Sul recente articolo Salvatore Vinci a Signa
sono stati numerosi gli interventi degli agguerritissimi “Vinciani”, in
particolare due di essi, Phoenix e Hazet, la cui competenza risulta di ottimo
livello. Purtroppo in entrambi pare inarrestabile la tendenza ad annegare le
loro argomentazioni in ragionamenti chilometrici, il che tra l’altro non è un
buon segno riguardo il contenuto, e rende comunque difficili sia la lettura sia
la risposta. Sono poi evidenti i molti tentativi di forzare i dati, attraverso
espedienti dialettici.
In questo articolo esamineremo le loro argomentazioni più significative, e approfondiremo alcuni temi importanti. È bene ricordare l'ipotesi in cui chi scrive si sta muovendo. Il delitto di Signa fu architettato ed eseguito in completa autonomia dalla famiglia Mele, come ammise Stefano. Poi l’ometto aggiunse Salvatore Vinci, a parere di chi scrive soltanto per uscire di galera, dove Rotella lo aveva mandato con il pretesto della calunnia contro Francesco Vinci. In ogni caso è opportuna una rilettura dell’articolo citato.
Marcello Chiaramonti. Cominciamo con il chiarire la questione del presunto alibi di Marcello Chiaramonti, marito di Teresa Mele. Ripassiamo in breve il contesto. Dopo il ritrovamento nel suo portafoglio del noto biglietto dello “zio Pieto”, il 24 gennaio 1984 Stefano Mele si decise a tirare in ballo i propri parenti, dopo averli protetti per 16 anni pagando anche per loro. Raccontò che quella sera erano lui, suo fratello Giovanni e Piero Mucciarini, marito della sorella Antonietta. C’era però il problema della macchina, che cercò di risolvere attribuendola al fratello (Mucciarini era senza patente). Quando i controlli portarono alla scoperta che Giovanni la macchina non l’aveva – comprò la prima negli anni ’70 – venne fuori che l’unico della famiglia a disporne era Marcello Chiaramonti. A quel punto Mele ammise che c’era anche lui.
Dalla sentenza Rotella:
Il primo a porre il problema è stato Mucciarini. Il 27 gennaio 1984 dichiara:
“In questi giorni mi sono posto il problema del veicolo. Stefano dice che si andò a commettere il delitto con la vettura, ma nessuno di noi tre aveva la vettura e la patente. Perciò due sono le cose: ragioniamo o vi era uno al mio posto o vi era una persona che guidava la macchina”.
D.R.: “Non saprei dire se amici o parenti. L'altro mio cognato che allora aveva 25 anni all'incirca, era un giovane molto serio, che aveva lavorato con Giovanni alla segnaletica del Giuntini, aveva macchina e patente e precisamente una Prinz N.S.U.” […]
Sulla scorta di questa indicazione di Mucciarini, l'inquisizione ritorna su Stefano ed egli dichiara, ancora nei limiti astratti di credibilità, senza indicazioni o sollecitazioni, che in effetti era stata adoperata l'autovettura di Marcello Chiaramonti, l'altro cognato, marito di Teresa Mele. Spiegava anzi che era presente anche lui e che non ne aveva voluto parlare prima per tenerlo fuori.
Marcello Chiaramonti, intanto già udito quale teste, si è difeso con tutta l'onestà e la limpidezza che gli ha concesso l'essere inquisito per un delitto gravissimo, libero e con la paura di perdere la libertà.
Che all’inizio Mele avesse tentato di tener fuori l’allora giovane Chiaramonti, il quale con grande probabilità si era limitato a guidare, è plausibile, tenuto conto di quanto forte fosse stata su di lui l’influenza dei legami di sangue. Si trattava del marito di sua sorella, padre di suoi nipoti, che da tempo si era costruito una vita a Piombino rimanendo ai margini delle questioni di famiglia: perché mandare in carcere anche lui? In effetti Rotella in carcere non ce lo mandò, evidentemente due Mostri erano già fin troppi. Poi, dopo il delitto di Vicchio, di sicuro avrebbe fatto volentieri a meno della sua presenza nel gruppo degli assassini, visto che rendeva non indispensabile la Fiat 600 del nuovo sospetto Mostro, Salvatore Vinci. Non è certo un caso se in sentenza non ne approfondì la posizione. Torrisi invece si dimostrò meno scaltro – lui all’assurda carovana di due auto ci credeva – e il suo rapporto fornisce qualche interessante notizia.
Il quinto elemento si deve identificare in CHIARAMONTI Marcello, rimasto a guardare le autovetture – una di esse è la sua – come si evince dalle dichiarazioni del MELE Stefano del 12 giugno 1985. Lo stesso CHIARAMONTI Marcello sentito dal magistrato subito dopo l'omicidio di Vicchio, è stato sull'orlo di essere tratto in arresto su mandato di cattura per reticenza – e lo stesso interessato manifesta le sue preoccupazioni in tal senso se è vero che aveva dato incarico al suo capo reparto di giustificarlo, almeno per un mese, se non avesse preso servizio –, in quanto la sua deposizione e quella della moglie (sono i primi ad andare a trovare Stefano a casa il primissimo mattino, il giorno dopo il delitto, non appena leggono i giornali) è tutt'altro che convincente.
I vinciani di oggi hanno lo stesso problema di Rotella, e si sentirebbero molto meglio senza Chiaramonti. Ecco allora il tentativo di accreditargli un alibi. Scrive Hazet: “Chiaramonti risultò con un alibi”. Poi, credendosi smentito dal compagno Phoenix, in un chiaro lapsus freudiano: “Quale documento / dichiarazione / deposizione smentirebbe l'alibi del Chiaramonti? A me non ne risulta nessuno nemmeno che ne metta dubbio. Se ne hai info diverse, potresti indicarmene i link”. Al che Phoenix risponde: “Non mi risulta io abbia mai smentito (né citato documenti in tal senso), né abbia mai messo in dubbio, l’alibi di Chiaramonti”.
Si tratta di un tentativo di truccare le carte, che lo stesso Phoenix asseconda forse in modo involontario, forse no. In alcun documento noto si parla di alibi di Chiaramonti, né smentito né verificato. Vista la mancanza di notizie si deve presumere che – nel 1984, a distanza di 16 anni – al massimo l’uomo potesse averne fornito uno banale, come l’essere rimasto a casa con la moglie, quindi inutile. La qual cosa non lo mette in automatico sulla scena del crimine, però neppure lo toglie, come invece lasciano intendere le sibilline argomentazioni dei due vinciani. Pertanto, in una ricostruzione storica, la Fiat 600 di Salvatore Vinci risulta non indispensabile al compimento del delitto.
La zappa sui piedi. La pillola più indigesta che i vinciani si sono trovati a dover ingoiare leggendo il mio articolo è stata senz’altro quella di Piero Mucciarini il quale, favorendo la confessione di Stefano Mele del 23 agosto 1968 con Salvatore Vinci complice, si sarebbe dato la zappa sui piedi. Una considerazione semplice, addirittura banale, che però rischia di far crollare tutto il loro castello di argomentazioni (succede spesso che il Diavolo si nasconda nei dettagli…). Vediamo in questo caso qual è il rimedio, partendo da Phoenix, che si lancia in un’incredibile serie di considerazioni al contorno in fondo alle quali finalmente arriva al sodo:
Questi sono i fatti. I comportamenti di Mucciarini sono i classici comportamenti illogici (e non precostituiti, dal momento che non s’aspettava d’esser visto da Natalino) di chi, non essendo un delinquente incallito, è preso dal panico.
E poi... sicuri sicuri che Mucciarini c’entri qualcosa con le accuse di Stefano Mele a Salvatore Vinci? Potrebbe anche esser che vedendo Stefano Mele crollare, abbia presenziato per dare un po’ di sostegno ed assicurarsi che non faccia il SUO di nome
Vediamo invece il sodo di Hazet, che prima cita la mia considerazione “Indicare il proprio complice come autore del delitto è un'azione priva di senso”, poi la contesta:
SOLO SE:
- sei un criminale incallito
- sei uno a cui non manca la fantasia e la velocità di reazione intellettiva
- non sei appena passato dallo stato “la scampo e me ne torno a casa perché ho un alibi” a quello di “m'hanno sgamato e mi tocca andare in galera”.
È infatti di solito proprio al momento di un tracollo che si commettono 'cavolate' con la bocca e si inguaiano i complici.
È proprio per quello che gli investigatori chiedono alibi, fanno verifiche, investigano, fanno eseguire ricostruzioni, sentono testimoni, ed INTERROGANO ed insistono sugli elementi dubbi che non li convincono.
La tremenda arrampicata sui vetri di entrambi è palese. Nella sostanza viene descritto un Mucciarini così terrorizzato per non si sa quale imminente catastrofe, da cercare di salvarsi consegnando ai carabinieri la chiave per la scoperta di tutti gli altarini: uno dei componenti della banda! Il quale, si badi bene, fino a quel momento nessuno aveva tirato in ballo, tantomeno i carabinieri che invece erano andati a prendere il fratello. Phoenix prova anche a crearsi una seconda via di fuga, lanciando l’ipotesi che Mucciarini avesse affiancato Mele soltanto per assicurarsi che non facesse il suo nome. Peccato che quello di Salvatore lo avrebbe inguaiato comunque!
Ma vediamo di ricostruire un po’ meglio gli eventi, facendo anche delle ipotesi, però logiche. Il giorno dopo il delitto, 22 agosto, Stefano Mele si dichiarò estraneo, tacendo su Salvatore Vinci e lanciando qualche velata allusione su Francesco e su Carmelo Cutrona. Entrambi erano presenti in caserma, con la differenza però che Cutrona lo aveva fatto convocare lui, mentre Vinci i carabinieri erano andati a prenderlo di loro iniziativa. Da notare che il dichiararsi estraneo di Mele rientra perfettamente nel solco del suo desiderio di scamparla alla galera, affiancandosi all’ingenuo alibi della malattia e alle istruzioni date a Natalino sul viaggio da solo.
La sera padre e figlio si ritrovarono e tornarono a casa, dove avrebbero trascorso un’ultima notte assieme (Mele doveva ripresentarsi in caserma alla mattina dopo). E lì accadde qualcosa di molto importante, ai fini della comprensione del giallo. Si legge nel verbale dell’interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969:
Chiestogli se c’era anche Vinci Francesco dice di sì.
Chiestogli allora di ricordare chi abbia visto quella sera, ricorda oltre il papà, la mamma, l’uomo che era in macchina che lui chiama anche “Zio”, lo zio Piero e non menziona il Vinci Francesco.
Chiestogli perché non lo abbia ricordato risponde “Me lo disse il babbo di dire di averlo visto”.
L’unico momento in cui Mele poteva aver detto quella frase al figlio era proprio la sera del 22 agosto, poiché dalla mattina successiva sarebbe rimasto sempre sotto custodia. Non si sa se l’idea l’avesse avuta già in testa come seconda fase dell’ammaestramento, o se gli fosse venuta il giorno stesso accorgendosi dell’interesse dei carabinieri verso Francesco Vinci, fatto sta che preparò il figlio ad accusarlo. In sostanza Francesco avrebbe compiuto il delitto da solo, per poi accompagnare Natalino e minacciarlo affinché stesse zitto. Ma una volta a casa il fanciullo si sarebbe confidato con il padre, il quale era pronto per riferire il tutto ai carabinieri alla mattina dopo. Tale piano non è una semplice ipotesi, è una certezza, come dimostrano numerosi elementi emersi in seguito, tra i quali la versione adattata del 24, alla quale non a caso si accompagnò la richiesta di chiederne conferma allo stesso Natalino.
La mattina dopo, 23, Piero Mucciarini, Marcello Chiaramonti e Teresa Mele andarono a casa di Stefano. Non si sa a quale ora, sappiamo però che l’interrogatorio del congiunto risale alla tarda mattinata, il verbale riporta le ore 11:35. Non si sa neppure se Chiaramonti se ne fosse andato a portare la moglie e il bambino a Scandicci, e se poi fosse tornato subito indietro (erano appena 10 minuti di macchina), oppure fosse rimasto con loro. In ogni caso almeno Mele e Mucciarini ebbero tutto il tempo di discutere prima di recarsi insieme in caserma, forse a piedi, visto che si trovava a poche centinaia di metri. Ebbene, quali potevano essere stati i motivi per i quali Mucciarini si sarebbe così allarmato da compiere il passo falso di convincere il cognato a confessare coinvolgendo Salvatore? Mele era pronto ad accusare Francesco, e non sembra avesse alcuna intenzione di mandare tutto a monte, anzi, era ben convinto di continuare a dichiararsi innocente, il suo piano lo dimostrava. Non a caso, pur virando su Salvatore, in una prima fase aveva cercato di accreditarlo come assassino unico, lo dimostra il verbale delle 11:35, suscitando però i sospetti dei carabinieri che lo avevano incalzato costringendolo alfine a dichiararsi colpevole e ad assegnare all’altro il ruolo di complice istigatore.
In realtà si può solo pensare che il piano di Stefano non fosse quello dei suoi familiari, rappresentati in quel momento da Mucciarini. In effetti la pretesa di affidarsi all’appoggio di Natalino, che avrebbe dovuto raccontare una nuova storia, era davvero eccessiva e non avrebbe funzionato. È chiaro che a quel punto gli inquirenti avrebbero interrogato il fanciullo più a fondo, e il rischio che venisse fuori quello che non doveva venir fuori – l’aver visto lo zio Piero – era troppo grosso. Ecco il motivo del cambio di versione, dove per Natalino niente sarebbe dovuto cambiare. Cambiava tutto invece per Stefano, che avrebbe dovuto accollarsi l’omicidio, per la soddisfazione dei carabinieri e la tranquillità dei Mele. Con un paio di inconvenienti, però: la macchina e la pistola. Mele da solo non era un assassino credibile, ci voleva un complice.
Perché i Mele preferirono Salvatore a Francesco? Innanzitutto l’automobile a quattro ruote del primo era senz’altro da preferire al Gabbiano 50 tre marce a manopola del secondo, che invece di ruote ne aveva soltanto due. L’immagine di Stefano e Francesco stretti sulla sella del motorino – che in prima, sulla salita in uscita dalla piazza del cinema, smarmitta cercando di non farsi seminare dalla Giulietta di Lo Bianco – avrebbe scoraggiato chiunque. In verità Francesco possedeva anche una Lambretta, che già sarebbe stata meglio, ma in quel periodo era ferma dal meccanico.
Poi c’era la pistola, sulla quale più avanti dovremo tornare.
È comunque evidente che anche il piano dei Mele aveva molti punti deboli. Un possibile alibi di Salvatore, in primis. Poi Natalino. Con Mele reo confesso sarebbe stato difficile mantenere l’esatta versione del risveglio a cose fatte senza aver visto nessuno. Tra l’altro c’era il corpo della Locci che era stato aggiustato. La povertà della documentazione non ci consente di ricostruire il confronto di Mele con gli inquirenti, che però proprio cretini non dovevano essere, quindi è probabile che si debba alle loro perplessità se Mele raccontò di essere stato visto dal figlio dopo aver spostato i corpi, e di essere fuggito lasciandolo sul posto. Il che poteva costituire motivo di sospetto sull’attendibilità del racconto dello stesso, che del padre non aveva parlato. Di punti deboli il piano ne aveva altri, ma probabilmente la speranza dei Mele era riposta nell’aiuto che avrebbe fornito il ritrovamento della pistola…
Le cronache ci raccontano di un Mucciarini attivo nel favorire la confessione di Stefano con dentro Salvatore (il maresciallo Ferrero al processo del 1970: “Alla confessione si giunse attraverso l’opera di persuasione fatta da un cognato del Mele, Mucciarini Piero. Il Mucciarini si presentò spontaneamente in caserma”). E non c’è motivo di non crederlo, dato che quello stesso giorno l’uomo intervenne anche su Natalino. Ancora dalla deposizione di Ferrero, che andò più volte a trovare il fanciullo in istituto prima degli interrogatori della primavera 1969:
Il bambino aggiunse di essere sceso dall'auto e di aver visto fra le canne “Salvatore”. Ho interrogato altre volte il bambino e il bambino fece il nome di uno “zio Pierino” come autore del delitto, abbandonando la versione sul Salvatore e dicendo che questo “zio Pierino” aveva una figlia a nome Daniela.
Si legge nel verbale dell’interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969: “Prima di allontanarsi rinnovata la domanda se lo zio Piero gli abbia detto di non dire qualcosa il bambino dice «Mi disse di avere visto Salvatore fra le canne»”. Quando Mucciarini lasciò la caserma di Lastra a Signa tornò a Scandicci – con grande probabilità assieme a Chiaramonti che era andato a prenderlo – dove, assieme agli altri, cercò di annullare in Natalino la versione con Francesco inserendone una con Salvatore. Si può solo pensare che lo avesse fatto quel giorno stesso, poiché all’indomani Stefano avrebbe abbandonato la versione con Salvatore, quindi non avrebbe avuto più senso.
Tra l’altro è probabile che i primi giorni Natalino fosse stato ospite di Chiaramonti. In ogni caso i due cognati erano vicini di casa, quindi ritenerli l’uno all’oscuro delle iniziative dell’altro è improponibile. Dove fosse Giovanni non si sa bene, forse era tornato al suo lavoro a Mantova, ma è molto più probabile che fosse invece ospite della sorella Maria. A questo punto la domanda sorge spontanea: erano tutti scemi i Mele, come evidentemente ritengono i vinciani, Phoenix e Hazet in testa?
L’alibi. Tra gli indizi che collocherebbero Salvatore Vinci sulla scena del crimine c’è l’assenza di un alibi, aggravata dalla presentazione di uno fasullo (però non precostituito). Ho già scritto che di per sé né la mancanza di un alibi né un alibi fasullo non precostituito possono considerarsi prova di colpevolezza. Ma vediamo di approfondire, cominciando dalla lettura del rapporto Torrisi.
Il 24 agosto 1968, alle ore 01:20, VINCI Salvatore, sentito in merito alle accuse mossegli poco prima dal MELE, nel negare ogni addebito sostiene che la sera di quel mercoledì 21.8.68, uscito di casa, sita in località “La Briglia” di Vaiano, verso le ore 20,30, si è intrattenuto presso il locale bar Sport, sino alle ore 22:15, in compagnia di VARGIU Silvano e di un certo Nicola (ANTENUCCI), suo dipendente, di essersi recati successivamente con i due amici a Prato, presso il Circolo dei preti, ove sarebbero rimasti a giocare fino alle ore 24, facendo rientro a casa. Egli conclude affermando di aver saputo dell'omicidio il mattino del giorno successivo, perché un suo operaio aveva il giornale e lo stava leggendo.
Purtroppo il verbale dell’interrogatorio non è nella disponibilità di chi scrive, ma si deve presumere che per “mattino successivo” s’intendesse quello del 23, quando i giornali pubblicarono la notizia. Così prosegue il rapporto Torrisi:
Il 24 agosto 1968, alle ore 02:00, a meno di un'ora dall'interrogatorio del suddetto, ANTENUCCI Nicola, sentito in merito, conferma la circostanza richiamata dall'altro, precisando che dalle ore 22:15 alle ore 00:30, ora in cui si erano divisi, prima di dirigersi a casa, il VINCI Salvatore non si è allontanato da lui.
Quindi l’amico Nicola Antenucci confermò l’alibi di una serata a tre trascorsa per locali. Ma, risentito dal PM Antonino Caponnetto attorno alle 16:50 di quello stesso giorno, si contraddisse, collocando la serata al martedì mentre il delitto era avvenuto di mercoledì. Il magistrato però aveva già preso atto del cambio di versione di Mele – passato dalle accuse contro Salvatore a quelle contro Francesco – pertanto non la fece troppo lunga: ritenendo che il ragazzo stesse confondendosi, lo aiutò a far tornare i conti nella serata del delitto. L’altro amico, Silvano Vargiu, venne interrogato soltanto il 27 maggio 1969, e nella circostanza confermò la serata a tre collocandola nel giorno del delitto. Entrambe le testimonianze vennero confermate al processo del 1970.
Alla ripresa delle indagini tutto venne rimesso in discussione, con nuovi interrogatori sia ad Antenucci che a Vargiu. Entrambi confermarono la serata, ma il primo rifece i conti e la collocò al martedì, mentre il secondo ammise di averla posta al mercoledì soltanto perché era stato Salvatore a chiederglielo, un mese dopo il delitto. In realtà i suoi ricordi non gli avevano consentito allora e non gli consentivano neppure adesso una collocazione sicura.
Dunque Salvatore Vinci non aveva un alibi – anzi, diciamo che non lo fornì, il che non è proprio la stessa cosa, lo vedremo – ma ne dette uno fasullo, che vale la pena analizzare. Innanzitutto balza agli occhi il fatto che il diabolico personaggio non si fosse preoccupato di precostituirsene uno, cosa che invece aveva cercato di fare il meno furbo Stefano Mele con la storia della malattia. A ben vedere già la mancata preparazione di almeno un abbozzo di alibi in un delitto premeditato costituisce più indizio d’innocenza che di colpevolezza. Ma soprattutto sconcerta il tipo di alibi scelto, che più raffazzonato di così non poteva essere.
Partiamo dalla constatazione che i due amici non erano stati istruiti come necessario, con Antenucci confuso tra il martedì e il mercoledì e Vargiu addirittura istruito un mese dopo (se Salvatore fosse rimasto agli arresti, come se la sarebbe cavata?). Ma supponiamo pure che i due amici avessero retto la parte, con Vargiu avvertito dallo stesso Antenucci. Ebbene, una serata trascorsa in luoghi pubblici come un bar e un circolo dei preti – in questo caso fino alla chiusura del locale, da cui i tre sarebbero stati buttati fuori, secondo Vargiu – avrebbero prodotto mille testimoni da interrogare, con cinquecento di loro che si sarebbero ricordati del martedì ma non del mercoledì. Questo nel caso in cui le accuse contro Salvatore fossero continuate. Gli inquirenti, infatti, si erano accontentati della conferma di Antenucci, addirittura favorendola, soltanto perché le accuse di Mele avevano cambiato bersaglio, e loro si erano convinti dell’estraneità di Salvatore. Ma se quelle accuse fossero continuate, col cavolo che si sarebbero fermati ad Antenucci! Come minimo avrebbero interrogato i proprietari dei locali e vari clienti.
Poi si deve notare che Salvatore disse di essere rientrato a casa, una volta lasciati gli amici a mezzanotte. Quindi la moglie Rosina avrebbe dovuto confermare il suo rientro per mezzanotte e mezzo circa, si deve pensare previo accordo. La qual cosa sarebbe stata sufficiente a escluderlo dal delitto – che proprio a quell’ora andava collocato – considerando la mezz’ora necessaria a raggiungere casa sua, a Vaiano. In sostanza bastava l’accordo con la moglie – un alibi debole, certo, però a basso rischio di smentita – magari anticipando di poco l’orario per maggior sicurezza. Invece no, Vinci il diabolico si va a impelagare nell’inutile e fragile posticipo di una serata pubblica, smentibile in quattro e quattr’otto!
In realtà si può solo pensare che l’individuo fosse stato preso alla sprovvista, senza certezze sull’orario del delitto, e avesse arrangiato un alibi alla meglio. E quell’alibi con grande probabilità era provvisorio. Si potrebbe anche ritenere che non ne avesse avuto uno, ad esempio perché era stato alle Cascine in cerca di avventure erotiche, ma la testimonianza della moglie al processo Pacciani ( vedi) fa supporre altro:
Avvocato Santoni Franchetti: È stata sentita lei dai carabinieri in quel periodo signora? O dalle forze dell'ordine? Sentita, interrogata?
Rosina Massa: Sì, nell'85.
Franchetti: Ecco, perché lei ha detto sicuramente, stavo cercando ma non lo trovo, però, mi vuol confermare se nel '68, il giorno in cui c'è stato l'omicidio a Lastra a Signa...
Massa: Mio marito non era a casa. Quello voleva sapere?
Franchetti: Non era a casa. E quando è rientrato suo marito a casa?
Massa: Io di preciso l'orario non me lo ricordo, però non era rientrato.
Franchetti: Ma rientrava sempre a casa suo marito?
Massa: È rientrato il giorno dopo, succedeva spesso, spariva due, tre giorni e poi...
Dunque Salvatore Vinci aveva trascorso tutta la notte fuori, come del resto faceva spesso. Difficile dunque si fosse intrattenuto in giro per cespugli o bagni pubblici con ignoti. Molto più facile che avesse dormito assieme a qualcuno, una coppia probabilmente, per dei fantastici trenini con la locomotiva che poteva girarsi o stare in mezzo. Il tutto alla faccia della Locci che era soltanto una piccola parte del suo multiforme universo erotico. Quella coppia – o quell’uomo, o quella donna – non sarebbe certo stata contenta di essere tirata in ballo, e Salvatore in ballo non la tirò, almeno per il momento, inventandosi un alibi provvisorio. Certo, se le cose si fossero messe male la faccenda sarebbe cambiata. Si tratta di un’ipotesi inverificabile – che provocherà le accese proteste dei vinciani, così contenti di pascersi in mezzo alle loro – ma sappiamo bene che il personaggio era aduso a tale tipo di rapporti, dunque risulta molto plausibile.
Del resto, se davvero Vinci avesse partecipato al delitto, dove sarebbe rimasto per il resto della notte, a contare le lucciole dall’abitacolo della sua 600? E perché non era tornato a casa, tenuto conto del rischio di vedersi arrivare i carabinieri alla mattina presto, come era accaduto al fratello? Ecco il patetico rimedio di Hazet:
Come 'autista' fino almeno alle 02:00 c'aveva da fare (ripescare Stefano Mele e avvicinarlo a casa; e prima aveva dovuto riavvicinare a casa Piero Mucciarini). E una volta riaccompagnato verso casa Mele, aveva ancora da fare un cosa assai importante come gli anni successivi dimostreranno: non distruggere l'arma, ma imboscarla.
Ed un'arma sporca di duplice omicidio non te la nascondi nel giardino di casa.
Lasciamo perdere che Hazet faccia le sue considerazioni ignorando l’auto di Chiaramonti, concediamoglielo pure. Dunque Vinci si sarebbe accollato l’onere di prelevare Mele alle 2 di notte da vicino casa De Felice per portarlo a Lastra a Signa. In quanto tempo? 15 minuti, a meno di sollazzi che si presume in quel momento non fossero prioritari. Poi si sarebbe occupato di nascondere la pistola. Dove? Forse vicino Milano, considerato che gli ci sarebbe voluta tutta la notte!
Nicola Antenucci. Molto interessante risulta l’esame del racconto di Nicola Antenucci sui giorni precedenti il delitto, nei quali Salvatore avrebbe dovuto trovarsi quanto meno in uno stato di nervosismo, visto cosa bolliva in pentola, ma che invece pare fossero scorsi nella più assoluta normalità dei suoi non convenzionali standard. Antenucci venne interrogato più volte, alla ripresa delle indagini, manifestando alcune incertezze, fino a quando non riuscì a ricostruire gli eventi. Forse le incertezze passate erano sincere, forse no, in ogni caso non c’è motivo di non credere al suo racconto finale, che scorre via liscio. Dal rapporto Torrisi:
Il 18 ottobre 1985, l'ANTENUCCI, dopo aver avvertito telefonicamente questo comando, chiede ed ottiene di essere sentito dal Giudice Istruttore e spontaneamente dichiara di essere in grado, finalmente, dopo aver attentamente meditato, di poter ricostruire tutta quella settimana, partendo dalla domenica mattina del 18 agosto 1968, proprio ad iniziare dall'incontro casuale di Salvatore VINCI al bar-circolo della Briglia. Ivi, infatti, mentre l'ANTENUCCI gioca con gli altri ha modo di conoscere il VINCI Salvatore, il quale, chiestogli della sua posizione di lavoro ed appreso che egli è momentaneamente in malattia, gli offre di lavorare per qualche giorno con lui. La sera, ritornando nello stesso locale, avuto modo di conoscere anche l'operaio di Salvatore, il BIANCALANI Saverio, fissano e prendono accordi per l'inizio del lavoro al mattino del giorno successivo.
Lunedì 19 agosto, eseguita la prima giornata di lavoro, i tre si rivedono la sera ed assieme vanno a fare una partita a biliardo a Prato, al circolo ACLI, trasferendosi con l'autovettura del VINCI Salvatore. L'ANTENUCCI prosegue affermando che anche il martedì sono stati al lavoro sino alle ore 20:30-21:00, e dopo, mentre il BIANCALANI è andato a casa dei suoi genitori, lui è invitato a cena, per la prima volta, in casa del VINCI. Quasi alla fine della cena, arriva Francesco e poco dopo tutti e tre si portano al solito circolo, ove incontrano il VARGIU Silvano ed il BIANCALANI. Dopo aver consumato il caffè, Francesco si allontana e proprio in quel momento si sente Salvatore dire al fratello “…che per caso vai dalla LOCCI?…” senza ottenere risposta. Poco dopo, mentre il BIANCALANI dice di non sentirsi bene e rimane alla Briglia, loro tre, e precisamente Salvatore, Silvano e lui, si portano al circolo di Prato, ove si intrattengono a tarda sera, sino a quando, come lui stesso afferma, non li buttano fuori, per la chiusura del locale.
Il giorno dopo, mercoledì 21, prosegue l'ANTENUCCI, egli si reca al lavoro direttamente con il suo motorino, ove rimane con gli altri due ad operare sino alle ore 20:30 - 21:00. La sera, tutti e tre, VINCI, BIANCALANI e lui, si allontanano con i rispettivi mezzi, e lui si reca a Prato a visitare una sua cugina, IPPOLITO Giovanna, rimanendo ospite a cena. Lo stesso, al termine, si allontana, recandosi presso la “casa del popolo”, ove si intrattiene sino a tarda sera.
Nicola Antenucci era un diciottenne sbandato che viveva per strada dormendo nelle case abbandonate della zona di Vaiano. Vinci lo avrebbe ospitato per due anni con tanto di moglie apparecchiata, naturalmente alle sue condizioni. Ma rimaniamo ai giorni precedenti il delitto. E dunque il diabolico Salvatore, per nulla angosciato dal programma a rischio ergastolo di tre giorni dopo, la domenica mattina vede una giovane preda e, seduta stante, la ghermisce. Dopo il primo approccio con il pretesto del lavoro, due sere dopo – e siamo a martedì – Antenucci assaggia le pietanze preparate da Rosina. Alla fine della cena arriva Francesco, assieme al quale i due novelli amici vanno al bar.
Vale la pena notare quanto improbabile sia la favola secondo la quale i rapporti tra i due fratelli si sarebbero guastati causa il comune interesse per Barbara Locci. Semmai si sarebbero guastati poi, a causa della sua morte e di una pistola che poteva inguaiare entrambi, ma questa è un’altra storia. Il lettore non inquadrato è il caso che rifletta sulla suggestiva immagine di Salvatore mentre prende in giro il fratello che se ne sta andando – “Che per caso vai dalla Locci?” – il quale non raccoglie… Quella stessa Locci della quale Salvatore sarebbe stato gelosissimo e che il giorno dopo avrebbe dovuto uccidere? Un gran bravo attore, dunque, oltre che diabolico assassino!
La serata prosegue fino a tardi, e il giorno dopo, quello dell’omicidio, Salvatore lavora come se niente fosse fino alle 20:30 - 21:00. Sembra dunque che non avesse avuto alcun bisogno d’incontrarsi con i complici per definire gli ultimi accordi – come minimo verificare se l’occasione fosse quella buona, con Barbara che effettivamente sarebbe uscita in compagnia del nuovo amante – ma forse si sentono per telefono. Di sicuro non sembra davvero che in pentola stia bollendo qualcosa di così grave come un duplice omicidio…
Dunque Nicola trascorse la serata del delitto per conto suo, mentre Salvatore non si sa dove fosse andato. Leggiamo ancora il rapporto Torrisi, dove il ragazzo narra del dopo delitto:
Egli, continuando nel suo racconto, chiarisce che il giorno dopo, e cioè giovedì, è andato nuovamente al lavoro, trovando sul posto il BIANCALANI, mentre il VINCI, che giunge più tardi, si allontana con una scusa prima di mezzogiorno, senza fare più ritorno.
Ultimata la giornata lavorativa, fanno rientro alla Briglia, ed il giorno dopo, venerdì 23 si ripresenta al suo posto di lavoro, ove già trovasi il BIANCALANI Saverio. Poco dopo, non vedendo arrivare Salvatore, l'ANTENUCCI chiede notizie a Saverio, e questi gli dice “…non lo sai che è successo?…” ed alla sua risposta negativa, replica che c'è anche nel giornale, facendo riferimento al duplice omicidio di Signa, ed affermando che Salvatore è implicato nell'omicidio, aggiungendo testualmente: “Vedrai che chiameranno anche te… ma mi raccomando, non fare il mio nome, perché io non voglio essere messo in mezzo”.
Egli precisa che i Carabinieri gli hanno chiesto solo se la sera del 21 è stato a giocare a biliardo con Salvatore e Silvano, e che lui, non sapendo collocare esattamente la sera del delitto in rapporto a quella del biliardo, fa confusione perché convinto che il 21 è martedì.
Dunque, il giorno dopo la mattanza Salvatore – forse di ritorno da un lunghissimo viaggio per imboscare la pistola, forse reduce da un’estenuante conta delle lucciole, oppure, più probabilmente, da una bella cavalcata in mezzo a delle fresche lenzuola – si presenta al lavoro al mattino tardi, senza neppure passare da casa, ma rimane poco e se ne va con una scusa senza più farsi vedere. Anche in questo caso il comportamento di un diabolico assassino a rischio di ricevere la visita dei carabinieri avrebbe dovuto improntarsi alla massima normalità, e invece Salvatore va non si sa dove. È legittimo ritenere che quella mattina fosse stato messo al corrente dell’accaduto, compresa la convocazione del fratello in caserma, magari con una telefonata sul luogo di lavoro. Non sappiamo se prima di andarsene chiese ad Antenucci di posticipare la serata del martedì, si dovrebbe ritenere di sì, o forse anche no, oppure glielo chiese la sera quando e se si rividero, o la mattina successiva. Quel che pare certo è la stranezza di uno scaltro assassino che si costruisce un alibi tanto assurdo in un modo così assurdo.
Tiriamo le conclusioni sulla narrazione di Antenucci, che non può scagionare Vinci, però contribuisce a descrivere un individuo che non stava certo preparando un delitto, e che da quel delitto venne preso alla sprovvista. Dopo aver trascorso una notte di fuoco e aver appreso la notizia, Salvatore aveva cercato di saperne di più, ecco il motivo della sua assenza dal lavoro nel pomeriggio. Come minimo sarà andato a chiedere a casa del fratello.
Ma perché Salvatore Vinci era così preoccupato se non c’entrava nulla con il delitto? Come ex amante di Barbara Locci preoccupato poteva esserlo, senz’altro, ma si è già osservato che in quel caso gli sarebbe convenuto andare avanti con dei comportamenti normali. Quindi forse proprio nulla non c’entrava.
Segue
NB: I commenti che rimangono nel solco di una normale educazione saranno tutti pubblicati. Ci si scordi però che il sottoscritto si faccia venire il mal di testa per decifrare sproloqui di mille righe pieni di sigle. Se si pretende una risposta si deve scrivere in modo semplice e sintetico.
In questo articolo esamineremo le loro argomentazioni più significative, e approfondiremo alcuni temi importanti. È bene ricordare l'ipotesi in cui chi scrive si sta muovendo. Il delitto di Signa fu architettato ed eseguito in completa autonomia dalla famiglia Mele, come ammise Stefano. Poi l’ometto aggiunse Salvatore Vinci, a parere di chi scrive soltanto per uscire di galera, dove Rotella lo aveva mandato con il pretesto della calunnia contro Francesco Vinci. In ogni caso è opportuna una rilettura dell’articolo citato.
Marcello Chiaramonti. Cominciamo con il chiarire la questione del presunto alibi di Marcello Chiaramonti, marito di Teresa Mele. Ripassiamo in breve il contesto. Dopo il ritrovamento nel suo portafoglio del noto biglietto dello “zio Pieto”, il 24 gennaio 1984 Stefano Mele si decise a tirare in ballo i propri parenti, dopo averli protetti per 16 anni pagando anche per loro. Raccontò che quella sera erano lui, suo fratello Giovanni e Piero Mucciarini, marito della sorella Antonietta. C’era però il problema della macchina, che cercò di risolvere attribuendola al fratello (Mucciarini era senza patente). Quando i controlli portarono alla scoperta che Giovanni la macchina non l’aveva – comprò la prima negli anni ’70 – venne fuori che l’unico della famiglia a disporne era Marcello Chiaramonti. A quel punto Mele ammise che c’era anche lui.
Dalla sentenza Rotella:
Il primo a porre il problema è stato Mucciarini. Il 27 gennaio 1984 dichiara:
“In questi giorni mi sono posto il problema del veicolo. Stefano dice che si andò a commettere il delitto con la vettura, ma nessuno di noi tre aveva la vettura e la patente. Perciò due sono le cose: ragioniamo o vi era uno al mio posto o vi era una persona che guidava la macchina”.
D.R.: “Non saprei dire se amici o parenti. L'altro mio cognato che allora aveva 25 anni all'incirca, era un giovane molto serio, che aveva lavorato con Giovanni alla segnaletica del Giuntini, aveva macchina e patente e precisamente una Prinz N.S.U.” […]
Sulla scorta di questa indicazione di Mucciarini, l'inquisizione ritorna su Stefano ed egli dichiara, ancora nei limiti astratti di credibilità, senza indicazioni o sollecitazioni, che in effetti era stata adoperata l'autovettura di Marcello Chiaramonti, l'altro cognato, marito di Teresa Mele. Spiegava anzi che era presente anche lui e che non ne aveva voluto parlare prima per tenerlo fuori.
Marcello Chiaramonti, intanto già udito quale teste, si è difeso con tutta l'onestà e la limpidezza che gli ha concesso l'essere inquisito per un delitto gravissimo, libero e con la paura di perdere la libertà.
Che all’inizio Mele avesse tentato di tener fuori l’allora giovane Chiaramonti, il quale con grande probabilità si era limitato a guidare, è plausibile, tenuto conto di quanto forte fosse stata su di lui l’influenza dei legami di sangue. Si trattava del marito di sua sorella, padre di suoi nipoti, che da tempo si era costruito una vita a Piombino rimanendo ai margini delle questioni di famiglia: perché mandare in carcere anche lui? In effetti Rotella in carcere non ce lo mandò, evidentemente due Mostri erano già fin troppi. Poi, dopo il delitto di Vicchio, di sicuro avrebbe fatto volentieri a meno della sua presenza nel gruppo degli assassini, visto che rendeva non indispensabile la Fiat 600 del nuovo sospetto Mostro, Salvatore Vinci. Non è certo un caso se in sentenza non ne approfondì la posizione. Torrisi invece si dimostrò meno scaltro – lui all’assurda carovana di due auto ci credeva – e il suo rapporto fornisce qualche interessante notizia.
Il quinto elemento si deve identificare in CHIARAMONTI Marcello, rimasto a guardare le autovetture – una di esse è la sua – come si evince dalle dichiarazioni del MELE Stefano del 12 giugno 1985. Lo stesso CHIARAMONTI Marcello sentito dal magistrato subito dopo l'omicidio di Vicchio, è stato sull'orlo di essere tratto in arresto su mandato di cattura per reticenza – e lo stesso interessato manifesta le sue preoccupazioni in tal senso se è vero che aveva dato incarico al suo capo reparto di giustificarlo, almeno per un mese, se non avesse preso servizio –, in quanto la sua deposizione e quella della moglie (sono i primi ad andare a trovare Stefano a casa il primissimo mattino, il giorno dopo il delitto, non appena leggono i giornali) è tutt'altro che convincente.
I vinciani di oggi hanno lo stesso problema di Rotella, e si sentirebbero molto meglio senza Chiaramonti. Ecco allora il tentativo di accreditargli un alibi. Scrive Hazet: “Chiaramonti risultò con un alibi”. Poi, credendosi smentito dal compagno Phoenix, in un chiaro lapsus freudiano: “Quale documento / dichiarazione / deposizione smentirebbe l'alibi del Chiaramonti? A me non ne risulta nessuno nemmeno che ne metta dubbio. Se ne hai info diverse, potresti indicarmene i link”. Al che Phoenix risponde: “Non mi risulta io abbia mai smentito (né citato documenti in tal senso), né abbia mai messo in dubbio, l’alibi di Chiaramonti”.
Si tratta di un tentativo di truccare le carte, che lo stesso Phoenix asseconda forse in modo involontario, forse no. In alcun documento noto si parla di alibi di Chiaramonti, né smentito né verificato. Vista la mancanza di notizie si deve presumere che – nel 1984, a distanza di 16 anni – al massimo l’uomo potesse averne fornito uno banale, come l’essere rimasto a casa con la moglie, quindi inutile. La qual cosa non lo mette in automatico sulla scena del crimine, però neppure lo toglie, come invece lasciano intendere le sibilline argomentazioni dei due vinciani. Pertanto, in una ricostruzione storica, la Fiat 600 di Salvatore Vinci risulta non indispensabile al compimento del delitto.
La zappa sui piedi. La pillola più indigesta che i vinciani si sono trovati a dover ingoiare leggendo il mio articolo è stata senz’altro quella di Piero Mucciarini il quale, favorendo la confessione di Stefano Mele del 23 agosto 1968 con Salvatore Vinci complice, si sarebbe dato la zappa sui piedi. Una considerazione semplice, addirittura banale, che però rischia di far crollare tutto il loro castello di argomentazioni (succede spesso che il Diavolo si nasconda nei dettagli…). Vediamo in questo caso qual è il rimedio, partendo da Phoenix, che si lancia in un’incredibile serie di considerazioni al contorno in fondo alle quali finalmente arriva al sodo:
Questi sono i fatti. I comportamenti di Mucciarini sono i classici comportamenti illogici (e non precostituiti, dal momento che non s’aspettava d’esser visto da Natalino) di chi, non essendo un delinquente incallito, è preso dal panico.
E poi... sicuri sicuri che Mucciarini c’entri qualcosa con le accuse di Stefano Mele a Salvatore Vinci? Potrebbe anche esser che vedendo Stefano Mele crollare, abbia presenziato per dare un po’ di sostegno ed assicurarsi che non faccia il SUO di nome
Vediamo invece il sodo di Hazet, che prima cita la mia considerazione “Indicare il proprio complice come autore del delitto è un'azione priva di senso”, poi la contesta:
SOLO SE:
- sei un criminale incallito
- sei uno a cui non manca la fantasia e la velocità di reazione intellettiva
- non sei appena passato dallo stato “la scampo e me ne torno a casa perché ho un alibi” a quello di “m'hanno sgamato e mi tocca andare in galera”.
È infatti di solito proprio al momento di un tracollo che si commettono 'cavolate' con la bocca e si inguaiano i complici.
È proprio per quello che gli investigatori chiedono alibi, fanno verifiche, investigano, fanno eseguire ricostruzioni, sentono testimoni, ed INTERROGANO ed insistono sugli elementi dubbi che non li convincono.
La tremenda arrampicata sui vetri di entrambi è palese. Nella sostanza viene descritto un Mucciarini così terrorizzato per non si sa quale imminente catastrofe, da cercare di salvarsi consegnando ai carabinieri la chiave per la scoperta di tutti gli altarini: uno dei componenti della banda! Il quale, si badi bene, fino a quel momento nessuno aveva tirato in ballo, tantomeno i carabinieri che invece erano andati a prendere il fratello. Phoenix prova anche a crearsi una seconda via di fuga, lanciando l’ipotesi che Mucciarini avesse affiancato Mele soltanto per assicurarsi che non facesse il suo nome. Peccato che quello di Salvatore lo avrebbe inguaiato comunque!
Ma vediamo di ricostruire un po’ meglio gli eventi, facendo anche delle ipotesi, però logiche. Il giorno dopo il delitto, 22 agosto, Stefano Mele si dichiarò estraneo, tacendo su Salvatore Vinci e lanciando qualche velata allusione su Francesco e su Carmelo Cutrona. Entrambi erano presenti in caserma, con la differenza però che Cutrona lo aveva fatto convocare lui, mentre Vinci i carabinieri erano andati a prenderlo di loro iniziativa. Da notare che il dichiararsi estraneo di Mele rientra perfettamente nel solco del suo desiderio di scamparla alla galera, affiancandosi all’ingenuo alibi della malattia e alle istruzioni date a Natalino sul viaggio da solo.
La sera padre e figlio si ritrovarono e tornarono a casa, dove avrebbero trascorso un’ultima notte assieme (Mele doveva ripresentarsi in caserma alla mattina dopo). E lì accadde qualcosa di molto importante, ai fini della comprensione del giallo. Si legge nel verbale dell’interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969:
Chiestogli se c’era anche Vinci Francesco dice di sì.
Chiestogli allora di ricordare chi abbia visto quella sera, ricorda oltre il papà, la mamma, l’uomo che era in macchina che lui chiama anche “Zio”, lo zio Piero e non menziona il Vinci Francesco.
Chiestogli perché non lo abbia ricordato risponde “Me lo disse il babbo di dire di averlo visto”.
L’unico momento in cui Mele poteva aver detto quella frase al figlio era proprio la sera del 22 agosto, poiché dalla mattina successiva sarebbe rimasto sempre sotto custodia. Non si sa se l’idea l’avesse avuta già in testa come seconda fase dell’ammaestramento, o se gli fosse venuta il giorno stesso accorgendosi dell’interesse dei carabinieri verso Francesco Vinci, fatto sta che preparò il figlio ad accusarlo. In sostanza Francesco avrebbe compiuto il delitto da solo, per poi accompagnare Natalino e minacciarlo affinché stesse zitto. Ma una volta a casa il fanciullo si sarebbe confidato con il padre, il quale era pronto per riferire il tutto ai carabinieri alla mattina dopo. Tale piano non è una semplice ipotesi, è una certezza, come dimostrano numerosi elementi emersi in seguito, tra i quali la versione adattata del 24, alla quale non a caso si accompagnò la richiesta di chiederne conferma allo stesso Natalino.
La mattina dopo, 23, Piero Mucciarini, Marcello Chiaramonti e Teresa Mele andarono a casa di Stefano. Non si sa a quale ora, sappiamo però che l’interrogatorio del congiunto risale alla tarda mattinata, il verbale riporta le ore 11:35. Non si sa neppure se Chiaramonti se ne fosse andato a portare la moglie e il bambino a Scandicci, e se poi fosse tornato subito indietro (erano appena 10 minuti di macchina), oppure fosse rimasto con loro. In ogni caso almeno Mele e Mucciarini ebbero tutto il tempo di discutere prima di recarsi insieme in caserma, forse a piedi, visto che si trovava a poche centinaia di metri. Ebbene, quali potevano essere stati i motivi per i quali Mucciarini si sarebbe così allarmato da compiere il passo falso di convincere il cognato a confessare coinvolgendo Salvatore? Mele era pronto ad accusare Francesco, e non sembra avesse alcuna intenzione di mandare tutto a monte, anzi, era ben convinto di continuare a dichiararsi innocente, il suo piano lo dimostrava. Non a caso, pur virando su Salvatore, in una prima fase aveva cercato di accreditarlo come assassino unico, lo dimostra il verbale delle 11:35, suscitando però i sospetti dei carabinieri che lo avevano incalzato costringendolo alfine a dichiararsi colpevole e ad assegnare all’altro il ruolo di complice istigatore.
In realtà si può solo pensare che il piano di Stefano non fosse quello dei suoi familiari, rappresentati in quel momento da Mucciarini. In effetti la pretesa di affidarsi all’appoggio di Natalino, che avrebbe dovuto raccontare una nuova storia, era davvero eccessiva e non avrebbe funzionato. È chiaro che a quel punto gli inquirenti avrebbero interrogato il fanciullo più a fondo, e il rischio che venisse fuori quello che non doveva venir fuori – l’aver visto lo zio Piero – era troppo grosso. Ecco il motivo del cambio di versione, dove per Natalino niente sarebbe dovuto cambiare. Cambiava tutto invece per Stefano, che avrebbe dovuto accollarsi l’omicidio, per la soddisfazione dei carabinieri e la tranquillità dei Mele. Con un paio di inconvenienti, però: la macchina e la pistola. Mele da solo non era un assassino credibile, ci voleva un complice.
Perché i Mele preferirono Salvatore a Francesco? Innanzitutto l’automobile a quattro ruote del primo era senz’altro da preferire al Gabbiano 50 tre marce a manopola del secondo, che invece di ruote ne aveva soltanto due. L’immagine di Stefano e Francesco stretti sulla sella del motorino – che in prima, sulla salita in uscita dalla piazza del cinema, smarmitta cercando di non farsi seminare dalla Giulietta di Lo Bianco – avrebbe scoraggiato chiunque. In verità Francesco possedeva anche una Lambretta, che già sarebbe stata meglio, ma in quel periodo era ferma dal meccanico.
Poi c’era la pistola, sulla quale più avanti dovremo tornare.
È comunque evidente che anche il piano dei Mele aveva molti punti deboli. Un possibile alibi di Salvatore, in primis. Poi Natalino. Con Mele reo confesso sarebbe stato difficile mantenere l’esatta versione del risveglio a cose fatte senza aver visto nessuno. Tra l’altro c’era il corpo della Locci che era stato aggiustato. La povertà della documentazione non ci consente di ricostruire il confronto di Mele con gli inquirenti, che però proprio cretini non dovevano essere, quindi è probabile che si debba alle loro perplessità se Mele raccontò di essere stato visto dal figlio dopo aver spostato i corpi, e di essere fuggito lasciandolo sul posto. Il che poteva costituire motivo di sospetto sull’attendibilità del racconto dello stesso, che del padre non aveva parlato. Di punti deboli il piano ne aveva altri, ma probabilmente la speranza dei Mele era riposta nell’aiuto che avrebbe fornito il ritrovamento della pistola…
Le cronache ci raccontano di un Mucciarini attivo nel favorire la confessione di Stefano con dentro Salvatore (il maresciallo Ferrero al processo del 1970: “Alla confessione si giunse attraverso l’opera di persuasione fatta da un cognato del Mele, Mucciarini Piero. Il Mucciarini si presentò spontaneamente in caserma”). E non c’è motivo di non crederlo, dato che quello stesso giorno l’uomo intervenne anche su Natalino. Ancora dalla deposizione di Ferrero, che andò più volte a trovare il fanciullo in istituto prima degli interrogatori della primavera 1969:
Il bambino aggiunse di essere sceso dall'auto e di aver visto fra le canne “Salvatore”. Ho interrogato altre volte il bambino e il bambino fece il nome di uno “zio Pierino” come autore del delitto, abbandonando la versione sul Salvatore e dicendo che questo “zio Pierino” aveva una figlia a nome Daniela.
Si legge nel verbale dell’interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969: “Prima di allontanarsi rinnovata la domanda se lo zio Piero gli abbia detto di non dire qualcosa il bambino dice «Mi disse di avere visto Salvatore fra le canne»”. Quando Mucciarini lasciò la caserma di Lastra a Signa tornò a Scandicci – con grande probabilità assieme a Chiaramonti che era andato a prenderlo – dove, assieme agli altri, cercò di annullare in Natalino la versione con Francesco inserendone una con Salvatore. Si può solo pensare che lo avesse fatto quel giorno stesso, poiché all’indomani Stefano avrebbe abbandonato la versione con Salvatore, quindi non avrebbe avuto più senso.
Tra l’altro è probabile che i primi giorni Natalino fosse stato ospite di Chiaramonti. In ogni caso i due cognati erano vicini di casa, quindi ritenerli l’uno all’oscuro delle iniziative dell’altro è improponibile. Dove fosse Giovanni non si sa bene, forse era tornato al suo lavoro a Mantova, ma è molto più probabile che fosse invece ospite della sorella Maria. A questo punto la domanda sorge spontanea: erano tutti scemi i Mele, come evidentemente ritengono i vinciani, Phoenix e Hazet in testa?
L’alibi. Tra gli indizi che collocherebbero Salvatore Vinci sulla scena del crimine c’è l’assenza di un alibi, aggravata dalla presentazione di uno fasullo (però non precostituito). Ho già scritto che di per sé né la mancanza di un alibi né un alibi fasullo non precostituito possono considerarsi prova di colpevolezza. Ma vediamo di approfondire, cominciando dalla lettura del rapporto Torrisi.
Il 24 agosto 1968, alle ore 01:20, VINCI Salvatore, sentito in merito alle accuse mossegli poco prima dal MELE, nel negare ogni addebito sostiene che la sera di quel mercoledì 21.8.68, uscito di casa, sita in località “La Briglia” di Vaiano, verso le ore 20,30, si è intrattenuto presso il locale bar Sport, sino alle ore 22:15, in compagnia di VARGIU Silvano e di un certo Nicola (ANTENUCCI), suo dipendente, di essersi recati successivamente con i due amici a Prato, presso il Circolo dei preti, ove sarebbero rimasti a giocare fino alle ore 24, facendo rientro a casa. Egli conclude affermando di aver saputo dell'omicidio il mattino del giorno successivo, perché un suo operaio aveva il giornale e lo stava leggendo.
Purtroppo il verbale dell’interrogatorio non è nella disponibilità di chi scrive, ma si deve presumere che per “mattino successivo” s’intendesse quello del 23, quando i giornali pubblicarono la notizia. Così prosegue il rapporto Torrisi:
Il 24 agosto 1968, alle ore 02:00, a meno di un'ora dall'interrogatorio del suddetto, ANTENUCCI Nicola, sentito in merito, conferma la circostanza richiamata dall'altro, precisando che dalle ore 22:15 alle ore 00:30, ora in cui si erano divisi, prima di dirigersi a casa, il VINCI Salvatore non si è allontanato da lui.
Quindi l’amico Nicola Antenucci confermò l’alibi di una serata a tre trascorsa per locali. Ma, risentito dal PM Antonino Caponnetto attorno alle 16:50 di quello stesso giorno, si contraddisse, collocando la serata al martedì mentre il delitto era avvenuto di mercoledì. Il magistrato però aveva già preso atto del cambio di versione di Mele – passato dalle accuse contro Salvatore a quelle contro Francesco – pertanto non la fece troppo lunga: ritenendo che il ragazzo stesse confondendosi, lo aiutò a far tornare i conti nella serata del delitto. L’altro amico, Silvano Vargiu, venne interrogato soltanto il 27 maggio 1969, e nella circostanza confermò la serata a tre collocandola nel giorno del delitto. Entrambe le testimonianze vennero confermate al processo del 1970.
Alla ripresa delle indagini tutto venne rimesso in discussione, con nuovi interrogatori sia ad Antenucci che a Vargiu. Entrambi confermarono la serata, ma il primo rifece i conti e la collocò al martedì, mentre il secondo ammise di averla posta al mercoledì soltanto perché era stato Salvatore a chiederglielo, un mese dopo il delitto. In realtà i suoi ricordi non gli avevano consentito allora e non gli consentivano neppure adesso una collocazione sicura.
Dunque Salvatore Vinci non aveva un alibi – anzi, diciamo che non lo fornì, il che non è proprio la stessa cosa, lo vedremo – ma ne dette uno fasullo, che vale la pena analizzare. Innanzitutto balza agli occhi il fatto che il diabolico personaggio non si fosse preoccupato di precostituirsene uno, cosa che invece aveva cercato di fare il meno furbo Stefano Mele con la storia della malattia. A ben vedere già la mancata preparazione di almeno un abbozzo di alibi in un delitto premeditato costituisce più indizio d’innocenza che di colpevolezza. Ma soprattutto sconcerta il tipo di alibi scelto, che più raffazzonato di così non poteva essere.
Partiamo dalla constatazione che i due amici non erano stati istruiti come necessario, con Antenucci confuso tra il martedì e il mercoledì e Vargiu addirittura istruito un mese dopo (se Salvatore fosse rimasto agli arresti, come se la sarebbe cavata?). Ma supponiamo pure che i due amici avessero retto la parte, con Vargiu avvertito dallo stesso Antenucci. Ebbene, una serata trascorsa in luoghi pubblici come un bar e un circolo dei preti – in questo caso fino alla chiusura del locale, da cui i tre sarebbero stati buttati fuori, secondo Vargiu – avrebbero prodotto mille testimoni da interrogare, con cinquecento di loro che si sarebbero ricordati del martedì ma non del mercoledì. Questo nel caso in cui le accuse contro Salvatore fossero continuate. Gli inquirenti, infatti, si erano accontentati della conferma di Antenucci, addirittura favorendola, soltanto perché le accuse di Mele avevano cambiato bersaglio, e loro si erano convinti dell’estraneità di Salvatore. Ma se quelle accuse fossero continuate, col cavolo che si sarebbero fermati ad Antenucci! Come minimo avrebbero interrogato i proprietari dei locali e vari clienti.
Poi si deve notare che Salvatore disse di essere rientrato a casa, una volta lasciati gli amici a mezzanotte. Quindi la moglie Rosina avrebbe dovuto confermare il suo rientro per mezzanotte e mezzo circa, si deve pensare previo accordo. La qual cosa sarebbe stata sufficiente a escluderlo dal delitto – che proprio a quell’ora andava collocato – considerando la mezz’ora necessaria a raggiungere casa sua, a Vaiano. In sostanza bastava l’accordo con la moglie – un alibi debole, certo, però a basso rischio di smentita – magari anticipando di poco l’orario per maggior sicurezza. Invece no, Vinci il diabolico si va a impelagare nell’inutile e fragile posticipo di una serata pubblica, smentibile in quattro e quattr’otto!
In realtà si può solo pensare che l’individuo fosse stato preso alla sprovvista, senza certezze sull’orario del delitto, e avesse arrangiato un alibi alla meglio. E quell’alibi con grande probabilità era provvisorio. Si potrebbe anche ritenere che non ne avesse avuto uno, ad esempio perché era stato alle Cascine in cerca di avventure erotiche, ma la testimonianza della moglie al processo Pacciani ( vedi) fa supporre altro:
Avvocato Santoni Franchetti: È stata sentita lei dai carabinieri in quel periodo signora? O dalle forze dell'ordine? Sentita, interrogata?
Rosina Massa: Sì, nell'85.
Franchetti: Ecco, perché lei ha detto sicuramente, stavo cercando ma non lo trovo, però, mi vuol confermare se nel '68, il giorno in cui c'è stato l'omicidio a Lastra a Signa...
Massa: Mio marito non era a casa. Quello voleva sapere?
Franchetti: Non era a casa. E quando è rientrato suo marito a casa?
Massa: Io di preciso l'orario non me lo ricordo, però non era rientrato.
Franchetti: Ma rientrava sempre a casa suo marito?
Massa: È rientrato il giorno dopo, succedeva spesso, spariva due, tre giorni e poi...
Dunque Salvatore Vinci aveva trascorso tutta la notte fuori, come del resto faceva spesso. Difficile dunque si fosse intrattenuto in giro per cespugli o bagni pubblici con ignoti. Molto più facile che avesse dormito assieme a qualcuno, una coppia probabilmente, per dei fantastici trenini con la locomotiva che poteva girarsi o stare in mezzo. Il tutto alla faccia della Locci che era soltanto una piccola parte del suo multiforme universo erotico. Quella coppia – o quell’uomo, o quella donna – non sarebbe certo stata contenta di essere tirata in ballo, e Salvatore in ballo non la tirò, almeno per il momento, inventandosi un alibi provvisorio. Certo, se le cose si fossero messe male la faccenda sarebbe cambiata. Si tratta di un’ipotesi inverificabile – che provocherà le accese proteste dei vinciani, così contenti di pascersi in mezzo alle loro – ma sappiamo bene che il personaggio era aduso a tale tipo di rapporti, dunque risulta molto plausibile.
Del resto, se davvero Vinci avesse partecipato al delitto, dove sarebbe rimasto per il resto della notte, a contare le lucciole dall’abitacolo della sua 600? E perché non era tornato a casa, tenuto conto del rischio di vedersi arrivare i carabinieri alla mattina presto, come era accaduto al fratello? Ecco il patetico rimedio di Hazet:
Come 'autista' fino almeno alle 02:00 c'aveva da fare (ripescare Stefano Mele e avvicinarlo a casa; e prima aveva dovuto riavvicinare a casa Piero Mucciarini). E una volta riaccompagnato verso casa Mele, aveva ancora da fare un cosa assai importante come gli anni successivi dimostreranno: non distruggere l'arma, ma imboscarla.
Ed un'arma sporca di duplice omicidio non te la nascondi nel giardino di casa.
Lasciamo perdere che Hazet faccia le sue considerazioni ignorando l’auto di Chiaramonti, concediamoglielo pure. Dunque Vinci si sarebbe accollato l’onere di prelevare Mele alle 2 di notte da vicino casa De Felice per portarlo a Lastra a Signa. In quanto tempo? 15 minuti, a meno di sollazzi che si presume in quel momento non fossero prioritari. Poi si sarebbe occupato di nascondere la pistola. Dove? Forse vicino Milano, considerato che gli ci sarebbe voluta tutta la notte!
Nicola Antenucci. Molto interessante risulta l’esame del racconto di Nicola Antenucci sui giorni precedenti il delitto, nei quali Salvatore avrebbe dovuto trovarsi quanto meno in uno stato di nervosismo, visto cosa bolliva in pentola, ma che invece pare fossero scorsi nella più assoluta normalità dei suoi non convenzionali standard. Antenucci venne interrogato più volte, alla ripresa delle indagini, manifestando alcune incertezze, fino a quando non riuscì a ricostruire gli eventi. Forse le incertezze passate erano sincere, forse no, in ogni caso non c’è motivo di non credere al suo racconto finale, che scorre via liscio. Dal rapporto Torrisi:
Il 18 ottobre 1985, l'ANTENUCCI, dopo aver avvertito telefonicamente questo comando, chiede ed ottiene di essere sentito dal Giudice Istruttore e spontaneamente dichiara di essere in grado, finalmente, dopo aver attentamente meditato, di poter ricostruire tutta quella settimana, partendo dalla domenica mattina del 18 agosto 1968, proprio ad iniziare dall'incontro casuale di Salvatore VINCI al bar-circolo della Briglia. Ivi, infatti, mentre l'ANTENUCCI gioca con gli altri ha modo di conoscere il VINCI Salvatore, il quale, chiestogli della sua posizione di lavoro ed appreso che egli è momentaneamente in malattia, gli offre di lavorare per qualche giorno con lui. La sera, ritornando nello stesso locale, avuto modo di conoscere anche l'operaio di Salvatore, il BIANCALANI Saverio, fissano e prendono accordi per l'inizio del lavoro al mattino del giorno successivo.
Lunedì 19 agosto, eseguita la prima giornata di lavoro, i tre si rivedono la sera ed assieme vanno a fare una partita a biliardo a Prato, al circolo ACLI, trasferendosi con l'autovettura del VINCI Salvatore. L'ANTENUCCI prosegue affermando che anche il martedì sono stati al lavoro sino alle ore 20:30-21:00, e dopo, mentre il BIANCALANI è andato a casa dei suoi genitori, lui è invitato a cena, per la prima volta, in casa del VINCI. Quasi alla fine della cena, arriva Francesco e poco dopo tutti e tre si portano al solito circolo, ove incontrano il VARGIU Silvano ed il BIANCALANI. Dopo aver consumato il caffè, Francesco si allontana e proprio in quel momento si sente Salvatore dire al fratello “…che per caso vai dalla LOCCI?…” senza ottenere risposta. Poco dopo, mentre il BIANCALANI dice di non sentirsi bene e rimane alla Briglia, loro tre, e precisamente Salvatore, Silvano e lui, si portano al circolo di Prato, ove si intrattengono a tarda sera, sino a quando, come lui stesso afferma, non li buttano fuori, per la chiusura del locale.
Il giorno dopo, mercoledì 21, prosegue l'ANTENUCCI, egli si reca al lavoro direttamente con il suo motorino, ove rimane con gli altri due ad operare sino alle ore 20:30 - 21:00. La sera, tutti e tre, VINCI, BIANCALANI e lui, si allontanano con i rispettivi mezzi, e lui si reca a Prato a visitare una sua cugina, IPPOLITO Giovanna, rimanendo ospite a cena. Lo stesso, al termine, si allontana, recandosi presso la “casa del popolo”, ove si intrattiene sino a tarda sera.
Nicola Antenucci era un diciottenne sbandato che viveva per strada dormendo nelle case abbandonate della zona di Vaiano. Vinci lo avrebbe ospitato per due anni con tanto di moglie apparecchiata, naturalmente alle sue condizioni. Ma rimaniamo ai giorni precedenti il delitto. E dunque il diabolico Salvatore, per nulla angosciato dal programma a rischio ergastolo di tre giorni dopo, la domenica mattina vede una giovane preda e, seduta stante, la ghermisce. Dopo il primo approccio con il pretesto del lavoro, due sere dopo – e siamo a martedì – Antenucci assaggia le pietanze preparate da Rosina. Alla fine della cena arriva Francesco, assieme al quale i due novelli amici vanno al bar.
Vale la pena notare quanto improbabile sia la favola secondo la quale i rapporti tra i due fratelli si sarebbero guastati causa il comune interesse per Barbara Locci. Semmai si sarebbero guastati poi, a causa della sua morte e di una pistola che poteva inguaiare entrambi, ma questa è un’altra storia. Il lettore non inquadrato è il caso che rifletta sulla suggestiva immagine di Salvatore mentre prende in giro il fratello che se ne sta andando – “Che per caso vai dalla Locci?” – il quale non raccoglie… Quella stessa Locci della quale Salvatore sarebbe stato gelosissimo e che il giorno dopo avrebbe dovuto uccidere? Un gran bravo attore, dunque, oltre che diabolico assassino!
La serata prosegue fino a tardi, e il giorno dopo, quello dell’omicidio, Salvatore lavora come se niente fosse fino alle 20:30 - 21:00. Sembra dunque che non avesse avuto alcun bisogno d’incontrarsi con i complici per definire gli ultimi accordi – come minimo verificare se l’occasione fosse quella buona, con Barbara che effettivamente sarebbe uscita in compagnia del nuovo amante – ma forse si sentono per telefono. Di sicuro non sembra davvero che in pentola stia bollendo qualcosa di così grave come un duplice omicidio…
Dunque Nicola trascorse la serata del delitto per conto suo, mentre Salvatore non si sa dove fosse andato. Leggiamo ancora il rapporto Torrisi, dove il ragazzo narra del dopo delitto:
Egli, continuando nel suo racconto, chiarisce che il giorno dopo, e cioè giovedì, è andato nuovamente al lavoro, trovando sul posto il BIANCALANI, mentre il VINCI, che giunge più tardi, si allontana con una scusa prima di mezzogiorno, senza fare più ritorno.
Ultimata la giornata lavorativa, fanno rientro alla Briglia, ed il giorno dopo, venerdì 23 si ripresenta al suo posto di lavoro, ove già trovasi il BIANCALANI Saverio. Poco dopo, non vedendo arrivare Salvatore, l'ANTENUCCI chiede notizie a Saverio, e questi gli dice “…non lo sai che è successo?…” ed alla sua risposta negativa, replica che c'è anche nel giornale, facendo riferimento al duplice omicidio di Signa, ed affermando che Salvatore è implicato nell'omicidio, aggiungendo testualmente: “Vedrai che chiameranno anche te… ma mi raccomando, non fare il mio nome, perché io non voglio essere messo in mezzo”.
Egli precisa che i Carabinieri gli hanno chiesto solo se la sera del 21 è stato a giocare a biliardo con Salvatore e Silvano, e che lui, non sapendo collocare esattamente la sera del delitto in rapporto a quella del biliardo, fa confusione perché convinto che il 21 è martedì.
Dunque, il giorno dopo la mattanza Salvatore – forse di ritorno da un lunghissimo viaggio per imboscare la pistola, forse reduce da un’estenuante conta delle lucciole, oppure, più probabilmente, da una bella cavalcata in mezzo a delle fresche lenzuola – si presenta al lavoro al mattino tardi, senza neppure passare da casa, ma rimane poco e se ne va con una scusa senza più farsi vedere. Anche in questo caso il comportamento di un diabolico assassino a rischio di ricevere la visita dei carabinieri avrebbe dovuto improntarsi alla massima normalità, e invece Salvatore va non si sa dove. È legittimo ritenere che quella mattina fosse stato messo al corrente dell’accaduto, compresa la convocazione del fratello in caserma, magari con una telefonata sul luogo di lavoro. Non sappiamo se prima di andarsene chiese ad Antenucci di posticipare la serata del martedì, si dovrebbe ritenere di sì, o forse anche no, oppure glielo chiese la sera quando e se si rividero, o la mattina successiva. Quel che pare certo è la stranezza di uno scaltro assassino che si costruisce un alibi tanto assurdo in un modo così assurdo.
Tiriamo le conclusioni sulla narrazione di Antenucci, che non può scagionare Vinci, però contribuisce a descrivere un individuo che non stava certo preparando un delitto, e che da quel delitto venne preso alla sprovvista. Dopo aver trascorso una notte di fuoco e aver appreso la notizia, Salvatore aveva cercato di saperne di più, ecco il motivo della sua assenza dal lavoro nel pomeriggio. Come minimo sarà andato a chiedere a casa del fratello.
Ma perché Salvatore Vinci era così preoccupato se non c’entrava nulla con il delitto? Come ex amante di Barbara Locci preoccupato poteva esserlo, senz’altro, ma si è già osservato che in quel caso gli sarebbe convenuto andare avanti con dei comportamenti normali. Quindi forse proprio nulla non c’entrava.
Segue
NB: I commenti che rimangono nel solco di una normale educazione saranno tutti pubblicati. Ci si scordi però che il sottoscritto si faccia venire il mal di testa per decifrare sproloqui di mille righe pieni di sigle. Se si pretende una risposta si deve scrivere in modo semplice e sintetico.
Un articolo che inizia con un:
RispondiElimina"Il delitto di Signa fu architettato ed eseguito in completa autonomia dalla famiglia Mele, come ammise Stefano. POI l’ometto aggiunse Salvatore Vinci"[cit.]:
* Non vale la spesa nemmeno di essere letto nelle righe successive.
- Il 22 agosto 1968, prima escussione, si è dichiarato estraneo, ossia innocente [a casa con la bua al pancino].
- Il 22 agosto, in seguito, gli viene fatto il guanto di paraffina, ed il Mele Stefano nemmeno in quel frangente confessa nulla; meno che meno che le responsabilità sue e della sua famiglia.
- Il 23 agosto 1968, Verbale del mattino 11:30 [ LINK: https://bit.ly/3kTMN9g ]:
* il Mele Stefano non confessa e non tira in ballo la famiglia, ma 'parla' del Vinci Salvatore
- Il 23 agosto 1968, Verbale della sera, 21:30 [ LINK: https://bit.ly/3kTMN9g ]
* * il Mele Stefano confessa la sua responsabilità in combutta NON con la famiglia, ma con il Vinci Salvatore, e la propria famiglia non la tira in ballo manco di striscio.
NOTA: il 23 agosto i Carabinieri, oltre alla pochezza dell'alibi del mal di pancia, al suo feedback quando sono andati a casa ad avvisarlo il giorno precedente ee alla incredibilità della passeggiata in solitario di NM, scalzo al buio e su quel pietrisco aguzzo e tagliente [vedi foto - primo piano pietrisco:: https://bit.ly/2KjBLxx ], hanno anche in mano l'esito del guanto di paraffina per il Mele Stefano.
Risultato, il Mele Stefano che fino a prova contraria si dichiarava 'estraneo ed innocente', messo alle strette davanti ad incredibilità e riscontri: crolla e confessa.
E NON tira in ballo alcuna famiglia, e NON tergiversa affatto su alcun Vinci Salvatore, che cita ed accusa eccome.
E se vogliamo essere ancora più precisi, nei primi quattro giorni:
- il Mele Stefano passa PRIMA da una professione di totale innocenza, POI all'accusa in correità al Vinci Salvatore, poi ancora passa ad accusare in correità Vinci Francesco, ed infine accusa il Cutrona.
Di certo, carta canta, non la famiglia, nè mai se stesso e la famiglia.
Ossia non vuota affatto il sacco dicendo che "Il delitto di Signa fu architettato ed eseguito in completa autonomia dalla famiglia Mele"[cit.], per "POI aggiungere il Salvatore Vinci"[cit].
Ma nemmeno per sogno!
Non perdo nemmeno un minuto in più a proseguire l'inutile lettura, visto che l'impostazione concettuale metodologica è già ben specificata nel suo incipit menzognero.
NON E' COSI' CHE CI SI RELAZIONA, CI SI DISCUTE, CI SI CONFRONTA, CI SI RAGIONA SU E SI ANALIZZA.
Meno che meno visto l'argomento trattato che riguarda [al minimo] la morte violenta di due persone.
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POST SCRIPTUM:
Buon proseguimento a Te, Antonio, e a tutti quelli che sono disposti ad ingoiare simili 'forzature' [NdA: il termine corretto è altro].
Prendi il lato positivo della cosa:
- non avrai più quel 'rompiscatole' di Hazet a commentare sul tuo blog.
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Hazet
21/11/2020
Ti dovessi dire che mi dispiace sarei un bugiardo. Ciao ciao.
EliminaBuona sera sig.segnini
Elimina1 Zio pieto immagino sia un soprannome
Come lo era Virgilio ed enrico
2 calamosva nel 2001 dice di aver ricevuto la confessione di francesco vinci che asseriva di aver ucciso la locci
3 solo un demente venderebbe la pistola usata per un omicidio e soprattutto non la userebbe
4 Giovanni mele in una intervista dice che stefano sa... e che dica con quali ALTRI era
Lapsus che gli hanno fatto notare e lui si è morso le labbra guardando per aria.
Bisogna anche capire che Mucciarini e Giovanni mele erano due poveretti eh.
Pertanto se usiamo il cervello nel 68 hanno seguito la macchina che ha girato a dx sul viale loro hanno parcheggiato vicino all idrovora a sx . Con la pala hanno fatto una piccola buca perché si fa così !!!!!
Gli altri 2 fv e sm sono andati incontro alla macchina del lo bianco fv ha sparato mele ha tenuto il bimbo in macchina francesxo ha portato la pistola vicino all auto di SV hanno nascosto la pistola poi in auto sono andati alla auto 3 caricato bimbo e sm sono arrivati al ponticello come dice Natalino con zio Pieto.
La Tramontana era alla radio
Poi dal ponte in poi a sx la strada era chiusa mele e bimbo sule spalle superano i massi sulla strada. Natalino percorre 200 metri verso la lucina. È il resto è storia.
E la storia doveva prevedere che salvatore doveva distruggere la pistola
Però poi beccano mele e da lì la pistola diventa il passepartout per restare fuori dal carcere...
Sinceramente io ho sempre creduto alle storie che leggevo suo libri e cioè Pacciani e varie altre storie.
Che però non tornano capisce .
Insomma é praticamente matematico che la pistola dai sardi non se ne può essere andata ad altri. Poi se vuole può mettere un quarto su quell auto.
Pensare a lotti é fantascienza un povero idiota di quella natura non sarebbe mai riuscito a cavarsela.
I sardi erano svegli intelligenti e addestrati.
Facciamo così, usiamo il cervello, come dice lei, ma ognuno il suo.
Elimina@Antonio,
RispondiEliminaPrima di risponderle aspetto il seguito del suo articolo. Nel contempo mi servirebbero delle coordinate: Posto, nella sua ricostruzione SV fuori dalla SC
1) Quale sarebbe il movente della famiglia Mele verso Locci Lo Bianco?
2) Cosa avrebbe portato gli inquirenti sulle tracce di SV, una volta trovata la pistola, si da rendere SV nervoso?
P.S. grazie per la dedica che mi ha fatto nell'articolo, ma le assicuro che non sono affatto cosi preparato
1) Spero lo intuisca da solo dopo aver letto la seconda parte
Elimina2) Questo non so dirglielo, ho già fatto un possibile esempio a richiesta di Hazet. Metta che la pistola fosse quella del povero Aresti, venduta a Villacidro, con tanto di matricola non abrasa o comunque ricostruibile. Se era Salvatore che l'aveva data a Mele per soldi, senza immaginare che l'avrebbe usata davvero, non crede che avrebbe avuto motivo di preoccuparsi? Meglio che gli poteva andare era istigazione all'omicidio.
@Antonio
RispondiEliminaTengo a precisare che Franco Aresti era cugino di Vitalia Melis, moglie di Francesco Vinci
https://files.fm/u/d5ttpw39b
"Dieci sono state trovate [pistole], una no. Era quella acquistata da un cugino di Vitalia, la moglie del Vinci".
Unione Sarda del 10 Agosto 93
Grazie, non lo sapevo, spero sia una notizia affidabile. Si parla di Belgio, mentre Torrisi parlò di Olanda. In ogni caso colgo l'occasione per smentire che Aresti fosse emigrato. Era un giovane senza il padre che viveva con la madre e andava a lavorare in Olanda a periodi. La pistola la usava quando tornava sull'isola. Aveva soltanto 25 anni quando un incidente sul lavoro se lo portò via.
EliminaGrazie x le ulteriori info Antonio. Non saprei dirti sull'affidabilita' e' pur sempre una fonte giornalistica. La firma e' quella di Alessandro Cecioni
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