lunedì 24 dicembre 2018

Il perché di un incidente probatorio

Il recente inserimento della scannerizzazione dei tre fascicoli dell’incidente probatorio di Lotti nella pagina di download senz'altro ha fatto felici molti dei miei lettori. Senza entrare nel merito del relativo contenuto, vorrei presentare alcune riflessioni sull’opportunità dell'operazione in sé stessa, che il nuovo codice di procedura penale riservava, e riserva, a casi speciali ben motivati, poiché il suo effetto collaterale è molto grave. Un incidente probatorio, infatti, toglie la possibilità del confronto pubblico in aula, anticipandolo in condizioni per quanto possibile simili – presenza di difensori e parte civile – ma non certo uguali. Ebbene, quello di Lotti era ben motivato?

L’istituto dell’incidente probatorio. È ben noto che il rito accusatorio, istituito dal nuovo codice di procedura penale entrato in vigore il 24 ottobre 1989, prevede che la prova si formi in aula, durante il dibattimento. Ad esempio, il testimone che ha raccontato qualcosa in istruttoria, alla PG o al PM, deve ripeterlo di fronte a giudici e avvocati, che possono chiedergli delucidazioni. E per l’esito del processo conta soltanto quella sua ultima testimonianza, non i verbali firmati nel chiuso di stanze di questura o procura. Ci sarebbe però da discutere su questi verbali, che in dibattimento possono venir usati come pungolo per risvegliare memorie in apparenza assopitesi, ma di cui spesso i PM abusano, come in effetti accadde nei processi a Pacciani e ai compagni di merende. Ma questa è un’altra storia.
La legge prevede che in alcuni casi la formazione della prova possa essere anticipata nel cosiddetto “incidente probatorio”, i cui risultati vengono poi messi agli atti rivestendo il medesimo valore delle prove acquisite in dibattimento. La questione è regolamentata dall’articolo 392 del CPP, del quale sotto sono riportati i punti che qui interessano:
  1. Nel corso delle indagini preliminari [c.p.p. 326, 327, 328, 329, 551] il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono chiedere al giudice che si proceda con incidente probatorio:
    a) all'assunzione della testimonianza [c.p.p. 194] di una persona, quando vi è fondato motivo di ritenere che la stessa non potrà essere esaminata nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento;
    b) all'assunzione di una testimonianza quando, per elementi concreti e specifici, vi è fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso;[…]
  2. Il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono altresì chiedere una perizia che, se fosse disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni […].
Cominciamo con il mettere da parte il punto 2, che si riferisce alle perizie tecniche, la cui esecuzione viene anticipata per ovvi motivi logistici. D’altra parte sarebbe impossibile eseguire, per esempio, esami di laboratorio su bossoli e proiettili, o addirittura su cadaveri, in un pubblico dibattimento. Anzi, a modestissimo parere di chi scrive, male fece il legislatore a mettere assieme il punto 2 con il punto 1, che affronta tutt’altra materia e conseguenti problemi di tutt’altra natura.
Veniamo quindi al punto 1, dove viene offerta e regolamentata la possibilità di anticipare l’interrogatorio di un testimone. A tale interrogatorio devono essere presenti tutte le parti interessate, pubblico ministero, parti civili, indagati e loro difensori. Al posto del presidente del dibattimento c’è il GIP, il giudice per le indagini preliminari, lo stesso che ha autorizzato l’incidente probatorio sulla base della richiesta o del PM o dell’indagato. Tale richiesta dev’essere motivata da ragioni precise, raggruppabili in più categorie le cui due di gran lunga principali sono indicate ai punti a) e b) sopra riportati.
Il punto a) prende in esame il caso di un testimone che per motivi di forza maggiore potrebbe non essere in grado di partecipare al futuro dibattimento; tali motivi sono essenzialmente gravi problemi di salute. Purtroppo la regola si presta a possibili abusi, poiché la valutazione della gravità della malattia, e quindi del grado di rischio dell’impossibilità di partecipare al futuro dibattimento, è affidata al GIP, il quale, nella propria decisione, potrebbe lasciarsi influenzare da fattori esterni.
Il punto b) prevede la possibilità di incidente probatorio nei casi in cui il testimone sia soggetto a minaccia o ad altra forma di possibile coercizione, tra cui anche eventuali offerte o promesse di danaro. Qui la legge raggiunge il massimo dell’illogicità, come rilevò, ancor prima che il nuovo codice entrasse in vigore, il grande giurisprudenzialista e senatore Agostino Viviani. Nel suo Il nuovo codice di procedura penale: una riforma tradita, Viviani evidenziò con lucidissime argomentazioni i grandi pericoli insiti nelle regole del nuovo codice, in quel momento ancora in attesa di entrare in vigore. Così inizia il libro:

Il nuovo codice di procedura penale è emanato. Entrerà in vigore “un anno dopo” la “pubblicazione nella ‘Gazzetta ufficiale’” (24 ottobre 1988) e, quindi, il 24 ottobre 1989.
Nonostante ciò, non possiamo tacere che il nuovo codice stravolge principi costituzionali, offende elementari diritti della persona, offre facile esca all’errore giudiziario (purtroppo già presente in modo consistente nella prassi giudiziaria). Allora non possiamo e non dobbiamo avere incertezze: l’alt al nuovo codice deve essere posto.


Nonostante l’allarme di Viviani, e non soltanto di lui, il nuovo codice entrò regolarmente in vigore, portandosi dietro tutte le proprie contraddizioni, dovute essenzialmente a due fattori: la nascita in un periodo di emergenza sociale, con la minaccia costante di mafia e terrorismo, e la pesante eredità del precedente codice Rocco, a causa del quale si era ormai radicata nella nostra magistratura una tradizione inquisitoria che non poteva dissolversi di punto in bianco (si legga a questo proposito la raccolta di saggi L’inconscio inquisitorio, curata da Loredana Garlati).
Torniamo però all’incidente probatorio, in particolare al punto b) dell’articolo 392, del quale scrisse Viviani:

[…] detto mezzo istruttorio può, altresì, essere utilizzato quando “vi è fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di danaro o di altre utilità affinché non deponga o deponga il falso”. E, sebbene si sia cercato di limitare la portata di questa eccezione, stabilendo che il “fondato motivo” deve poggiare su “elementi concreti e specifici”, facile è intendere a quanti e quali abusi può dare luogo questa previsione affidata a concetti estremamente relativi. D’altronde, può rilevarsi come, in questa ipotesi, non sia in gioco la questione della rinviabilità o meno della deposizione in sede dibattimentale: il timore che ha dettato la norma è di altra natura; si teme che la deposizione possa subire un mutamento.
Evidente, quindi, l’intento di cristallizzarla, e ciò indipendentemente dal suo legame con la verità.

Non si è riflettuto che prendere per buona la parola di un testimone che si presume disposto a cambiare versione, anche solo per una promessa di danaro, significa volere porre (anzi, imporre) come verità una circostanza riferita da chi è già ritenuto soggettivamente poco credibile.


Il caso Lotti. L’11 gennaio 1997 il pubblico ministero Paolo Canessa presentò al giudice per le indagini preliminari Valerio Lombardo la richiesta di interrogare Giancarlo Lotti nella forma dell’incidente probatorio. Chi scrive è entrato in possesso del documento successivo (grazie avvocato Adriani!), quello in cui Lombardo accettava tale richiesta (vedi). Proviamo a leggervi le motivazioni:

[…] il P.M. ha chiesto procedersi, con le forme dell'incidente probatorio, all'esame di Lotti Giancarlo su fatti concernenti la responsabilità dei coimputati Vanni Mario, Faggi Giovanni e Corsi Alberto, deducendo, a sostegno della richiesta, in primo luogo il fondato motivo di ritenere che il Lotti non possa essere esaminato nel corso del dibattimento per la grave infermità da cui risulta affetto e che nel corso delle indagini risulta essersi progressivamente aggravata; e, in secondo luogo, chiarendo che vi è fondato motivo di ritenere che il medesimo Lotti, benché sottoposto al regime di protezione da parte del Ministero degli Interni, avendo comunque libertà di comunicare con terzi, possa essere esposto, prima della celebrazione del dibattimento e nel corso dello stesso, a gravi minacce provenienti dal Vanni Mario, il quale, in lettere inviate dal carcere a numerosissime persone, ha espressamente manifestato la volontà di vendicarsi nei confronti del Lotti, per cui quest'ultimo potrebbe essere condizionato, tramite terzi, nella sua determinazione di ripetere al dibattimento quanto ha dichiarato nel corso delle indagini preliminari;

Come si vede il PM aveva invocato entrambe le motivazioni principali ammesse dalla legge, sia i motivi di salute sia quelli di minaccia. Vediamo la risposta del GIP relativa al primo punto, lo stato di salute di Lotti:

[…] ritenuto fondato il timore del P.M. ex art. 392, lettera a) C.p.p., con riferimento alla lettera c) della stessa norma. Risulta invero da varie fonti (cfr. in particolare, perizia eseguita sulla persona del Lotti dai proff. Fornari e Lagazzi – anche se l’hanno esaminato sotto diverso profilo –; certificato medico rilasciato in data 10.1.1997 dalla dott. Rosella Ferrovecchio; nota in data 20.12.1996 della Sq.mobile della Questura Firenze; verbale di ispezione dei luoghi in data 23.12.'96; e verbali di interrogatorio del Lotti, in cui questi lamenta precarie condizioni di salute) che il Lotti e affetto da ipertensione arteriosa, ed è inoltre portatore di spondilartrosi lombo-sacrale con discopatie relative a numerose vertebre lombari (esiti – sembra – di un grave incidente sul lavoro che causò lo schiacciamento di alcune vertebre), le quali hanno dato luogo a periodiche riacutizzazioni del quadro clinico degenerativo che lo costringono sovente a letto in posizione immobile, e che hanno causato il rinvio di un sopralluogo programmato per il 20 dic. '96 nonché difficoltà varie (a mantenere a lungo la posizione eretta o seduta) nel corso della successiva ispezione del 23 dic. ‘96.
Tali precarie condizioni, ove dovessero ulteriormente aggravarsi, com'è probabile – data la natura delle affezioni – prima dell'eventuale dibattimento, potrebbero seriamente condizionarne la partecipazione.


Quindi, almeno per il gip Valerio Lombardo, il quadro clinico di Giancarlo Lotti giustificava abbondantemente la concessione dell’incidente probatorio, poiché comportava fondati rischi di una sua impossibilità a partecipare al dibattimento.
Ma, ad abundantiam, c’era anche altro:

Ritenuto, inoltre, fondato il timore espresso dal P.M. ex art. 392, lettere d) e b), C.p.p., giacché i destinatari (quasi tutti di San Casciano o di località viciniori) delle numerosissime lettere del Vanni, cui si è fatto prima cenno, potrebbero realmente interferire – rendendo note al Lotti i propositi di vendetta di detto coimputato – sulla determinazione di quest'ultimo a confermare nell'eventuale dibattimento le dichiarazioni già rese (cfr. al riguardo, nota riassuntiva in data 8.1.1997 della Sq.mobile di Firenze, nonché le missive – circa 190 – acquisite agli atti).

Quindi, in aggiunta ai gravi problemi di salute, a rendere a rischio la partecipazione di Lotti al dibattimento c’erano le lettere di Vanni, ben 190, spedite dal carcere soprattutto a cittadini di San Casciano, contenenti minacce che qualcuno, al telefono, avrebbe potuto riferire allo stesso Lotti, spaventandolo.

La situazione reale. L’immagine del presunto pentito che, ben nutrito e in perfetta forma non si lasciò scappare nessuna delle udienze che contavano, e che depose ininterrottamente per ben sei udienze consecutive, è la miglior dimostrazione del suo quantomeno normale stato di salute. In qualche mese era guarito da tutti i mali? Proviamo a vedere come lo avevano trovato Fornari e Lagazzi neanche due mesi prima della richiesta d’incidente probatorio:

Ha sempre goduto di buona salute, non ha mai avuto malattie gravi e non è mai stato ricoverato in ospedale. Probabilmente ha riportato sulla schiena un’ustione da colpo di sole nel 1993, durante l’estate. La lesione sarebbe guarita in un mese. […]
Attualmente assume giornalmente un ipotensivo. […] Si sottopone a controllo periodico della pressione arteriosa (che da molti mesi è compresa nella media e nella norma per un uomo della sua età e della sua struttura). Pratica saltuariamente una fiala di Tilcotil (farmaco antiartrosico). Lamenta dolori alla schiena per un principio di ernia del disco (infortunio sul lavoro nel 74-75, mentre lavorava in una cava di pietrisco) ed emorroidi (“che però adesso non sanguinano più”) con emorragia rettale il 31 agosto 1996.[…]
Sintetizzando le risultanze delle indagini attinenti alla condizione somatica del periziando, è quindi possibile delineare l’immagine di un uomo di 56 anni in buone condizioni generali, connotato da un discreto sovrappeso e da patologie di carattere osteo-articolare (note di artrosi) a carico della colonna vertebrale.


Come si vede la perizia, peraltro invocata anche dal GIP in appoggio alla propria decisione positiva, racconta di un uomo in sovrappeso che, per mantenere una pressione arteriosa nella norma, assumeva giornalmente un farmaco apposito: una situazione comune a milioni di altri italiani della medesima fascia d’età. Riguardo invece la spondilartrosi lombo-sacrale, volgarmente detta “mal di schiena”, pare più che altro una comoda scusa che Lotti accampava per tirarsi fuori da situazioni imbarazzanti (perizia: “Ogni qualvolta si sono toccati gli argomenti di cui in atti, Lotti ha preso a divagare, a portare il discorso sui mille disturbi fisici che lo affliggono, sulla necessità di essere curato”).
Riguardo invece le minacce, anche in questo caso la visione del povero Vanni che, seduto sul banco degli imputati, assisteva spaurito all’evolversi degli eventi, dovrebbe essere la dimostrazione migliore di quanto gratuiti fossero i timori che le sue lettere avessero potuto spaventare Lotti. L’individuo non era in grado di spaventare nessuno, neppure se fosse stato fuori dal carcere, tanto meno con le sue patetiche lettere di lamentazione inviate a mezza San Casciano. Chi scrive ha avuto modo di leggere soltanto quella inviata alla farmacia Calamandrei (vedi), che qui si riporta e che si commenta da sola:

Carissimo Farmacia Calandrei gli scrivo questa lettera per farli sapere che stò male in 9 mesi non mi è riuscito di telefonare alla moglie Luisa che schifo cari farmacisti che vergogna è questa non ne posso più di stare in galera non ho fatto nulla è una vergogna questa e chiedo la Nazione e non la portano da 10 giorni che sistema è questo… Mi ha detto il mio avvocato di Firenze che fino al processo non mi mandano a casa il signor giudice Vigna e Canessa insomma siamo a un bel punto ha detto l’avvocato Pepi Gianpiero che stia tranquillo e beato ci vuole pazienza insomma.
Quando tornerò a casa faremo un bel conteggio (???) se lo permette il Maresciallo perché io sono innocente non ho fatto nulla di male e vi faccio tanti saluti a Francesca e signorina farmacista
Arrivederci a presto tanti saluti Vanni Mario


Conclusioni. Non c’era alcun motivo valido per sottoporre Giancarlo Lotti a incidente probatorio. O meglio, un motivo anche assai valido c’era, ma non compariva nell'elenco di quelli previsti dalla legge. L’intera inchiesta sui compagni di merende poggiava soltanto sulle dichiarazioni del presunto pentito, poiché Vanni e Pacciani nessuno li aveva mai visti sulle scene del crimine, e se di punto in bianco l’individuo avesse deciso di ritrattare, o anche di non deporre al processo – come del resto sarebbe stato suo diritto – il castello di carta messo in piedi dall'accusa sarebbe inesorabilmente crollato. Intento della procura era quindi quello di cristallizzare le sue dichiarazioni così come si erano faticosamente configurate al 23 dicembre 1996, quando anche l’ultimo tassello, il ricatto per un rapporto sessuale passivo con Pacciani, era andato al suo posto. Tutto questo rientrava nell’attenta gestione della “gallina d'oro alla quale ogni tanto si vanno a chiedere le uova” – così Lotti era stato definito da Ferri –, ma era lontanissimo sia dallo spirito della legge sia e soprattutto da quello della giustizia, poiché, detto con le parole di Agostino Viviani, “prendere per buona la parola di un testimone che si presume disposto a cambiare versione […] significa volere porre (anzi, imporre) come verità una circostanza riferita da chi è già ritenuto soggettivamente poco credibile”.
Oltre a quello di mettere in cassaforte degli importantissimi elementi a rischio di perdersi, l’incidente probatorio avrebbe dato alla procura un altro indubbio vantaggio: presentarsi al processo con già agli atti una solida base per il proprio impianto accusatorio, in ragione della quale i giudici, soprattutto quelli popolari, avrebbero avuto da leggersi un bel mucchio di carte prima ancora del dibattimento, e tutte a favore dell’accusa. Da Storia delle merende infami, di Nino Filastò:

Il minestrone già cucinato e servito delle dichiarazioni 'collaborative' di Lotti arrivò così sotto gli occhi dei giudici della Corte d'Assise, davanti ai quali – vergini di ogni conoscenza preconfezionata, secondo il principio fondamentale del nuovo codice – avrebbe dovuto formarsi la prova.

domenica 28 ottobre 2018

La dinamica di Signa

In questa terribile vicenda di delitti feroci e indagini dissennate si finisce per tornare sempre là, a Signa, nella notte a cavallo tra il 21 e il 22 agosto 1968, dove tutto sembra aver avuto origine. Sull’uccisione di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco si è discusso miriadi di volte, nella vana speranza di chiarire il mistero del passaggio della pistola, se vi fu o non vi fu, e se sì da chi a chi e in quale modo. Le ipotesi e le domande sono sempre le stesse. Già in quel lontano delitto esordì il futuro Mostro di Firenze, quindi la pistola è sempre rimasta in mano a lui? Oppure a uccidere furono i familiari, tra cui il marito, e gli amanti della donna? In questo caso uno di loro avrebbe tenuto la pistola diventando il Mostro oppure, dopo il delitto, subito o anche a distanza di anni, ne entrò in possesso un misterioso personaggio esterno, a loro insaputa e a loro sconosciuto? Infine, non sarà magari che il Mostro riuscì a depistare le indagini creando un falso legame dei propri delitti con quello di Signa?
Molte altre domande sui fatti del 1968 e su quelli da essi derivati attendono risposta, che naturalmente chi scrive non si illude certo di poter dare, almeno non in questo articolo, i cui confini sono limitati a un tentativo di ricostruzione della pura dinamica del delitto. Ma il lettore si renderà conto che proprio dallo studio della dinamica, a dire il vero sempre molto trascurato, potrà arrivare un grande aiuto per escludere – o quantomeno rendere poco plausibili – alcune ipotesi privilegiandone altre.
Solo qualche parola per sintetizzare una vicenda ormai conosciutissima. Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, entrambi sposati e amanti da pochissimo tempo, forse addirittura da quella stessa sera, vennero uccisi a pistolettate mentre erano appartati nell’auto di lui, dopo essere appena usciti da un cinema di Signa. Sul sedile posteriore dormiva Natalino, di sei anni e mezzo, figlio della donna, che alle due di notte suonò il campanello di un’abitazione posta a più di due chilometri dal luogo del delitto, raccontando agli attoniti padroni di casa di essersi svegliato trovando la mamma e lo “zio” morti, e di aver camminato a lungo da solo nel buio della notte. Ai piedi, che non erano feriti, portava soltanto i calzini. Dopo l’intervento di un carabiniere, di piantone in una vicina caserma, il bambino fece da guida e consentì di rintracciare l’auto, al cui interno giacevano davvero i cadaveri dei due amanti.
Prima di proseguire, un ringraziamento all’avvocato Vieri Adriani per i documenti che mi ha messo a disposizione, tratti dal proprio archivio.

Scena del crimine. L’Alfa Romeo Giulietta di Antonio Lo Bianco era ferma lungo una sterrata che, costeggiando il torrente Vingone, portava da Signa a Sant’Angelo a Lecore. L’immagine sottostante rende bene l’idea del percorso effettuato dall’auto, circa 150 metri, dopo aver imboccato la via del delitto provenendo dalla strada asfaltata a destra.


Delle quattro portiere tre furono trovate chiuse, ma non a chiave, e una, la destra posteriore, socchiusa; il finestrino anteriore sinistro era aperto per tre centimetri, quello posteriore per metà e i due a destra chiusi. Questo secondo il verbale di sopralluogo – peraltro redatto qualche giorno dopo, il 25 – ma le foto di quella notte ci restituiscono l’immagine di una portiera posteriore destra quasi spalancata e del corrispondente finestrino aperto per metà. E se prima delle foto la portiera potrebbe essere stata aperta dai carabinieri per un controllo all’interno dell’abitacolo, pare poco plausibile che analoga operazione fosse stata compiuta sul finestrino.



Vediamo adesso la posizione dei cadaveri. Quello di Lo Bianco era steso sul sedile del passeggero reclinato, i pantaloni sbottonati ed entrambe le mani atteggiate a ricomporsi.


L’immagine ci consente di intravedere tra il sedile anteriore destro e la relativa portiera il borsello della Locci, del tipo a scatto e aperto, nel quale furono rinvenute quasi 25 mila lire, e sul pianale posteriore una ciabatta, forse della donna, i cui piedi erano infatti scalzi, oppure del bambino (ma si legge nella sentenza Rotella: “Tra il sedile anteriore e quello posteriore sono anche scarpe infantili, attribuite a Natalino”).
Il cadavere di Barbara Locci giaceva sul sedile di guida, in una posizione che non era quella originaria, come dimostravano le ferite di proiettile alla schiena appoggiata allo schienale normalmente rialzato. Una catenina trovata in due pezzi, uno a terra e l’altro ancora attaccato al collo della poveretta, costituiva ulteriore prova dell’avvenuto spostamento (interrogatorio di Stefano Mele del 23 agosto 1968: “Afferrai mia moglie per le vesti e la feci ritornare in posizione seduta”).


Nella foto sottostante è possibile apprezzare l’intreccio tra la gamba sinistra dell’uomo e la gamba destra della donna – della quale s’intravede la punta del piede nudo in basso a destra. Si tratta di uno dei particolari che Stefano Mele riferì agli inquirenti e che quindi avvalora l’ipotesi della sua presenza sulla scena del crimine, in questo caso durante l’azione di aggiustamento dei cadaveri.


Bossoli e proiettili. In tutto vennero recuperati cinque bossoli, tre sul lato sinistro dell’autovettura, due all’interno, tra seduta e schienale del divanetto posteriore. Nell’immagine sottostante, tratta da una ripresa televisiva del fascicolo fotografico, vediamo i tre esterni.


Anche se non di buona qualità, le quattro immagini successive fanno apprezzare meglio la posizione dei tre bossoli, situati a circa un metro dalla fiancata, tra la fine della portiera anteriore e la fine della ruota posteriore.


Ecco invece i due bossoli sul divanetto. Vedremo che è importante la loro reciproca posizione uno vicino all’altro.


Riguardo i proiettili, ne venne recuperato uno dal pavimento dell’auto, nello spazio tra sedile anteriore destro e divanetto, uno dai vestiti della donna, caduto a terra al momento della deposizione del corpo sulla barella. Nella foto sottostante è visibile quello sul pavimento.


Altri tre proiettili furono estratti dai corpi delle vittime, due da quello della donna e uno da quello dell’uomo; con i due non estratti dal corpo di Lo Bianco – che evidentemente l’anatomopatologo non ritenne opportuno cercare troppo – arriviamo a sette (quindi almeno due bossoli andarono perduti, ma vedremo che furono tre).

Le ferite. È opportuno premettere che sui due poveretti furono riscontrate soltanto ferite da arma da fuoco – niente coltello, insomma. Barbara Locci venne colpita da quattro proiettili, tutti entrati da tergo: tre con traiettoria molto simile, da sinistra verso destra, tra dorso (1 e 2) e fianco sinistri (3), uno (7) con traiettoria da destra verso sinistra alla spalla sinistra.


Con quasi certezza i proiettili 1, 2 e 3 vennero sparati in rapida sequenza, ma non possiamo sapere con quale progressione, qui assegnata a caso. Quello indicato con il numero 1, immediatamente mortale, attraversò il cuore e i polmoni poi fuoriuscì non lontano dalla mammella destra, gli altri due, più bassi, lesero fegato e pancreas arrivando fino in zona ombelicale, uno uscendo, uno rimanendo sotto pelle da dove venne estratto in sede di autopsia. Senz’altro i due proiettili fuoriusciti furono quelli ritrovati uno sul pavimento, uno tra le vesti della donna. Probabilmente anche quello sul pavimento in origine si trovava tra le vesti, da dove era caduto durante l’operazione di spostamento del corpo successiva al delitto.
La traiettoria del proiettile che colpì Barbara Locci alla spalla sinistra, opposta a quelle degli altri tre, può significare molte cose, che più avanti vedremo. Intanto è il caso di sgomberare il campo da un dubbio suscitato da un articolo comparso di recente sul blog dell’amico Omar Quatar (vedi), teso a dimostrare che i colpi sparati furono sette, e non gli otto da sempre ipotizzati in parziale accordo con le dichiarazioni di Stefano Mele, che quindi andrebbero a perdere uno dei loro punti di forza. Nell’articolo un professore universitario di cose mediche, Claudio Ferri, sulla base delle sparse e scarse informazioni a lui disponibili – essenzialmente la perizia De Fazio, la deposizione di Biagio Montalto che aveva eseguito l’autopsia (vedi) e la perizia balistica Arcese-Iadevito – afferma di ritenere molto probabile che tale proiettile avesse incontrato qualche ostacolo prima di entrare nella spalla della donna, poiché ivi avrebbe compiuto un percorso di pochi centimetri senza incontrare strutture ossee, con il che non se ne spiega la forte deformazione riscontrata dalla perizia balistica. In effetti i due proiettili fuoriusciti e quello estratto dalla zona ombelicale erano più o meno completi, con un peso all’incirca di 2,5 grammi, mentre quello estratto dalla spalla, con un peso di 1,9 grammi, no.
Chi scrive ha la disponibilità della relazione autoptica redatta da Montalto (scaricabile qui, ma purtroppo mancante di una pagina), dove si legge:

[...] si osserva che alla soluzione predetta [il foro] fa seguito un tramite nel sottocute che si prolunga con semicanale a doccia sulla faccia posteriore della testa dell'omero, con successiva perforazione imbutiforme svasata verso il basso della cavità glenoidea e ritrovamento di un proiettile di revolver molto deformato situato in prossimità dell'apofisi coracoide.

Nonostante il linguaggio un po’ criptico per i non addetti ai lavori, si comprende che il proiettile qualche struttura ossea dovette averla incontrata – o la testa dell’omero o la scapola – arrivando poi nella zona dell’apofisi coracoide che si trova oltre, come mostra l’immagine sottostante.


Quindi la deformazione del proiettile sembra giustificarsi anche per il solo percorso nella spalla della donna; del resto – ma ciò di per sé non dimostra nulla, beninteso – di quella deformazione Montalto nel proprio scritto non pare stupirsi.
Nelle immagini sottostanti sono apprezzabili i sei fori di proiettile sul corpo di Barbara Locci, quattro di entrata sul lato dorsale, due di uscita sul lato ventrale.


Veniamo adesso alle ferite riscontrate sul corpo dell’uomo, il cui esame autoptico venne eseguito da Massimo Graziuso (vedi deposizione).


Antonio Lo Bianco venne colpito sul lato sinistro da tre proiettili (4,5,6), tutti con analoga traiettoria leggermente dall’alto verso il basso e dal davanti al dietro (perizia De Fazio: “La traiettoria è teoricamente dall'alto verso il basso, da sx. verso dx. e in senso lievemente anteroposteriore”), che trapassarono il braccio sinistro e poi entrarono nel fianco senza fuoriuscire, ferendo polmone sinistro, stomaco e milza. Non venne colpito il cuore, quindi le ferite, comunque mortali, non determinarono una morte istantanea (relazione di Graziuso, scaricabile qui: “La morte è sicuramente avvenuta entro breve tempo dal ferimento”).
Un quarto proiettile colpì Lo Bianco in modo superficiale all’avambraccio sinistro, trapassandolo. Nell’articolo già citato il professor Ferri formula l’ipotesi che fosse stato questo l’ostacolo che aveva deformato il proiettile prima del suo ingresso nella spalla di Barbara Locci. Ma ciò non è possibile, poiché il tramite nell’avambraccio dell’uomo fu minimo, e interessò soltanto tessuti molli. Infatti, a proposito della relativa ferita, si legge nella relazione Graziuso (della quale Ferri, è bene ribadirlo, non disponeva): “[...] all'unione fra il 3° superiore e il 3° medio si osservano due soluzioni di continuo della cute, strettamente ravvicinate tra loro e con un intervallo di cute libera di circa un centimetro [...] tra loro riunite da un tramite a sede sottocutanea [...]”.
Nell’immagine successiva si possono apprezzare alcuni dei fori di proiettile riscontrati sul corpo di Antonio Lo Bianco.


Precedenti ricostruzioni. Chi scrive non è in possesso della mitica perizia balistica di Innocenzo Zuntini, nella quale dovrebbe essere contenuta una sommaria ricostruzione del delitto. A essa comunque si rifanno i sintetici cenni alla dinamica contenuti nei due documenti che è possibile scaricare qui e qui. Il primo è la richiesta di rinvio a giudizio di Stefano Mele avanzata il 30 settembre 1969 dal giudice istruttore Antonio Spremolla. Vi si legge, in una strana prosa dal sapore molto arcaico:

Secondo le resultanze della generica per primo venne colpito il Lo Bianco Antonio nell'atto di sollevarsi dal sedile della macchina, il primo colpo lo avrebbe ferito mentre i tre successivi gli avrebbero provocato lesioni mortali che il perito settore individuò per lesioni polmonari e spleniche con emorragia pleurica peritoneale provocate da colpi d'arma da fuoco esplosi a distanza non vicinissima con traiettoria dall'alto al basso e da sinistra verso destra.
Seguì il ferimento della Locci Barbara a mezzo del primo colpo di pistola che la raggiunse alla spalla fermandosi in cavità scapolare, esso immobilizzò la donna che si rovesciò sul fianco destro esponendo all’arma la faccia posteriore dell'emitorace sinistro raggiunto da un secondo colpo con traiettoria dal basso verso l'alto [che] lese delicati visceri godendosi di effetto mortale per la vittima che venne in analoga regione raggiunta da altri due colpi.
Queste resultanze consentono di ritenere come gli otto colpi siano stati esplosi (tutti per traccia dei bossoli esplosi dalla stessa arma) filando alla sinistra dell'auto attraverso prima lo spiraglio offerto dal vetro abbassato della portiera posteriore e poi eventualmente dalla portiera anteriore aperta dall'autore degli spari.
Il meccanismo di esecuzione degli spari rimane quindi attribuibile all’opera di una sola persona; acquistando incidenza l'eventuale cooperazione di un compartecipe solo al fine di coadiuvare ed assistere l'azione materiale del singolo esecutore.


Il secondo documento è il vero e proprio rinvio a giudizio formulato dal consigliere istruttore Gian Gualberto Alessandri il successivo 6 novembre. Vi si legge:

Veniva successivamente disposta perizia balistica, la quale, sulla base della particolare conformazione dei fori di entrata delle pallottole, accertava: 1) che i cinque bossoli rinvenuti e gli altrettanti proiettili repertati erano stati esplosi da una unica pistola calibro 22 non ancora rintracciata, vecchia, arrugginito ed usurata: 2) che i colpi che avevano raggiunto il Lo Bianco era[no] stati sparati da una distanza di 1,50 m. circa attraverso i vetri della parte sinistra dell'auto mentre la vittima si trovava sdraiata supina sul sedile anteriore destro, la cui spalliera era stata abbassata: 3) che la Locci inizialmente in parte sopra il Lo Bianco, aveva tentato di uscire dallo sportello anteriore sinistro ed in tale manovra era stata colpita, con proiettili esplosi alla distanza di circa un metro, prima alla spalla sinistra indi, ritrattasi verso destra, alla schiena sempre sul lato sinistro.

Il recente libro di Valerio Scrivo, Il Mostro di Firenze esiste ancora, riprende la dinamica deducibile dalle due citazioni precedenti. Ecco la sua sintetica ricostruzione:

Le vittime si accingevano all’atto amoroso quando sono state assalite. L’uomo era sdraiato sul sedile del passeggero e la donna su quello del guidatore. La ghiaia deve aver provocato rumore poiché Lo Bianco stava per rialzarsi i pantaloni quando viene letteralmente freddato dai colpi che l’SI spara con il braccio all’interno dell’abitacolo. A quel punto la donna tenta una disperata fuga ma l’SI gli si para davanti, lei si gira verso lo sportello del passeggero offrendo le spalle al tiratore che spara tutti i colpi sul dorso della donna.


La figura allegata, che qui sopra si riporta, aiuta a capire meglio il limite più grosso di tale ricostruzione: Antonio Lo Bianco venne colpito sul fianco sinistro da tre proiettili tutti con traiettoria da sinistra a destra secondo l’asse longitudinale del corpo, quindi da uno sparatore che si trovava nella posizione 2, davanti al finestrino anteriore. Diventa quindi inutile andare a cercare altre pecche, che in ogni caso ci sono, soprattutto nella dinamica del ferimento della donna.
Anche Francesco De Fazio, coadiuvato da Ivan Galliani e Salvatore Luberto, si cimentò con la dinamica del delitto. Nella sua nota perizia del 1984, scaricabile qui, si legge:

L'insieme dei colpi e delle traiettorie suggerisce l'ipotesi di un unico polo d'azione dell'omicida (posto fuori dell'auto presso la fiancata sx.) e per la vittima l'ipotesi di una reazione da fuga o da riparo.
La portiera anteriore dx. chiusa farebbe però escludere un tentativo di fuga realizzato fin fuori dall'auto; la donna potrebbe comunque aver ruotato il busto verso l'uscita, donde il colpo alla spalla sx. (con traiettoria opposta agli altri). In ogni caso il dorso non poteva essere appoggiato al sedile, sebbene reclinato in avanti o in parte nascosto sotto al cruscotto. Ovvero, all'inizio dell'azione omicidaria, la donna poteva essere in qualche modo protesa dal sedile sx. a quello dx., col busto ed il capo, verso il corpo dell'uomo.
Può darsi che dopo il colpo mortale la donna si sia accasciata supina sul sedile. Sembra improbabile che il colpo alla spalla con traiettoria opposta possa imputarsi ad un movimento dell'omicida a tergo dell'auto. Dal punto di vista necroscopico i colpi esplosi sui corpi delle vittime sarebbero quindi complessivamente otto (4+4) con cinque proiettili ritenuti. In sopralluogo sono stati reperiti cinque bossoli ed un proiettile (due bossoli ed un proiettile dentro l'auto), onde è da pensare che l'omicida si sia progressivamente avvicinato al mezzo entrandovi poi con la mano per esplodere gli ultimi colpi.


È evidente che, una volta rifiutata la dinamica proposta da Zuntini – probabilmente per lo stesso motivo indicato anche qui: i tramiti delle ferite su Lo Bianco incompatibili – i peraltro ottimi periti furono incapaci di proporne una differente, limitandosi a esternare la loro convinzione che lo sparatore non si fosse spostato.
Ecco il parere di Rotella sui due diversi punti di vista, contenuto nella sua nota sentenza del 1989 (qui e qui):

I fori d'ingresso sono abbastanza prossimi su ciascuna delle vittime. Uno solo è eccentrico, sulla Locci, alla spalla sinistra.
Sarebbe stato il primo, cosicché la donna si sarebbe rovesciata sul sedile, costringendo un mutamento di traiettoria di quelli seguenti. Il luogo di provenienza degli spari sembra il medesimo, ma la direzione dal basso verso l'alto (rispetto all'asse verticale del corpo che si presume in posizione pressoché orizzontale) di un colpo passante dal fondo schiena alla zona superiore dell'addome, lascia supporre al p.m. in requisitoria del 30.9.69 che lo sparatore abbia prima esploso i colpi dal finestrino posteriore sinistro e poi dalla portiera anteriore destra. [Rotella sbaglia: anteriore sinistra]
Si tratta di valutazioni opinabili. I periti di Modena, incaricati nel 1984 stimano viceversa che lo sparatore non si sarebbe spostato rispetto al bersaglio femminile, e che non sarebbe neppure possibile essere certi circa quale delle due vittime sia stata attinta per prima dagli spari, laddove nel 1969 si pensa che si tratti dell'uomo.
La differenza non è irrilevante. Una duplice posizione dello sparatore può far pensare anche a diversi esecutori, cosa che invece i periti del 1984 sono propensi ad escludere.


Senza pronunciarsi su quale delle due ricostruzioni fosse da preferire, Rotella colse la conseguenza fondamentale che sarebbe discesa dall’ipotesi del cambiamento di posizione dello sparatore: il possibile passaggio della pistola da una persona a un’altra, così come tante volte aveva raccontato Stefano Mele, pur cambiando i soggetti coinvolti e lo scenario.
Vediamo adesso la proposta di chi scrive, che, come il lettore abituale di queste pagine già s’immagina, è molto differente da ogni altra venuta prima.

La dinamica. Non ne possediamo prova, possiamo però dare per certo che la luce interna della Giulietta fosse spenta, poiché sul sedile posteriore c’era il bambino, che pur essendosi addormentato dopo aver visto la madre e Lo Bianco scambiarsi di posto, avrebbe sempre potuto svegliarsi. La notte era molto buia, quindi l’aggressore, o un complice accanto a lui, illuminò l’abitacolo con una torcia. Sporgendosi dal sedile del guidatore, Barbara Locci stava praticando una fellatio su Lo Bianco – supino sul sedile ribaltato del passeggero – che le teneva il braccio sinistro sulla schiena.
Non ci fu nessuna apertura di portiera, ma un repentino inserimento della canna della pistola – secondo Stefano Mele lunga, il che avrebbe facilitato l’operazione – nel piccolo spazio in alto lasciato libero dal vetro del finestrino.


Seguì una rapida sequenza di tre spari diretti verso la donna, il vero bersaglio dell’aggressore. Tre bossoli caddero a terra.


Il primo colpo fu probabilmente quello che trapassò l’avambraccio di Lo Bianco, colto di sorpresa (in foto il braccio dell’attore è troppo in alto, forse Lo Bianco stava accarezzando il seno della Locci). Mentre venivano sparati gli altri due colpi e la donna si accasciava morente sul suo grembo, l’uomo ebbe il tempo di tentare una reazione, portando le mani ai pantaloni e alzando il busto. Ma subito lo sparatore inquadrò anche lui, ripetendo una sequenza di tre colpi che lo presero al braccio sinistro e poi al fianco. Altri tre bossoli caddero a terra.


Fermiamoci un momento, come si fermò chi stava sparando. Perché venne scelto il finestrino anteriore e non il posteriore, dentro il quale si poteva infilare l’arma mirando magari alla testa dei due poveretti? Molto probabilmente perché si rendevano minori sia il pericolo di nuocere al bambino, sia la possibilità di sue interferenze. E sempre per lo stesso motivo si evitò di aprire la portiera anteriore. Vari indizi ci consentono di supporre che la portiera non venne aperta. I tre bossoli trovati all’esterno, le ferite tutte al bersaglio grosso e la mancanza di affumicature su pelle e vestiti ci raccontano di un’arma tenuta lontano dalle vittime, quindi fuori dall’auto, mentre con una portiera aperta sarebbe stato naturale per lo sparatore avvicinarsi di più. Ma è soprattutto la traiettoria dall’alto in basso dei tre colpi al braccio e al fianco sinistri di Lo Bianco a farci vedere una pistola che spara proprio dal pertugio di tre centimetri lasciato libero dal vetro del finestrino, pertugio che era più in alto del bersaglio.
Torniamo però allo sparatore dopo che aveva appena ucciso entrambe le vittime. Rimangono da giustificare la ferita alla spalla sinistra di Barbara Locci e i due bossoli ritrovati all’interno dell’auto. La traiettoria del proiettile che colpì la donna alla spalla era contraria a quella degli altri tre, da destra verso sinistra, lo abbiamo visto, il che ha da sempre costituito un problema per una sua collocazione nel flusso globale degli spari. Ma anche quei due soli bossoli trovati all’interno appaiono difficili da giustificare. Adesso, abbinando i due elementi, cerchiamo di trovare una logica spiegazione per entrambi. Con una mano infilata dentro il finestrino posteriore sinistro mezzo aperto, vennero esplosi due colpi in rapida successione – quindi con l’arma che si mosse poco tra l’uno e l’altro – i cui bossoli non a caso finirono vicini tra loro sul divanetto, evidentemente dopo aver rimbalzato in modo analogo sulle strutture interne del veicolo.


Un proiettile colpì alla spalla il cadavere della donna accasciato sul grembo di Lo Bianco, con una traiettoria da destra verso sinistra, l’altro andò fuori bersaglio. Del fatto che questo secondo proiettile fosse poi andato disperso non c’è da stupirsi troppo. Potrebbe anche essersi infilato in qualche anfratto della carrozzeria, ma più probabilmente il piombo di cui era costituito, impattando contro una struttura metallica molto più dura, si schiacciò e frammentò a tal punto da perdere del tutto la propria forma, finendo per sfuggire a ricerche che non c’era ragione dovessero essere troppo approfondite (al contrario di quelle all’esterno, volte a rintracciare la pistola). Del resto anche a Scandicci sarebbe accaduto qualcosa di simile con uno dei due proiettili finiti contro la portiera destra del passeggero.

Un secondo sparatore? La ricostruzione appena ipotizzata è indubbio che faccia tornare tutti i conti. Soprattutto offre una spiegazione convincente alle varie traiettorie dei proiettili, compresa quella del colpo alla spalla della Locci di oggettiva difficile interpretazione. Però non si comprende il senso di quei due colpi finali. Lo sparatore non cercava il colpo di grazia sulla donna, altrimenti avrebbe aperto la portiera anteriore destra ponendo l’arma a contatto della sua testa. Del resto di quel colpo di grazia né c’era né si poteva pensare ce ne fosse stato bisogno, con Barbara Locci morta subito per la ferita al cuore. Poteva forse essersi trattato di colpi esplosi in uno stato di rabbia, magari da parte di un amante geloso oppure di un Mostro che, al suo primo omicidio, era ancora incapace di gestire la propria emotività. Ma allora non si spiega come sia stato possibile che uno stesso sparatore in grado di freddare con sei colpi precisi entrambe le vittime dal pertugio del finestrino anteriore avesse del tutto perso la propria abilità nell’esplodere quei due altri colpi grossolani da posizione ben più favorevole e contro un corpo immobile.
Tenendo fede a quanto è stato dichiarato all’inizio, nel presente articolo non ci si addentrerà nelle questioni riguardanti i personaggi che all’epoca vennero indagati, marito, parenti del marito e amanti della donna. Tuttavia, allo scopo di suggerire una plausibile spiegazione ai due colpi sparati contro Barbara Locci già morta, si ritiene comunque opportuno invitare il lettore a riflettere sull’interrogatorio di Stefano Mele del 24 gennaio 1984, condotto appena dopo la scoperta nel suo portafoglio del curioso e noto biglietto dello “zio Pieto”. Nell’occasione l’uomo, ormai anziano e stanco, raccontò di un delitto maturato ed eseguito in famiglia, come in altri casi con dichiarazioni non del tutto lineari, ma che forse contenevano molta più verità delle precedenti. Dalla sentenza Rotella:

A me la paraffina risultò positiva, dunque ho sparato io. La S.V. mi fa rilevare che secondo la legge è indifferente ai fini della responsabilità chi abbia sparato. È vero, ma a distanza di tanti anni non potreste trovare tracce sulle mani degli altri due. Tuttavia è stato Mucciarini. NO, NON È VERO. La verità è che è stato mio fratello a sparare. Poi mi fu messa in mano la pistola. Qualche colpo ho sparato anch'io, ma non ricordo quanti colpi ho sparato se prima o dopo. Sono passati 15 anni. Gli restituii subito l'arma.

Nell’ipotesi che il delitto fosse stato davvero eseguito in famiglia, appare plausibile l’intento dei partecipanti di offrire alla legge un colpevole che pagasse per tutti e tenesse fuori gli altri; e chi, se non il marito, incapace di uccidere ma buono per farsi la galera, quindi indotto a sparare sul corpo morto della moglie proprio per sentirsi coinvolto fino in fondo? Ecco spiegato il senso di quei due inutili colpi, e dell’imperizia o quanto meno della poca convinzione di chi li aveva esplosi.

lunedì 15 ottobre 2018

Il dottore di Lotti e il patrimonio di Pacciani (2)


Nella prima parte dell’articolo abbiamo visto quanto altamente probabile sia la possibilità che quella del “dottore” fosse stata soltanto una opportunistica menzogna di Lotti, nell’intento di compiacere le forze dell’ordine alle quali quella menzogna  tornava comoda per spiegare i troppi soldi di Pacciani. Ma davvero quei soldi erano troppi per le possibilità economiche del contadino? Cerchiamo di scoprirlo in questa seconda parte.

900 milioni di lire? Si legge in Compagni di sangue: “Questa disponibilità finanziaria e patrimoniale equivale, secondo i calcoli presentati nel processo da un legale di parte civile, ad una cifra attuale di circa 900 milioni di lire”. Grazie a questa frase contenuta nel libro di Giuttari abbiamo ancor oggi la mirabolante cifra di quasi un miliardo di lire associata al patrimonio di Pacciani; ma come al solito le parole scritte nei libri dell’ex superpoliziotto vanno prese con le molle. A fornire quella valutazione sarebbe stato Patrizio Pellegrini nell’udienza del 24 febbraio 1998, la cui relativa trascrizione è una delle poche non pubblicate dal sempre benemerito blog “Insufficienza di prove”. Ci si deve quindi rivolgere al sito di Radio Radicale, e alle sue registrazioni audio. Chi scrive è riuscito a trovare il punto in cui Pellegrini spiega il proprio metodo di rivalutazione, raggiungibile da qui andando al minuto 22 circa della seconda parte. A beneficio del lettore, si riproduce la relativa trascrizione:

Fermiamoci un istante su quel fiume di denaro, un fiume di denaro in relazione alle loro possibilità economiche, tutto è relativo. Parlo a ragion veduta di un fiume di denaro, perché è un fiume di denaro di allora, di 15 anni fa grosso modo, accumulato nella prima metà degli anni '80.
Io che sono un civilista prestato al penale sono andato a fare i conti con le tabelle ISTAT alla mano. Sapete per quanto si moltiplica quel denaro per avere il controvalore a oggi? Per 4,2. Fatevi i vostri conti. Vedrete che quella casa comprata nel '79 da Pacciani e pagata 26 milioni oggi vuol dire che sarebbe pagata 110 milioni. Un contadino che è stato più in prigione che sui campi, che quando ha lavorato aveva un lavoro della terra che a malapena gli consentiva di sfamare sé e quelle disgraziate delle donne che aveva con sé. Come ha fatto a mettere da parte questi soldi? Voi ci riuscireste? Non credo, perché qualche spesa l'avrà avuta anche lui, poche, però intanto andava per trattorie, si comprava la macchina, si comprava il motorino, si comprava due case, metteva da parte 160 milioni in quell'epoca. Moltiplicate per 4, vedete oggi che cosa sono. Avrete una dimensione diversa. Purtroppo ci siamo abituati a uno svilimento del denaro, quindi 150 milioni non sembrano più poi tanti.
(Audio)

Ecco dunque il miracoloso metodo Pellegrini, in grado di moltiplicare il danaro come qualcuno prima di lui aveva moltiplicato i pani e i pesci, facendolo diventare addirittura un fiume: applicare la medesima rivalutazione monetaria di un importo del 1979 a un importo del 1996! “[…] metteva da parte 160 milioni in quell'epoca. Moltiplicate per 4, vedete oggi che cosa sono”, aveva suggerito il legale, e così Giuttari nel libro avrebbe fatto, usando il coefficiente di rivalutazione 4,2 sia per i 26 milioni spesi da Pacciani per la casa di Piazza del Popolo nel 1979, sia per i 35 spesi nel 1984 per la casa di via Sonnino, sia per i quasi 158 in valori mobiliari sequestrati a suor Elisabetta nel luglio 1996. E infatti, 26 + 35 + 158 = 219 milioni, che, moltiplicati per 4,2, diventano quasi 920! Quindi, secondo i miracolosi calcoli di Pellegrini e poi di Giuttari, in neppure due anni i 158 milioni di Pacciani in titoli e libretti di risparmio sarebbero diventati ben 663 e rotti…
Ci sarebbe da chiedersi se le parti in causa – non soltanto Pellegrini e Giuttari, ma tutti coloro che di fronte al quasi miliardo non si posero alcuna domanda – fossero o no consapevoli della realtà, ma lasciamo perdere, consideriamo il tutto soltanto un clamoroso svarione, fonte però di perniciosissime conseguenze. Vediamo allora a quanto ammontava davvero il patrimonio di Pacciani in quel 24 febbraio 1998 in cui Pellegrini lo aveva calcolato, applicando in modo corretto le tabelle ISTAT. Nell’era di Internet è possibile evitare i necessari ma noiosi conteggi avvalendosi delle numerose pagine che li fanno per noi, come questa, ad esempio, dove basta inserire mese di partenza, patrimonio a quella data e mese di attualizzazione per ottenere il patrimonio rivalutato. Ecco che cosa si ottiene:

  1. Casa di Piazza del Popolo, acquistata a settembre 1979 per 26 milioni, valore attualizzato a febbraio 1998: 105 milioni (coefficiente applicato: 4,044, Pellegrini aveva abbondato con il suo 4,2);
  2. casa di via Sonnino, acquistata a giugno 1984 per 35 milioni, valore attualizzato a febbraio 1998: 69 milioni di lire (coefficiente applicato:1,965);
  3. patrimonio mobiliare, 158 milioni nel luglio 1996 (momento del sequestro), rivalutazione a febbraio 1998: 163 milioni (coefficiente applicato:1,03).
La somma dei tre importi costituisce il valore corretto del patrimonio di Pacciani al momento del calcolo di Pellegrini, secondo i dati da lui presi in esame: 105 + 69 + 163 = 337 milioni di lire, quindi poco più di un terzo della stratosferica cifra riportata da Giuttari in Compagni di sangue!
 
Il valore delle due case. In realtà, pur se le regole della matematica finanziaria sono state rispettate, anche il calcolo precedente non fornisce un valore corretto del patrimonio di Pacciani. Una delle ragioni è costituita dall’impossibilità di conoscere il valore reale delle sue case al momento del calcolo, a quanto insomma si sarebbero potute vendere. Tuttavia attualizzare il loro prezzo d’acquisto costituisce senz’altro un’approssimazione soddisfacente, minata però dall’incognita del prezzo “dichiarato”, che potrebbe essere stato minore di quello realmente pagato. Non a caso Giuttari, ne Il Mostro, scrive:

[…] le sue entrate per l'attività di mezzadro erano state modestissime, ben lontane dal poter giustificare il possesso di tutto quel denaro liquido, e ancor meno gli acquisti e le ristrutturazioni, sempre con denaro contante, delle due case, avvenuti il 30 settembre 1979 (somma dichiarata 26 milioni) e il 30 giugno 1984 (somma dichiarata 35 milioni)

lasciando quindi intendere che le somme realmente pagate avrebbero potuto essere anche più alte. In effetti, fino a non molti anni fa (oggi forse non lo si fa più), nelle compravendite immobiliari era prassi consolidata versare una quota del prezzo concordato in nero, risparmiando così su tasse e balzelli vari. Si stipulava, come semplice scrittura privata, un preliminare di vendita, il cosiddetto “compromesso”, in cui veniva indicata la cifra reale suddivisa in più rate. A far testo di fronte al fisco era poi il “rogito” – l’effettivo documento che registrava la compravendita, redatto da un notaio al momento della consegna dell’immobile – nel quale compariva quasi sempre una cifra minore.
È chiaro che se Pacciani avesse versato più dei 26 milioni del 1979 e più dei 35 del 1984 il valore del suo patrimonio immobiliare dovrebbe essere aumentato di conseguenza. Ebbene, come si dimostrerà adesso, il prezzo reale delle due case era proprio quello, quindi è inesatto quanto afferma Giuttari ne Il Mostro scrivendo di somme dichiarate.


Per quanto riguarda l’appartamento di Piazza del Popolo, si legge nella nota della questura sopra riportata:

Dall'atto di compromesso si evince che il prezzo pattuito per l'appartamento fu di £ 26.000.000 con le seguenti modalità̀ di pagamento: £ 2.000.000 all'atto di compromesso che fu stipulato in data 24.01.1979, £ 8.000.000 con assegno nr. 203990894 e £ 16.000.000 all'atto del contratto entro il 30.09.1979.

Quindi i 26 milioni del 1979 furono quelli realmente versati da Pacciani al venditore, mentre il prezzo dichiarato era di 17, come dimostra la trascrizione del rogito riportata nella figura sottostante:


Per inciso, anche se si tratta di argomento che esula dalla materia del presente articolo, vale comunque la pena notare che il cattivissimo Pacciani aveva intestato la sua prima casa alle figlie.
Per quanto riguarda l’immobile di via Sonnino, chi scrive è anche in possesso della copia del compromesso, della quale vengono qui riportati i passi che interessano:


Come si vede, il prezzo reale era proprio di 35 milioni, suddiviso in tre rate di 5, 7 e 23. A riprova ecco l’immagine del rogito in cui si legge del “dichiarato prezzo di 30.000.000”.


Qualche parola va spesa anche per le ristrutturazioni, un argomento che Giuttari non mancò di tirare in ballo nell’intento di ipotizzare ulteriori spese. Pacciani lavorò molto sulle due case, che erano vecchie e malmesse, soprattutto quella di via Sonnino, ed è chiaro che la loro ristrutturazione ne fece aumentare il valore, ma non sappiamo di quanto. In realtà il dato, che è comunque valido ai fini del calcolo del patrimonio, in questa sede può anche trascurarsi, poiché di sicuro comportò modesti esborsi di danaro da parte di Pacciani, che fece quasi tutto da solo usando molto materiale di recupero, e magari neppure pagò qualche prestazione. Da una nota della questura dell’8 ottobre 1996:

In merito ad eventuali lavori di ristrutturazione effettuati presso le abitazioni di proprietà̀ di PACCIANI Pietro, si è avuto modo di accertare, tramite l'Ufficio Tecnico del Comune di S.Casciano V.P., che in data 18/9/84 PACCIANI Pietro ha presentato domanda per effettuare opere di risanamento e modifiche interne al fabbricato urbano ubicato in Via Sonnino.

La concessione per la ristrutturazione e l'ampliamento richiesto veniva concessa in data 15/3/85. La richiesta al comune veniva effettuata con una lettera manoscritta dal PACCIANI stesso indirizzata al Sindaco di S.Casciano e da una domanda corredata di relativa documentazione fatta a cura dell'Architetto Andrea PIAZZINI di Mercatale V.P.. Al fine di completare gli accertamenti richiesti su questo punto, si provvedeva ad incontrare l'architetto PIAZZINI che veniva sentito a S.I.T. in merito alla vicenda.

Lo stesso riferiva di avere eseguito le planimetrie e di avere presentato la documentazione per conto del PACCIANI, il quale voleva costruire un "bagnetto" nell'abitazione di via Sonnino. Per l'esecuzione del lavori il PACCIANI non pagò il PIAZZINI, che per questo ebbe una discussione con il PACCIANI. Lo stesso riferiva inoltre che per l'esecuzione del lavori il PACCIANI ebbe a provvedere di persona con l'aiuto di un altro abitante di Mercatale, ritenuto suo amico, PUCCI Giuliano.

Quella sopra descritta risulta essere l'unica richiesta, per l'esecuzione di lavori edili, presentata dal PACCIANI al Comune di S.Casciano.

Non può invece essere trascurato un fatto che fino a oggi non è mai emerso, e che invece potrebbe rivestire una certa importanza ai fini dell’oggetto del presente articolo. Da varie fonti sappiamo che la casa di via Sonnino, dopo i lavori di ristrutturazione, risultò separata in due appartamene diversi, uno al civico 28, uno al civico 30. Ecco che cosa ne disse Perugini in dibattimento raccontando della nota maxi perquisizione (vedi):

Nell’abitazione di via Sonnino 30, che è la più grossa… diciamo… mentre l’abitazione di via Sonnino 28 ha un ingresso, su a destra un camino, una larga stanza e un bagnetto, l’abitazione di via Sonnino 30 ha più camere, una camera da letto sulla destra, una cucina che è frontale alla porta d’ingresso, un’altra camera piuttosto larga sulla sinistra e un bagno in fondo.

Ma una qualche parte dell’immobile Pacciani la dovette vendere, come dimostra questo documento, frutto di un’indagine successiva condotta nell’ambito della vicenda Narducci:


Nell’immagine sono stati riportati soltanto alcuni frammenti dell’annotazione di PG, poiché le altre parti non riguardano l’argomento del quale si sta trattando. In ogni caso si vede che il primo marzo 1986 Pacciani “cedeva l’immobile di San Casciano Val di Pesa Via Sonnino n. 31”. Il numero civico dispari della parte ceduta poco si accorda con quelli pari delle parti rimaste a Pacciani, ma, a dire il vero, già al momento dell’acquisto con i numeri c’era confusione, poiché tra compromesso e rogito si parla sia di 30 che di 32. Per il momento quella sopra rimane l’unica traccia emersa della misteriosa operazione, della quale pertanto non è nota l’entità monetaria, che naturalmente farebbe diminuire il patrimonio finale. Di quanto? Ad esempio, si fosse trattato di 10 milioni, il loro passaggio dal patrimonio immobiliare a quello mobiliare avrebbe fatto diminuire il patrimonio totale al 28 febbraio 1998 di 17 milioni. Ma, vista la sua aleatorietà, nei calcoli generali tale valore sarà trascurato.
A questo punto calcoliamo il valore reale delle due case di Pacciani al 30 giugno 1996, più o meno quella del sequestro dei valori mobiliari, usando la solita pagina Internet, questa. Si ottiene per la casa di Piazza del Popolo un valore di 102.284.000 lire, per quella di via Sonnino un valore di 66.920.000 lire.

Il patrimonio mobiliare. Nella nota della questura del 9 gennaio 1997 (scaricabile qui), il patrimonio mobiliare di Pacciani viene valutato in 157.890.038 lire. Vediamone la composizione:

75.301.040    sul libretto di risparmio 1189 dell’ufficio postale di Mercatale;
18.996.350    sul libretto di risparmio 1190 dell’ufficio postale di Mercatale;
3.622.990      sul libretto di risparmio A003402/06 dell’ufficio postale di Scandicci;
13.500.000    in buoni fruttiferi acquistati nell’ufficio postale di Mercatale;
4.050.000      in buoni fruttiferi acquistati nell’ufficio postale di Cerbaia;
27.000.000    in buoni fruttiferi acquistati nell’ufficio postale di San Casciano;
11.300.000    in buoni fruttiferi acquistati nell’ufficio postale di Montefiridolfi;
5.100.000     in buoni fruttiferi acquistati nell’ufficio postale di Contea (fraz Rufina)

Per arrivare al totale di 157 milioni e rotti vennero sommate tutte le cifre elencate. Prima che il lettore si metta a fare la riprova è bene avvertire che nel prospetto della questura ci sono degli errori. Il primo è la mancata indicazione di un buono da 500 mila lire, l’O/N 112 del 26 aprile 1982 acquistato a Mercatale, presente invece nel prospetto precedente, quello del 12 giugno 1996 (vedi). Il totale di Mercatale però è lo stesso, quindi si può senz’altro ipotizzare una semplice dimenticanza. Il secondo è nella somma dei buoni elencati per Montefiridolfi, calcolata in modo errato, 10 milioni e 300 mila invece di 11 e 300 mila, in questo caso come il prospetto precedente. Il terzo è la somma finale, che, purgata del milione dimenticato di Montefiridolfi, è più alta di 19.658 lire rispetto a quella che avrebbe dovuto essere (ma forse mi è sfuggito qualcosa).
Tutto questo per amor di precisione. Alla fine la somma delle cifre segnate sui tre libretti di risparmio (97.920.380) e del totale del valore nominale dei buoni fruttiferi (60.950.000) è di 158.870.380 lire, cifra che, pur formalmente corretta, è priva di significato. Vediamo perché.
Nei quasi 98 milioni risultanti dai tre libretti di risparmio la questura conteggiò anche gli interessi fino a tutto l’anno 1995 e nei buoni postali no. Il perché è presto detto: gli interessi maturati sui libretti di risparmio risultavano segnati sui libretti stessi, anno per anno, con il conseguente calcolo del nuovo saldo, quindi l’agente che redasse il prospetto considerò valido il saldo al 31 dicembre 1995; gli interessi maturati sui buoni postali non erano segnati da nessuna parte, quindi ne venne preso il puro valore nominale, corrispondente al prezzo d’acquisto. A questo punto tentiamo di calcolare, per quanto possibile, la vera entità del patrimonio mobiliare di Pacciani al momento del sequestro dei primi di luglio 1996, diciamo, per semplicità, al 30 giugno 1996.
Cominciamo con l’aggiungere ai due libretti di Mercatale, fermi da diversi anni, gli interessi maturati nella prima metà del 1996, applicando il tasso rilevabile dagli interessi del 1995 indicati nel prospetto, che risulta del 5,75%. Si ottengono così 2.165.000 lire sul libretto 1189 e 545.000 lire sul libretto 1190. Per quanto riguarda il libretto di Scandicci, anch’esso fermo da anni, il prospetto non evidenzia gli interessi maturati, quindi applichiamo anche in questo caso il tasso del 5,75%, ottenendo la cifra di 104.000 lire. Possiamo quindi concludere questa prima e più semplice parte del lavoro affermando che al 30 giugno 1996 Pacciani disponeva di un patrimonio investito in tre libretti postali di 77.466.040 + 19.541.350 + 3.726.990 = 100.734.380.
Calcolare gli interessi maturati sui buoni postali al 30 giugno 1996 è molto più complicato. Gli inquirenti avrebbero dovuto richiederli all’amministrazione postale, e sarebbero stati molto felici del risultato, poiché avrebbero ottenuto una cifra sommata di prezzo d'acquisto e interessi di gran lunga superiore ai quasi 61 milioni da loro presi in esame. Le due tabelle scaricabili qui e qui, messe a disposizione dal sito delle Poste, consentirebbero di effettuare un calcolo preciso applicando la formula dell’interesse composto a ogni buono secondo le regole e i tassi indicati, che purtroppo non sono lineari. Chi scrive non ne ha né il tempo né la voglia, forse qualche lettore sì, quindi sarebbero ben accetti i suoi calcoli. In ogni caso è possibile raggiungere una soddisfacente approssimazione considerando tutti i buoni acquistati in un anno come se fossero un buono unico acquistato alla metà dell’anno, e applicando un tasso di rendimento medio. Per valutare quest’ultimo valore torna comoda l’operazione effettuata da Pacciani nell’estate 1992, quando incassò i buoni cointestati con le figlie versando il ricavato sul libretto di risparmio 1189, come mostra la tabella 6 del prospetto riassuntivo della questura del 12 giugno (vedi).
Nella figura sottostante i buoni incassati sono stati raggruppati e ordinati per data di acquisto, e, con l’aiuto di questa pagina Internet (quadro: “Investimento semplice”), per ogni gruppo è stato calcolato il tasso di rendimento annuo effettivo.


Con l’estrapolazione di un tasso medio dalla tabella soprastante – per i vecchi buoni Contea, del 1972-1973, dal quadro messo a disposizione dal sito delle Poste – e con l’aiuto di questa pagina Internet, si ottengono i risultati visibili nella seguente immagine:


Come si vede, i quasi 61 milioni nominali vedono più che triplicato il loro valore al 30 giugno 1996, raggiungendo la ragguardevole cifra di 193 milioni e rotti.
In conclusione possiamo valutare il patrimonio totale di Pacciani al 30 giugno 1996 come composto di due case del valore totale di circa 170 milioni e di libretti e buoni postali per un valore totale di circa 294 milioni, per un totale generale di 464 milioni di lire.
Volendo rapportare il tutto al momento dei calcoli di Giuttari e Pellegrini, 28 febbraio 1998, si ottengono circa 477 milioni, che rimangono ancora ben lontani dai loro gonfiatissimi 900. Infine, se rapportiamo il tutto a oggi (agosto 2018), rivalutando e convertendo si ottiene la bella somma di 348 mila euro.

Correlazioni di date? È possibile che almeno parte del notevole patrimonio di Pacciani fosse ascrivibile alla vendita dei “feticci” al “dottore” di Lotti? Nella tabellina sottostante sono stati inseriti i totali giornalieri degli acquisti di buoni con l’indicazione dell’ufficio postale, così come si desumono dalla documentazione della questura. È bene premettere che l’elenco non può considerarsi completo, poiché non riporta gli acquisti di buoni che sono stati poi incassati (escluso quelli trasferiti nel 1992 nel libretto di risparmio 1189, 28.050.000 nominali diventati 61.411.580, dei quali nei prospetti della questura c’è documentazione).


Cominciamo subito a eliminare una castroneria riportata nella sentenza di primo grado del processo a Vanni e Lotti, secondo la quale Pacciani avrebbe disseminato i buoni “tra i vari uffici del circondario (Mercatale, Montefiridolfi, San Casciano, Cerbaia e Scandicci), chiaramente per tener nascosta tanta provenienza di denaro, non sicuramente di fonte lecita”.
Negli anni 1972-1973 Pacciani lavorava come mezzadro in un podere in località Casini di Rufina, e l’ufficio postale di Contea, che di Rufina è frazione, si trovava a un chilometro o due. Nel 1981 i buoni vennero acquistati a Montefiridolfi, poi a partire dal 1982 fino al 17 giugno 1986 a Mercatale. Guarda caso, secondo i dati della questura, dal 15 aprile 1973 Pacciani risiedette a Montefiridolfi, da dove si trasferì a Mercatale il 17 marzo 1982. È vero che il 15 novembre 1985 un milione risulta investito a Montefiridolfi, ma l’operazione sa tanto del semplice rinnovo di un buono dal rendimento non più conveniente rispetto alle nuove emissioni. I buoni cartacei del tempo si andava a incassarli nell’ufficio dove erano stati acquistati, e già che si era lì si potevano anche rinnovare.
Dopo l’ultimo del 17 giugno 1986, Pacciani smise di acquistare buoni a Mercatale, servendosi degli uffici di Montefiridolfi, San Casciano e Cerbaia. Lo avrebbe fatto per tenerli nascosti? Forse sì, ma certamente non alla magistratura, come dimostra questa lettera:


Il 23 ottobre 1987 Pacciani, che si trovava in carcere per i noti abusi in famiglia, chiedeva all’amministrazione postale di bloccare i propri buoni per impedire che in sua assenza le figlie potessero venderli. Ora ci si deve chiedere se davvero un commerciante di “feticci” che avrebbe occultato i relativi proventi acquistando buoni postali a destra e a manca si sarebbe poi dato la zappa sui piedi chiedendo pubblicamente che tali buoni venissero rintracciati e bloccati… In realtà proprio la lettera ci dà la chiave di lettura del cambiamento di ufficio d’acquisto nella seconda metà del 1986. In quel periodo Pacciani era in rotta con le figlie e i loro spasimanti – a maggio 1987 sarebbe stato denunciato e poi arrestato – e temeva di veder sparire i propri risparmi. Non è certamente un caso se i buoni acquistati a Mercatale erano cointestati con le figlie e quelli successivi no. Che avesse preferito servirsi di uffici postali differenti da quello del proprio paese poteva spiegarsi con il tentativo di non mettere troppo in piazza i propri affari.
Veniamo adesso alla correlazione di date tra i soldi spesi e le ipotizzate vendite dei feticci. Scrive Giuttari in Compagni di sangue:

Dall'analisi dei movimenti di quel denaro, si poteva constatare che l'acquisto della quasi totalità di buoni era avvenuto tra il 1981 e il 1987 e, cioè, nell'arco di tempo, in cui erano stati realizzati i delitti con le macabre asportazioni.
Inoltre, in un arco di tempo molto ristretto, dal 15.11.85 al 26.05.87, aveva versato in contanti per acquisti di buoni in più uffici postali (Mercatale, Cerbaia, Montefiridolfi) una somma complessiva di £ 57.050.000. A volte aveva fatto più versamenti nello stesso giorno. La circostanza fa pensare che quei soldi potessero essere stati o il frutto di un saldo dei lavoretti, ordinati dal mandante, oppure il ricavato di una attività di ricatto dello stesso Pacciani nei confronti del mandante stesso. […]
Pacciani acquistava i primi buoni postali proprio nel 1981 quando, in effetti, erano iniziati gli omicidi seriali. Esauriva gli investimenti nei primi mesi del 1987, quando era stata completata la serie delittuosa.

Cominciamo col dire che non è affatto vero che Pacciani acquistò i primi buoni postali nel 1981, come attesta la presenza dei buoni del 1972-1973 acquistati a Contea. Ecco la lettera con la quale le Poste comunicarono il dato (nell’immagine manca una pagina dell’elenco):


Come si vede, i buoni erano cointestati a Pacciani e, in varie combinazioni, alla moglie, alle figlie e alla sorella, e probabilmente detenuti dalla sorella o da altri, visto che non erano stati trovati in mano a suor Elisabetta. È vero che poi, a partire da allora, non risultano altri acquisti di buoni fino a quelli del 16 giugno 1981 a Montefiridolfi, ma si è già detto che la documentazione acquisita non comprende tutti i buoni incassati. Dopo il suo trasferimento a Montefiridolfi nel 1973 Pacciani avrà senz’altro continuato a investire i propri risparmi in buoni postali acquistandoli nell’ufficio del paese. Quando poi, nel 1979, ebbe bisogno dei 26 milioni necessari all’acquisto della casa di Piazza del Popolo, riscattò parte di quei buoni, che quindi non risultano negli elenchi della questura. Tra l’altro, forse fu proprio allora che ebbe anche una buonuscita di una decina di milioni dai marchesi Rosselli-Del Turco, con la quale potrebbe aver coperto una quota dell'acquisto.
Nel 1984 Pacciani ebbe bisogno di altri 35 milioni, quelli che gli servirono ad acquistare la casa di via Sonnino. Dall’interrogatorio del venditore, Gianfranco Matteuzzi (27 maggio 1996):

Mi si chiede come sia avvenuto il pagamento e, in particolare, se in contanti o assegni. La maggior parte della somma era costituita da assegni, non ricordo però se postali o bancari. Ricordo, però, che Pacciani mi disse che aveva preso i soldi alla posta, per cui ritengo che potessero essere assegni postali.

Anche nel 1984 Pacciani si avvalse dei buoni comprati a Montefiridolfi, quelli che gli erano rimasti, naturalmente partendo dai più vecchi che già avevano fruttato abbondanti interessi. Ma forse già nel dicembre 1982, al momento di versare i 6 milioni della Ford Fiesta, aveva effettuato un’operazione analoga. E altri buoni di Montefiridolfi li avrà incassati alla scadenza. Al momento del sequestro del 1996 in quell’ufficio gli erano rimasti quelli acquistati per ultimi, i 2 milioni e 300 mila del 1981.
A questo punto veniamo alle possibili vendite dei feticci. Negli anni ’70 feticci non ce ne furono, quindi l’acquisto della casa di Piazza del Popolo nulla vi ebbe a che fare. Il 1981 fu l’anno delle due prime escissioni. A ridosso di quella del 6 giugno risulta l’acquisto di buoni a Montefiridolfi, il 16 e il 18, per 2 milioni e 300 mila lire, in linea teorica possibile ricavato della vendita. Ma allora, perché dopo la successiva escissione, il 22 ottobre, fino al 12 marzo 1982 non è documentato alcun acquisto? Risulta poco ragionevole ipotizzare che tali eventuali buoni sarebbero potuti essere tra quelli in seguito venduti, quindi non presenti nella documentazione della questura, poiché conviene sempre vendere i più vecchi, quelli che già hanno reso interessi e che scadranno prima.
Dopo il delitto di Calenzano la successiva escissione avvenne il 29 luglio 1984 a Vicchio. Ebbene, tra il 12 marzo 1982 e il 10 febbraio 1984 Pacciani acquistò buoni per 17 milioni e 250 mila lire e la Ford Fiesta per 6, quindi con proventi che nulla avevano a che fare con le macabre vendite. Anche il danaro speso nel 1984 per la casa di via Sonnino di sicuro non fu frutto della vendita delle parti mutilate alla povera Pia Rontini, poiché gli anticipi di 5 e 7 milioni risalgono al marzo e il saldo di 23 milioni al 30 giugno, quindi ben prima del delitto. Il successivo acquisto di buoni è quello di 2 milioni del 17 ottobre 1984, due mesi e mezzo dopo il delitto, e considerarlo il pagamento per il pube e il seno mutilati è poco sensato, visto il ritardo.
Tra il delitto di Vicchio e quello di Scopeti risulta l’acquisto di buoni per 7 milioni, l’ultimo il 20 aprile 1985, che non è affatto irragionevole considerare frutto di risparmi. Il primo acquisto dopo il delitto di Scopeti risale al 15 novembre 1985, due mesi dopo, quindi vale quanto già osservato riguardo il delitto di Vicchio: non c’è correlazione con la supposta vendita delle parti mutilate.
Giuttari fa notare che dal 15 novembre 1985 al 26 aprile 1987 Pacciani acquistò buoni postali per ben 57 milioni e rotti. In effetti sembra tanto, soprattutto considerando i 10.550.000 del 1982, i 6.200.000 del 1983, i 6.000.000 del 1984 e i 7.800.000 totali del 1985. “La circostanza fa pensare che quei soldi potessero essere stati o il frutto di un saldo dei lavoretti, ordinati dal mandante, oppure il ricavato di una attività di ricatto dello stesso Pacciani nei confronti del mandante stesso”, queste le ipotesi di Giuttari, che però non stanno in piedi. Riguardo il saldo: Pacciani aveva forse in mano un contratto scritto che impegnava i propri committenti a pagare il conto per intero, pena la denuncia all’autorità competente? Riguardo il ricatto: come poteva Pacciani ricattare qualcuno se era stato lui stesso a uccidere i poveri ragazzi? Sembra molto più ragionevole pensare che l’aumento degli acquisti di buoni negli anni 1986 e 1987 fosse dovuto soprattutto alla vendita di quelli di Montefiridolfi anteriori al 1981. È vero che quei buoni dovevano già aver contribuito all’acquisto di due case e di un’auto, ma abbiamo visto di quali rendimenti vertiginosi erano capaci. E magari Pacciani, nell’imminenza di entrare in carcere per gli abusi sulle figlie (30 maggio 1997), cercò di convertire anche qualche buono di Mercatale loro cointestato (il 9 maggio un milione e 750 mila, il 26 due milioni e 300 mila, tutti a Cerbaia).

La provenienza dei risparmi. In ogni caso bisogna riconoscere che il patrimonio di Pacciani non era niente male per un contadino. Ma quando si pensa che l’individuo aveva sempre lavorato senza risparmiarsi, anche durante i periodi di prigionia, e che era taccagno fino all’inverosimile – arrivando persino a mettere in tavola del cibo per cani, come si seppe con raccapriccio dalla bocca di una figlia – la cifra appare già più plausibile. Peraltro ha poco senso fargli i conti in tasca calcolando le sue entrate ufficiali, come pure tentarono gli inquirenti nel prospetto del 9 gennaio 1997 (qui).
Ad esempio, si legge nel prospetto:

Verso la fine degli anni sessanta, inizio degli anni settanta, per circa tre anni, il PACCIANI ha lavorato in qualità di mezzadro, senza quindi alcuna retribuzione in denaro, presso un podere in località Casini di Rufina, in via Forlivese di proprietà di LOTTI Cesare, da cui il PACCIANI, a dire delle figlie del LOTTI stesso, ha ricavato "l'indispensabile per il fabbisogno di una famiglia”.

Però, come abbiamo visto, risulta che nel periodo mise da parte almeno i 5 milioni e 100 mila investiti nei buoni postali di Contea. Rapportati a oggi, si tratta di 37 mila e 500 euro, mica male per un lavoro dal quale si poteva ricavare soltanto “l'indispensabile per il fabbisogno di una famiglia”!
Passiamo al lavoro successivo, quello a Montefiridolfi presso l’azienda dei marchesi Rosselli-Del Turco. I 5-6 milioni all’anno che risultano guadagnati ufficialmente nel periodo 1978-1982 come operaio agricolo di sicuro non erano molti, ma ci sarebbe da stupirsi se non ci fossero stati anche dei congrui fuori busta; poi Pacciani nulla pagava d’affitto, e naturalmente, come tutti i contadini, per il mangiare si aiutava con i prodotti della terra, coltivati per sé e anche per rivenderli. Faceva poi altri lavori, ad esempio allevatore – vincendo anche dei premi – e custode di cani e cavalli conto terzi. Si diceva cacciasse di frodo, non si sa quanto fosse vero, ma certo andava per boschi a raccogliere funghi e castagne che vendeva. Di queste attività e di mille altre che si può immaginare avesse intrapreso ogni volta che ne aveva avuto occasione – magari qualcuna neppure troppo lecita – non è possibile quantificare il ricavo, che però di sicuro va ben oltre le sue entrate ufficiali.
Si devono poi aggiungere altri introiti non disprezzabili, come le due pensioni minime, a partire dal 1973 quella della moglie e dal 1979 anche la sua, per un totale annuo di 8 milioni e mezzo ciascuna nel 1996. Abbiamo visto che dai marchesi Rosselli aveva ricevuto una buona uscita di quasi 10 milioni. Per anni le figlie erano state ospiti di un collegio gratuito, poi avevano lavorato come domestiche percependo stipendi non disprezzabili. Insomma, pare evidente che Pacciani avesse approfittato di ogni possibilità di guadagno e di risparmio, e per quanto riguarda quest’ultimo aveva avuto l’occhio lungo nel capire la convenienza dei buoni fruttiferi postali già fin almeno dai primi anni ’70.
Ma proviamo a sentire lui stesso, in questo memoriale pubblicato da “Epoca” nell’agosto 1996, fotocopiato dagli inquirenti assieme ad altri articoli e messo agli atti (qui). Eccone una trascrizione con qualche piccolo intervento per correggere errori di sintassi e punteggiatura.

Sul Tirreno del 4 luglio 1996, il giorno 3 luglio, hanno dato notizia che hanno fatto la perquisizione nel collegio il Samaritano in S. Frediano dalle suore. Gli hanno portato via tutti i risparmi dati in custodia alla suora, Annamaria Mazzari col nomignolo Elisabetta, la quale l'avevo delegata per tutelare i miei interessi di tutta la famiglia: un libretto nominativo con 62.000.000 e tutti i buoni postali per un totale di 150.000.000, frutto di 47 anni di lavoro e risparmi di tutta la famiglia, lavoro, pensione, lascito dei genitori e sorella e suocero, 12 anni di lavoro all’industria dal 1952 al 1964, e più lavoro in proprio che facevo avanza tempo dopo il lavoro in fabbrica, e la domenica.
Sono stato a lavorare sempre all‘industria dal 1952 al l964, e la paga era quella che percepiva un operaio di fuori, paga stabilita dal sindacato, ma dovevamo lasciare le trattenute della pensione per il versamento delle marchette e l'assicurazione. E avevamo, oltre la paga sindacale stabilita, il premio di produzione e il sotto banco. Inoltre facevo i cofanetti di madreperla con carillon e ballerina per conto di un rappresentante di mobili. Li vendevo a L. 3000 e avevo 2000 lire di spesa, ci guadagnavo L. 1000 ognuno, ma ci volevano 4 ore di lavoro, avanza tempo la sera dopo il lavoro (in fabbrica e la domenica).
Dopo 13 anni tornai a casa a fine pena riportando tutti i miei risparmi, e trovai mia madre sola, che mi aveva messo da parte il lascito di mio padre, più i suoi risparmi di pensione e un libretto di mia sorella che aveva lavorato 12 anni con un medico come domestica. Si era sposata, le disse mamma: «Questi soldi li dai a Pietro, quando torna si deve fare una famiglia, noi non abbiamo bisogno, io e mio marito». Misi tutto in banca in buoni bancari, Bot, poi girati in buoni postali che rendevano di più, i quali dopo 5 anni triplicano, un milione diventano tre. Mi misi subito a lavorare in fabbrica al mio paese di Vicchio in calzaturificio. Nel 1965 tornai a contadino a Badia a Bovino col sig. Ceseri Costantino, gestivo due poderi, 18 ettari di terreno con piante e bestiame.
Presi moglie nel 1965, e con me tornò pure mio suocero che era rimasto solo, tutto quello che aveva diede tutto a me. Compreso il libretto di pensione tutelavo tutto io gli interessi e pensavo al mantenimento della famiglia. Nel 1966 nacque la prima figlia, mia moglie rimase seminferma di mente in seguito al taglio cesareo, e quindi pensionata dal 1966. Ad ora 1996 sono 30 anni esatti. Io mi ammalai d'infarto nel 1979 e fui pensionato, da allora sono 17 anni che la riscuoto. Inoltre quando da Vicchio, Badia a Bovino, tornai a San Casciano col marchese Rosselli, nel 1972 prendevo la prima paga di operaio specializzato e qualificato con patente per mezzi operatrici e allevatore di bestiame con 28 capi di bestiame e lavoro col trattore, paga fissa 80.000 lire al giorno pagata l'intera settimana pure i giorni festivi tutte le domeniche comprese, dal 1972 fino al 1979. Poi l'infarto, lasciai l'azienda, mi diede 10 milioni di buonuscita, comprai casa a Mercatale e tornai lì. Come vedete questi tre soldi sono guadagnati con tanto sudore da tutta la famiglia. Compreso 12 milioni, il lavoro delle figlie di circa 8 anni, siano resi indietro e resi alla suora, che mi tutela gli interessi, noi non abbiamo rubato niente a nessuno, è frutto di tanti anni di sudore e sacrifici.