In questa terribile vicenda di delitti feroci e indagini dissennate si finisce per tornare sempre là, a Signa, nella notte a cavallo tra il 21 e il 22 agosto 1968, dove tutto sembra aver avuto origine. Sull’uccisione di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco si è discusso miriadi di volte, nella vana speranza di chiarire il mistero del passaggio della pistola, se vi fu o non vi fu, e se sì da chi a chi e in quale modo. Le ipotesi e le domande sono sempre le stesse. Già in quel lontano delitto esordì il futuro Mostro di Firenze, quindi la pistola è sempre rimasta in mano a lui? Oppure a uccidere furono i familiari, tra cui il marito, e gli amanti della donna? In questo caso uno di loro avrebbe tenuto la pistola diventando il Mostro oppure, dopo il delitto, subito o anche a distanza di anni, ne entrò in possesso un misterioso personaggio esterno, a loro insaputa e a loro sconosciuto? Infine, non sarà magari che il Mostro riuscì a depistare le indagini creando un falso legame dei propri delitti con quello di Signa?
Molte altre domande sui fatti del 1968 e su quelli da essi derivati attendono risposta, che naturalmente chi scrive non si illude certo di poter dare, almeno non in questo articolo, i cui confini sono limitati a un tentativo di ricostruzione della pura dinamica del delitto. Ma il lettore si renderà conto che proprio dallo studio della dinamica, a dire il vero sempre molto trascurato, potrà arrivare un grande aiuto per escludere – o quantomeno rendere poco plausibili – alcune ipotesi privilegiandone altre.
Solo qualche parola per sintetizzare una vicenda ormai conosciutissima. Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, entrambi sposati e amanti da pochissimo tempo, forse addirittura da quella stessa sera, vennero uccisi a pistolettate mentre erano appartati nell’auto di lui, dopo essere appena usciti da un cinema di Signa. Sul sedile posteriore dormiva Natalino, di sei anni e mezzo, figlio della donna, che alle due di notte suonò il campanello di un’abitazione posta a più di due chilometri dal luogo del delitto, raccontando agli attoniti padroni di casa di essersi svegliato trovando la mamma e lo “zio” morti, e di aver camminato a lungo da solo nel buio della notte. Ai piedi, che non erano feriti, portava soltanto i calzini. Dopo l’intervento di un carabiniere, di piantone in una vicina caserma, il bambino fece da guida e consentì di rintracciare l’auto, al cui interno giacevano davvero i cadaveri dei due amanti.
Prima di proseguire, un ringraziamento all’avvocato Vieri Adriani per i documenti che mi ha messo a disposizione, tratti dal proprio archivio.
Scena del crimine. L’Alfa Romeo Giulietta di Antonio Lo Bianco era ferma lungo una sterrata che, costeggiando il torrente Vingone, portava da Signa a Sant’Angelo a Lecore. L’immagine sottostante rende bene l’idea del percorso effettuato dall’auto, circa 150 metri, dopo aver imboccato la via del delitto provenendo dalla strada asfaltata a destra.
Molte altre domande sui fatti del 1968 e su quelli da essi derivati attendono risposta, che naturalmente chi scrive non si illude certo di poter dare, almeno non in questo articolo, i cui confini sono limitati a un tentativo di ricostruzione della pura dinamica del delitto. Ma il lettore si renderà conto che proprio dallo studio della dinamica, a dire il vero sempre molto trascurato, potrà arrivare un grande aiuto per escludere – o quantomeno rendere poco plausibili – alcune ipotesi privilegiandone altre.
Solo qualche parola per sintetizzare una vicenda ormai conosciutissima. Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, entrambi sposati e amanti da pochissimo tempo, forse addirittura da quella stessa sera, vennero uccisi a pistolettate mentre erano appartati nell’auto di lui, dopo essere appena usciti da un cinema di Signa. Sul sedile posteriore dormiva Natalino, di sei anni e mezzo, figlio della donna, che alle due di notte suonò il campanello di un’abitazione posta a più di due chilometri dal luogo del delitto, raccontando agli attoniti padroni di casa di essersi svegliato trovando la mamma e lo “zio” morti, e di aver camminato a lungo da solo nel buio della notte. Ai piedi, che non erano feriti, portava soltanto i calzini. Dopo l’intervento di un carabiniere, di piantone in una vicina caserma, il bambino fece da guida e consentì di rintracciare l’auto, al cui interno giacevano davvero i cadaveri dei due amanti.
Prima di proseguire, un ringraziamento all’avvocato Vieri Adriani per i documenti che mi ha messo a disposizione, tratti dal proprio archivio.
Scena del crimine. L’Alfa Romeo Giulietta di Antonio Lo Bianco era ferma lungo una sterrata che, costeggiando il torrente Vingone, portava da Signa a Sant’Angelo a Lecore. L’immagine sottostante rende bene l’idea del percorso effettuato dall’auto, circa 150 metri, dopo aver imboccato la via del delitto provenendo dalla strada asfaltata a destra.
Delle quattro portiere tre furono trovate chiuse, ma non a chiave, e una, la destra posteriore, socchiusa; il finestrino anteriore sinistro era aperto per tre centimetri, quello posteriore per metà e i due a destra chiusi. Questo secondo il verbale di sopralluogo – peraltro redatto qualche giorno dopo, il 25 – ma le foto di quella notte ci restituiscono l’immagine di una portiera posteriore destra quasi spalancata e del corrispondente finestrino aperto per metà. E se prima delle foto la portiera potrebbe essere stata aperta dai carabinieri per un controllo all’interno dell’abitacolo, pare poco plausibile che analoga operazione fosse stata compiuta sul finestrino.
Vediamo adesso la posizione dei cadaveri. Quello di Lo Bianco era steso sul sedile del passeggero reclinato, i pantaloni sbottonati ed entrambe le mani atteggiate a ricomporsi.
L’immagine ci consente di intravedere tra il sedile anteriore destro e la relativa portiera il borsello della Locci, del tipo a scatto e aperto, nel quale furono rinvenute quasi 25 mila lire, e sul pianale posteriore una ciabatta, forse della donna, i cui piedi erano infatti scalzi, oppure del bambino (ma si legge nella sentenza Rotella: “Tra il sedile anteriore e quello posteriore sono anche scarpe infantili, attribuite a Natalino”).
Il cadavere di Barbara Locci giaceva sul sedile di guida, in una posizione che non era quella originaria, come dimostravano le ferite di proiettile alla schiena appoggiata allo schienale normalmente rialzato. Una catenina trovata in due pezzi, uno a terra e l’altro ancora attaccato al collo della poveretta, costituiva ulteriore prova dell’avvenuto spostamento (interrogatorio di Stefano Mele del 23 agosto 1968: “Afferrai mia moglie per le vesti e la feci ritornare in posizione seduta”).
Nella foto sottostante è possibile apprezzare l’intreccio tra la gamba sinistra dell’uomo e la gamba destra della donna – della quale s’intravede la punta del piede nudo in basso a destra. Si tratta di uno dei particolari che Stefano Mele riferì agli inquirenti e che quindi avvalora l’ipotesi della sua presenza sulla scena del crimine, in questo caso durante l’azione di aggiustamento dei cadaveri.
Bossoli e proiettili. In tutto vennero recuperati cinque bossoli, tre sul lato sinistro dell’autovettura, due all’interno, tra seduta e schienale del divanetto posteriore. Nell’immagine sottostante, tratta da una ripresa televisiva del fascicolo fotografico, vediamo i tre esterni.
Anche se non di buona qualità, le quattro immagini successive fanno apprezzare meglio la posizione dei tre bossoli, situati a circa un metro dalla fiancata, tra la fine della portiera anteriore e la fine della ruota posteriore.
Ecco invece i due bossoli sul divanetto. Vedremo che è importante la loro reciproca posizione uno vicino all’altro.
Riguardo i proiettili, ne venne recuperato uno dal pavimento dell’auto, nello spazio tra sedile anteriore destro e divanetto, uno dai vestiti della donna, caduto a terra al momento della deposizione del corpo sulla barella. Nella foto sottostante è visibile quello sul pavimento.
Altri tre proiettili furono estratti dai corpi delle vittime, due da quello della donna e uno da quello dell’uomo; con i due non estratti dal corpo di Lo Bianco – che evidentemente l’anatomopatologo non ritenne opportuno cercare troppo – arriviamo a sette (quindi almeno due bossoli andarono perduti, ma vedremo che furono tre).
Le ferite. È opportuno premettere che sui due poveretti furono riscontrate soltanto ferite da arma da fuoco – niente coltello, insomma. Barbara Locci venne colpita da quattro proiettili, tutti entrati da tergo: tre con traiettoria molto simile, da sinistra verso destra, tra dorso (1 e 2) e fianco sinistri (3), uno (7) con traiettoria da destra verso sinistra alla spalla sinistra.
Le ferite. È opportuno premettere che sui due poveretti furono riscontrate soltanto ferite da arma da fuoco – niente coltello, insomma. Barbara Locci venne colpita da quattro proiettili, tutti entrati da tergo: tre con traiettoria molto simile, da sinistra verso destra, tra dorso (1 e 2) e fianco sinistri (3), uno (7) con traiettoria da destra verso sinistra alla spalla sinistra.
Con quasi certezza i proiettili 1, 2 e 3 vennero sparati in rapida sequenza, ma non possiamo sapere con quale progressione, qui assegnata a caso. Quello indicato con il numero 1, immediatamente mortale, attraversò il cuore e i polmoni poi fuoriuscì non lontano dalla mammella destra, gli altri due, più bassi, lesero fegato e pancreas arrivando fino in zona ombelicale, uno uscendo, uno rimanendo sotto pelle da dove venne estratto in sede di autopsia. Senz’altro i due proiettili fuoriusciti furono quelli ritrovati uno sul pavimento, uno tra le vesti della donna. Probabilmente anche quello sul pavimento in origine si trovava tra le vesti, da dove era caduto durante l’operazione di spostamento del corpo successiva al delitto.
La traiettoria del proiettile che colpì Barbara Locci alla spalla sinistra, opposta a quelle degli altri tre, può significare molte cose, che più avanti vedremo. Intanto è il caso di sgomberare il campo da un dubbio suscitato da un articolo comparso di recente sul blog dell’amico Omar Quatar (vedi), teso a dimostrare che i colpi sparati furono sette, e non gli otto da sempre ipotizzati in parziale accordo con le dichiarazioni di Stefano Mele, che quindi andrebbero a perdere uno dei loro punti di forza. Nell’articolo un professore universitario di cose mediche, Claudio Ferri, sulla base delle sparse e scarse informazioni a lui disponibili – essenzialmente la perizia De Fazio, la deposizione di Biagio Montalto che aveva eseguito l’autopsia (vedi) e la perizia balistica Arcese-Iadevito – afferma di ritenere molto probabile che tale proiettile avesse incontrato qualche ostacolo prima di entrare nella spalla della donna, poiché ivi avrebbe compiuto un percorso di pochi centimetri senza incontrare strutture ossee, con il che non se ne spiega la forte deformazione riscontrata dalla perizia balistica. In effetti i due proiettili fuoriusciti e quello estratto dalla zona ombelicale erano più o meno completi, con un peso all’incirca di 2,5 grammi, mentre quello estratto dalla spalla, con un peso di 1,9 grammi, no.
Chi scrive ha la disponibilità della relazione autoptica redatta da Montalto (scaricabile qui, ma purtroppo mancante di una pagina), dove si legge:
[...] si osserva che alla soluzione predetta [il foro] fa seguito un tramite nel sottocute che si prolunga con semicanale a doccia sulla faccia posteriore della testa dell'omero, con successiva perforazione imbutiforme svasata verso il basso della cavità glenoidea e ritrovamento di un proiettile di revolver molto deformato situato in prossimità dell'apofisi coracoide.
Nonostante il linguaggio un po’ criptico per i non addetti ai lavori, si comprende che il proiettile qualche struttura ossea dovette averla incontrata – o la testa dell’omero o la scapola – arrivando poi nella zona dell’apofisi coracoide che si trova oltre, come mostra l’immagine sottostante.
Quindi la deformazione del proiettile sembra giustificarsi anche per il solo percorso nella spalla della donna; del resto – ma ciò di per sé non dimostra nulla, beninteso – di quella deformazione Montalto nel proprio scritto non pare stupirsi.
Nelle immagini sottostanti sono apprezzabili i sei fori di proiettile sul corpo di Barbara Locci, quattro di entrata sul lato dorsale, due di uscita sul lato ventrale.
Veniamo adesso alle ferite riscontrate sul corpo dell’uomo, il cui esame autoptico venne eseguito da Massimo Graziuso (vedi deposizione).
Antonio Lo Bianco venne colpito sul lato sinistro da tre proiettili (4,5,6), tutti con analoga traiettoria leggermente dall’alto verso il basso e dal davanti al dietro (perizia De Fazio: “La traiettoria è teoricamente dall'alto verso il basso, da sx. verso dx. e in senso lievemente anteroposteriore”), che trapassarono il braccio sinistro e poi entrarono nel fianco senza fuoriuscire, ferendo polmone sinistro, stomaco e milza. Non venne colpito il cuore, quindi le ferite, comunque mortali, non determinarono una morte istantanea (relazione di Graziuso, scaricabile qui: “La morte è sicuramente avvenuta entro breve tempo dal ferimento”).
Un quarto proiettile colpì Lo Bianco in modo superficiale all’avambraccio sinistro, trapassandolo. Nell’articolo già citato il professor Ferri formula l’ipotesi che fosse stato questo l’ostacolo che aveva deformato il proiettile prima del suo ingresso nella spalla di Barbara Locci. Ma ciò non è possibile, poiché il tramite nell’avambraccio dell’uomo fu minimo, e interessò soltanto tessuti molli. Infatti, a proposito della relativa ferita, si legge nella relazione Graziuso (della quale Ferri, è bene ribadirlo, non disponeva): “[...] all'unione fra il 3° superiore e il 3° medio si osservano due soluzioni di continuo della cute, strettamente ravvicinate tra loro e con un intervallo di cute libera di circa un centimetro [...] tra loro riunite da un tramite a sede sottocutanea [...]”.
Nell’immagine successiva si possono apprezzare alcuni dei fori di proiettile riscontrati sul corpo di Antonio Lo Bianco.
Un quarto proiettile colpì Lo Bianco in modo superficiale all’avambraccio sinistro, trapassandolo. Nell’articolo già citato il professor Ferri formula l’ipotesi che fosse stato questo l’ostacolo che aveva deformato il proiettile prima del suo ingresso nella spalla di Barbara Locci. Ma ciò non è possibile, poiché il tramite nell’avambraccio dell’uomo fu minimo, e interessò soltanto tessuti molli. Infatti, a proposito della relativa ferita, si legge nella relazione Graziuso (della quale Ferri, è bene ribadirlo, non disponeva): “[...] all'unione fra il 3° superiore e il 3° medio si osservano due soluzioni di continuo della cute, strettamente ravvicinate tra loro e con un intervallo di cute libera di circa un centimetro [...] tra loro riunite da un tramite a sede sottocutanea [...]”.
Nell’immagine successiva si possono apprezzare alcuni dei fori di proiettile riscontrati sul corpo di Antonio Lo Bianco.
Precedenti ricostruzioni. Chi scrive non è in possesso della mitica perizia balistica di Innocenzo Zuntini, nella quale dovrebbe essere contenuta una sommaria ricostruzione del delitto. A essa comunque si rifanno i sintetici cenni alla dinamica contenuti nei due documenti che è possibile scaricare qui e qui. Il primo è la richiesta di rinvio a giudizio di Stefano Mele avanzata il 30 settembre 1969 dal giudice istruttore Antonio Spremolla. Vi si legge, in una strana prosa dal sapore molto arcaico:
Secondo le resultanze della generica per primo venne colpito il Lo Bianco Antonio nell'atto di sollevarsi dal sedile della macchina, il primo colpo lo avrebbe ferito mentre i tre successivi gli avrebbero provocato lesioni mortali che il perito settore individuò per lesioni polmonari e spleniche con emorragia pleurica peritoneale provocate da colpi d'arma da fuoco esplosi a distanza non vicinissima con traiettoria dall'alto al basso e da sinistra verso destra.
Seguì il ferimento della Locci Barbara a mezzo del primo colpo di pistola che la raggiunse alla spalla fermandosi in cavità scapolare, esso immobilizzò la donna che si rovesciò sul fianco destro esponendo all’arma la faccia posteriore dell'emitorace sinistro raggiunto da un secondo colpo con traiettoria dal basso verso l'alto [che] lese delicati visceri godendosi di effetto mortale per la vittima che venne in analoga regione raggiunta da altri due colpi.
Queste resultanze consentono di ritenere come gli otto colpi siano stati esplosi (tutti per traccia dei bossoli esplosi dalla stessa arma) filando alla sinistra dell'auto attraverso prima lo spiraglio offerto dal vetro abbassato della portiera posteriore e poi eventualmente dalla portiera anteriore aperta dall'autore degli spari.
Il meccanismo di esecuzione degli spari rimane quindi attribuibile all’opera di una sola persona; acquistando incidenza l'eventuale cooperazione di un compartecipe solo al fine di coadiuvare ed assistere l'azione materiale del singolo esecutore.
Il secondo documento è il vero e proprio rinvio a giudizio formulato dal consigliere istruttore Gian Gualberto Alessandri il successivo 6 novembre. Vi si legge:
Secondo le resultanze della generica per primo venne colpito il Lo Bianco Antonio nell'atto di sollevarsi dal sedile della macchina, il primo colpo lo avrebbe ferito mentre i tre successivi gli avrebbero provocato lesioni mortali che il perito settore individuò per lesioni polmonari e spleniche con emorragia pleurica peritoneale provocate da colpi d'arma da fuoco esplosi a distanza non vicinissima con traiettoria dall'alto al basso e da sinistra verso destra.
Seguì il ferimento della Locci Barbara a mezzo del primo colpo di pistola che la raggiunse alla spalla fermandosi in cavità scapolare, esso immobilizzò la donna che si rovesciò sul fianco destro esponendo all’arma la faccia posteriore dell'emitorace sinistro raggiunto da un secondo colpo con traiettoria dal basso verso l'alto [che] lese delicati visceri godendosi di effetto mortale per la vittima che venne in analoga regione raggiunta da altri due colpi.
Queste resultanze consentono di ritenere come gli otto colpi siano stati esplosi (tutti per traccia dei bossoli esplosi dalla stessa arma) filando alla sinistra dell'auto attraverso prima lo spiraglio offerto dal vetro abbassato della portiera posteriore e poi eventualmente dalla portiera anteriore aperta dall'autore degli spari.
Il meccanismo di esecuzione degli spari rimane quindi attribuibile all’opera di una sola persona; acquistando incidenza l'eventuale cooperazione di un compartecipe solo al fine di coadiuvare ed assistere l'azione materiale del singolo esecutore.
Il secondo documento è il vero e proprio rinvio a giudizio formulato dal consigliere istruttore Gian Gualberto Alessandri il successivo 6 novembre. Vi si legge:
Veniva successivamente disposta perizia balistica, la quale, sulla base della particolare conformazione dei fori di entrata delle pallottole, accertava: 1) che i cinque bossoli rinvenuti e gli altrettanti proiettili repertati erano stati esplosi da una unica pistola calibro 22 non ancora rintracciata, vecchia, arrugginito ed usurata: 2) che i colpi che avevano raggiunto il Lo Bianco era[no] stati sparati da una distanza di 1,50 m. circa attraverso i vetri della parte sinistra dell'auto mentre la vittima si trovava sdraiata supina sul sedile anteriore destro, la cui spalliera era stata abbassata: 3) che la Locci inizialmente in parte sopra il Lo Bianco, aveva tentato di uscire dallo sportello anteriore sinistro ed in tale manovra era stata colpita, con proiettili esplosi alla distanza di circa un metro, prima alla spalla sinistra indi, ritrattasi verso destra, alla schiena sempre sul lato sinistro.
Il recente libro di Valerio Scrivo, Il Mostro di Firenze esiste ancora, riprende la dinamica deducibile dalle due citazioni precedenti. Ecco la sua sintetica ricostruzione:
Le vittime si accingevano all’atto amoroso quando sono state assalite. L’uomo era sdraiato sul sedile del passeggero e la donna su quello del guidatore. La ghiaia deve aver provocato rumore poiché Lo Bianco stava per rialzarsi i pantaloni quando viene letteralmente freddato dai colpi che l’SI spara con il braccio all’interno dell’abitacolo. A quel punto la donna tenta una disperata fuga ma l’SI gli si para davanti, lei si gira verso lo sportello del passeggero offrendo le spalle al tiratore che spara tutti i colpi sul dorso della donna.
La figura allegata, che qui sopra si riporta, aiuta a capire meglio il limite più grosso di tale ricostruzione: Antonio Lo Bianco venne colpito sul fianco sinistro da tre proiettili tutti con traiettoria da sinistra a destra secondo l’asse longitudinale del corpo, quindi da uno sparatore che si trovava nella posizione 2, davanti al finestrino anteriore. Diventa quindi inutile andare a cercare altre pecche, che in ogni caso ci sono, soprattutto nella dinamica del ferimento della donna.
Anche Francesco De Fazio, coadiuvato da Ivan Galliani e Salvatore Luberto, si cimentò con la dinamica del delitto. Nella sua nota perizia del 1984, scaricabile qui, si legge:
L'insieme dei colpi e delle traiettorie suggerisce l'ipotesi di un unico polo d'azione dell'omicida (posto fuori dell'auto presso la fiancata sx.) e per la vittima l'ipotesi di una reazione da fuga o da riparo.
La portiera anteriore dx. chiusa farebbe però escludere un tentativo di fuga realizzato fin fuori dall'auto; la donna potrebbe comunque aver ruotato il busto verso l'uscita, donde il colpo alla spalla sx. (con traiettoria opposta agli altri). In ogni caso il dorso non poteva essere appoggiato al sedile, sebbene reclinato in avanti o in parte nascosto sotto al cruscotto. Ovvero, all'inizio dell'azione omicidaria, la donna poteva essere in qualche modo protesa dal sedile sx. a quello dx., col busto ed il capo, verso il corpo dell'uomo.
Può darsi che dopo il colpo mortale la donna si sia accasciata supina sul sedile. Sembra improbabile che il colpo alla spalla con traiettoria opposta possa imputarsi ad un movimento dell'omicida a tergo dell'auto. Dal punto di vista necroscopico i colpi esplosi sui corpi delle vittime sarebbero quindi complessivamente otto (4+4) con cinque proiettili ritenuti. In sopralluogo sono stati reperiti cinque bossoli ed un proiettile (due bossoli ed un proiettile dentro l'auto), onde è da pensare che l'omicida si sia progressivamente avvicinato al mezzo entrandovi poi con la mano per esplodere gli ultimi colpi.
È evidente che, una volta rifiutata la dinamica proposta da Zuntini – probabilmente per lo stesso motivo indicato anche qui: i tramiti delle ferite su Lo Bianco incompatibili – i peraltro ottimi periti furono incapaci di proporne una differente, limitandosi a esternare la loro convinzione che lo sparatore non si fosse spostato.
Ecco il parere di Rotella sui due diversi punti di vista, contenuto nella sua nota sentenza del 1989 (qui e qui):
I fori d'ingresso sono abbastanza prossimi su ciascuna delle vittime. Uno solo è eccentrico, sulla Locci, alla spalla sinistra.
Sarebbe stato il primo, cosicché la donna si sarebbe rovesciata sul sedile, costringendo un mutamento di traiettoria di quelli seguenti. Il luogo di provenienza degli spari sembra il medesimo, ma la direzione dal basso verso l'alto (rispetto all'asse verticale del corpo che si presume in posizione pressoché orizzontale) di un colpo passante dal fondo schiena alla zona superiore dell'addome, lascia supporre al p.m. in requisitoria del 30.9.69 che lo sparatore abbia prima esploso i colpi dal finestrino posteriore sinistro e poi dalla portiera anteriore destra. [Rotella sbaglia: anteriore sinistra]
Si tratta di valutazioni opinabili. I periti di Modena, incaricati nel 1984 stimano viceversa che lo sparatore non si sarebbe spostato rispetto al bersaglio femminile, e che non sarebbe neppure possibile essere certi circa quale delle due vittime sia stata attinta per prima dagli spari, laddove nel 1969 si pensa che si tratti dell'uomo.
La differenza non è irrilevante. Una duplice posizione dello sparatore può far pensare anche a diversi esecutori, cosa che invece i periti del 1984 sono propensi ad escludere.
Senza pronunciarsi su quale delle due ricostruzioni fosse da preferire, Rotella colse la conseguenza fondamentale che sarebbe discesa dall’ipotesi del cambiamento di posizione dello sparatore: il possibile passaggio della pistola da una persona a un’altra, così come tante volte aveva raccontato Stefano Mele, pur cambiando i soggetti coinvolti e lo scenario.
Vediamo adesso la proposta di chi scrive, che, come il lettore abituale di queste pagine già s’immagina, è molto differente da ogni altra venuta prima.
La dinamica. Non ne possediamo prova, possiamo però dare per certo che la luce interna della Giulietta fosse spenta, poiché sul sedile posteriore c’era il bambino, che pur essendosi addormentato dopo aver visto la madre e Lo Bianco scambiarsi di posto, avrebbe sempre potuto svegliarsi. La notte era molto buia, quindi l’aggressore, o un complice accanto a lui, illuminò l’abitacolo con una torcia. Sporgendosi dal sedile del guidatore, Barbara Locci stava praticando una fellatio su Lo Bianco – supino sul sedile ribaltato del passeggero – che le teneva il braccio sinistro sulla schiena.
Non ci fu nessuna apertura di portiera, ma un repentino inserimento della canna della pistola – secondo Stefano Mele lunga, il che avrebbe facilitato l’operazione – nel piccolo spazio in alto lasciato libero dal vetro del finestrino.
Anche Francesco De Fazio, coadiuvato da Ivan Galliani e Salvatore Luberto, si cimentò con la dinamica del delitto. Nella sua nota perizia del 1984, scaricabile qui, si legge:
L'insieme dei colpi e delle traiettorie suggerisce l'ipotesi di un unico polo d'azione dell'omicida (posto fuori dell'auto presso la fiancata sx.) e per la vittima l'ipotesi di una reazione da fuga o da riparo.
La portiera anteriore dx. chiusa farebbe però escludere un tentativo di fuga realizzato fin fuori dall'auto; la donna potrebbe comunque aver ruotato il busto verso l'uscita, donde il colpo alla spalla sx. (con traiettoria opposta agli altri). In ogni caso il dorso non poteva essere appoggiato al sedile, sebbene reclinato in avanti o in parte nascosto sotto al cruscotto. Ovvero, all'inizio dell'azione omicidaria, la donna poteva essere in qualche modo protesa dal sedile sx. a quello dx., col busto ed il capo, verso il corpo dell'uomo.
Può darsi che dopo il colpo mortale la donna si sia accasciata supina sul sedile. Sembra improbabile che il colpo alla spalla con traiettoria opposta possa imputarsi ad un movimento dell'omicida a tergo dell'auto. Dal punto di vista necroscopico i colpi esplosi sui corpi delle vittime sarebbero quindi complessivamente otto (4+4) con cinque proiettili ritenuti. In sopralluogo sono stati reperiti cinque bossoli ed un proiettile (due bossoli ed un proiettile dentro l'auto), onde è da pensare che l'omicida si sia progressivamente avvicinato al mezzo entrandovi poi con la mano per esplodere gli ultimi colpi.
È evidente che, una volta rifiutata la dinamica proposta da Zuntini – probabilmente per lo stesso motivo indicato anche qui: i tramiti delle ferite su Lo Bianco incompatibili – i peraltro ottimi periti furono incapaci di proporne una differente, limitandosi a esternare la loro convinzione che lo sparatore non si fosse spostato.
Ecco il parere di Rotella sui due diversi punti di vista, contenuto nella sua nota sentenza del 1989 (qui e qui):
I fori d'ingresso sono abbastanza prossimi su ciascuna delle vittime. Uno solo è eccentrico, sulla Locci, alla spalla sinistra.
Sarebbe stato il primo, cosicché la donna si sarebbe rovesciata sul sedile, costringendo un mutamento di traiettoria di quelli seguenti. Il luogo di provenienza degli spari sembra il medesimo, ma la direzione dal basso verso l'alto (rispetto all'asse verticale del corpo che si presume in posizione pressoché orizzontale) di un colpo passante dal fondo schiena alla zona superiore dell'addome, lascia supporre al p.m. in requisitoria del 30.9.69 che lo sparatore abbia prima esploso i colpi dal finestrino posteriore sinistro e poi dalla portiera anteriore destra. [Rotella sbaglia: anteriore sinistra]
Si tratta di valutazioni opinabili. I periti di Modena, incaricati nel 1984 stimano viceversa che lo sparatore non si sarebbe spostato rispetto al bersaglio femminile, e che non sarebbe neppure possibile essere certi circa quale delle due vittime sia stata attinta per prima dagli spari, laddove nel 1969 si pensa che si tratti dell'uomo.
La differenza non è irrilevante. Una duplice posizione dello sparatore può far pensare anche a diversi esecutori, cosa che invece i periti del 1984 sono propensi ad escludere.
Senza pronunciarsi su quale delle due ricostruzioni fosse da preferire, Rotella colse la conseguenza fondamentale che sarebbe discesa dall’ipotesi del cambiamento di posizione dello sparatore: il possibile passaggio della pistola da una persona a un’altra, così come tante volte aveva raccontato Stefano Mele, pur cambiando i soggetti coinvolti e lo scenario.
Vediamo adesso la proposta di chi scrive, che, come il lettore abituale di queste pagine già s’immagina, è molto differente da ogni altra venuta prima.
La dinamica. Non ne possediamo prova, possiamo però dare per certo che la luce interna della Giulietta fosse spenta, poiché sul sedile posteriore c’era il bambino, che pur essendosi addormentato dopo aver visto la madre e Lo Bianco scambiarsi di posto, avrebbe sempre potuto svegliarsi. La notte era molto buia, quindi l’aggressore, o un complice accanto a lui, illuminò l’abitacolo con una torcia. Sporgendosi dal sedile del guidatore, Barbara Locci stava praticando una fellatio su Lo Bianco – supino sul sedile ribaltato del passeggero – che le teneva il braccio sinistro sulla schiena.
Non ci fu nessuna apertura di portiera, ma un repentino inserimento della canna della pistola – secondo Stefano Mele lunga, il che avrebbe facilitato l’operazione – nel piccolo spazio in alto lasciato libero dal vetro del finestrino.
Seguì una rapida sequenza di tre spari diretti verso la donna, il vero bersaglio dell’aggressore. Tre bossoli caddero a terra.
Il primo colpo fu probabilmente quello che trapassò l’avambraccio di Lo Bianco, colto di sorpresa (in foto il braccio dell’attore è troppo in alto, forse Lo Bianco stava accarezzando il seno della Locci). Mentre venivano sparati gli altri due colpi e la donna si accasciava morente sul suo grembo, l’uomo ebbe il tempo di tentare una reazione, portando le mani ai pantaloni e alzando il busto. Ma subito lo sparatore inquadrò anche lui, ripetendo una sequenza di tre colpi che lo presero al braccio sinistro e poi al fianco. Altri tre bossoli caddero a terra.
Fermiamoci un momento, come si fermò chi stava sparando. Perché venne scelto il finestrino anteriore e non il posteriore, dentro il quale si poteva infilare l’arma mirando magari alla testa dei due poveretti? Molto probabilmente perché si rendevano minori sia il pericolo di nuocere al bambino, sia la possibilità di sue interferenze. E sempre per lo stesso motivo si evitò di aprire la portiera anteriore. Vari indizi ci consentono di supporre che la portiera non venne aperta. I tre bossoli trovati all’esterno, le ferite tutte al bersaglio grosso e la mancanza di affumicature su pelle e vestiti ci raccontano di un’arma tenuta lontano dalle vittime, quindi fuori dall’auto, mentre con una portiera aperta sarebbe stato naturale per lo sparatore avvicinarsi di più. Ma è soprattutto la traiettoria dall’alto in basso dei tre colpi al braccio e al fianco sinistri di Lo Bianco a farci vedere una pistola che spara proprio dal pertugio di tre centimetri lasciato libero dal vetro del finestrino, pertugio che era più in alto del bersaglio.
Torniamo però allo sparatore dopo che aveva appena ucciso entrambe le vittime. Rimangono da giustificare la ferita alla spalla sinistra di Barbara Locci e i due bossoli ritrovati all’interno dell’auto. La traiettoria del proiettile che colpì la donna alla spalla era contraria a quella degli altri tre, da destra verso sinistra, lo abbiamo visto, il che ha da sempre costituito un problema per una sua collocazione nel flusso globale degli spari. Ma anche quei due soli bossoli trovati all’interno appaiono difficili da giustificare. Adesso, abbinando i due elementi, cerchiamo di trovare una logica spiegazione per entrambi. Con una mano infilata dentro il finestrino posteriore sinistro mezzo aperto, vennero esplosi due colpi in rapida successione – quindi con l’arma che si mosse poco tra l’uno e l’altro – i cui bossoli non a caso finirono vicini tra loro sul divanetto, evidentemente dopo aver rimbalzato in modo analogo sulle strutture interne del veicolo.
Un proiettile colpì alla spalla il cadavere della donna accasciato sul grembo di Lo Bianco, con una traiettoria da destra verso sinistra, l’altro andò fuori bersaglio. Del fatto che questo secondo proiettile fosse poi andato disperso non c’è da stupirsi troppo. Potrebbe anche essersi infilato in qualche anfratto della carrozzeria, ma più probabilmente il piombo di cui era costituito, impattando contro una struttura metallica molto più dura, si schiacciò e frammentò a tal punto da perdere del tutto la propria forma, finendo per sfuggire a ricerche che non c’era ragione dovessero essere troppo approfondite (al contrario di quelle all’esterno, volte a rintracciare la pistola). Del resto anche a Scandicci sarebbe accaduto qualcosa di simile con uno dei due proiettili finiti contro la portiera destra del passeggero.
Un secondo sparatore? La ricostruzione appena ipotizzata è indubbio che faccia tornare tutti i conti. Soprattutto offre una spiegazione convincente alle varie traiettorie dei proiettili, compresa quella del colpo alla spalla della Locci di oggettiva difficile interpretazione. Però non si comprende il senso di quei due colpi finali. Lo sparatore non cercava il colpo di grazia sulla donna, altrimenti avrebbe aperto la portiera anteriore destra ponendo l’arma a contatto della sua testa. Del resto di quel colpo di grazia né c’era né si poteva pensare ce ne fosse stato bisogno, con Barbara Locci morta subito per la ferita al cuore. Poteva forse essersi trattato di colpi esplosi in uno stato di rabbia, magari da parte di un amante geloso oppure di un Mostro che, al suo primo omicidio, era ancora incapace di gestire la propria emotività. Ma allora non si spiega come sia stato possibile che uno stesso sparatore in grado di freddare con sei colpi precisi entrambe le vittime dal pertugio del finestrino anteriore avesse del tutto perso la propria abilità nell’esplodere quei due altri colpi grossolani da posizione ben più favorevole e contro un corpo immobile.
Tenendo fede a quanto è stato dichiarato all’inizio, nel presente articolo non ci si addentrerà nelle questioni riguardanti i personaggi che all’epoca vennero indagati, marito, parenti del marito e amanti della donna. Tuttavia, allo scopo di suggerire una plausibile spiegazione ai due colpi sparati contro Barbara Locci già morta, si ritiene comunque opportuno invitare il lettore a riflettere sull’interrogatorio di Stefano Mele del 24 gennaio 1984, condotto appena dopo la scoperta nel suo portafoglio del curioso e noto biglietto dello “zio Pieto”. Nell’occasione l’uomo, ormai anziano e stanco, raccontò di un delitto maturato ed eseguito in famiglia, come in altri casi con dichiarazioni non del tutto lineari, ma che forse contenevano molta più verità delle precedenti. Dalla sentenza Rotella:
A me la paraffina risultò positiva, dunque ho sparato io. La S.V. mi fa rilevare che secondo la legge è indifferente ai fini della responsabilità chi abbia sparato. È vero, ma a distanza di tanti anni non potreste trovare tracce sulle mani degli altri due. Tuttavia è stato Mucciarini. NO, NON È VERO. La verità è che è stato mio fratello a sparare. Poi mi fu messa in mano la pistola. Qualche colpo ho sparato anch'io, ma non ricordo quanti colpi ho sparato se prima o dopo. Sono passati 15 anni. Gli restituii subito l'arma.
Nell’ipotesi che il delitto fosse stato davvero eseguito in famiglia, appare plausibile l’intento dei partecipanti di offrire alla legge un colpevole che pagasse per tutti e tenesse fuori gli altri; e chi, se non il marito, incapace di uccidere ma buono per farsi la galera, quindi indotto a sparare sul corpo morto della moglie proprio per sentirsi coinvolto fino in fondo? Ecco spiegato il senso di quei due inutili colpi, e dell’imperizia o quanto meno della poca convinzione di chi li aveva esplosi.
Un secondo sparatore? La ricostruzione appena ipotizzata è indubbio che faccia tornare tutti i conti. Soprattutto offre una spiegazione convincente alle varie traiettorie dei proiettili, compresa quella del colpo alla spalla della Locci di oggettiva difficile interpretazione. Però non si comprende il senso di quei due colpi finali. Lo sparatore non cercava il colpo di grazia sulla donna, altrimenti avrebbe aperto la portiera anteriore destra ponendo l’arma a contatto della sua testa. Del resto di quel colpo di grazia né c’era né si poteva pensare ce ne fosse stato bisogno, con Barbara Locci morta subito per la ferita al cuore. Poteva forse essersi trattato di colpi esplosi in uno stato di rabbia, magari da parte di un amante geloso oppure di un Mostro che, al suo primo omicidio, era ancora incapace di gestire la propria emotività. Ma allora non si spiega come sia stato possibile che uno stesso sparatore in grado di freddare con sei colpi precisi entrambe le vittime dal pertugio del finestrino anteriore avesse del tutto perso la propria abilità nell’esplodere quei due altri colpi grossolani da posizione ben più favorevole e contro un corpo immobile.
Tenendo fede a quanto è stato dichiarato all’inizio, nel presente articolo non ci si addentrerà nelle questioni riguardanti i personaggi che all’epoca vennero indagati, marito, parenti del marito e amanti della donna. Tuttavia, allo scopo di suggerire una plausibile spiegazione ai due colpi sparati contro Barbara Locci già morta, si ritiene comunque opportuno invitare il lettore a riflettere sull’interrogatorio di Stefano Mele del 24 gennaio 1984, condotto appena dopo la scoperta nel suo portafoglio del curioso e noto biglietto dello “zio Pieto”. Nell’occasione l’uomo, ormai anziano e stanco, raccontò di un delitto maturato ed eseguito in famiglia, come in altri casi con dichiarazioni non del tutto lineari, ma che forse contenevano molta più verità delle precedenti. Dalla sentenza Rotella:
A me la paraffina risultò positiva, dunque ho sparato io. La S.V. mi fa rilevare che secondo la legge è indifferente ai fini della responsabilità chi abbia sparato. È vero, ma a distanza di tanti anni non potreste trovare tracce sulle mani degli altri due. Tuttavia è stato Mucciarini. NO, NON È VERO. La verità è che è stato mio fratello a sparare. Poi mi fu messa in mano la pistola. Qualche colpo ho sparato anch'io, ma non ricordo quanti colpi ho sparato se prima o dopo. Sono passati 15 anni. Gli restituii subito l'arma.
Nell’ipotesi che il delitto fosse stato davvero eseguito in famiglia, appare plausibile l’intento dei partecipanti di offrire alla legge un colpevole che pagasse per tutti e tenesse fuori gli altri; e chi, se non il marito, incapace di uccidere ma buono per farsi la galera, quindi indotto a sparare sul corpo morto della moglie proprio per sentirsi coinvolto fino in fondo? Ecco spiegato il senso di quei due inutili colpi, e dell’imperizia o quanto meno della poca convinzione di chi li aveva esplosi.