Anche per Baccaiano i giudici
poterono contare, come unico materiale probatorio, soltanto sulle dichiarazioni
di Giancarlo Lotti, per il quale, a suo dire, il duplice omicidio avrebbe
costituito il battesimo del fuoco. L’elenco dei riscontri è particolarmente
scarno, se non inesistente (tre).
Primo riscontro
Provata
necessità di un “palo” per l’esecuzione del duplice omicidio.
La mancanza di veri riscontri costrinse i giudici, come e più che
nel caso di Giogoli, a inserire in sentenza uno specifico paragrafo per
assegnare a Lotti quel ruolo di “palo” che, secondo loro, lui stesso avrebbe
confessato e del quale ci sarebbe stata un’esigenza imprescindibile. Per
dimostrare la presunta confessione del presunto pentito la sentenza ne riporta
due frasi, in realtà due
collage del
tutto arbitrari: “
… mi chiedevano di stare lì fermo, ma fermo lì… L’è un posto che ci passa
le macchine, (in) quel punto lì… stetti fermo…”, “
… a me non m’hanno
detto nulla… sono sceso di macchina… come un palo, sì, sono stato fermo…”.
La seconda frase è costruita di sana pianta partendo da uno scambio con
Filastò, dove a pronunciare la parola “palo” non è neppure Lotti, ma l’avvocato
(
vedi):
Filastò: Fanno le carte
false per portarsela dietro per star lì, fermo sulla strada. Ma lei scese di
macchina?
Lotti: O un sono sceso di
macchina, però sono andato...
Filastò: Si, o no?
Lotti: Sì, sono sceso.
Filastò: È sceso, però è
rimasto lì fermo come un palo.
Lotti: Sì, sono stato
fermo, io.
Con la sua sarcastica battuta,
evidentemente Filastò intendeva riferirsi a un vero palo, di legno, tanto per
intendersi, e l’assenso di Lotti riguardava lo “stare fermo”. Quindi
l’interpretazione data dalla sentenza è del tutto falsa.
L’altra frase viene invece
estrapolata dall’interrogatorio condotto dal PM, alle cui insistenti domande
Lotti aveva risposto con impareggiabile ambiguità (
vedi):
PM: Ma quando le
dissero di andare con loro, cosa le spiegarono, le chiesero di fare? Cosa
doveva fare lei, quella sera?
Lotti: Mah, io, a qui'
punto lì, non feci nulla.
PM: Sì, ma cosa...
Secondo loro, cosa le chiedevano di fare? Perché volevano anche lei?
Lotti: Mah, mi chiedevano
di star lì fermo. Ma fermo lì, passa le macchine, l'è un posto che unn'è... l'è
un posto che ci passa le macchine, quel punto lì.
PM: Sì. Capisce, io
non le voglio far dire la parola esatta, ma se lei ci spiega cosa doveva fare,
viene da sé. Cioè, volevano che lei guardasse...
Presidente: Eh, eh, spieghi,
spieghi. Cosa doveva andare lei, cosa doveva andare lei, a fare il testimone?
Non credo.
Lotti: Il testimone no.
Presidente: E allora, cosa
doveva andare a fare?
Lotti: Mi avevano messo
di mezzo che dovevo andare per forza con loro, lì. E basta.
Presidente: E cosa, qual era
il suo ruolo?
Lotti: No, io… e stetti
fermo con la macchina distante. Non sapevo mica che facessino questo... questo
coso qui, questo omicidio. Io sapevo...
Presidente: Ho capito. Ma
allora, queste persone vanno a commettere un omicidio e si portano un testimone
dietro. Mi sembra impossibile. Vuol dire che se andava lei - se è vero quello
che dice lei, non lo so - ma se è vero quello che dice lei, doveva avere uno
scopo, doveva fare qualcosa anche lei.
Lotti: Per star lì a
guardare se non veniva macchine...
PM: Oh!
Presidente: Eh, questo, doveva
fare.
Lotti: Per me, è questo,
quello che dico io. Se non mi esprimo bene...
Insomma, spingi di qua e tira di
là alla fine tra PM e Presidente si era riusciti a far dire a Lotti: “
Per star lì a
guardare se non veniva macchine”, una frase che però, a rigor di
logica, sembra più indicare un “palo” nella sua accezione classica (chi deve
avvertire i complici) piuttosto che in quella intesa dalla sentenza
(scoraggiare con la propria presenza l'arrivo di eventuali altre coppiette). In ogni caso alla fine i tre avevano
tirato un sospiro di sollievo, poiché pareva che si fossero capiti. Ma Lotti
neppure troppo, poiché qualche udienza dopo, durante il controinterrogatorio di
Mazzeo, ancora una volta d’aver fatto il “palo” non lo voleva dire, suscitando
così la nervosa reazione del Presidente (
vedi):
Mazzeo: Qual'era il suo
ruolo in quel caso? Aveva un ruolo, può anche darsi che...
Lotti: Di sta' lì, come
dicevo a loro.
Presidente: Di sta' lì… di
sta' lì come un palo!
Lotti: No.
Presidente: No, no. Aspetti.
Cosa vuol dire stare lì?
Lotti: M'avevan detto che
c'era questo coso così e così, e io dovevo stare lì fermo a provare da loro lì.
Presidente: A provare?
Lotti: Senza stare vicino
alla macchina.
Presidente: E qual era lo
scopo della sua presenza lì?
Lotti: Mah, di sta' lì
per... che un venisse macchine, un si fermasse macchine.
Mazzeo: Che non venisse
macchine. Quindi lei doveva...
Lotti: Macchine, in qui'
momento un passò macchine.
Presidente: E se passava una
macchina?
Lotti: E se passava una
macchina...
Presidente: Cosa doveva fare
lei?
Lotti: Che dovevo fare?
Le vedevano anche loro le macchine, l'è una strada di coso...
Presidente: Ho capito, ma se
lei sta in quel punto, sbuca una macchina là in fondo al rettilineo lì, cosa
deve fare lei?
Lotti: Io gli dissi se
passa le macchine, che devo fare?
Presidente: Allora, c'è o non
c'è è la stessa cosa lei.
Lotti: No, ero lì perchè
un si fermassin macchine lì, in questo punto lì.
Presidente: Cioè, doveva
impedire che non si fermassino macchine.
Lotti: Macchine...
Presidente: Questo vuole dire?
Lotti: Sì .
Presidente: Oh.
Alla prima risposta sibillina di
Lotti sul proprio compito (“Di sta' lì, come dicevo a loro”), il Presidente
era intervenuto stizzito (“Di sta' lì… di sta' lì come un palo!”), ed è
certamente comprensibile, dopo le sue titaniche fatiche di qualche giorno prima. Ma indietro
aveva ricevuto un secco “no”, e poi una frase criptica in bella e
involontaria rima: “M'avevan detto che c'era questo coso così e così, e io
dovevo stare lì fermo a provare da loro lì”.
Alla fine però Lotti l’aveva
ammesso: era sul posto affinché “un si fermasse macchine”, quindi in quel ruolo di
“inibitore” che la sentenza chiama di “palo”. Ma ce n’era davvero la necessità?
Secondo i giudici sì, e molta:
[…] il
fatto di trovarsi proprio sul ciglio della strada rendeva la stessa piazzola
molto pericolosa, non per gli automobilisti che si fossero trovati a transitare
sulla strada nell’una o nell’altra direzione […], ma per il probabile arrivo di
qualche altra coppietta desiderosa di intimità, che si fosse avvicinata all’area
per sostarvi per qualche tempo. È in sostanza la stessa situazione del delitto
di Giogoli già esaminato, ma in questo caso l’esposizione al pericolo era
ancora maggiore, perché bisognava operare intorno ad un’auto quasi a contatto
con la sede stradale.
S’imponeva quindi la necessità di un “palo”,
cioè di una persona ferma sulla strada, a tutta vista, in modo da indurre, con
la sola sua presenza, eventuali coppiette, in avvicinamento alla zona, a
proseguire oltre in cerca di altri siti.
Ma non è vero per nulla, anzi, a
Baccaiano un “palo” serviva ancor meno che a Giogoli. La coda della 147 di
Paolo Mainardi arrivava fin quasi sulla provinciale ed era quindi ben visibile
a chi avesse accarezzato l’idea di occupare la piazzola, nella quale d’altra
parte più di un’auto non poteva entrare, come anche la sentenza afferma appena
dopo: “la stessa
piazzola era in realtà una “piazzolina” in quanto grande appena per contenere
una sola macchina”. E allora, quale pericolo potevano costituire le
altre coppiette se già a colpo d’occhio avrebbero capito che non era il caso di
fermarsi? Ancora una volta c’è da chiedersi piuttosto il perché Pacciani
sarebbe stato tanto folle da creare una situazione di pericolo lasciando in bella
vista una persona la quale, se riconosciuta, avrebbe portato a lui. Tanto più
che San Casciano distava pochi chilometri, quindi era anche altissimo il
rischio di avvistamenti a opera di gente che conosceva gli assassini.
E se fosse passata un’auto della
Polizia? In questo caso una persona ferma lungo un rettilineo buio avrebbe
ottenuto l’effetto contrario rispetto a quello atteso, spingendo gli agenti a
fermarsi per controllare. Appena dopo aver sospirato di sollievo per
l’ammissione, strappata a forza, che Lotti era lì perché “
doveva impedire che non si fermassino macchine”,
al sagace Presidente era venuto il dubbio, e quindi aveva chiesto ulteriori
spiegazioni. Ecco qua un estratto dell’incredibile scambio di battute (
vedi):
Mazzeo: Lei ha dichiarato
al Pubblico Ministero che doveva fare da palo. Poi all'avvocato Filastò,
invece, all'udienza del 3 dicembre ha dichiarato: "A me non mi hanno detto
di far nulla se passavano macchine". Quindi io le contesto questa sua
precedente dichiarazione.
Lotti: Se le macchine
passa, i' che devo fare.
Presidente:
Allora...
scusi Lotti. A questo punto mi inserisco io. L'ha presente la macchina della
Polizia o dei Carabinieri? Che c'hanno quel cosino che gira, quella luce che
gira? Se lei avesse visto una macchina di quel tipo sbucare dalla strada, che
si avvicinava al posto dove è stato commesso quel delitto, cosa faceva lei?
Lotti: Un lo so mica i'
che facevo allora io. Io ero fermo lì. Che facevo? Ero a vedere i' che
faceva...
Mazzeo: Dirigeva il
traffico, che faceva? Non lo so. Cioè, non gli avevano detto di avvertirli, di
dargli un urlo, un richiamo no?
Lotti: L'ho detto
innanzi, avverti' se si fermava macchina e basta.
Mazzeo: Gliel'hanno detto
o no di avvertirli se passava...
Lotti: O un l'ho detto
innanzi, di avvertilli se passava qualche macchina che si fermasse.
Presidente: La Polizia e i
Carabinieri girano anche di notte, non è una cosa campata in aria. Allora si
sta per arrivare questa macchina, lei non le avverte queste persone o no?
Lotti: Bisogna vede' la
macchina se l'è quella della Polizia...
Presidente: C'è rischio che
queste persone sparano mentre arrivano i Carabinieri.
Lotti: Lo so ma...
Presidente: Qual'era l'accordo
che c'era tra lei, il Vanni e il Pacciani secondo quello che dice lei? Lei cosa
doveva fare?
Lotti: Di sta' lì a
avvertilli se gl'arrivava una macchina diversa...
Presidente: Oh, avvertirli. E
come faceva a avvertirli con un fischio, con le luci, in qualche altro modo.
Come faceva?
Lotti: No, avvertire
così... passa le macchine, ferme o qualcosa di diverso. Un so se mi son
spiegato bene.
Presidente: Sì, ma siccome lei
nel verbale che ha fatto ha detto che ha posizionato la sua macchina a 40 metri
dall'area di servizio. Come faceva... Lei ha detto: io ero qui, l'area era là,
la macchina e i ragazzi era di là a 40 metri; è riportato nel grafico. […] Lei
ha detto avvertire, cosa voleva dire, cosa doveva fare in concreto, in realtà
cosa accadeva che facesse? Lei a 40 metri... è lei che l'ha detto ai
Carabinieri che erano 40 metri. Da 40 metri cosa faceva lei per avvertire il
Pacciani che sono vicino alla macchina?
Lotti: Sono andato a
piedi vicino a loro per avvertirli. Se la macchina è da parte di là, vo giù a
piedi per avvertilli!
Mazzeo: E che era più
veloce della macchina?
Pertanto Lotti si sarebbe posizionato
lungo il rettilineo e se fossero passati i Carabinieri avrebbe dovuto correre
ad avvertire i complici. Ma come avrebbe potuto riconoscere per tempo una
gazzella o una pantera? Né i Carabinieri né la Polizia se ne vanno in giro con
il lampeggiante acceso, a meno che non stiano inseguendo qualche malvivente o
correndo verso un luogo d’intervento. Dal lungo rettilineo buio Lotti avrebbe
quindi visto avvicinarsi soltanto dei fari qualsiasi, e soltanto quando l’auto
fosse giunta alla sua altezza avrebbe potuto rendersi conto del pericolo. Ma
supponiamo pure che in qualche modo l’individuo fosse riuscito ad avvertire per
tempo i complici, magari intenti nelle escissioni: come a Giogoli, era
decisamente da escludere una rocambolesca fuga attraverso i campi, poiché a
lato della strada erano parcheggiate le due auto, le quali andavano recuperate
se non si voleva lasciare il proprio biglietto da visita sul posto. E intanto
gli agenti che cosa avrebbero fatto?
Secondo e terzo riscontro
Tentativo
di fuga del giovane Mainardi, con una disperata manovra di retromarcia, per
sottrarsi all’azione omicida.
Esattezza delle modalità degli spari.
Il lettore ormai si sarà stancato
dell’argomento, ma ancora una volta bisogna convenire che il presunto pentito,
qualsiasi fosse stata la sua fonte, sapeva molto, sia della scena del crimine,
peraltro vicinissima a casa sua (5 km), sia della dinamica del delitto. Anzi,
molto più che nelle altre occasioni, in dibattimento Lotti si era dimostrato
sicuro e preciso nel raccontare l’attacco sulla piazzola, la fuga del ragazzo
finita con l’auto incastrata nella fossa, l’inutile tentativo della ripartenza
e gli ultimi colpi contro il parabrezza e contro i fari. In risposta alle
domande di Curandai (
vedi):
Curandai: Senta, per quanto riguarda il
delitto di Baccaiano, lei ricorda dove il Pacciani sparò, in che punto della
macchina?
Lotti: La prima volta, quando erano su
questa piazzettina…
Curandai: Sì, bene.
Lotti: Sempre sulla strada. Dalla parte
dello sportello.
Curandai: Sì. Poi?
Lotti: Poi quande gli attraversonno di
là, io veddi che volevano sortire, però non ce l'hanno fatto a sortire dal
fossetto. Il fossetto era abbastanza profondo. Profondo, una cosa giusta, non
è...
Curandai: Senta, io le ho chiesto - se lei
ricorda - dove il Pacciani sparò, in quale altro punto della macchina?
Lotti: Dalla parte, quando gl'andette
dalla strada di qua?
Curandai: Sì.
Lotti: Sul davanti.
Curandai: Sul davanti. Sul davanti cosa
intende, il vetro, oppure no?
Lotti: Il vetro anche.
Curandai: Il parabrezza?
Lotti: Poi c'era dei fari anche rotti
sul davanti.
Anche durante il
controinterrogatorio condotto da Filastò, duro e non privo di qualche
trucchetto del mestiere, riguardo la dinamica omicidaria Lotti non si era mai
contraddetto. Dal canto suo l’avvocato era certo che stesse mentendo, e non
soltanto perché lo riteneva del tutto estraneo all’intera vicenda. È ben nota
infatti tra gli appassionati la sua ricostruzione del delitto, assai differente
da quella ufficiale cui il racconto di Lotti si era uniformato, con Paolo Mainardi che aveva tentato la fuga dopo i primi spari finendo dentro la
fossa dall’altro lato della strada. Facendo perno sulle testimonianze dei
paramedici secondo le quali il ragazzo era seduto dietro al momento del loro
arrivo, Filastò era convinto invece che alla guida dell’auto si fosse messo il Mostro. I quattro paramedici erano stati tutti convocati in aula, dove
avevano confermato con sicurezza d’aver trovato Paolo Mainardi sul divanetto
posteriore, nonostante l’ostilità del PM, del resto comprensibile, e quella
invece del tutto inopportuna del Presidente. Addirittura quest’ultimo, durante
l’interrogatorio di Silvano Gargalini, nel respingere la legittima protesta di
Filastò aveva giustificato l’aggressività del PM con la necessità di appurare
se il teste stesse dicendo la verità! (“
Stiamo cercando, no, sta cercando di sapere se questo dice la verità o no.
Tutto lì”,
vedi).
E per quale motivo Gargalini non avrebbe dovuto dire la verità? Quali interessi
avrebbero potuto indurlo a sostenere una versione piuttosto che un’altra?
Semmai il dubbio poteva riguardare la possibilità che non ricordasse bene,
oppure che non avesse visto bene. Si era trattato di una vera e propria
intimidazione, insomma, gravissima, come del resto aveva subito fatto notare
Filastò adirato.
A ogni modo i testimoni erano
andati avanti per la loro strada, raccontando senza alcuna incertezza che per
estrarre Paolo Mainardi avevano dovuto basculare in avanti i sedili anteriori,
quindi in nessun modo potevano aver trovato il poveretto seduto su quello di guida.
Erano stati invece i quattro ragazzi intervenuti per primi ad apparire assai
insicuri sul fatto che davvero avessero visto Mainardi alla guida. Eppure
ottusamente i giudici le loro incertezze le ignorarono, mentre respinsero senza
appello le testimonianze dei paramedici, rielaborando in sentenza, a loro
piacimento, il contenuto delle relative deposizioni.
Non appaiono invece credibili i testi Allegranti
Lorenzo, Gargalini Silvano, Martini Marco e Ciampi Paolo, che intervennero sul
posto quale personale dell’ambulanza della “Croce d’Oro” di Montespertoli, e
che, sentiti all’udienza del 19.12.97, hanno riferito che il Mainardi si
trovava al contrario sul sedile posteriore accanto alla ragazza.
Infatti, se fosse vera questa circostanza, sul
sedile di guida non ci sarebbe stata non solo quell’abbondanza di sangue di cui
si è già riferito, ma nemmeno alcuna macchia di sangue, posto che, a detta
degli stessi testi, il sedile anteriore di guida venne alzato e ribaltato
contro lo sterzo, per estrarre appunto il corpo del Mainardi dal sedile
posteriore.
Inoltre, quanto al Martini e al Ciampi, tale loro
affermazione mal si concilia col fatto che all’epoca essi ebbero a dichiarare
al PM il 22.6.82 che non avevano visto la posizione del Mainardi (Martini),
come è stato loro contestato anche in udienza: eppure allora il ricordo doveva
essere ben vivo, essendo state le loro dichiarazioni rese appena tre giorni
dopo il delitto. È evidente, quindi, che i predetti due testi, a forza di
riparlare dell’episodio e di “commentare” l’accaduto, come ha riconosciuto lo
stesso Ciampi nella sua deposizione dibattimentale, hanno finito col far
propria l’opinione di altri, senza tuttavia ricordare personalmente la
posizione del ragazzo.
Nel contrapporre il verbale
dell’epoca alla deposizione resa in aula, nel caso di Marco Martini la
faziosità della sentenza raggiunge vertici assoluti (
vedi).
Alla iniziale domanda diretta del PM il testimone aveva dichiarato perentorio:
“
Erano dietro i sedili,
accasciati. Insomma, con la testa reclinata all'indietro. Tutti e due”.
Era poi seguito questo interessante scambio:
PM: Senta una cosa, a domanda, la stessa che le ha fatto il Presidente, lei
dice: "Non sono in grado, invece, di precisare l'esatta posizione del
corpo del Mainardi in origine in quanto, al momento del mio intervento il corpo
stesso era già stato spostato dal mio collega." E oggi dice invece che
lei... che l'ha visto sul sedile di dietro. Allora? Come mai oggi se lo ricorda
così bene, se a 24 ore dice: “era già stato spostato dal suo collega”?
Martini: Ora glielo spiego. Dopo circa tre ore, tre ore e
mezzo di interrogatorio, alla fine, a Montespertoli, dissi: “fatemi firmare...
scrivete quello che vi pare e fatemi firmare quello che vi pare”. Cioè, non era
possibile, era un tartassamento continuo, eh, sennò.
PM: Cioè, lei per dire queste... dunque, sono... cinquanta parole, c'è stato
tre ore e mezzo?
Martini: Sì. Ma tanto, ma guardi, le dico tanto ci sono
stato.
PM: Mi scusi, a aspettare o...
Martini: No, no, no, interrogato.
PM: Ora, tre ore e mezzo interrogato e alla fine lei gli dice: “fatemi
firmare quel che volete”? Ma lei dice: "Non sono in grado..."
Martini: No, allora, è successo così, che loro...
PM: Loro, mi scusi, di chi sta parlando?
Martini: Non lo so, un magistrato... una signora, un mi ricordo chi era, e altra gente che ora non mi ricordo.
PM: Va be', un magistrato c'era, no? Donna.
Martini: Penso di sì, un so se era... alla fine di
tartassarmi con tante domande, alla fine...
PM: Ma che domande... tartassava...
Martini: Tutto. Praticamente, tutto quello che era successo,
che non era successo. Gli dissi quello che era successo, dice: “non è possibile”.
“Come non è possibile”, gli dissi, “vedrà che c'ero io un c'era lei”. Giusto?
PM: E certo.
Martini: Allora, mi ricordo mi fecero anche provare... “ci
faccia vedere come ha fatto”. Mi portarono addirittura a una macchina simile, una
127... ora, insomma... E io gli feci vedere come feci. Niente, dice: “un è
possibile, qui lei sta facendo falsa testimonianza”. Gli dissi: “ragazzi…”
PM: Lei si stufò...
Martini: Io mi stufai e gli dissi... mi ricordo batteva a
macchina, scriveva, un so chi, alla fine dissi: “sì, va bene tutto quello che
tu scrivi”. Io firmai e venni via. Vedrai, che tu voi fare.
PM: Perbacco, signor Martini, noi ne prendiamo atto ... lei se si assume che
dice le cose come stanno.
Martini: Quando ero lì all'interrogatorio, cioè, era un
continuo contestare, a diritto, a diritto... Cioè, mi portarono a bere fuori.
Insomma, fu un continuo… veramente, sennò, un è che... Poi...
PM: Ho capito. Ma lei non ebbe modo di dire: “guardate, ma insomma io non
ho...”. Lei dice: "non sono in grado, invece, di precisare l'esatta
posizione..."
Martini: Questo l'hanno scritto loro.
All’epoca Martini non aveva
ancora compiuto diciotto anni, ed è quindi ammirevole come avesse resistito per
ben tre ore e mezza di fronte a una squadra di inquirenti che voleva una
verità di loro comodo, addirittura minacciandolo con accuse di falsa
testimonianza. Il ragazzo era entrato dentro la 147 dietro Silvano Gargalini,
insieme avevano basculato in avanti i sedili anteriori e insieme avevano
spostato Mainardi passandolo faticosamente alle persone fuori, tra le quali il
loro collega Ciampi. Come poteva essersi confuso? E per quale motivo, quindici
anni dopo, l’ormai persona adulta avrebbe dovuto tornare a sostenere, sotto
giuramento e quindi senza esserne più che certa, una versione dei fatti
contrapposta a quella ufficiale?
La spontaneità e l’efficacia del
racconto di Marco Martini non avevano concesso alcuna replica all’altrimenti
agguerrito PM, sempre pronto a strapazzare i testimoni avversi. In questo caso
Canessa si era messo la coda tra le gambe, e aveva badato bene di non insistere
a soffiare sul fuoco poiché sarebbe stato peggio. E infatti l’ipocrita
sentenza ignora del tutto l’accaduto. Eppure, senza per questo affossare il
racconto di Giancarlo Lotti, si sarebbe anche potuta trovare una spiegazione
alla sorprendente testimonianza dei paramedici. Ne avrebbe tentata una la
sentenza d’appello, lo vedremo in un prossimo articolo, mentre in passato chi scrive ne ha
proposto un’altra. In ogni caso Lotti aveva dichiarato di essere andato via
lasciando Vanni e Pacciani sul posto, e quindi l’accusa avrebbe potuto
sostenere che all’ultima parte dei fatti, quando il corpo di
Paolo Mainardi poteva aver cambiato posto, non aveva assistito.
Infine qualche osservazione su
Silvano Gargalini, il primo dei paramedici a entrare in auto. Ecco che cosa ne
scrive la sentenza:
Quanto al Gargalini, egli è sicuramente in buona
fede, non avendo alcun motivo per mentire. Va tuttavia tenuto presente che,
nella concitazione del momento, la sua unica preoccupazione è stata quella di
soccorrere il povero Mainardi nel più breve tempo possibile, essendo peraltro
arrivato sul posto con la consapevolezza dell’urgenza del soccorso, dato che il
giovane era stato segnalato in fin di vita, con un labile respiro. Sicché, in
tale situazione gli è chiaramente sfuggita l’esatta posizione del Mainardi all’interno
dell’auto, essendo stato lo stesso Gargalini, in quel momento, tutto teso a ben
altro. La “concitazione” del momento ha quindi impedito al Gargalini di notare
e memorizzare l’esatta posizione del ragazzo, concitazione che invece è mancata
ai testi Marini, Bartalesi, Poggiarelli e Calamandrei, che si avvicinarono per
primi all’auto dopo il delitto, senza ansie e senza patemi d’animo.
Incredibile. In dibattimento i
quattro ragazzi intervenuti per primi avevano tutti dichiarato di essersi
spaventati a morte, e di aver visto bene soltanto Antonella Migliorini, e non
Paolo Mainardi, quindi sulla loro deposizione la sentenza afferma il falso.
Riguardo Gargalini, invece, va innanzitutto osservato che i giudici si
sentirono in dovere di fare un passo indietro rispetto ai sospetti di mendacio
espressi in aula dal Presidente, ma la loro spiegazione alternativa (la “concitazione del momento”)
fa piangere. Per arrivare al collo di Mainardi, seduto dietro, Gargalini aveva
prima abbassato in parte lo schienale del sedile di guida, poi aveva basculato
in avanti lo stesso sedile per sollevare il corpo mentre altri da fuori lo
tiravano dalle gambe: come avrebbe potuto effettuare quelle manovre con il
poveretto seduto davanti?
Nessun testimone. I giudici non se ne resero conto, o più
probabilmente fecero finta di nulla, ma la ricostruzione del delitto così come
risulta dalle dichiarazioni di Giancarlo Lotti era minata da un gravissimo
problema, talmente grave da minacciare di renderla del tutto insostenibile.
Secondo il racconto del presunto pentito, arrivando da sud, quindi con la 147
di Mainardi ferma sulla loro sinistra, Pacciani l’aveva superata parcheggiando
sul lato sinistro, mentre lui si era fermato prima, rimanendo su quello destro.
Per entrambi i mezzi le distanze dalla piazzola dovevano essere dell’ordine
della decina di metri (“io rimango indietro... mettiamo dieci metri... loro un
s'enno fermati proprio vicino alla macchina, sono andati un po' più avanti”).
In quel tratto non esisteva alcuno spiazzo dove poter parcheggiare, se non
quello occupato dall’auto delle vittime; ancora oggi è così, e comunque le foto
dell’epoca ci restituiscono l’immagine di un lungo rettilineo con banchine
erbose quasi inesistenti sulle quali un’auto non ci poteva stare, tanto meno
dalla parte di Lotti dove era stato ricavato un canaletto di scolo, il
medesimo in cui sarebbero finite le ruote posteriori della 147. Quindi, per
quanto fossero state posizionate di lato, le auto degli assassini dovevano
occupare una buona parte della stretta carreggiata, come del resto aveva
ammesso lo stesso Lotti riferendosi a quella di Pacciani (“La mette un pochino rasente, ma... un pochino
dentro nella strada bisogna che ci sia”), e in quelle condizioni,
qualsiasi automobilista in transito non avrebbe potuto non vederle. Ma nessuno
le aveva viste. E nessuno aveva visto Lotti, il quale, secondo il ruolo
assegnatogli dai giudici, avrebbe dovuto rimanere bene in evidenza lungo la
strada. Si potrebbe ipotizzare che nei minuti trascorsi dall'arrivo del gruppetto alla sua ripartenza non fossero passate macchine, dato il traffico a quell’ora non
continuo, oppure che gli occupanti avessero preferito non presentarsi alle
forze dell’ordine. Ma non è così, poiché esistono almeno cinque testimoni
transitati davanti alla scena del crimine pochi minuti prima e pochi minuti
dopo il delitto.
Attorno alle 23.30-23.35 era
passato un conoscente delle vittime, Francesco Carletti, il quale aveva visto
la Fiat 147 ancora ferma dentro la piazzola con la luce interna accesa, senza notare
alcun’altra auto parcheggiata nei pressi. Attorno alle 23.45 Alessandra
Bartalesi e Graziano Marini stavano percorrendo lentamente via Virginio Nuova
con provenienza da Baccaiano, quando, qualche centinaio di metri prima di
vedere la 147 già fuoristrada, avevano sentito degli strani schiocchi,
attribuiti poi a colpi di pistola. Più o meno nel medesimo momento, Stefano
Calamandrei e Marco Martini erano transitati davanti alla 147 proveniendo dalla
direzione opposta. Nessuno dei quattro aveva notato mezzi parcheggiati nelle
vicinanze della piazzola. Ora, se davvero gli schiocchi uditi da Bartalesi e
Marini erano dovuti ai colpi della pistola dell’assassino (e a cos’altro se no?
per quale coincidenza quei rumori proprio in quei momenti?), è chiaro che il
racconto di Lotti cade inesorabilmente: né lui né Pacciani avrebbero fatto in
tempo a eclissarsi in quei due o tre minuti.
Ma se anche gli schiocchi
avessero avuto un’altra origine, causa il passaggio di Carletti prima di quello
dei fidanzati e dei due amici, gli assassini, non ancora sul posto, avrebbero
potuto disporre di troppo poco tempo, appena dieci, quindici minuti per arrivo,
sparatoria e ripartenza. Per di più Lotti aveva sostenuto di essersene andato
via da solo, con i complici ancora attorno all’auto delle vittime, e quindi in
ulteriore ritardo.
È chiaro che lo scenario appena
descritto rende del tutto insostenibile il racconto di Giancarlo Lotti,
nonostante la descrizione piuttosto convincente della sparatoria. Peraltro sul
presunto pentito si potrebbe aggiungere un ulteriore e inquietante elemento di
perplessità, desunto dalle testimonianze dell’epoca su auto più o meno sospette
viste nella zona attorno all’ora del delitto. Senz’altro qualcuno doveva aver
incrociato quella del Mostro in fuga, gli inquirenti ne erano convinti, e per
questo avevano lanciato un appello sui giornali, dove poi era comparso un
elenco degli avvistamenti ritenuti più significativi. Vi si leggono i seguenti
modelli: Fiat 126 rossa, Fiat Ritmo chiara, Renault Simca Ranch, Fiat 127, Alfa
Romeo Giulia grigia, Fiat 127 bianca, Fiat 124 verde. Pacciani al tempo
possedeva una Fiat 500 bianca (la Ford Fiesta sarebbe stata acquistata nel
dicembre di quell’anno) e Lotti una Fiat 124 secondo lui “gialla”, e con questa
aveva detto di essere andato. Di Fiat 500 non ne erano state viste, mentre fa
pensare la Fiat 124 definita “verde”. Nella gamma colori del modello, un’auto
da famiglia, non erano presenti né un verde acceso né un giallo acceso, ma
sfumature molto meno nette, tipo “beige sabbia” o “acquamarina”, le quali,
tanto più nel buio, potevano essere facilmente confuse tra di
loro.
Su “La Città” del 24 giugno si legge: “
una 124 verde, con un solo conducente e con
una targa del tipo nuovo è stata vista salire verso Montespertoli tra le 23,45
e le 24 di sabato scorso”. La considerazione è inevitabile e
suggestiva: un’auto che dalla Volterrana, il posto più logico dove il Mostro
avrebbe potuto parcheggiare, si fosse diretta verso la casa di Giancarlo Lotti,
per il primo tratto avrebbe viaggiato in direzione di Montespertoli.
Considerazioni finali. Il lettore converrà che sul delitto di
Baccaiano non soltanto mancano validi riscontri allo scenario ritenuto valido
dalla sentenza, ma alla luce delle testimonianze raccolte questo si rivela del
tutto non credibile. Ciò nonostante, con ineffabile faccia tosta la
sentenza recita: “
i riscontri sono stati […] tutti chiari, precisi e concordanti, per cui
si può ora tranquillamente affermare che lo stesso Lotti ha detto la verità
anche per il presente duplice omicidio di Baccaiano”!
In verità, se d’indizi si può parlare, ancora una volta essi
riguardano soltanto Giancarlo Lotti, per la sua conoscenza della scena del
crimine e della dinamica omicidaria, soprattutto, e, se vogliamo, anche per
l’avvistamento in zona, tra appena sette segnalazioni, di un’auto assai simile alla sua in un orario
compatibile con la fuga dell’assassino. Tra l'altro una vecchia auto (produzione 1966-1974) “con
una targa del tipo nuovo”, che quindi aveva subito un passaggio di proprietà dopo il 1976, anno in cui le targhe cambiarono di stile. Come si sa Lotti acquistava soltanto esemplari molto usati. Infine, anche la vicinanza della sua dimora al luogo dell'omicidio, appena 5 km in linea d'aria, lascia pensare.