabilmente fu aperto quel giorno stesso a carico del soggetto in questione e forse già della moglie, Nadia C.
Il 9 ottobre Angeloni inviò a Mignini il documento dal quale si può dire che sarebbe partita l’intera inchiesta Narducci (vedi). Dopo aver fornito inequivoca dimostrazione che nelle telefonate a Dorotea Falso non c’era stato alcun riferimento al medico umbro, appare ancor più sorprendente la richiesta di poter acquisire il “fascicolo processuale inerente la persona del dr. Narducci Francesco, perito a seguito di probabile suicidio”, con la seguente motivazione: “Come è ormai noto, voci insistenti avevano indicato il Dr. Narducci quale materiale esecutore dei ‘tagli’ di parti del corpo, effettuati dal mostro di Firenze, e che per di più avrebbe conservato in modo e luoghi adatti”. Nello stesso documento Angeloni chiedeva “delega all’acquisizione di sommarie informazioni da parte della professoressa Barone, impiegata quale medico legale presso l’istituto di Medicina legale di Perugia”. Questo perché “sembra che la Professoressa Barone sia al corrente di diversi particolari inerenti chiaramente la morte del Narducci, ma anche fatti specifici sulla sua vita, forse in considerazione anche del fatto che erano comunque colleghi”. Il tutto “al fine di stabilire se le persone autrici del reato [le minacce telefoniche], allo stato degli atti ancora non identificate, facciano parte o meno della setta satanica a cui fanno riferimento nelle conversazioni telefoniche, nonché siano interessate o coinvolte nella morte di Pacciani e/o comunque legate all’attività della persona che fu definita ‘il mostro di Firenze’”.
Sfugge davvero il nesso tra l’identificazione delle persone autrici delle minacce telefoniche e le chiacchiere su Narducci che da una quindicina d’anni circolavano nella zona, e sulle quali già la procura di Firenze aveva messo una pietra sopra giudicandole inconsistenti. Semmai in una prima fase delle indagini ci si sarebbe dovuti preoccupare dell’identificazione in sé, per capire cosa ci fosse dietro. Ma di fatto, come appare evidente, l’interesse per quelle minacce non era altro che un pretesto per iniziare a indagare sulla morte di Narducci.
In ogni caso le richieste di Angeloni ricevettero positiva accoglienza da parte di Mignini, il quale gli concesse le deleghe e nel contempo aprì un procedimento per atti che non costituiscono notizia di reato: il 5202/01/45. Chi scrive non ha la data precisa di tale apertura, ma un documento che tra breve vedremo fa presumere fosse avvenuta quello stesso 9 ottobre, assieme al recupero della scarna documentazione dell’epoca. In ogni caso poco cambia: per una ricostruzione storica è importante osservare che in quei giorni il magistrato stava riflettendo sugli eventi che avevano accompagnato la morte di Francesco Narducci, alla ricerca di una possibile notizia di reato, e per questo si era avvalso del registro a modello 45.

Francesca Barone. Lunedì 22 ottobre 2001 iniziò la settimana decisiva per la futura inchiesta su Narducci: Mignini doveva decidere se farla partire oppure no, cominciando col mettere in forse la causa ufficiale di morte, “asfissia da annegamento da probabile episodio sincopale” (in sostanza Narducci, provetto nuotatore, sarebbe affogato in seguito a un malore che lo aveva fatto cadere in acqua dal suo motoscafo). Abbiamo visto che sui procedimenti a modello 45 non sono consentite indagini, anche se spesso queste vengono svolte comunque, seppur in modo molto limitato. In ogni caso il magistrato scelse una strada alternativa e, per ascoltare i primi testimoni, si avvalse del procedimento 9144, che in verità con Narducci nulla aveva a che fare.
Alle 16:20 di quel lunedì 22 ottobre Francesca Barone, professoressa dell’Istituto di Medicina Legale di Perugia, era di fronte a Mignini. Come già emergeva dai documenti, la donna confermò di non essere stata interpellata in occasione del rinvenimento del cadavere, come invece riteneva fosse necessario. Dal verbale:

Ricordo che quella settimana ero di turno all'istituto di medicina legale per la sala settoria e che non fui interpellata in occasione del rinvenimento del cadavere di Francesco Narducci, che peraltro conoscevo di persona, essendo mio collega. Seppi subito che fu trovato il suo cadavere nel lago e mi allertai pensando di dovere intervenire per il sopralluogo ma non venni chiamata dalla Procura come è consuetudine. Ricordo in particolare che vi erano stati annegamenti di pescatori nel lago di Corbara ed io fui chiamata per il sopralluogo e l'autopsia. In questi casi venivamo sempre chiamati dalla Procura ma in quell'occasione, come ho detto, nessuno mi interpellò. Seppi che una dottoressa, le cui funzioni potrebbero oggi essere assimilate a quelle della guardia medica, era intervenuta, redigendo un certificato di morte per annegamento; a quanto mi risulta non fu eseguita la perizia autoptica e il cadavere non fu portato all'obitorio ma affidato direttamente ai familiari.

Francesca Barone disse anche altro. In effetti, se Angeloni voleva stimolare i sospetti di Mignini verso scenari inquietanti aveva suggerito la persona giusta. Vediamo le dichiarazioni inerenti il giorno in cui era stato ritrovato il cadavere:

Per pura causalità incontrai dei pescatori, uno dei quali, di cui non ricordo il nome, aveva partecipato al recupero del cadavere; quest'uomo […] mi disse che il cadavere di Francesco Narducci presentava delle macchie rosse, come se avesse sbattuto contro qualcosa o che comunque avesse subito colpi violenti. Le macchie erano presenti soprattutto sul volto; il pescatore aggiunse che il cadavere aveva le mani ed i piedi legati dietro la schiena. Il pescatore mi disse che dovevano avergli dato tantissime botte per come era ridotto il volto.

Ecco invece qualche notizia sulla figura di Narducci:

Domanda: ricorda quali erano le abitudini del Dr. Narducci Francesco?
Risposta: solo per sentito dire, ricordo che il Narducci era una persona dal carattere difficile, molto ansioso ed estremamente chiuso e che frequentava una ristretta cerchia di amici. Nell'ambito dell'ospedale la sua cerchia di amici era quella della vecchia clinica medica. Mi risulta, per sentito dire, che avesse una casa in Toscana, dove si recava frequentemente.
Domanda: con chi viveva il Dr. Narducci Francesco?
Risposta: non lo so, so soltanto che era separato dalla moglie. Non si parlava nemmeno di suoi rapporti con altre donne, cosa che si sarebbe risaputo in clinica dove si conoscevano subito questi pettegolezzi. Quando si parlava del Narducci, si diceva subito che era introverso e che aveva una vita molto riservata. Ho sentito dire anche che Narducci aveva interessi verso l'esoterismo.


Molte notizie gustose, dunque, ma tutte per sentito dire – tra l’altro anche inesatte, come il fatto che Narducci fosse separato dalla moglie – e che peraltro la Barone aveva già avuto modo di raccontare, negli anni precedenti, a giornalisti che proprio a lei erano andati a chiedere lumi.

Domanda: quali erano le condizioni di salute del Narducci?
Risposta: nulla so in proposito, però posso dire che era giovane ed aveva un fisico atletico. Vorrei aggiungere che diversi anni fa durante il meeting di Comunione e Liberazione di Rimini, un giornalista toscano, di cui non ricordo il nome mi telefonò e poi mi fece delle domande su Francesco Narducci, ricollegandolo alla vicenda del cosiddetto “Mostro di Firenze”. Non ricordo a quale giornale appartenesse questa persona ma sapeva tantissime cose sulla vicenda del mostro di Firenze e sapeva anche che il Dr. Narducci aveva una casa in Toscana. Mi indicò il luogo preciso ma non ricordo se fosse Firenze o un'altra località. Un'altra inchiesta giornalistica fu fatta da Luigi Amicone del settimanale “Tempi” di Milano; anche Amicone venne da me e mi chiese di Narducci ma non era così informato come l'altro. Il giornalista di cui non ricordo il nome mi disse che Narducci aveva una pistola.
Domanda: ha più visto il giornalista toscano?
Risposta: no, non l'ho più visto. Voglio specificare che il giornalista, dopo l'incontro a Rimini venne a Perugia un paio di volte per parlare con me sempre di Narducci.


È il caso di fare qualche precisazione sul racconto del pescatore che aveva riferito alla Barone di aver visto il cadavere di Narducci con mani e piedi legati dietro la schiena. Tempo dopo sarebbe stato identificato per Giancarlo Zoppitelli, non pescatore ma imbianchino, il quale dapprima cadde dalle nuvole, poi, dopo un confronto con la Barone, il 13 marzo 2002 dichiarò:

Ora che ho visto la Prof.ssa Barone ricordo che effettivamente nel pomeriggio del 13.10.1985 riferii a quest'ultima che il cadavere aveva il volto tumefatto, il naso rotto e le mani legate, ma questo non l'ho visto di persona. L'ho sentito dire quel giorno da molta gente sul pontile, nel momento del ritrovamento da persone del paese che hanno ripetuto queste affermazioni anche nel bar “Menconi”, gestito da tale Menconi, non ricordo se il padre o il figlio. Mi dispiace di essermi infilato in questo impiccio.

A questo punto si provi a immaginare i colloqui della Barone con i due giornalisti, e si avrà un’idea di massima di come la vicenda Narducci si sia nutrita di chiacchiere della cui origine non si è mai saputo nulla: sul pontile e al bar Zoppitelli avrebbe sentito dire delle condizioni sospette del cadavere (ma forse se le era inventate lui), poi lo aveva detto alla Barone. Si può immaginare che a sua volta la Barone lo avesse riferito ai due giornalisti, i quali lo avranno senz’altro riportato nei loro servizi.
A proposito della scelta della Barone come primo testimone in scaletta si legge nella sentenza Micheli:

È emblematico constatare come già la prima persona escussa per valutare se fosse il caso di vederci più chiaro sui fatti del 13 ottobre 1985 si trovi a dare contezza della voce corrente sul coinvolgimento del Narducci nelle questioni fiorentine, sulla disponibilità in capo a lui di una casa nella zona di Firenze e addirittura sugli interessi esoterici del defunto.
È anche singolare prendere atto che, in un congresso di qualche anno prima, un giornalista toscano – si capirà in seguito trattarsi del Licciardi – avesse pensato di chiedere notizie sulla vicenda proprio alla prof.ssa Barone, e che sempre da lei, ben prima del ritorno di interesse degli inquirenti su quella storia, si fossero recati altri giornalisti.


Per la cronaca, Pietro Licciardi è un giornalista pisano, autore a quattro mani di due libri in argomento, entrambi pessimi: Gli affari riservati del Mostro di Firenze, assieme a Gabriella Carlizzi e La strana morte del dr. Narducci, assieme a Luca Cardinalini. Di ben altra caratura Luigi Amicone, il cui servizio su Narducci non è purtroppo nella disponibilità di chi scrive.
Nella documentazione dell’epoca comparivano i nomi dei funzionari che si erano interessati al caso, in massima parte ancora in vita (il maresciallo dei carabinieri Lorenzo Bruni, il dirigente della mobile Alberto Speroni, il questore Francesco Trio, tanto per citarne alcuni), quindi perché non chiedere spiegazioni a loro? Evidentemente si cominciava già a considerarli parte in causa nelle presunte malefatte, mentre la scelta della Barone era funzionale alla ricerca di motivi di sospetto. Sia come sia, il colloquio con lei dovette risultare molto convincente. Quel giorno stesso, infatti – pare logico ritenere: appena dopo averla ascoltata – Mignini inviò alla procura di Firenze un documento nel quale dichiarava la sua intenzione di partire con le indagini: “Si fa presente che questo Ufficio procede in ordine alle circostanze relative alla scomparsa e al rinvenimento del Dr. Francesco Narducci”. Il procedimento indicato in capo al documento è il 9144, ma nel testo si legge: “Oggetto: procedimento n. 5202/01 R.G. Mod. 45”, quindi il provvisorio aperto con la ricezione dell’informativa di Angeloni del 9 precedente, la quale veniva allegata.
Riguardo questa fin troppo solerte comunicazione – perché non attendere fino all’apertura del procedimento definitivo? – si deve osservare come alimenti i sospetti che a Firenze non si fosse affatto all’oscuro di quel che si stava preparando a Perugia, e che anzi, si attendesse con ansia l’apertura di un nuovo fronte sulle moribonde indagini alla ricerca dei mandanti. È il caso di ricordare la brutta situazione in cui si trovavano in quei giorni Giuttari e la procura, reduci dal clamoroso fallimento della perquisizione nella villa dei C. a San Casciano

Avanti con le deleghe. A testimoniare la decisione oramai già presa c’è un documento del giorno successivo, 23 ottobre 2001, nel quale Mignini chiede ad Angeloni di partire con approfondite indagini, concedendogli amplissime deleghe.

Pregasi procedere alle indagini relative ai fatti rappresentati nell'allegata notizia di reato, assumendo informazioni ex artt. 362 e 370 c.p.p., da tutte le persone che possono comunque fornire notizie utili in ordine a quanto emerso nel corso dell'attività di indagine, in ordine agli ultimi giorni di vita del Narducci e, soprattutto, in relazione all'ultimo e, in particolare, al viaggio da Perugia al Lago Trasimeno e all'eventuale sosta nell'isola Polvese, nonché in ordine ad eventuali appuntamenti del defunto con sconosciuti.
Pregasi, in particolare, di accertare, anche attraverso l'ausilio di persone idonee, ex art. 348, ult.mo comma c.p.p., le seguenti circostanze:

  • La presenza e l'individuazione di eventuali visitatori nell'isola Polvese, nel pomeriggio dell'8.10.1985;
  • La presenza di reti (nasse) nel tratto lacustre tra l'isola Polvese e il luogo del ritrovamento del cadavere;
  • Le condizioni metereologiche e la presenza e la direzione di eventuali correnti nel periodo compreso tra l'8 e il 13.10.1985, nonché le caratteristiche della fauna e della vegetazione lacustre nel tratto di Lago suindicato;
  • I movimenti subiti dai cadaveri di persone annegate nel tratto lacustre in questione;
  • Il livello di carburante necessario all'imbarcazione del Narducci per portarsi all'isola Polvese e ritornare;
  • Dove si trovi la moto utilizzata dal Narducci;

Di tutte le persone assunte a s.i. dovranno essere indicati generalità complete e residenza o domicilio e dovranno essere identificati e assunti a s.i. coloro che verranno indicati dalle persone interrogate.
Si fa presente che, qualora le persone informate sui fatti si riferiscano, a loro volta, ad altre persone che siano a conoscenza dei fatti per cui si procede, sarà indispensabile che le stesse vengano assunte a s.i. ex art. 351 c.p.p., nel rispetto della norma di cui all'art. 13 della l. n. 63/2001, o che, almeno, siano esattamente identificate.
La delega è estesa a tutte le attività che, durante lo svolgimento delle indagini, si rivelassero necessarie.
Con facoltà di subdelega al corrispondente organo di Polizia Giudiziaria territorialmente competente che dovrà svolgere con sollecitudine le indagini delegate e restituire gli atti direttamente a questa Procura, dandone comunicazione all'Autorità delegante entro e non oltre il termine di scadenza delle indagini stesse.


Anche in questo caso venne utilizzato l’escamotage d’inserire l’attività richiesta nell’ambito del procedimento sulle minacce telefoniche alla Falso. Si parla però di “allegata notizia di reato”, una parte del documento non in possesso di chi scrive, ma che è facile immaginare cosa contenesse. Non a caso tra le disposizioni ad Angeloni c’era anche quella d’indagare sulla “presenza e l'individuazione di eventuali visitatori nell'isola Polvese, nel pomeriggio dell'8.10.1985”, visitatori che avrebbero potuto essere i responsabili del reato da perseguire.

Donatella Seppoloni. Nonostante la comunicazione ai colleghi di Firenze e le disposizioni ad Angeloni, anche il giorno dopo Mignini non aprì un procedimento definitivo, preferendo ascoltare qualche altra testimonianza nell’ambito del solito 9144. Alle 10:25 di mercoledì 24 ottobre Donatella Seppoloni, all’epoca medico della USL del Lago Trasimeno, si trovava di fronte a lui. La mattina di domenica 13 ottobre 1985 la dottoressa era stata chiamata sul pontile dove giaceva il corpo di Narducci appena recuperato dal lago, e in quella circostanza aveva redatto il certificato di morte con la diagnosi “asfissia da annegamento da probabile episodio sincopale”.
Dal lungo colloquio emerse innanzitutto che l’intervento era avvenuto secondo una prassi di assoluta normalità:

Domanda: nell'attività di medico strutturato aveva compiti di interventi di urgenza, quali visite di urgenza o come visite esterne di cadavere e comunque attività di medico legale?
Risposta: non era il mio lavoro ordinario ma lo svolgevo in condizioni di reperibilità per il pomeriggio, per le notti e per i periodi festivi.
[…] fui chiamata dal centralinista dell'ospedale di Castiglion del Lago nel primo pomeriggio, forse intorno alle ore 14,30 - 15,00 di un giorno di Ottobre di molti anni fa; mi venne detto dal centralinista che c'era una chiamata urgente dal molo di S. Arcangelo in quanto era stato rinvenuto un cadavere nel lago. Sono arrivata sul molo di S. Arcangelo e vi trovai il Dr. Trippetti giovane, che non aveva potuto fare la certificazione perché non poteva più esercitare le funzioni di medico necroscopo. L'unico medico abilitato ad effettuare attività di necroscopia ero io.


Dunque la dottoressa Seppoloni era effettivamente la persona da chiamare (il suo ricordo dell’orario risultava però sbagliato, l’intervento era infatti della mattina). Quel che invece non appariva normale erano le forti pressioni fattele per redigere il certificato di morte in base a un’ispezione sommaria e soprattutto senza disporre la necessaria autopsia.

Domanda: la visita fu effettuata tutta all'esterno o il cadavere fu portato in qualche luogo chiuso?
Risposta: io dovevo fare solo una constatazione di morte e redigere il conseguente verbale; ricordo che la visita si svolse sul molo, dove avevo visto per la prima volta il cadavere. Il cadavere non fu spogliato perché non serviva ai fini della constatazione di morte. Ricordo che sia il fratello, che il Dr. Morelli ed il Dr. Farroni o Ferroni, mi giravano continuamente intorno e questo mi dava piuttosto fastidio, tant’è che chiesi ai vigili di tenermi lontano queste persone, fra cui vi erano anche i giornalisti con macchine fotografiche. Ricordo che ad un certo punto sopraggiunse una Autorità, non so se della Questura o della Procura, che mi chiese di fare una ispezione cadaverica; intorno a me c'erano i Carabinieri credo della Stazione di Magione. […]
Domanda: Lei di solito faceva le ispezioni o si limitava a redigere i certificati di morte?
Risposta: io di solito redigevo solo i certificati di morte perché non avevo la competenza professionale per effettuare le ispezioni cadaveriche. Questa persona comunque mi chiese di fare quest'ispezione ed io dissi che non ero in condizioni di poterla fare sul molo e quindi il cadavere doveva essere trasportato nella camera mortuaria dell'ospedale di Castiglion del Lago, che era la più vicina. Qui iniziarono purtroppo delle insistenze e delle pressioni per fare immediatamente l'ispezione sul posto poiché si trattava di un caso urgente, vi erano i familiari affranti e comunque non si poteva attendere il trasporto alla camera mortuaria. Vi fu un minimo di contraddittorio, perché io insistevo ad avere un ambiente adeguato che non ottenni perché mi si ribadì la necessità e l’urgenza di effettuare l’ispezione, senza sapere se questo fosse disposto dall'Autorità Giudiziaria; quindi mi rimboccai le maniche e grazie all'ausilio dei Vigili del fuoco che mi aiutarono anche nell'ispezione, mi accinsi a questa operazione, dopo aver invitato i Carabinieri ad allontanare la gente. Feci comunque presente alla persona in divisa che la mia ispezione sarebbe stata del tutto sommaria perché non avevo né i mezzi né la competenza professionale per procedere ad ispezioni di quel tipo.


Antonio Morelli e Ferruccio Farroni, colleghi di Francesco Narducci, furono i firmatari del certificato di riconoscimento. Il personaggio indicato come “autorità” si sarebbe appurato poi trattarsi del questore Francesco Trio. Alla fine le loro pressioni sortirono l’effetto desiderato: la Seppoloni effettuò un’ispezione sommaria sul posto e certificò che la causa di morte era l’annegamento, rendendo quindi non indispensabile l’autopsia, che in effetti non sarebbe stata eseguita. Nella documentazione si legge anche il momento del decesso, risalente a 110 ore prima dell’ispezione. Su questo importante dettaglio la Seppoloni cadde dalle nuvole:

Il verbale fu redatto materialmente in un locale, credo della cooperativa dei pescatori di S. Arcangelo, dove mi recai assieme ai Carabinieri i quali provvidero a redigere il verbale che io firmai nella parte relativa alla ricognizione del cadavere, ma non ricordo che mi vennero fatte domande circa l’orario della morte od altro, anche perché non potevo stabilire l’orario della morte del Dr. Narducci ed escludo di avere detto che era morto da 110 ore perché non avevo un minimo di competenza per affermarlo. Voglio aggiungere che c’erano delle forti pressioni intorno a me perché più io allontanavo le persone, con l’ausilio dei Carabinieri, più la gente mi pressava anche all’interno del locale.

Evidentemente chi aveva redatto il verbale aveva fatto un semplice conteggio di ore dal momento della scomparsa.

Baiocco e Trovati. Subito dopo la Seppoloni, alle 12:55, toccò alla persona che aveva rinvenuto il cadavere, il pescatore Ugo Baiocco.

Domanda: ricorda di avere ritrovato il cadavere del Dr. Narducci?
Risposta: sì, ricordo che lo ritrovai insieme a mio cognato […] annegato quest'anno nel lago. Sapevo che il Dr. Narducci era sparito nella zona del lago […]. Come tutte le mattine, anche il giorno del ritrovamento […] eravamo io e mio cognato in barca, diretti verso l'Arginone, che si trova in un luogo situato in direzione di Castiglion del Lago, con l'intenzione di porre le reti […].
Ricordo perfettamente che quel giorno vi erano molte alghe che affioravano dall'acqua e vi era vento da ponente; io dissi a mio cognato, guardando quel cumulo di alghe, “ma non sarà mica il professore quello?” E quando ci avvicinammo, rallentando con il motoscafo, vidi il corpo di un uomo sfigurato, a pancia all'aria, vestito con cravatta, camicia e mi pare un giacchetto, calzoni e scarpe, con il volto tumefatto, nero e gonfio, e non si vedevano nemmeno gli occhi.
Ricordo che la testa era rivolta verso Castiglion del Lago, a favore di vento, ricordo anche che sulla testa vi erano molte alghe che formavano come una specie di capannella in cui era immerso il corpo. Aveva il braccio sinistro poggiato sullo stomaco e il braccio destro lungo il corpo; appena lo vidi svenni e mi ripresi dopo pochi minuti. Ricordo che in quei giorni il vento era di ponente un po' sostenuto, in sostanza veniva da Castiglion del Lago ed andava verso S. Arcangelo; ricordo anche che la mano sinistra, quella poggiata sullo stomaco, era particolarmente gonfia, deforme e scura, mentre l'altra mano era sott’acqua.
Dopo quel fatto facemmo chiamare i Carabinieri di Castiglion del lago che hanno portato il cadavere al molo, dove è arrivato il Procuratore. Io, dopo essere andato al molo, me ne andai. Ricordo che quando il cadavere fu poggiato nel motoscafo dai Carabinieri, si aprì un qualcosa nel corpo del morto, non so se dal ventre o dalla bocca, e vi fu una puzza indescrivibile, tanto che i Carabinieri dovettero mettersi una garza alla bocca ed al naso.


Come abbiamo già visto, niente mani e piedi legati dietro la schiena, dunque. In quel momento però Mignini non aveva ancora avuto modo di sapere chi fosse il pescatore che aveva raccontato la scena alla Barone, quindi neppure di interrogarlo. E allora ci si deve chiedere se sospettò che magari anche Ugo Baiocco avesse partecipato ai misfatti!
L’ultimo testimone della giornata, alle 16, fu Giuseppe Trovati, detto Peppino, proprietario della darsena di San Feliciano dove era ricoverato il motoscafo dei Narducci. Era stato lui a vedere Francesco mentre partiva per il suo ultimo viaggio, quindi il suo racconto assume particolare rilevanza.

Domanda: che cosa notò l'ultima volta che vide il Dr. Narducci in vita?
Risposta: arrivò verso 1e 15,00 - 15,30 circa di un giorno di ottobre a bordo di una moto che già avevo visto altre volte e mi pare che il colore del serbatoio fosso di colore oro, ed il tipo della moto fosse quello tradizionale, con il manubrio alto. Ricordo che indossava un giubbotto di pelle di camoscio, con sotto una camicia, mi pare, non ricordo se avesse i jeans ed i mocassini. Preciso che verso le ore 14,?? il Narducci telefonò a mia moglie per sapere se la barca era ancora al lago perché normalmente nel mese di Ottobre vengono tolte e ricoverate in un piazzale; invece quell'anno era molto caldo e la barca era ancora ormeggiata nella darsena. Mi salutò cordialmente ed appariva del tutto normale; mi disse che usciva con la barca ed io gli chiesi se avesse bisogno del carburante e lui mi disse che era sufficiente quello che aveva, contando sul fatto che comunque il serbatoio di scorta era mezzo pieno di benzina, contenendo 10 - 12 litri. Quel motore consumava circa 1,5 lt per chilometro; quando ii Dr. Narducci salì sull'imbarcazione non aveva niente in mano, e partì verso l'isola Polvese e comunque verso il centro del lago. Ricordo che non prestai attenzione alla sua partenza perché dovevo andare dal commercialista.


Il racconto passa quindi alla fase in cui Trovati si accorse del mancato rientro e dopo un po’ iniziò a preoccuparsi.

Quando tornai dal commercialista, verso le ore 19,00 circa, e comunque quando era già notte, notai che il motoscafo non era rientrato. La moto era ancora parcheggiata all'interno del terreno della darsena, dove l'aveva lasciata, nei pressi di una pianta. […] Non vedendo il Dr. Narducci ho aspettato una mezz'oretta senza essere eccessivamente preoccupato, sia perché il Narducci era particolarmente esperto sia perché il lago era completamente calmo. […] Verso le ore 19,30 telefonai a casa dei genitori e mi rispose suo fratello. Lo informai che il Dr. Francesco non era ancora rientrato con il motoscafo e lui mi rispose che sarebbero arrivati. Verso le ore 21,30 - 22,00 arrivò il fratello del Dr. Narducci, Dr. Pierluca, insieme al Dr. Ceccarelli, oltre ad altre due persone, fra cui il cognato. Uscirono con il motoscafo a cercare il Dr. Francesco; ricordo che non c'era la luna piena e quindi era buio.

Senza neppure attendere l’arrivo dei parenti, Trovati uscì sul lago. Poi tornò alla darsena e si unì ad altri in una ricerca più organizzata. Alla fine il motoscafo venne ritrovato vuoto tra le canne dell’isola Polvese.

Dopo avere chiamato i familiari, feci un giro con il motoscafo intorno all'isola Polvese e non vidi il motoscafo del Dr. Narducci, dove poi è stato ritrovato, e cioè nel canneto dell'isola Polvese. Quando il motoscafo fu ritrovato, credo che fosse a circa venti metri dall'isola stessa. Dopo aver fatto il giro dell'isola, tornai alla darsena e vidi che i familiari erano già arrivati. Escludo di avere chiamato i Carabinieri e ricordo che c'erano i mezzi della provincia ma non mi pare che vi fosse la motovedetta dei Carabinieri, se ben ricordo. Il motoscafo con cui avevo fatto il giro dell'isola aveva un faretto non molto potente e le canne in mezzo a cui fu ritrovata l'imbarcazione erano abbastanza alte. Comunque quando tornai alla darsena, i soccorsi erano già stati organizzati dalla Provincia e noi fummo dotati di baracchino con cui comunicavamo a distanza. Io fui mandato verso l'isola Maggiore, dove verso le ore 00,30 mi fu data la notizia che era stata rinvenuta la barca presso l'isola Polvese. […]

Il natante appariva in condizioni assolutamente normali, come se Narducci si fosse tuffato per una nuotata senza più risalire a bordo (in realtà il suo cadavere vestito di tutto punto faceva escludere questa ipotesi; semmai poteva essere caduto in acqua per un malore).

Appena saputa la notizia, rientrai alla darsena, dove era stata portata la barca. La barca presentava la leva del cambio del motore in folle ed il motore spento; c'era anche un pacchetto di sigarette ed un accendino, posti sul sedile anteriore, vicino a quello di guida. La barca era in perfetto ordine; io provai il motore che andò regolarmente in moto. Non controllai il livello del carburante. Quando vidi l'imbarcazione notai che le chiavi erano nel quadro.

Il dado è tratto. Alla fine di quel frenetico 24 ottobre 2001 Mignini ritenne di aver acquisito sufficienti elementi per prendere una decisione. Il lettore sa già quale fu, ma facciamo finta di non saperlo, e cerchiamo di metterci al suo posto. Pare evidente che con la mancata autopsia e tutti gli altri necessari controlli sul cadavere fossero state commesse delle irregolarità, delle quali risultavano responsabili medici e rappresentanti delle forze dell’ordine, peraltro di grado elevato. Alcuni erano presenti nella testimonianza della Seppoloni, come l’autorità che lei ricordava in divisa ma che doveva essere il questore Francesco Trio. E poi i colleghi di Narducci, Antonio Morelli e Ferruccio Farroni, nonché il fratello Pierluca, che le avevano fatto pressione diretta ma la cui responsabilità era soltanto morale. Altri personaggi emergevano dai vecchi e scarni documenti, magistrati, poliziotti e carabinieri che avevano preso visione delle irregolarità senza creare problemi. Tra loro il capo della mobile, Alberto Speroni, e un procuratore e un giudice istruttore che avevano rinunciato a esercitare azione penale.
Si legge in un frammento della requisitoria di Mignini riportato nella sentenza Micheli, dove si parte da uno scambio tra Ugo Narducci, il padre, e una testimone:

“Ugo mi prese in disparte portandomi in un’altra stanza, uno studio, e mi disse: mi sono messo d’accordo con il Questore per non far fare l’autopsia a Francesco”.
Qui siamo al di fuori di qualsivoglia canone giuridico processuale: un privato si accorda con il funzionario che è sì a capo della Polizia della provincia ma che è totalmente privo di qualsivoglia competenza di polizia giudiziaria circa il fatto che un atto che è tipicamente un atto di indagine di competenza dell’Autorità giudiziaria debba o non debba essere fatto.
Ricordo la dizione dell’art. 16, primo comma del R.D. 28.05.1931 n. 602, sulle Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: “Se per la morte di una persona sorge sospetto di reato, il pretore o il procuratore della Repubblica accerta la causa della morte e, se lo ravvisa necessario, ordina o richiede l’autopsia…”. Questa, a sua volta, se non fosse apparsa collegata a ricerche di carattere complesso, si doveva considerare rientrante nelle ipotesi di cui agli artt. 17, primo comma disp. att. c.p.p. previgente e dall’art. 391, secondo comma c.p.p. previgente.
Si doveva, quindi, procedere con istruzione sommaria, con il rischio che, data l’evidente complessità degli accertamenti, il Pubblico Ministero avrebbe dovuto, con ogni probabilità, richiedere l’istruzione formale al Giudice istruttore.
Ma, in questo caso, un privato, cioè il padre del morto, si accorda con il Questore per non compiere un atto che, a norma delle disposizioni allora vigenti, era di competenza del pretore o del procuratore della Repubblica e avrebbe dovuto dar luogo ad un vero e proprio processo penale. Ma dove siamo? Anzi, dove eravamo? In uno sperduto paese del Terzo mondo, con tutto il rispetto per il Terzo Mondo o nella civilissima Europa e nella sua culla del diritto, cioè l’Italia?
Ovviamente, neppure la polizia giudiziaria, presente sul posto il giorno 13, ha fatto alcunché in merito a quelli che erano i precisi doveri che il previgente codice di procedura penale, all’art. 222, faceva carico agli stessi, vale a dire procedere ai necessari accertamenti e, in generale, alla conservazione del corpo e delle tracce del reato.


Senz’altro gravi irregolarità, dunque, che però di per sé non costituivano certo il presupposto per la formulazione di una notizia di reato, poiché, se reati erano stati commessi, dopo 16 anni risultavano prescritti. Per aprire un procedimento sulla morte di Narducci c’era una strada soltanto: ipotizzare che la mancata autopsia avesse avuto lo scopo di nascondere un reato ben più grave, tanto grave da non essere ancora prescritto. Un omicidio. Ma su quali basi poteva essere formulata un’ipotesi tanto grave? Prima di rispondere leggiamo alcune considerazioni di buon senso fatte dal giudice Micheli:

Chi scrive ha lavorato come Sostituto Procuratore della Repubblica, in tre uffici diversi e complessivamente per quasi 10 anni: costituisce esperienza comune, o se si preferisce fatto notorio, che i familiari di chiunque sia stato ritrovato morto per un apparente suicidio o una verosimile disgrazia cerchino molto spesso di sensibilizzare gli inquirenti per far comprendere quanto sarebbe drammatico per i loro affetti non solo ammettere l’idea di un’autopsia, con la necessaria dissezione del cadavere del congiunto, ma anche dover prolungare la sofferenza della perdita fino al momento di vedersi riconsegnata la salma (evenienza che qualunque attività formale, per quanto non cruenta, necessariamente ritarda).
Ergo, è capitato e continua a capitare a tutti, di ricevere la telefonata del comandante la Stazione dei Carabinieri dove vivono i familiari del defunto, con il militare a rappresentare il dolore di un padre o di una madre neppure sfiorati dall’idea che ci siano reati da accertare e che non sanno capacitarsi della necessità di dover attendere che il medico legale faccia il suo lavoro; e può certamente accadere che, se quel padre o quella madre conoscono non un maresciallo dei Carabinieri, ma il comandante della Compagnia o financo il Questore, la telefonata in questione la faccia qualcuno che si potrebbe pensare più autorevole.


Le considerazioni di Micheli paiono del tutto condivisibili. Come per qualsiasi altro familiare di una persona morta, anche a quelli di Narducci non avrebbe certo fatto piacere un’autopsia. E i Narducci non erano una famiglia di operai, era gente che in ambito locale contava moltissimo. Per di più Francesco era sposato con una componente di una famiglia ancora più prestigiosa, in questo caso addirittura a livello nazionale e internazionale, per le industrie dolciarie Perugina e la catena di abbigliamento Spagnoli. Quindi non c’è da stupirsi troppo se le autorità del posto avevano chiuso un occhio di fronte alle richieste di un padre affranto.
Peraltro la famiglia Narducci aveva un motivo in più per temere l’autopsia: il forte sospetto di un suicidio, come del resto era apparso chiaro a tutti fin da subito. Il loro congiunto non era morto per una disgrazia ma si era tolto la vita, riuscendo in qualche modo a reprimere l’istinto di sopravvivenza e ad affogarsi. Avrebbe detto il genero, Gianni Spagnoli, in un’audizione del 21 febbraio 2002, la prima di tante: “Al secondo giorno della scomparsa di Francesco, cioè il 9.10.1985, Pierluca a casa di Francesca mi disse che non si sarebbe meravigliato se Francesco avesse preso una fiala di un farmaco che precisò ma di cui non ricordo il nome e si fosse buttato dalla barca”. I familiari sapevano bene che assieme all’autopsia sarebbe stato effettuato un esame tossicologico, e se il loro congiunto si fosse stordito con un farmaco la notizia sarebbe rimbalzata sui giornali, con tutte le conseguenze del caso.
D’altra parte il racconto di Trovati sulle modalità con le quali Narducci si era diretto verso il suo tragico destino non offriva alcun appiglio all’ipotesi di un omicidio, anzi, favoriva quella di un suicidio. Il poveretto si era allontanato in barca da solo, in un giorno feriale di metà ottobre che, per quanto di bel tempo, non si conciliava affatto con una gita sul lago. Le sue intenzioni dovevano essere state ben più tragiche, e molto probabilmente comprendevano il tentativo di far pensare a una disgrazia, per un gesto di riguardo verso i propri familiari. Riguardo l’ipotesi dell’omicidio, di sicuro in un film sarebbe risultato spettacolare un appuntamento con i propri assassini in mezzo al lago, ma nella realtà molto poco pratico e molto più denso d’incognite rispetto, tanto per fare un esempio, al banale intervento di un sicario in mezzo a una strada, magari di sera.
In realtà in quei giorni a Perugia si voleva partire con l’inchiesta Narducci a tutti i costi, come peraltro viene confermato dallo scenario delle minacce telefoniche. E Mignini, fino a prova contraria in buona fede ma comunque in un modo che non si può non giudicare almeno avventato – e se dietro le telefonate ci fosse stata la misteriosa setta che intendeva depistare? – agì di conseguenza, e il 25 ottobre 2001 iscrisse a modello 44 un nuovo procedimento, il famoso 17899/01. Si legge sul frontespizio del fascicolo:

* NR. 017869/01 * DEL 09/10/2001
– IGNOTI – ISCRITTA IL 25/10/2001
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P.M. DELEGATO DR. GIULIANO MIGNINI

* NOTIZIE DI REATO *

(001) – CP 0575, CP 0576,
(002) – CP 0577, CP 0061 Num. 02 Num. 04,

PERIODO DAL: IN EPOCA ANTERIORE E PROSSIMA AL 13/10/1985
PERIODO AL: //
IN MAGIONE

* LISTA PARTI OFFESE/RIFERIMENTI *

COGNOME E NOME: NARDUCCI / FRANCESCO


La data del 9 ottobre dovrebbe riferirsi all’apertura del fascicolo provvisorio, il 5202/01/45. Il reato ipotizzato è l’omicidio (CP 0575) con aggravanti (CP 0576, CP 0577, CP 0061). Le aggravanti previste dai tre articoli sono molte, e chi scrive non sa bene quali intendesse Mignini, è interessante però la specifica del capoverso 2 dell’articolo 61, dove l’aggravante è così descritta: “L'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri […] la impunità di un altro reato”. E qui si arriva al nucleo della questione, alla stessa ragion d’essere del procedimento: l’ipotesi che Francesco Narducci fosse stato ucciso dall’organizzazione segreta che avrebbe commissionato i delitti del Mostro, della quale lui stesso avrebbe fatto parte e che avrebbe avuto intenzione di denunciare. Ipotesi tanto audace quanto fantasiosa, ben compatibile con le trame dei romanzi che Giuttari e i suoi editor di lì a un paio d’anni avrebbero cominciato a concepire.
Nella sostanza, con l’apertura del procedimento 17869/01/44, si riconfigurava a Perugia quello scenario dei mandanti che a Firenze aveva appena finito di dimostrare tutta la sua inconsistenza.

Un’inchiesta dura a morire. E qui non possiamo far altro che tornare al tema d’apertura, quello delle “Cattedrali nel deserto”. Dando il via all’inchiesta sulla morte di Francesco Narducci e sui suoi eventuali legami con le vicende dei duplici omicidi di Firenze il pubblico ministero Giuliano Mignini s’incamminò lungo una strada dalla quale non sarebbe più riuscito a tornare indietro, nonostante se ne fosse presto resa evidente la mancanza di sbocchi. A nulla sarebbe servita la costante interpretazione di ogni elemento in chiave malevola (la sentenza Micheli offre numerosissimi esempi al riguardo). Alla fine l’inchiesta si sarebbe aggrovigliata su se stessa, finendo per impiegare le maggiori risorse non più tanto sull’ipotesi di reato iniziale, ma sulla difesa dalle critiche dei giornalisti e dai tentativi delle autorità di porle un freno. Come una belva affamata priva di cibo si sarebbe rivoltata anche contro qualche incolpevole testimone accusandolo di reticenza o intralcio, come nel caso di Donatella Seppoloni e Giuseppe Trovati.
E non dimentichiamo i costi economici. Si legge nella sentenza Micheli:

“È una vicenda complessa, forse la più complessa, la più dirompente e la più tormentata che la cronaca giudiziaria di questa sede perugina ricordi.”
Il Procuratore della Repubblica, nella requisitoria depositata per atto scritto e che verrà riportata di seguito per ampi stralci, ha usato queste parole per definire il processo che viene definito con la presente sentenza. Prescindendo in questa fase introduttiva dalle cause che hanno portato a tale situazione concreta, ma è un punto su cui si dovrà almeno implicitamente tornare, si può essere senz’altro d’accordo sulla conclusione: di rado gli atti trasmessi dal P.M. al Giudice dell’Udienza Preliminare per corredare una richiesta di rinvio a giudizio hanno una mole anche lontanamente assimilabile agli oltre 100 faldoni di carte che qui sono stati raccolti; e forse mai (ma il forse è un eufemismo) questo Ufficio è stato chiamato a pronunciarsi su fatti storici che trovano antecedenti – e, secondo l’impianto accusatorio, motivazioni – in episodi risalenti a 25 anni prima.


Si aggiungano tutti i procedimenti collaterali, come quello stralciato per i legami con i delitti di Firenze, poi archiviato per mancanza di elementi su richiesta dello stesso PM. Ma anche l’inchiesta fiorentina sui mandanti si sarebbe presto arenata senza la pista Narducci; invece andò avanti fino a portare in giudizio il povero farmacista Francesco Calamandrei, il quale naturalmente sarebbe stato assolto. E non dimentichiamo il GIDES, la struttura investigativa di Giuttari, nata in seguito all’apertura dell’inchiesta Narducci, che per quattro anni impiegò nove poliziotti a tempo pieno in indagini inutili. Sarà mai disponibile una valutazione dei costi di tale gigantesca attività, che alla fin fine si proponeva di scoprire chi avesse acquistato sei poveri brandelli di carne umana?
Si legge nella sentenza Micheli:

Una prima osservazione, su un piano di inquadramento complessivo della storia di questo processo (“storia” è parola che normalmente non si addice ad atti di indagine o di esercizio dell’azione penale, ma qui sembra pertinente), riguarda il perché di quegli accertamenti: ritiene il giudicante che siano state compiute indagini perché era doveroso farle, pur non essendo condivisibili le conseguenze che oggi il Pubblico Ministero sostiene sia necessario ricavarne.
E non vi sarebbe stato motivo di compierle se 25 anni fa le cose fossero andate diversamente, seguendo un pur minimo standard di completezza nelle acquisizioni istruttorie conseguenti alla morte di Francesco Narducci. In altre parole, che il 13 ottobre 1985 non venne fatta non solo un’autopsia, ma neppure uno straccio di visita esterna degna di questo nome, sulla salma dell’uomo ripescato dalle acque del Lago Trasimeno (si affronterà in seguito il problema se potesse trattarsi di una persona diversa dallo scomparso), è qualcosa di francamente inconcepibile.


Chi scrive trova le considerazioni di Micheli in genere condivisibili. In questo caso però no. Ci saranno anche state delle gravi irregolarità riguardo la tumulazione di Narducci, ma quali elementi potevano farle inquadrare in un’ipotesi di omicidio? Le telefonate di minaccia alla Falso dove il nome di Narducci neppure compariva? Le fantasiose ipotesi di Giuttari sui mandanti dei delitti di Firenze? Le malevole chiacchiere dei perugini su Narducci coinvolto in quei delitti e dei quali poteva quindi divenire un mandante?
Da libero cittadino italiano che vedrebbe volentieri le proprie tasse meglio impiegate da una magistratura sempre in affanno, chi scrive si sente di poter affermare che quel 25 ottobre 2001, giorno di apertura del procedimento giudiziario 17869/01/44, sarebbe stata una fortuna se Giuliano Mignini avesse iniziato a occuparsi di una delle tante vicende di malefatte più ordinarie che probabilmente anche a Perugia, come in tutt’Italia, giacevano in attesa su qualche scaffale.
L'articolo finisce qui. Ma non finisce qui l'interesse di questo blog per la vicenda Narducci. Esamineremo più avanti il modo con il quale le indagini cominciarono a scavare in fatti risalenti a 16 anni prima, con quali difficoltà e con quali rischi di travisamento è facile immaginare. Come nel caso dell'ormai famoso ispettore Luigi Napoleoni.

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Ancora un grazie a Francesca Calamandrei, che ha reso possibile questo nuovo articolo mettendo a disposizione il suo prezioso archivio. È motivo di grande soddisfazione per chi scrive continuare a fornire il suo piccolo contributo alla battaglia che sta ancora conducendo per eliminare gli ottusi sospetti sulla figura del padre, duri a morire nonostante la legge abbia riconosciuto i propri errori assolvendolo per insussistenza del reato.