Segue dalla prima parte
Prima di procedere con la seconda parte dell’articolo, è il caso di esaminare il verbale del primo interrogatorio di Salvatore Vinci, all’una e venti della notte tra il 23 e il 24 agosto, giunto purtroppo in mio possesso in ritardo (grazie Francesca!). Si tratta di una copia disastrata, con delle parti illeggibili, però si riesce a recuperarne alcune frasi molto significative [Edit: una copia migliore è poi giunta in mio possesso, ancora grazie Francesca]:
Oltre a Silvano Vargiu e Nicola un mio dipendente, mi ha visto nel Bar Sport il gestore che si chiama Cecchino ed altri clienti che al momento non sono in grado di indicare con esattezza. [...]
Presso il predetto circolo oltre al gestore vi era un prete che faceva una partita a scacchi con altra persona che non conosco.
Quindi, chiamando in causa vari personaggi che pare difficile sia riuscito a corrompere, i due gestori e addirittura un prete, è lo stesso Vinci a fornire ai carabinieri gli elementi per smentire il suo alibi! Strano, no, per un assassino che voleva salvarsi?
Ma adesso andiamo alla seconda parte.
La vergogna di Stefano Mele. Torniamo sugli interrogatori di Mele del 1985, quando Salvatore venne tirato di nuovo in ballo. Cominciamo col fare piazza pulita della leggenda della vergogna, nata dalle considerazioni di Rotella e Torrisi e ben rappresentata nel libro Dolci colline di sangue di Mario Spezi, principale responsabile della sua propalazione.
I nuovi interrogatori cui fu sottoposto Stefano Mele, che rimase in carcere solo cinque mesi, diedero altri clamorosi risultati. Finalmente, il piccolo sardo che dal primo momento aveva puntato l'indice contro Salvatore Vinci, e che non aveva mai avuto la forza di confermare l'accusa, lo indicò decisamente come l'uomo che nel 1968 aveva la pistola.
Ma soprattutto consegnò a Rotella la chiave del mistero del '68: la sua vergogna. La vergogna che si sapesse che aveva avuto rapporti omosessuali con Salvatore Vinci. Di fronte ai tradimenti della moglie non si era limitato a sopportare e a chiudere tutti e due gli occhi. Aveva partecipato. Salvatore Vinci aveva coinvolto anche lui nei loro affollati giochi erotici anche omosessuali. Stefano Mele confessò di avere avuto rapporti a tre, anche con Salvatore Vinci e sua moglie, di essere stato con loro due, portandosi addirittura appresso il figlio Natalino, alle Cascine, o sulle piazzole di sosta dell'autostrada, per raccogliere amanti occasionali per Barbara perché loro potessero guardare.
Questa era la ragione, più forte dell'odio, della paura, della prigione e anche del sacrificio degli affetti famigliari, per cui Stefano non aveva potuto accusare Salvatore Vinci.
Dunque Mele avrebbe taciuto sulla partecipazione al delitto di Salvatore per paura di dover confessare i loro rapporti omosessuali (Torrisi: “Nel mutismo ostinato di MELE Stefano, in tutti questi anni, è la profonda vergogna che possano venire fuori i risvolti della sua depravazione sessuale e di VINCI Salvatore”). Ma allora perché lo aveva accusato per primo? Quel 23 agosto 1968 si sarebbe dunque assistito, assieme a quello singolo di Mucciarini, al doppio masochismo di Stefano Mele, che oltre a prenotarsi una condanna per omicidio avrebbe creato i presupposti per la messa in luce delle sue terribili vergogne! Tutto questo dimenticandosi del piano che aveva preparato la sera prima, dove le accuse a Francesco Vinci gli avrebbero risparmiato entrambi gli spiacevoli inconvenienti. Come si vede, questo scenario di Salvatore Vinci diabolico assassino è un continuo far tornare dei conti che non tornano.
Che Mele si fosse vergognato dei suoi rapporti omosessuali con Vinci è senz’altro verosimile. Non per niente attese fino alla prospettiva di dover tornare in galera per confessarli. Ma rivediamo le condizioni in cui si svolsero quegli interrogatori. Il 30 maggio 1985 l’ometto, ormai stremato da un’indagine infinita che da tre anni gravava tutta sulle sue spalle, si trovò di fronte gli agguerritissimi Rotella, Torrisi e Izzo che volevano Salvatore a tutti i costi – soprattutto i primi due, il terzo ci credeva meno – e che per convincerlo gli sventolavano davanti un mandato di cattura per calunnia contro Francesco. Mele era libero da 4 anni, dopo averne trascorsi 13 in gattabuia, si può immaginare quanto felice fosse di fronte alla prospettiva di doverci tornare. Quindi grattò nel fondo del barile, cercando di tirar su più o meno tutto quello che ancora nascondeva, tra cui gli inverecondi giochini con la moglie e Salvatore. Ebbene, a quel punto aveva vuotato il sacco, il tremendo segreto che gli avrebbe impedito di denunciare il suo antico rivale e amante era uscito alla luce del sole, quindi avrebbe potuto denunciarlo. E il motivo ce l’aveva, grosso come un condominio di Sesto San Giovanni: evitare la galera. E invece nisba! Ecco un altro conto che non torna, ecco un’altra stampella da inventarsi per tenere su la baracca.
Niente da fare, dunque, per convincere Mele ci voleva l’arresto; che infatti scattò immantinente. Rotella e colleghi sperarono che cinque giorni di cella potessero bastare, ma s’illudevano: nel nuovo incontro del 4 giugno il caparbio ometto continuò a tener fuori Salvatore. Per quale motivo non voleva ancora decidersi? Quale altro inverecondo segreto si celava nel rapporto tra i due? Forse il fatto che nel delitto Salvatore non c’incastrava nulla e l’ometto esitava a inventarsi nuove bugie? Ma la pazienza è la virtù dei forti, e ai suoi interlocutori non mancava, anche perché la sera se ne tornavano a casa mentre per lui c’erano le quattro pareti della cella. Così il 12 successivo finalmente Stefano Mele si decise e consegnò Salvatore Vinci. Servirebbe un’altra pezza per spiegare il ritardo di due settimane rispetto alla confessione del terribile segreto. In ogni caso Mele non ebbe subito il suo compenso, poiché dovette attendere ancora a lungo prima di ottenere gli arresti domiciliari.
Movente. Tra gli sforzi dei vinciani per tenere in piedi il loro traballante scenario uno dei più grossi è senz’altro quello di proporre un valido movente (sforzo che poi diviene enorme nel caso dei delitti successivi, ma questa è un’altra storia). Le parole magiche sono gelosia e vendetta. Si fa presto a dire gelosia e si fa presto a dire vendetta, ma a fronte di quali elementi? Da quanto si può arguire dalle numerose testimonianze, nel mondo erotico – sentimentale di Salvatore Vinci non c’era posto per la gelosia, almeno intesa nel senso classico. Come si fa ad attribuire tale sentimento a uno che faceva congiungere la moglie, madre dei suoi figli, con degli sconosciuti alle Cascine?
A quanto se ne sa, il rapporto di Salvatore con Barbara Locci era iniziato attorno al 1960 – quando l’uomo, rimasto vedovo in Sardegna, aveva raggiunto il fratello Giovanni a Lastra a Signa – e la sua evoluzione nel tempo non è ben chiara. Ma quel che si può sostenere con certezza è che non fu per nulla esclusivo, né da una parte né dall’altra. Antonio Lo Bianco non era certo il primo amante diverso da Salvatore che la donna aveva frequentato. Bisogna piuttosto riconoscere che il sentimento di gelosia attribuito all’individuo proviene esclusivamente dalle parole di Stefano Mele. Non si conoscono altri indizi. Francesco sì che lo aveva dimostrato di tenerci alla donna, era anche finito in carcere per questo, Salvatore mai.
La prima dichiarazione in tal senso è nell’interrogatorio della mattina del 23 agosto 1968. Il verbale delle 11:35 registra una versione in cui Mele cercava di attribuire il delitto al solo Vinci, e non a caso così riporta:
Il Vinci Salvatore faceva l’amante geloso di mia moglie. Più di una volta ha minacciato mia moglie di morte perché non voleva che andasse con altri. La minaccia è stata fatta in mia presenza e più di una volta era stata fatta anche a mia moglie da sola e mia moglie mi aveva riferito le minacce del Vinci e mi aveva espresso la paura che il Vinci le aveva prodotta talché questa più di una volta mi disse anche che un giorno o l’altro la avrebbero ammazzata.
In quel momento, accusandolo di essere l'assassino, Mele aveva tutto l’interesse ad assegnare un movente di gelosia a Vinci, lo stesso che il giorno prima aveva attribuito al fratello e a Carmelo Cutrona. Ebbene, considerato il contesto, quale credito si può concedere alle sue affermazioni? Nello stesso verbale si legge che Salvatore avrebbe cercato di ucciderlo lasciando il gas aperto – è credibile? – come avrebbe fatto con la giovane moglie in Sardegna e che nel febbraio, mentre lui era in ospedale, si sarebbe installato in casa sua. Ebbene, a installarsi in casa sua, lo vedremo tra poco, era stato Francesco!
Nel verbale della sera, redatto dopo la confessione e il sopralluogo, non c’è invece traccia della gelosia di Vinci, che però torna in quello della mattina del 24: “In realtà il Salvatore era nei confronti di mia moglie più geloso di me. Questo l’ho già dichiarato ieri mattina ai carabinieri”. Di lì a poco arrivò la ritrattazione e il trasferimento delle accuse su Francesco, e di quella gelosia non si parlò più. Fino al 12 giugno 1985, quando l’ometto voleva uscire di galera. Purtroppo chi scrive non ha disponibilità del verbale, quindi bisogna accontentarsi del cenno che ne fece Torrisi:
Il MELE conclude affermando, ancora, che Salvatore ha partecipato al delitto perché “era più marito lui di me”, e che parecchie volte gli è capitato di andare a dormire fuori casa e lui ha dormito con sua moglie.
Alla fine va preso atto dell’evidenza che un movente di per sé poco compatibile con un personaggio come Salvatore Vinci è supportato soltanto dalle parole di Stefano Mele, pronunciate in due circostanze altamente sospette. Nient’altro porta a ritenere l’individuo geloso di Barbara Locci. Anzi, no, forse qualcosa c’è: l’anello di fidanzamento esibito al processo del 1970. Dal rapporto Torrisi:
Successivamente il VINCI, richiamato in aula a richiesta dell'avvocato RICCI, difensore del MELE, a specifica domanda risponde che l'anello che porta al dito gli è stato dato dal MELE nel primo giorno della sua relazione, allorquando, uscendo con la LOCCI, il MELE gli ha detto di mancargli solo l'anello per far coppia. Lo stesso prosegue affermando che l'oggetto è rimasto in suo possesso per qualche tempo, poi lo ha restituito ed infine gli è stato reso nel secondo periodo della sua relazione e cioè nei primi del 1968, su consenso della LOCCI, in cambio di una somma di denaro riscossa per lavori effettuati insieme e non consegnatagli dal MELE.
Il MELE, a questo punto, dichiara rivolto al teste:
“Dì la verità Salvatore, tu sei venuto sul posto di lavoro e mostrando l'anello mi hai detto che te lo aveva dato mia moglie”, ed il VINCI così risponde:
“Sì, adesso mi ricordo, le cose sono andate così, però insisto nel dire che non è stata una ricompensa per denaro che dovevo avere”.
Su questo grottesco episodio Torrisi costruisce la solita montagna di congetture.
L'episodio dell'anello che il VINCI Salvatore, durante il processo porta al dito, particolare evidenziato dall'avvocato RICCI verosimilmente su suggerimento del MELE, è alquanto singolare e la spiegazione data nella circostanza dai due stessi interessati non è plausibile, né risulta sia stata attribuita alcuna importanza o data interpretazione di sorta. L'anello, a nostro avviso, deve assumere un ben preciso significato, che prescinde dal valore reale, così come vorrebbe far credere lo stesso interessato.
L'anello nella mano del VINCI Salvatore non può che condensare tre volontà perfettamente convergenti, e cioè quella di chi lo accetta, e l'altra di chi lo dona, ed a donare l'anello nella circostanza è la LOCCI con il consenso espresso o tacito del marito, il vero possessore; l'anello è suo, se è vero che questi, rivolto alla moglie ed al VINCI Salvatore – sono sue affermazioni al dibattimento – dice loro, accompagnando la frase con un gesto di approvazione, che gli manca l'anello per far coppia. La verità è – ci sembra questo il momento per anticipare delle risultanze di grande peso processuale, acquisite nel decorso anno – che fra la LOCCI Barbara, il MELE Stefano ed il VINCI Salvatore intercorre, sin dall'inizio della loro conoscenza, risalente all'estate del 1960, un rapporto sessuale a tre, in cui i due uomini interpretano reciprocamente anche il ruolo della donna e dell'uomo. Ecco i veri motivi per cui la LOCCI nell'ultimo periodo nega i rapporti al marito ed automaticamente all’alter ego VINCI Salvatore, per rivolgere le sue attenzioni ai più giovani Francesco VINCI e Antonino LO BIANCO, i quali cercano proprio lei e non anche il marito, e questo affronto non può essere ulteriormente tollerato. Ecco quindi l'abituale giustiziere: è il solito VINCI Salvatore a decretare la condanna della donna.
Qui si inizia a comprende quale gelosia intendesse Torrisi: non la classica conseguente alla profanazione di intimità femminili, che nel caso di Salvatore non aveva senso, ma quella dovuta al tentativo della donna di liberarsi dal giogo dello stesso. Un giogo spudoratamente ostentato tramite l’esibizione dell’anello. È indubbio che la fantasia iper colpevolista del militare fosse senza freni, d’altra parte doveva arrangiarsi con quel che passava il convento. È un fuori tema, ma come non pensare ai 17 fichi d’india inviati da Ada Pierini ai coniugi Biancalani, dove Torrisi volle veder rappresentato l’intero campionario dei presunti omicidi di Salvatore, otto coppie più la moglie! Il bello è che i vinciani di oggi sull’anello gli danno credito, come il lettore Phoenix, che lo assurge a prova di colpevolezza, pur minore.
Ma torniamo al movente, che Torrisi spiega meglio più avanti.
Se la MASSA Rosina, moglie del VINCI Salvatore, ha compiutamente illustrato le abitudini del marito, fra cui quella di essere stata condotta con frequenza alle Cascine per farle fare quello che il VINCI aveva già praticato con la Barbara, ciò significa che la circostanza è certa e la si deve considerare come un vero caposaldo processuale. A chi non può tornare gradito quel tipo di rapporto è sicuramente alla LOCCI, la quale, potendo disporre di amanti più giovani e meno complessati dal punto di vista sessuale, preferisce ribellarsi a quella vita, andando a coltivare i piaceri del sesso con gli altri, fuori di casa.
Ecco, quindi, il vero movente del delitto del 1968: la gelosia del VINCI, il quale non può ancora permettere che la donna si sottragga ai suoi voleri, e lo dice lo stesso MELE che la moglie da circa due mesi gli nega i rapporti, ed ora possiamo comprendere come negandoli al marito, li nega contestualmente al vero “proprietario” della famiglia, così definito da Stefano.
Si tratta di illazioni supportate dal nulla, tutte partenti dalle sole parole di Stefano Mele e sviluppate secondo una grossolana convenienza accusatoria. Nella stessa sentenza Rotella viene descritta una situazione nei mesi precedenti il delitto in cui il protagonista era Francesco, e non certo Salvatore:
Nel novembre dell'anno precedente, uno degli amanti, Francesco Vinci, è stato tratto in arresto, per denuncia di concubinato con lei, e dopo pubblica sorpresa e relativa scenata, dalla moglie Vitalia Muscas (poi divenuta Melis). Mele non ha battuto ciglio. Anzi si è fatto custode di una motoretta (Lambretta) dell'altro durante la sua detenzione.
Uscito dal carcere, Vinci ha ripreso, senza darsi problemi, la relazione. Successivamente Mele, subito un incidente, in febbraio è stato in ospedale e, durante questo periodo, l'altro (Mele dirà che si tratta di Salvatore, fratello di Francesco, ma poi, e anche in questa istruttoria, s'intende che si tratta di Francesco) si è installato in casa sua. La storia è durata sino a fine primavera e forse durava ancora. La Locci, intanto, incurante della gelosia manifesta dell'amante, men che di quella, se vi è, occulta del marito, è passata ad altri uomini, ultimo colui che è stato ucciso insieme a lei, Antonio Lo Bianco.
In questo frammento Rotella descrive un gustoso episodio che da una parte esclude Salvatore dallo scenario, e dall’altra rafforza il movente della famiglia Mele:
Mucciarini dice che si era recato, mesi prima del delitto, a saldare, a L. a Signa, debiti del Mele, per conto del suocero. Il negoziante gli aveva chiesto anche il saldo del conto di 'quell'altro' e cioè dell'uomo che viveva, in quel periodo, in casa Mele, e cioè Francesco Vinci. Tale ultima cosa era nota già durante la degenza ospedaliera di Stefano, nel febbraio 1968, a Palmerio e Maria Mele, che avevano incontrato F. Vinci in ospedale. Gli amanti della Locci erano perciò considerati in guisa di sfruttatori.
Dov’era dunque Salvatore in quei mesi del pre-delitto, nei quali la Locci gli avrebbe suscitato un sentimento di così travolgente gelosia da fargli nascere il desiderio di ucciderla? Quello stesso Salvatore che il giorno prima prendeva in giro il fratello dicendogli: “Che per caso vai dalla Locci?”. Qualcosa l’uomo ammise, al processo, come ci riporta Torrisi:
Egli, infatti, afferma di aver ripreso a frequentare la casa ed anche la relazione con la donna, di aver dormito una sera in casa sua, mentre il marito è in ospedale, di aver avuto in quel periodo, nonostante le minacce alla donna da parte di Francesco, qualche rapporto con lei, subito troncato dopo l'uscita dal carcere del fratello.
Naturalmente Salvatore potrebbe aver mentito o quanto meno minimizzato, ma non ne esiste prova. Lo scenario pare quello di un individuo che approfitta fin che può della situazione per soddisfare i propri bisogni sessuali, senza nulla di sentimentale, in linea del resto con i comportamenti attestati negli anni successivi dalle indagini dello stesso Torrisi. Peraltro, quand’anche avesse portata la Locci alle Cascine per farla congiungere con altri uomini, dove sta scritto che a lei sarebbe dispiaciuto? E il fatto che nell’agosto la donna si fosse interessata al gruppo dei siciliani che lavoravano assieme al marito, è sufficiente a dimostrare una rottura traumatica dei suoi rapporti con Salvatore? Peraltro pare fuori luogo ipotizzare che si aspettasse qualcosa in più di qualche rapporto sessuale da un padre di tre figli! E neppure da un Cutrona o da un Barranca.
La lettura dell’articolo Omicidio o suicidio? rende bene l’idea dei pericoli insiti nel lasciarsi trasportare dai luoghi comuni. Nel caso della moglie, un movente di gelosia e vendetta Salvatore l’avrebbe anche avuto, ma nonostante ciò non la uccise, e neppure si ha notizia di scenate, anzi, lasciò che portasse avanti la sua relazione mentre lui probabilmente si divertiva col fratello, coltivando magari la speranza d’infilarsi in mezzo ai due amanti, prima o poi, chi lo sa? Il personaggio era interessato al sesso e basta, pertanto, che motivo avrebbe avuto per uccidere Barbara Locci rischiando l’ergastolo e privandosi di una donna che la dava via senza problemi e che un domani poteva sempre tornargli comoda?
Una pistola scomparsa. Cerchiamo adesso di guardare dentro il più grande mistero che accomuna tutti gli otto duplici omicidi. Si legge nel verbale di Stefano Mele della sera del 23 agosto 1968, quello in cui viene riportata la sua confessione con Salvatore complice:
A questo punto Salvatore evidentemente a conoscenza della relazione esistente tra mia moglie Barbara ed Enrico mi disse: – PERCHÉ NON LA FAI FINITA?
Io risposi: – COME FACCIO SENZA NULLA IN MANO? SAPENDO CHE ENRICO AVEVA PRATICATO LA BOXE.
Salvatore a questo punto replicò: – IO HO UNA PICCOLA ARMA. [...]
Una volta fermata la macchina Salvatore aprì una borsa e mi diede una pistola dicendomi: – GUARDA CHE CI SONO OTTO COLPI. [...]
Non appena salii in macchina dissi a Salvatore le seguenti parole: – SONO BELLI E SISTEMATI. Salvatore mi chiese del bambino e io risposi che era salvo. In relazione alla pistola preciso che non appena ebbi sparato la buttai via. Non posso precisare il posto preciso però sicuramente nei pressi della macchina. Preciso che buttai via l’arma di iniziativa. Vinci Salvatore mi chiese della pistola e quando gli dissi che la avevo buttata via ebbe a rispondermi: – PAZIENZA.
Inutile ribadire che la versione del delitto a due con incontro fortuito la sera stessa non stava in piedi. Ed è difficile pensare che fosse farina del sacco di Mele, o comunque del solo Mele, che, è sempre bene tenerlo a mente, la sera prima aveva preparato il figlio ad accusare Francesco. In qualche modo ci doveva essere lo zampino dei veri complici, i parenti, lo abbiamo già visto. Ma quel dettaglio della pistola lasciata sul posto che cosa nascondeva? Perché specificarlo, quando l’azione di gran lunga più sensata sarebbe stata quella di restituire l’arma al proprietario? Era stato un capriccio? I vinciani, che al contrario dei negazionisti non credono a un Mele deficiente che parla a vanvera, dovrebbero fornire adeguata spiegazione a questo imbarazzante dettaglio. Che interesse aveva l’ometto a introdurlo sapendo bene quanto facilmente sarebbe stato smentito? Tra l’altro, nel momento in cui lo raccontò si deve immaginare che i suoi interlocutori fossero rimasti molto sorpresi, visto che di quella pistola non avevano trovato traccia. La qual cosa, tra parentesi, la dice lunga su quanto assurda sia la pretesa di chi, come Filastò e discepoli, considera le confessioni di Mele frutto di schiaffoni!
La mattina dopo, il 24, si procedette a una ricerca approfondita, con anche l’intervento di Vigili del Fuoco e militari del Genio. Senza risultati, lo sappiamo bene.
Alle 9:50 Caponnetto interrogò Mele, che guarda caso proprio sulla pistola cambiò versione, affermando di averla restituita al proprietario. Il buonsenso dice che tale cambiamento fu conseguenza della comunicazione del mancato recupero. Ma i vinciani lo contestano, affermando che alle 9:50 la ricerca non era ancora finita. In verità di tale operazione non sono noti gli orari. Si può presumere che, per evitare il caldo di agosto, fosse partita a ridosso del sorgere del sole (5:30) – l’abbigliamento che si vede in foto lo testimonia – ma non si sa quando ebbe fine. Può anche darsi che alle 9:50 ancora no, ma è impensabile che Caponnetto non si fosse informato dello stato delle ricerche – via telefono, via radio o alle brutte con un piccione viaggiatore – prima di interrogare Mele, il dato era troppo importante.
Ma leggiamo il verbale, che dopo alcuni preliminari entra nel vivo: “Non ho nessuna difficoltà a dichiarare subito che confermo in ogni sua parte la dettagliata confessione da me resa ieri sera presso la stazione dei CC. di Lastra a Signa”. Dunque Mele in prima battuta non ha alcuna modifica da proporre alla confessione della sera precedente. Allora Caponnetto inizia a leggergliela. Intanto il verbalizzante fa una pausa, come si evince dal testo ma anche dal differente incolonnamento della scrittura a mano quando riprende:
Ricevo a questo punto lettura integrale di dette dichiarazioni. C'è un solo particolare che non risponde a verità in quelle mie dichiarazioni, e precisamente quello in cui riferivo ad essi il modo con cui mi ero disfatto della pistola. In verità io non buttai via l'arma, ma la riconsegnai a Salvatore Vinci, appena raggiunsi la sua macchina in sosta, dopo aver compiuto il duplice omicidio.
La lettura del verbale della sera prima con grande probabilità si era interrotta proprio nel punto in cui Mele diceva di aver buttato via l’arma, a circa 2/3. Lo si deduce dal fatto che quello presente riporta verso la fine: “Si dà atto che a questo punto viene ripresa ed ultimata la lettura del verbale dell’interrogatorio Mele delle ore 11:35 del 23 agosto 1968”. Era stato lo stesso Mele, di sua iniziativa, a bloccare la lettura per il cambio di versione sul destino della pistola? Per un nuovo capriccio, oppure per rimediare a quello della sera precedente? Veramente difficile crederlo. Anche perché il verbale così prosegue:
Mi si chiede perché io abbia dichiarato diversamente ai CC; avevo la testa un po’ confusa ed ero stanco. Prendo atto che mi si contesta che nel riferire ai CC le circostanze in cui mi sono liberato dell’arma, io sarei stato molto preciso e circostanziato, e tutt’altro che confuso, tanto da riferire perfino testualmente le parole con cui il Salvatore avrebbe commentato la notizia da me datagli del getto dell’arma. Capisco che l’obiezione che mi viene mossa è giusta; non so cosa rispondere. Certo è che l’arma la riconsegnai a lui. Può darsi che la parola “pazienza” che io attribuii a Salvatore come commento alla notizia del rigetto dell’arma, egli l’abbia invece pronunciata come commento alla notizia del duplice omicidio.
Nessuna funambolica arrampicata sui vetri dei vinciani o di qualsiasi altro potrà mai eliminare l’evidenza: la sera prima Mele aveva sostenuto con sicurezza di aver gettato l’arma sul posto, e la mattina dopo, di fronte alla notizia che quell’arma non si era trovata, aveva raccontato un’altra storia, peraltro molto più plausibile. Perché?
Ad aprire uno spiraglio sull’interpretazione di questa sorprendente circostanza è il verbale dell’interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969:
Chiestogli chi c’era con il padre il bambino insistentemente dice che con il padre c’era lo “Zio Piero” da Scandicci;
Chiestogli chi abbia sparato il bambino [dice] “Piero”.
Il bambino dice altresì che lo zio Piero era venuto con una bicicletta celeste ed il padre con una bicicletta marrone.
Il bambino dice ancora che la rivoltella fu gettata nel fosso vicino e che lui andò via con il padre che lo portò in braccio.
Secondo Natalino la pistola venne dunque “gettata nel fosso vicino”. Due giorni dopo il fanciullo venne interrogato di nuovo. Va tenuto presente che nel frattempo aveva ricevuto la visita di un parente, con grande probabilità la zia Maria, la quale, per togliere Mucciarini dai suoi racconti, aveva cercato di fargli cambiare “Piero” in “Pietro”. Ed ecco ancora la pistola:
Mostrandosi più disinvolto il bambino ricorda sempre a domande degli inquirenti che la rivoltella fu buttata dallo zio Pietro in un fosso vicino alla macchina.
Riconosce nella foto nr. tre allegata al rapporto dei C.C. il punto ove era la macchina e indica il fosso sulla destra della macchina poco più avanti di essa.
Stavolta Natalino precisò che a gettare la pistola fu Piero Mucciarini. Si tratta di un clamoroso incastro con la confessione del padre del 23 agosto dell’anno prima, di fronte al quale la persona cui non piace far tornare i solitari deve riflettere a lungo, prima di passar oltre, come invece fanno quasi tutti crogiolandosi nei luoghi comuni, che hanno l’indubbio vantaggio di risultare sempre tanto rassicuranti… Ma aggiungiamo qualche altro tassello.
Una pistola comprata? Si legge nel verbale dell’interrogatorio di Mele del 12 giugno 1985 (vedi):
Egli sostiene di aver dato 400.000 lire (a Vinci) per comprare la pistola, di non sapere se ce l’avesse da prima o se l’abbia comprata; che suo fratello (Giovanni) non è a conoscenza che lui ha dato quattrini a Salvatore per comprare la pistola e che l’idea dell’arma, come anche quella di uccidere è venuta a Salvatore.
Secondo l’ipotesi proposta in questo articolo, quel giorno Mele aveva accusato Salvatore Vinci soltanto perché era l’unico modo per uscire dal carcere. Che bisogno aveva di precisare due dettagli così ininfluenti, quello di aver consegnato al presunto complice 400 mila lire per l’acquisto della pistola, e che il fratello ne era all’oscuro? Siamo un po’ nelle stesse condizioni di 17 anni prima, quando, ancora accusando Salvatore, aveva raccontato della pistola lasciata sul posto. È credibile che l’ometto fosse tipo da introdurre nelle sue narrazioni degli elementi inutili ma specifici senza che ce ne fosse bisogno?
Oppure mettiamoci nell’ottica del vinciano che crede alla partecipazione di Salvatore. Visto che da non negazionista non liquida le dichiarazioni di Mele come deliri, dovrebbe spiegare questo passaggio della sua confessione. Si tenga conto che una Beretta della serie 70 costava nel 1968 sulle 25 mila lire. Dovremmo quindi immaginare che il gelosissimo e vendicativo Salvatore, mentre stava architettando un duplice omicidio che avrebbe potuto mandarlo all’ergastolo, coglieva l’occasione per ciulare dei soldi all’ingenuo Stefano, raccomandandogli di non dir nulla al fratello, che altrimenti avrebbe potuto risentirsi! Una situazione davvero grottesca…
In realtà si deve pensare che si trattasse degli ultimi segreti custoditi dall'ometto, inseriti nello scenario che volevano i suoi interlocutori. Vediamo di approfondire, cominciando dall’osservazione che la cifra non è casuale. Dal rapporto Matassino:
Viena accertato comunque che il Mele Stefano in data 21 giugno 1968 ha riscosso la somma di lire 480.000 dalla Società Assicuratrice Tirrenia sede di Firenze, quale rimborso spese per sinistro stradale.
Immediatamente dopo i fatti in narrativa l'unica somma rinvenuta è quella di lire 24.625 nel borsellino della donna, reperito a bordo dell'autovettura, somma che viene consegnata al Mele Stefano. Questi non fornisce chiare giustificazioni circa il modo in cui è stato speso il danaro; si limita a dire che i soldi venivano spesi dalla moglie.
Si accerta, comunque, che le uniche spese da lui sostenute consistono in lire cinquantamila pagate a tale LISI Lionello per un debito relativo ad acquisti di generi alimentari.
Se la matematica non è un’opinione, le 400 mila lire che Mele avrebbe consegnato a Salvatore corrispondevano più o meno ai soldi scomparsi: 480.000 – 50.000 – 24.625 = 405.375. Soldi che avrebbero costituito il movente primario dello stesso Mele, secondo l’ipotesi di Gerardo Matassino, il quale, dopo aver descritto la perenne ed estrema povertà dell’individuo, scrive:
Immaginiamocelo però adesso con una disponibilità piena della somma di circa mezzo milione. Anche se per molti questa cifra ai tempi attuali rappresenta ben poco, per il Mele è invece l’inverosimile. È il raggiungimento di un sogno che aveva accarezzato per tutta una vita.
Riprendiamolo ora in esame mentre impotente assiste allo svanire di questa tanto agognata e dolce realtà. Egli stesso ci dice che la moglie quando esce con gli amanti è sempre lei a pagare. Questo particolare viene anche confermato da altri testimoni. La moglie stessa, donna abituata ad una vita di stenti, perché oltretutto non si è mai concessa per danaro, fa presto ad abituarsi ad una vita facile e nuova ed in breve tempo dilapida il capitale del marito.
Che le sfortune del Mele inizino con la riscossione della famosa somma sembra non vi siano dubbi. Di giorno in giorno, ogni qualvolta la moglie spende una parte dei soldi, nel Mele si fa sempre più viva la volontà di agire. Egli comunque riesce sempre a frenarsi fino a quando la fatidica sera del 21 agosto ‘68 non si accorge che la moglie, per uscire con l’amante di turno, ha prelevato l‘ultima parte dei soldi. È questa la goccia che fa traboccare il vaso. L’uomo perde il lume della ragione. Ha sopportato per tanti anni la moglie infedele, ma non riesce a passare sopra al fatto che è stata la causa prima che ha distrutto il suo sogno finalmente realizzato e si vendica uccidendola unitamente al suo ultimo amante.
La reazione che Matassino attribuisce a Stefano Mele è traslabile sui suoi parenti. Non a caso c’era Mucciarini con lui, mentre aveva raggiunto Prato per incassare la cifra, evidentemente a garanzia della sua buona conservazione fino a Lastra a Signa. Mele ne avrebbe dovuto utilizzare parte per le riparazioni della casa, che ne aveva bisogno, dopo i danni dell’alluvione del 1966, soprattutto al tetto. Il padre gliel’aveva comprata a buon prezzo proprio per questo. Pare ragionevole ritenere che la sparizione di quelle 400 mila lire fosse stata la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Ma probabilmente la Locci non ne era responsabile, e il fatto che si fosse portata dietro ben 25 mila lire (250 euro di oggi) è perché aveva paura che sparissero anche quelle!
Le 480 mila lire erano il rimborso per l’incidente in cui Mele si era rotto una gamba, nel febbraio, mentre faceva il passeggero sulla Lambretta condotta da Francesco Vinci. Una Fiat 500 li aveva investiti, e il guidatore – per fortuna assicurato, in tempi di RCA non ancora obbligatoria – si era preso la colpa. Per il rimborso c’era però un problema: Francesco non aveva la patente. Per questo era subentrato Salvatore che aveva preso il suo posto nella denuncia. Quindi entrambi i Vinci erano a conoscenza del futuro rimborso, un piccolo tesoro sul quale volentieri avrebbero messo le mani.
A questo punto il lettore non inquadrato e che non si accontenta dei luoghi comuni ha tutti gli elementi per completare il giallo di Signa, tutto sommato piuttosto semplice, non fosse per quella pistola ricomparsa sei anni dopo. Ed è proprio qui che vanno abbandonati i luoghi comuni, cui del resto pare davvero stupido ricorrere in una vicenda che non ha eguali al mondo.
Chi non riesce può sempre mettere nel salvadanaio qualche euro per comprare il mio futuro libro… se mai uscirà.
NB: Per i commenti vale quanto riportato in fondo alla prima parte. Infine. I vinciani fanatici (e ho il sospetto che siano tanti, forse la maggioranza) di sicuro mi detesteranno, dopo questo articolo. Per farmi perdonare almeno un po’ rendo disponibile una sentenza credo inedita in rete, una piccola chicca per comprendere ancor meglio il personaggio che così tanto ottenebra la loro mente.
Prima di procedere con la seconda parte dell’articolo, è il caso di esaminare il verbale del primo interrogatorio di Salvatore Vinci, all’una e venti della notte tra il 23 e il 24 agosto, giunto purtroppo in mio possesso in ritardo (grazie Francesca!). Si tratta di una copia disastrata, con delle parti illeggibili, però si riesce a recuperarne alcune frasi molto significative [Edit: una copia migliore è poi giunta in mio possesso, ancora grazie Francesca]:
Oltre a Silvano Vargiu e Nicola un mio dipendente, mi ha visto nel Bar Sport il gestore che si chiama Cecchino ed altri clienti che al momento non sono in grado di indicare con esattezza. [...]
Presso il predetto circolo oltre al gestore vi era un prete che faceva una partita a scacchi con altra persona che non conosco.
Quindi, chiamando in causa vari personaggi che pare difficile sia riuscito a corrompere, i due gestori e addirittura un prete, è lo stesso Vinci a fornire ai carabinieri gli elementi per smentire il suo alibi! Strano, no, per un assassino che voleva salvarsi?
Ma adesso andiamo alla seconda parte.
La vergogna di Stefano Mele. Torniamo sugli interrogatori di Mele del 1985, quando Salvatore venne tirato di nuovo in ballo. Cominciamo col fare piazza pulita della leggenda della vergogna, nata dalle considerazioni di Rotella e Torrisi e ben rappresentata nel libro Dolci colline di sangue di Mario Spezi, principale responsabile della sua propalazione.
I nuovi interrogatori cui fu sottoposto Stefano Mele, che rimase in carcere solo cinque mesi, diedero altri clamorosi risultati. Finalmente, il piccolo sardo che dal primo momento aveva puntato l'indice contro Salvatore Vinci, e che non aveva mai avuto la forza di confermare l'accusa, lo indicò decisamente come l'uomo che nel 1968 aveva la pistola.
Ma soprattutto consegnò a Rotella la chiave del mistero del '68: la sua vergogna. La vergogna che si sapesse che aveva avuto rapporti omosessuali con Salvatore Vinci. Di fronte ai tradimenti della moglie non si era limitato a sopportare e a chiudere tutti e due gli occhi. Aveva partecipato. Salvatore Vinci aveva coinvolto anche lui nei loro affollati giochi erotici anche omosessuali. Stefano Mele confessò di avere avuto rapporti a tre, anche con Salvatore Vinci e sua moglie, di essere stato con loro due, portandosi addirittura appresso il figlio Natalino, alle Cascine, o sulle piazzole di sosta dell'autostrada, per raccogliere amanti occasionali per Barbara perché loro potessero guardare.
Questa era la ragione, più forte dell'odio, della paura, della prigione e anche del sacrificio degli affetti famigliari, per cui Stefano non aveva potuto accusare Salvatore Vinci.
Dunque Mele avrebbe taciuto sulla partecipazione al delitto di Salvatore per paura di dover confessare i loro rapporti omosessuali (Torrisi: “Nel mutismo ostinato di MELE Stefano, in tutti questi anni, è la profonda vergogna che possano venire fuori i risvolti della sua depravazione sessuale e di VINCI Salvatore”). Ma allora perché lo aveva accusato per primo? Quel 23 agosto 1968 si sarebbe dunque assistito, assieme a quello singolo di Mucciarini, al doppio masochismo di Stefano Mele, che oltre a prenotarsi una condanna per omicidio avrebbe creato i presupposti per la messa in luce delle sue terribili vergogne! Tutto questo dimenticandosi del piano che aveva preparato la sera prima, dove le accuse a Francesco Vinci gli avrebbero risparmiato entrambi gli spiacevoli inconvenienti. Come si vede, questo scenario di Salvatore Vinci diabolico assassino è un continuo far tornare dei conti che non tornano.
Che Mele si fosse vergognato dei suoi rapporti omosessuali con Vinci è senz’altro verosimile. Non per niente attese fino alla prospettiva di dover tornare in galera per confessarli. Ma rivediamo le condizioni in cui si svolsero quegli interrogatori. Il 30 maggio 1985 l’ometto, ormai stremato da un’indagine infinita che da tre anni gravava tutta sulle sue spalle, si trovò di fronte gli agguerritissimi Rotella, Torrisi e Izzo che volevano Salvatore a tutti i costi – soprattutto i primi due, il terzo ci credeva meno – e che per convincerlo gli sventolavano davanti un mandato di cattura per calunnia contro Francesco. Mele era libero da 4 anni, dopo averne trascorsi 13 in gattabuia, si può immaginare quanto felice fosse di fronte alla prospettiva di doverci tornare. Quindi grattò nel fondo del barile, cercando di tirar su più o meno tutto quello che ancora nascondeva, tra cui gli inverecondi giochini con la moglie e Salvatore. Ebbene, a quel punto aveva vuotato il sacco, il tremendo segreto che gli avrebbe impedito di denunciare il suo antico rivale e amante era uscito alla luce del sole, quindi avrebbe potuto denunciarlo. E il motivo ce l’aveva, grosso come un condominio di Sesto San Giovanni: evitare la galera. E invece nisba! Ecco un altro conto che non torna, ecco un’altra stampella da inventarsi per tenere su la baracca.
Niente da fare, dunque, per convincere Mele ci voleva l’arresto; che infatti scattò immantinente. Rotella e colleghi sperarono che cinque giorni di cella potessero bastare, ma s’illudevano: nel nuovo incontro del 4 giugno il caparbio ometto continuò a tener fuori Salvatore. Per quale motivo non voleva ancora decidersi? Quale altro inverecondo segreto si celava nel rapporto tra i due? Forse il fatto che nel delitto Salvatore non c’incastrava nulla e l’ometto esitava a inventarsi nuove bugie? Ma la pazienza è la virtù dei forti, e ai suoi interlocutori non mancava, anche perché la sera se ne tornavano a casa mentre per lui c’erano le quattro pareti della cella. Così il 12 successivo finalmente Stefano Mele si decise e consegnò Salvatore Vinci. Servirebbe un’altra pezza per spiegare il ritardo di due settimane rispetto alla confessione del terribile segreto. In ogni caso Mele non ebbe subito il suo compenso, poiché dovette attendere ancora a lungo prima di ottenere gli arresti domiciliari.
Movente. Tra gli sforzi dei vinciani per tenere in piedi il loro traballante scenario uno dei più grossi è senz’altro quello di proporre un valido movente (sforzo che poi diviene enorme nel caso dei delitti successivi, ma questa è un’altra storia). Le parole magiche sono gelosia e vendetta. Si fa presto a dire gelosia e si fa presto a dire vendetta, ma a fronte di quali elementi? Da quanto si può arguire dalle numerose testimonianze, nel mondo erotico – sentimentale di Salvatore Vinci non c’era posto per la gelosia, almeno intesa nel senso classico. Come si fa ad attribuire tale sentimento a uno che faceva congiungere la moglie, madre dei suoi figli, con degli sconosciuti alle Cascine?
A quanto se ne sa, il rapporto di Salvatore con Barbara Locci era iniziato attorno al 1960 – quando l’uomo, rimasto vedovo in Sardegna, aveva raggiunto il fratello Giovanni a Lastra a Signa – e la sua evoluzione nel tempo non è ben chiara. Ma quel che si può sostenere con certezza è che non fu per nulla esclusivo, né da una parte né dall’altra. Antonio Lo Bianco non era certo il primo amante diverso da Salvatore che la donna aveva frequentato. Bisogna piuttosto riconoscere che il sentimento di gelosia attribuito all’individuo proviene esclusivamente dalle parole di Stefano Mele. Non si conoscono altri indizi. Francesco sì che lo aveva dimostrato di tenerci alla donna, era anche finito in carcere per questo, Salvatore mai.
La prima dichiarazione in tal senso è nell’interrogatorio della mattina del 23 agosto 1968. Il verbale delle 11:35 registra una versione in cui Mele cercava di attribuire il delitto al solo Vinci, e non a caso così riporta:
Il Vinci Salvatore faceva l’amante geloso di mia moglie. Più di una volta ha minacciato mia moglie di morte perché non voleva che andasse con altri. La minaccia è stata fatta in mia presenza e più di una volta era stata fatta anche a mia moglie da sola e mia moglie mi aveva riferito le minacce del Vinci e mi aveva espresso la paura che il Vinci le aveva prodotta talché questa più di una volta mi disse anche che un giorno o l’altro la avrebbero ammazzata.
In quel momento, accusandolo di essere l'assassino, Mele aveva tutto l’interesse ad assegnare un movente di gelosia a Vinci, lo stesso che il giorno prima aveva attribuito al fratello e a Carmelo Cutrona. Ebbene, considerato il contesto, quale credito si può concedere alle sue affermazioni? Nello stesso verbale si legge che Salvatore avrebbe cercato di ucciderlo lasciando il gas aperto – è credibile? – come avrebbe fatto con la giovane moglie in Sardegna e che nel febbraio, mentre lui era in ospedale, si sarebbe installato in casa sua. Ebbene, a installarsi in casa sua, lo vedremo tra poco, era stato Francesco!
Nel verbale della sera, redatto dopo la confessione e il sopralluogo, non c’è invece traccia della gelosia di Vinci, che però torna in quello della mattina del 24: “In realtà il Salvatore era nei confronti di mia moglie più geloso di me. Questo l’ho già dichiarato ieri mattina ai carabinieri”. Di lì a poco arrivò la ritrattazione e il trasferimento delle accuse su Francesco, e di quella gelosia non si parlò più. Fino al 12 giugno 1985, quando l’ometto voleva uscire di galera. Purtroppo chi scrive non ha disponibilità del verbale, quindi bisogna accontentarsi del cenno che ne fece Torrisi:
Il MELE conclude affermando, ancora, che Salvatore ha partecipato al delitto perché “era più marito lui di me”, e che parecchie volte gli è capitato di andare a dormire fuori casa e lui ha dormito con sua moglie.
Alla fine va preso atto dell’evidenza che un movente di per sé poco compatibile con un personaggio come Salvatore Vinci è supportato soltanto dalle parole di Stefano Mele, pronunciate in due circostanze altamente sospette. Nient’altro porta a ritenere l’individuo geloso di Barbara Locci. Anzi, no, forse qualcosa c’è: l’anello di fidanzamento esibito al processo del 1970. Dal rapporto Torrisi:
Successivamente il VINCI, richiamato in aula a richiesta dell'avvocato RICCI, difensore del MELE, a specifica domanda risponde che l'anello che porta al dito gli è stato dato dal MELE nel primo giorno della sua relazione, allorquando, uscendo con la LOCCI, il MELE gli ha detto di mancargli solo l'anello per far coppia. Lo stesso prosegue affermando che l'oggetto è rimasto in suo possesso per qualche tempo, poi lo ha restituito ed infine gli è stato reso nel secondo periodo della sua relazione e cioè nei primi del 1968, su consenso della LOCCI, in cambio di una somma di denaro riscossa per lavori effettuati insieme e non consegnatagli dal MELE.
Il MELE, a questo punto, dichiara rivolto al teste:
“Dì la verità Salvatore, tu sei venuto sul posto di lavoro e mostrando l'anello mi hai detto che te lo aveva dato mia moglie”, ed il VINCI così risponde:
“Sì, adesso mi ricordo, le cose sono andate così, però insisto nel dire che non è stata una ricompensa per denaro che dovevo avere”.
Su questo grottesco episodio Torrisi costruisce la solita montagna di congetture.
L'episodio dell'anello che il VINCI Salvatore, durante il processo porta al dito, particolare evidenziato dall'avvocato RICCI verosimilmente su suggerimento del MELE, è alquanto singolare e la spiegazione data nella circostanza dai due stessi interessati non è plausibile, né risulta sia stata attribuita alcuna importanza o data interpretazione di sorta. L'anello, a nostro avviso, deve assumere un ben preciso significato, che prescinde dal valore reale, così come vorrebbe far credere lo stesso interessato.
L'anello nella mano del VINCI Salvatore non può che condensare tre volontà perfettamente convergenti, e cioè quella di chi lo accetta, e l'altra di chi lo dona, ed a donare l'anello nella circostanza è la LOCCI con il consenso espresso o tacito del marito, il vero possessore; l'anello è suo, se è vero che questi, rivolto alla moglie ed al VINCI Salvatore – sono sue affermazioni al dibattimento – dice loro, accompagnando la frase con un gesto di approvazione, che gli manca l'anello per far coppia. La verità è – ci sembra questo il momento per anticipare delle risultanze di grande peso processuale, acquisite nel decorso anno – che fra la LOCCI Barbara, il MELE Stefano ed il VINCI Salvatore intercorre, sin dall'inizio della loro conoscenza, risalente all'estate del 1960, un rapporto sessuale a tre, in cui i due uomini interpretano reciprocamente anche il ruolo della donna e dell'uomo. Ecco i veri motivi per cui la LOCCI nell'ultimo periodo nega i rapporti al marito ed automaticamente all’alter ego VINCI Salvatore, per rivolgere le sue attenzioni ai più giovani Francesco VINCI e Antonino LO BIANCO, i quali cercano proprio lei e non anche il marito, e questo affronto non può essere ulteriormente tollerato. Ecco quindi l'abituale giustiziere: è il solito VINCI Salvatore a decretare la condanna della donna.
Qui si inizia a comprende quale gelosia intendesse Torrisi: non la classica conseguente alla profanazione di intimità femminili, che nel caso di Salvatore non aveva senso, ma quella dovuta al tentativo della donna di liberarsi dal giogo dello stesso. Un giogo spudoratamente ostentato tramite l’esibizione dell’anello. È indubbio che la fantasia iper colpevolista del militare fosse senza freni, d’altra parte doveva arrangiarsi con quel che passava il convento. È un fuori tema, ma come non pensare ai 17 fichi d’india inviati da Ada Pierini ai coniugi Biancalani, dove Torrisi volle veder rappresentato l’intero campionario dei presunti omicidi di Salvatore, otto coppie più la moglie! Il bello è che i vinciani di oggi sull’anello gli danno credito, come il lettore Phoenix, che lo assurge a prova di colpevolezza, pur minore.
Ma torniamo al movente, che Torrisi spiega meglio più avanti.
Se la MASSA Rosina, moglie del VINCI Salvatore, ha compiutamente illustrato le abitudini del marito, fra cui quella di essere stata condotta con frequenza alle Cascine per farle fare quello che il VINCI aveva già praticato con la Barbara, ciò significa che la circostanza è certa e la si deve considerare come un vero caposaldo processuale. A chi non può tornare gradito quel tipo di rapporto è sicuramente alla LOCCI, la quale, potendo disporre di amanti più giovani e meno complessati dal punto di vista sessuale, preferisce ribellarsi a quella vita, andando a coltivare i piaceri del sesso con gli altri, fuori di casa.
Ecco, quindi, il vero movente del delitto del 1968: la gelosia del VINCI, il quale non può ancora permettere che la donna si sottragga ai suoi voleri, e lo dice lo stesso MELE che la moglie da circa due mesi gli nega i rapporti, ed ora possiamo comprendere come negandoli al marito, li nega contestualmente al vero “proprietario” della famiglia, così definito da Stefano.
Si tratta di illazioni supportate dal nulla, tutte partenti dalle sole parole di Stefano Mele e sviluppate secondo una grossolana convenienza accusatoria. Nella stessa sentenza Rotella viene descritta una situazione nei mesi precedenti il delitto in cui il protagonista era Francesco, e non certo Salvatore:
Nel novembre dell'anno precedente, uno degli amanti, Francesco Vinci, è stato tratto in arresto, per denuncia di concubinato con lei, e dopo pubblica sorpresa e relativa scenata, dalla moglie Vitalia Muscas (poi divenuta Melis). Mele non ha battuto ciglio. Anzi si è fatto custode di una motoretta (Lambretta) dell'altro durante la sua detenzione.
Uscito dal carcere, Vinci ha ripreso, senza darsi problemi, la relazione. Successivamente Mele, subito un incidente, in febbraio è stato in ospedale e, durante questo periodo, l'altro (Mele dirà che si tratta di Salvatore, fratello di Francesco, ma poi, e anche in questa istruttoria, s'intende che si tratta di Francesco) si è installato in casa sua. La storia è durata sino a fine primavera e forse durava ancora. La Locci, intanto, incurante della gelosia manifesta dell'amante, men che di quella, se vi è, occulta del marito, è passata ad altri uomini, ultimo colui che è stato ucciso insieme a lei, Antonio Lo Bianco.
In questo frammento Rotella descrive un gustoso episodio che da una parte esclude Salvatore dallo scenario, e dall’altra rafforza il movente della famiglia Mele:
Mucciarini dice che si era recato, mesi prima del delitto, a saldare, a L. a Signa, debiti del Mele, per conto del suocero. Il negoziante gli aveva chiesto anche il saldo del conto di 'quell'altro' e cioè dell'uomo che viveva, in quel periodo, in casa Mele, e cioè Francesco Vinci. Tale ultima cosa era nota già durante la degenza ospedaliera di Stefano, nel febbraio 1968, a Palmerio e Maria Mele, che avevano incontrato F. Vinci in ospedale. Gli amanti della Locci erano perciò considerati in guisa di sfruttatori.
Dov’era dunque Salvatore in quei mesi del pre-delitto, nei quali la Locci gli avrebbe suscitato un sentimento di così travolgente gelosia da fargli nascere il desiderio di ucciderla? Quello stesso Salvatore che il giorno prima prendeva in giro il fratello dicendogli: “Che per caso vai dalla Locci?”. Qualcosa l’uomo ammise, al processo, come ci riporta Torrisi:
Egli, infatti, afferma di aver ripreso a frequentare la casa ed anche la relazione con la donna, di aver dormito una sera in casa sua, mentre il marito è in ospedale, di aver avuto in quel periodo, nonostante le minacce alla donna da parte di Francesco, qualche rapporto con lei, subito troncato dopo l'uscita dal carcere del fratello.
Naturalmente Salvatore potrebbe aver mentito o quanto meno minimizzato, ma non ne esiste prova. Lo scenario pare quello di un individuo che approfitta fin che può della situazione per soddisfare i propri bisogni sessuali, senza nulla di sentimentale, in linea del resto con i comportamenti attestati negli anni successivi dalle indagini dello stesso Torrisi. Peraltro, quand’anche avesse portata la Locci alle Cascine per farla congiungere con altri uomini, dove sta scritto che a lei sarebbe dispiaciuto? E il fatto che nell’agosto la donna si fosse interessata al gruppo dei siciliani che lavoravano assieme al marito, è sufficiente a dimostrare una rottura traumatica dei suoi rapporti con Salvatore? Peraltro pare fuori luogo ipotizzare che si aspettasse qualcosa in più di qualche rapporto sessuale da un padre di tre figli! E neppure da un Cutrona o da un Barranca.
La lettura dell’articolo Omicidio o suicidio? rende bene l’idea dei pericoli insiti nel lasciarsi trasportare dai luoghi comuni. Nel caso della moglie, un movente di gelosia e vendetta Salvatore l’avrebbe anche avuto, ma nonostante ciò non la uccise, e neppure si ha notizia di scenate, anzi, lasciò che portasse avanti la sua relazione mentre lui probabilmente si divertiva col fratello, coltivando magari la speranza d’infilarsi in mezzo ai due amanti, prima o poi, chi lo sa? Il personaggio era interessato al sesso e basta, pertanto, che motivo avrebbe avuto per uccidere Barbara Locci rischiando l’ergastolo e privandosi di una donna che la dava via senza problemi e che un domani poteva sempre tornargli comoda?
Una pistola scomparsa. Cerchiamo adesso di guardare dentro il più grande mistero che accomuna tutti gli otto duplici omicidi. Si legge nel verbale di Stefano Mele della sera del 23 agosto 1968, quello in cui viene riportata la sua confessione con Salvatore complice:
A questo punto Salvatore evidentemente a conoscenza della relazione esistente tra mia moglie Barbara ed Enrico mi disse: – PERCHÉ NON LA FAI FINITA?
Io risposi: – COME FACCIO SENZA NULLA IN MANO? SAPENDO CHE ENRICO AVEVA PRATICATO LA BOXE.
Salvatore a questo punto replicò: – IO HO UNA PICCOLA ARMA. [...]
Una volta fermata la macchina Salvatore aprì una borsa e mi diede una pistola dicendomi: – GUARDA CHE CI SONO OTTO COLPI. [...]
Non appena salii in macchina dissi a Salvatore le seguenti parole: – SONO BELLI E SISTEMATI. Salvatore mi chiese del bambino e io risposi che era salvo. In relazione alla pistola preciso che non appena ebbi sparato la buttai via. Non posso precisare il posto preciso però sicuramente nei pressi della macchina. Preciso che buttai via l’arma di iniziativa. Vinci Salvatore mi chiese della pistola e quando gli dissi che la avevo buttata via ebbe a rispondermi: – PAZIENZA.
Inutile ribadire che la versione del delitto a due con incontro fortuito la sera stessa non stava in piedi. Ed è difficile pensare che fosse farina del sacco di Mele, o comunque del solo Mele, che, è sempre bene tenerlo a mente, la sera prima aveva preparato il figlio ad accusare Francesco. In qualche modo ci doveva essere lo zampino dei veri complici, i parenti, lo abbiamo già visto. Ma quel dettaglio della pistola lasciata sul posto che cosa nascondeva? Perché specificarlo, quando l’azione di gran lunga più sensata sarebbe stata quella di restituire l’arma al proprietario? Era stato un capriccio? I vinciani, che al contrario dei negazionisti non credono a un Mele deficiente che parla a vanvera, dovrebbero fornire adeguata spiegazione a questo imbarazzante dettaglio. Che interesse aveva l’ometto a introdurlo sapendo bene quanto facilmente sarebbe stato smentito? Tra l’altro, nel momento in cui lo raccontò si deve immaginare che i suoi interlocutori fossero rimasti molto sorpresi, visto che di quella pistola non avevano trovato traccia. La qual cosa, tra parentesi, la dice lunga su quanto assurda sia la pretesa di chi, come Filastò e discepoli, considera le confessioni di Mele frutto di schiaffoni!
La mattina dopo, il 24, si procedette a una ricerca approfondita, con anche l’intervento di Vigili del Fuoco e militari del Genio. Senza risultati, lo sappiamo bene.
Alle 9:50 Caponnetto interrogò Mele, che guarda caso proprio sulla pistola cambiò versione, affermando di averla restituita al proprietario. Il buonsenso dice che tale cambiamento fu conseguenza della comunicazione del mancato recupero. Ma i vinciani lo contestano, affermando che alle 9:50 la ricerca non era ancora finita. In verità di tale operazione non sono noti gli orari. Si può presumere che, per evitare il caldo di agosto, fosse partita a ridosso del sorgere del sole (5:30) – l’abbigliamento che si vede in foto lo testimonia – ma non si sa quando ebbe fine. Può anche darsi che alle 9:50 ancora no, ma è impensabile che Caponnetto non si fosse informato dello stato delle ricerche – via telefono, via radio o alle brutte con un piccione viaggiatore – prima di interrogare Mele, il dato era troppo importante.
Ma leggiamo il verbale, che dopo alcuni preliminari entra nel vivo: “Non ho nessuna difficoltà a dichiarare subito che confermo in ogni sua parte la dettagliata confessione da me resa ieri sera presso la stazione dei CC. di Lastra a Signa”. Dunque Mele in prima battuta non ha alcuna modifica da proporre alla confessione della sera precedente. Allora Caponnetto inizia a leggergliela. Intanto il verbalizzante fa una pausa, come si evince dal testo ma anche dal differente incolonnamento della scrittura a mano quando riprende:
Ricevo a questo punto lettura integrale di dette dichiarazioni. C'è un solo particolare che non risponde a verità in quelle mie dichiarazioni, e precisamente quello in cui riferivo ad essi il modo con cui mi ero disfatto della pistola. In verità io non buttai via l'arma, ma la riconsegnai a Salvatore Vinci, appena raggiunsi la sua macchina in sosta, dopo aver compiuto il duplice omicidio.
La lettura del verbale della sera prima con grande probabilità si era interrotta proprio nel punto in cui Mele diceva di aver buttato via l’arma, a circa 2/3. Lo si deduce dal fatto che quello presente riporta verso la fine: “Si dà atto che a questo punto viene ripresa ed ultimata la lettura del verbale dell’interrogatorio Mele delle ore 11:35 del 23 agosto 1968”. Era stato lo stesso Mele, di sua iniziativa, a bloccare la lettura per il cambio di versione sul destino della pistola? Per un nuovo capriccio, oppure per rimediare a quello della sera precedente? Veramente difficile crederlo. Anche perché il verbale così prosegue:
Mi si chiede perché io abbia dichiarato diversamente ai CC; avevo la testa un po’ confusa ed ero stanco. Prendo atto che mi si contesta che nel riferire ai CC le circostanze in cui mi sono liberato dell’arma, io sarei stato molto preciso e circostanziato, e tutt’altro che confuso, tanto da riferire perfino testualmente le parole con cui il Salvatore avrebbe commentato la notizia da me datagli del getto dell’arma. Capisco che l’obiezione che mi viene mossa è giusta; non so cosa rispondere. Certo è che l’arma la riconsegnai a lui. Può darsi che la parola “pazienza” che io attribuii a Salvatore come commento alla notizia del rigetto dell’arma, egli l’abbia invece pronunciata come commento alla notizia del duplice omicidio.
Nessuna funambolica arrampicata sui vetri dei vinciani o di qualsiasi altro potrà mai eliminare l’evidenza: la sera prima Mele aveva sostenuto con sicurezza di aver gettato l’arma sul posto, e la mattina dopo, di fronte alla notizia che quell’arma non si era trovata, aveva raccontato un’altra storia, peraltro molto più plausibile. Perché?
Ad aprire uno spiraglio sull’interpretazione di questa sorprendente circostanza è il verbale dell’interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969:
Chiestogli chi c’era con il padre il bambino insistentemente dice che con il padre c’era lo “Zio Piero” da Scandicci;
Chiestogli chi abbia sparato il bambino [dice] “Piero”.
Il bambino dice altresì che lo zio Piero era venuto con una bicicletta celeste ed il padre con una bicicletta marrone.
Il bambino dice ancora che la rivoltella fu gettata nel fosso vicino e che lui andò via con il padre che lo portò in braccio.
Secondo Natalino la pistola venne dunque “gettata nel fosso vicino”. Due giorni dopo il fanciullo venne interrogato di nuovo. Va tenuto presente che nel frattempo aveva ricevuto la visita di un parente, con grande probabilità la zia Maria, la quale, per togliere Mucciarini dai suoi racconti, aveva cercato di fargli cambiare “Piero” in “Pietro”. Ed ecco ancora la pistola:
Mostrandosi più disinvolto il bambino ricorda sempre a domande degli inquirenti che la rivoltella fu buttata dallo zio Pietro in un fosso vicino alla macchina.
Riconosce nella foto nr. tre allegata al rapporto dei C.C. il punto ove era la macchina e indica il fosso sulla destra della macchina poco più avanti di essa.
Stavolta Natalino precisò che a gettare la pistola fu Piero Mucciarini. Si tratta di un clamoroso incastro con la confessione del padre del 23 agosto dell’anno prima, di fronte al quale la persona cui non piace far tornare i solitari deve riflettere a lungo, prima di passar oltre, come invece fanno quasi tutti crogiolandosi nei luoghi comuni, che hanno l’indubbio vantaggio di risultare sempre tanto rassicuranti… Ma aggiungiamo qualche altro tassello.
Una pistola comprata? Si legge nel verbale dell’interrogatorio di Mele del 12 giugno 1985 (vedi):
Egli sostiene di aver dato 400.000 lire (a Vinci) per comprare la pistola, di non sapere se ce l’avesse da prima o se l’abbia comprata; che suo fratello (Giovanni) non è a conoscenza che lui ha dato quattrini a Salvatore per comprare la pistola e che l’idea dell’arma, come anche quella di uccidere è venuta a Salvatore.
Secondo l’ipotesi proposta in questo articolo, quel giorno Mele aveva accusato Salvatore Vinci soltanto perché era l’unico modo per uscire dal carcere. Che bisogno aveva di precisare due dettagli così ininfluenti, quello di aver consegnato al presunto complice 400 mila lire per l’acquisto della pistola, e che il fratello ne era all’oscuro? Siamo un po’ nelle stesse condizioni di 17 anni prima, quando, ancora accusando Salvatore, aveva raccontato della pistola lasciata sul posto. È credibile che l’ometto fosse tipo da introdurre nelle sue narrazioni degli elementi inutili ma specifici senza che ce ne fosse bisogno?
Oppure mettiamoci nell’ottica del vinciano che crede alla partecipazione di Salvatore. Visto che da non negazionista non liquida le dichiarazioni di Mele come deliri, dovrebbe spiegare questo passaggio della sua confessione. Si tenga conto che una Beretta della serie 70 costava nel 1968 sulle 25 mila lire. Dovremmo quindi immaginare che il gelosissimo e vendicativo Salvatore, mentre stava architettando un duplice omicidio che avrebbe potuto mandarlo all’ergastolo, coglieva l’occasione per ciulare dei soldi all’ingenuo Stefano, raccomandandogli di non dir nulla al fratello, che altrimenti avrebbe potuto risentirsi! Una situazione davvero grottesca…
In realtà si deve pensare che si trattasse degli ultimi segreti custoditi dall'ometto, inseriti nello scenario che volevano i suoi interlocutori. Vediamo di approfondire, cominciando dall’osservazione che la cifra non è casuale. Dal rapporto Matassino:
Viena accertato comunque che il Mele Stefano in data 21 giugno 1968 ha riscosso la somma di lire 480.000 dalla Società Assicuratrice Tirrenia sede di Firenze, quale rimborso spese per sinistro stradale.
Immediatamente dopo i fatti in narrativa l'unica somma rinvenuta è quella di lire 24.625 nel borsellino della donna, reperito a bordo dell'autovettura, somma che viene consegnata al Mele Stefano. Questi non fornisce chiare giustificazioni circa il modo in cui è stato speso il danaro; si limita a dire che i soldi venivano spesi dalla moglie.
Si accerta, comunque, che le uniche spese da lui sostenute consistono in lire cinquantamila pagate a tale LISI Lionello per un debito relativo ad acquisti di generi alimentari.
Se la matematica non è un’opinione, le 400 mila lire che Mele avrebbe consegnato a Salvatore corrispondevano più o meno ai soldi scomparsi: 480.000 – 50.000 – 24.625 = 405.375. Soldi che avrebbero costituito il movente primario dello stesso Mele, secondo l’ipotesi di Gerardo Matassino, il quale, dopo aver descritto la perenne ed estrema povertà dell’individuo, scrive:
Immaginiamocelo però adesso con una disponibilità piena della somma di circa mezzo milione. Anche se per molti questa cifra ai tempi attuali rappresenta ben poco, per il Mele è invece l’inverosimile. È il raggiungimento di un sogno che aveva accarezzato per tutta una vita.
Riprendiamolo ora in esame mentre impotente assiste allo svanire di questa tanto agognata e dolce realtà. Egli stesso ci dice che la moglie quando esce con gli amanti è sempre lei a pagare. Questo particolare viene anche confermato da altri testimoni. La moglie stessa, donna abituata ad una vita di stenti, perché oltretutto non si è mai concessa per danaro, fa presto ad abituarsi ad una vita facile e nuova ed in breve tempo dilapida il capitale del marito.
Che le sfortune del Mele inizino con la riscossione della famosa somma sembra non vi siano dubbi. Di giorno in giorno, ogni qualvolta la moglie spende una parte dei soldi, nel Mele si fa sempre più viva la volontà di agire. Egli comunque riesce sempre a frenarsi fino a quando la fatidica sera del 21 agosto ‘68 non si accorge che la moglie, per uscire con l’amante di turno, ha prelevato l‘ultima parte dei soldi. È questa la goccia che fa traboccare il vaso. L’uomo perde il lume della ragione. Ha sopportato per tanti anni la moglie infedele, ma non riesce a passare sopra al fatto che è stata la causa prima che ha distrutto il suo sogno finalmente realizzato e si vendica uccidendola unitamente al suo ultimo amante.
La reazione che Matassino attribuisce a Stefano Mele è traslabile sui suoi parenti. Non a caso c’era Mucciarini con lui, mentre aveva raggiunto Prato per incassare la cifra, evidentemente a garanzia della sua buona conservazione fino a Lastra a Signa. Mele ne avrebbe dovuto utilizzare parte per le riparazioni della casa, che ne aveva bisogno, dopo i danni dell’alluvione del 1966, soprattutto al tetto. Il padre gliel’aveva comprata a buon prezzo proprio per questo. Pare ragionevole ritenere che la sparizione di quelle 400 mila lire fosse stata la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Ma probabilmente la Locci non ne era responsabile, e il fatto che si fosse portata dietro ben 25 mila lire (250 euro di oggi) è perché aveva paura che sparissero anche quelle!
Le 480 mila lire erano il rimborso per l’incidente in cui Mele si era rotto una gamba, nel febbraio, mentre faceva il passeggero sulla Lambretta condotta da Francesco Vinci. Una Fiat 500 li aveva investiti, e il guidatore – per fortuna assicurato, in tempi di RCA non ancora obbligatoria – si era preso la colpa. Per il rimborso c’era però un problema: Francesco non aveva la patente. Per questo era subentrato Salvatore che aveva preso il suo posto nella denuncia. Quindi entrambi i Vinci erano a conoscenza del futuro rimborso, un piccolo tesoro sul quale volentieri avrebbero messo le mani.
A questo punto il lettore non inquadrato e che non si accontenta dei luoghi comuni ha tutti gli elementi per completare il giallo di Signa, tutto sommato piuttosto semplice, non fosse per quella pistola ricomparsa sei anni dopo. Ed è proprio qui che vanno abbandonati i luoghi comuni, cui del resto pare davvero stupido ricorrere in una vicenda che non ha eguali al mondo.
Chi non riesce può sempre mettere nel salvadanaio qualche euro per comprare il mio futuro libro… se mai uscirà.
NB: Per i commenti vale quanto riportato in fondo alla prima parte. Infine. I vinciani fanatici (e ho il sospetto che siano tanti, forse la maggioranza) di sicuro mi detesteranno, dopo questo articolo. Per farmi perdonare almeno un po’ rendo disponibile una sentenza credo inedita in rete, una piccola chicca per comprendere ancor meglio il personaggio che così tanto ottenebra la loro mente.