Ho già avuto modo di occuparmi
del delitto di Signa, soprattutto nell’articolo “La scatola di cartucce”, dove ho elencato le principali ipotesi che vengono formulate
per risolvere il mistero del passaggio della pistola. Secondo quella oggi forse
più accreditata, non ci sarebbe stato alcun passaggio di pistola, poiché anche
nel 1968 a Signa a uccidere sarebbe stato il Mostro e quindi Stefano Mele, i
suoi familiari e i suoi rivali non avrebbero avuto nulla a che fare con quel
delitto. Non la pensava in questo modo il giudice Mario Rotella, il quale,
nell’ambito della cosiddetta “pista sarda”, sull’uccisione di Barbara Locci e
Antonio Lo Bianco aveva indagato e ragionato a lungo, proponendosi non tanto di
scoprirne l’autore o gli autori, quanto di trovare il serial killer che con la
stessa pistola stava ancora uccidendo. Sappiamo bene che non lo trovò, e
purtroppo proprio quel suo bisogno di fermarlo, del resto comprensibile, gli
fece anche perdere il filo della vicenda di Signa, per la quale era invece arrivato
a dei risultati molto interessanti, direi definitivi. Nella nota sentenza del
1989, pur ammettendo la propria sconfitta, Rotella ribadì però che in ogni caso
il delitto di Signa era differente dagli altri.
Non è […] possibile ipotizzare la serie omicidiaria
eliminando le differenze, vuoi trascurando talune variabili o forzandole in una
spiegazione di comodo, vuoi creando costanti artificiali. È il modo più sicuro
per allontanarsi dalla verità, per quanto quella che s'intravvede possa
contrastare l'immagine maggiormente suggestiva che se ne sia fatta.
Per esempio, supponendo un solo esecutore in tutti i casi,
dal 1974 in poi, non è possibile ipotizzare che fosse solo anche nel precedente
del 1968. Può essere un'ipotesi di lavoro d'indagine di P.G., insomma di
ricerca generica (v. la ricerca dell'origine della pistola — cfr.i volumi
d'indagine agli atti), ma non può fondare alcun convincimento giurisdizionale in
corso d'istruttoria, senza travisare il tema specifico della prova.
Sono in sintesi insuperabili i dati obiettivi raccolti
subito dopo il fatto del 1968, per i quali esso ha caratteristiche tali da non
poter essere assimilato, all'evidenza, ai delitti successivi, se non per le costanti
ravvisate [di questa evidenza sono, per esempio, convinti i periti intorno al
tipo d'autore nominati dal p.m. nel 1984, che definiscono la serie 'maniacale'
circa i delitti dal 1974 in poi].
La sconfitta di Rotella dette modo
agli investigatori arrivati dopo (Perugini e i magistrati della Procura),
di ignorare il suo lavoro, ipotizzando il medesimo assassino anche a Signa, e
quindi l’innocenza di Stefano Mele. Ecco il pensiero di Perugini espresso nel
libro “Un uomo abbastanza normale”:
Anticipo subito che mi presi la libertà di considerare
l'omicidio del 1968 come commesso dalla medesima mano anche se per quel fatto
era già stato condannato Stefano Mele, marito della donna uccisa. E questo
perché, tutto sommato, non credo alle favole: ivi compresa quella di una
pistola che viene per accidente trovata (assieme alle relative munizioni) da uno
sconosciuto di passaggio. Che siccome ha, vedi caso, qualche piccola mania, se
ne serve per ammazzare altre sette coppiette di innamorati. Con l'aggiungere,
poi, che quella di un consapevole passaggio di mano dell'arma più che
un'ipotesi la considero una farneticazione, credo di aver chiaramente espresso
il mio punto di vista a questo riguardo.
Come si vede un colpo di spugna assoluto
sulla pista sarda, smaccatamente strumentale al fronteggiare l'indimostrabilità di
qualsiasi legame tra i sardi e Pietro Pacciani. Pur con intenti del tutto differenti,
altri si sono poi messi sulla stessa lunghezza d’onda, fino all’ultimo arrivato,
Valerio Scrivo, che nel suo interessante ebook Il Mostro di Firenze esiste ancora riporta un ambizioso tentativo
di individuare il luogo dove il serial killer fiorentino avrebbe fatto base,
includendo anche il delitto del 1968 nella serie. Peccato che anche lui chiuda
gli occhi di fronte al lungo elenco di pesanti indizi che impediscono di
eliminare Stefano Mele e i suoi complici, chiunque fossero stati, dalla
scena del crimine di Signa. In questa sede ne esaminerò soltanto un paio o tre.
È ben noto l’aforisma (del quale
non sono riuscito a rintracciare l’origine) “Il diavolo si nasconde nei
dettagli”. Ebbene, che Mele fosse coinvolto nel delitto viene dimostrato da un
dettaglio al quale di solito non si fa troppo caso, ma che invece a mio parere
risulta determinante: il tentativo da parte sua di costruirsi un ingenuo alibi.
Di per sé un falso alibi non è un indizio di colpevolezza troppo significativo,
poiché potrebbe essere stato originato dal tentativo di sopperire a un alibi mancante.
È insomma comprensibile che un innocente, non in grado di dimostrare di esserlo,
possa anche mentire per discolparsi. È molto più sospetta, invece, la
preventiva costruzione di un falso alibi, la quale dimostra che la
persona era a conoscenza in anticipo di un misfatto di cui poteva essere
accusata, e di conseguenza che vi aveva anche partecipato, altrimenti si
sarebbe procurata un alibi vero.
Il 21 agosto 1968 Stefano Mele si recò al cantiere edile dove lavorava come manovale. Attorno alle 11 accusò un malore (conati di vomito e bruciori di stomaco) in conseguenza del quale si fece accompagnare a casa dal collega Giuseppe Barranca. Al pomeriggio passò a trovarlo uno degli spasimanti della moglie, Carmelo Cutrona, che poi testimoniò di averlo visto a letto. Quella notte la moglie e Antonio Lo Bianco furono uccisi, e quando Natalino suonò alla porta di De Felice, la prima cosa che disse fu che il babbo era ammalato a letto. E continuò a ripeterlo in seguito, allo stesso De Felice, alla moglie, al vicino di casa Manetti e anche al carabiniere Giacomini. Infine la mattina dopo, quando i carabinieri lo andarono a prendere, fu Mele stesso a ribadirlo: della moglie e del figlio non sapeva nulla, dopo il loro mancato rientro non era andato a cercarli perché era a letto ammalato. Però di quel terribile male che lo aveva costretto a tornare a casa dal lavoro e gli aveva impedito di cercare la moglie e il figlio non c’era più traccia!
Non è possibile ignorare la valenza probatoria di un simile comportamento. Con la sua strategica malattia Stefano Mele aveva tentato di costruirsi un alibi preventivo, quindi sapeva di sicuro che quello era il giorno del delitto, ed è quasi altrettanto sicuro che al delitto anche lui aveva partecipato. Questa seconda considerazione deriva dal fatto che, dopo aver faticato tanto per precostituirsi un alibi, avrebbe potuto completarlo facendosi vedere nell'intorno dell'ora del delitto, ad esempio suonando a un vicino di casa per telefonare o comunque chiedere aiuto.
Chi oggi ritiene Stefano Mele innocente considera la combinazione di una malattia sopravvenuta proprio nel giorno in cui sarebbe stata uccisa sua moglie nient’altro che una coincidenza. Si tratta però di un tentativo di far tornare dei conti che non tornano, a mio parere intellettualmente disonesto. Escludendo il caso di infortunio, quante volte può essere accaduto a una persona media, nell’arco della propria vita lavorativa, di tornare a casa dal lavoro per un sopraggiunto malore? Ognuno di noi può chiederselo, e sono sicuro che le risposte potranno andare da zero alle dita di una sola mano. Normalmente chi sta male al lavoro non ci va, e se ci va viene via soltanto per un aggravamento sostanziale della sintomatologia, che normalmente lo porta a transitare da un pronto soccorso. I problemi di stomaco accampati da Mele non parevano certo gravi, sia perché non esiste alcuna testimonianza di colleghi di lavoro che lo avevano visto, ad esempio, in preda a convulsioni da vomito, sia perché alla mattina dopo era già guarito.
È possibile che il malore accusato da Stefano Mele fosse soltanto un modo per abbandonare il posto di lavoro a fronte di una semplice mancanza di voglia di lavorare? Questa infatti potrebbe essere una spiegazione alternativa, anch'essa in grado di giustificare una malattia inesistente. Ma la famiglia Mele versava in un grave stato d’indigenza, pertanto è poco credibile che l’uomo avrebbe rischiato di mettersi in cattiva luce in un cantiere dove aveva iniziato a lavorare appena da un paio di settimane. D’altra parte il suo principale lo avrebbe definito “buon lavoratore anche se utile per lavori non impegnativi”, quindi, per quanto gli era possibile, pareva darsi da fare. E comunque ricadremmo sempre nella sorprendente e sospetta coincidenza di un evento molto improbabile accaduto proprio nel giorno in cui gli sarebbe stata uccisa la moglie.
Anche l’insistenza con la quale Natalino disse del babbo ammalato a letto agli adulti che lo soccorsero è molto sospetta. Possibile che, dopo un’esperienza traumatica come quella di aver abbandonato la propria madre morta per intraprendere un viaggio di oltre due chilometri nel buio della notte, fin dalla primissima frase pronunciata davanti a De Felice affacciato alla finestra avesse detto del padre ammalato? E poi lo avesse ribadito più volte nel corso delle ore successive? La spiegazione più logica appare quella di un adulto, e chi se non lo stesso padre, che glielo aveva raccomandato fino a un momento prima di lasciarlo suonare.
Come si sa di lì a breve Stefano Mele avrebbe iniziato un balletto di confessioni e dichiarazioni contrastanti in mezzo alle quali gli investigatori di allora non seppero districarsi, e che in seguito furono interpretate come l'effetto di pressioni e paure. Ma non va dimenticato che esistono almeno un altro paio di indizi di colpevolezza di Stefano Mele precedenti la sua prima confessione. Si legge nel rapporto giudiziario dei carabinieri, il cosiddetto Matassino (21 settembre 1968):
Il 21 agosto 1968 Stefano Mele si recò al cantiere edile dove lavorava come manovale. Attorno alle 11 accusò un malore (conati di vomito e bruciori di stomaco) in conseguenza del quale si fece accompagnare a casa dal collega Giuseppe Barranca. Al pomeriggio passò a trovarlo uno degli spasimanti della moglie, Carmelo Cutrona, che poi testimoniò di averlo visto a letto. Quella notte la moglie e Antonio Lo Bianco furono uccisi, e quando Natalino suonò alla porta di De Felice, la prima cosa che disse fu che il babbo era ammalato a letto. E continuò a ripeterlo in seguito, allo stesso De Felice, alla moglie, al vicino di casa Manetti e anche al carabiniere Giacomini. Infine la mattina dopo, quando i carabinieri lo andarono a prendere, fu Mele stesso a ribadirlo: della moglie e del figlio non sapeva nulla, dopo il loro mancato rientro non era andato a cercarli perché era a letto ammalato. Però di quel terribile male che lo aveva costretto a tornare a casa dal lavoro e gli aveva impedito di cercare la moglie e il figlio non c’era più traccia!
Non è possibile ignorare la valenza probatoria di un simile comportamento. Con la sua strategica malattia Stefano Mele aveva tentato di costruirsi un alibi preventivo, quindi sapeva di sicuro che quello era il giorno del delitto, ed è quasi altrettanto sicuro che al delitto anche lui aveva partecipato. Questa seconda considerazione deriva dal fatto che, dopo aver faticato tanto per precostituirsi un alibi, avrebbe potuto completarlo facendosi vedere nell'intorno dell'ora del delitto, ad esempio suonando a un vicino di casa per telefonare o comunque chiedere aiuto.
Chi oggi ritiene Stefano Mele innocente considera la combinazione di una malattia sopravvenuta proprio nel giorno in cui sarebbe stata uccisa sua moglie nient’altro che una coincidenza. Si tratta però di un tentativo di far tornare dei conti che non tornano, a mio parere intellettualmente disonesto. Escludendo il caso di infortunio, quante volte può essere accaduto a una persona media, nell’arco della propria vita lavorativa, di tornare a casa dal lavoro per un sopraggiunto malore? Ognuno di noi può chiederselo, e sono sicuro che le risposte potranno andare da zero alle dita di una sola mano. Normalmente chi sta male al lavoro non ci va, e se ci va viene via soltanto per un aggravamento sostanziale della sintomatologia, che normalmente lo porta a transitare da un pronto soccorso. I problemi di stomaco accampati da Mele non parevano certo gravi, sia perché non esiste alcuna testimonianza di colleghi di lavoro che lo avevano visto, ad esempio, in preda a convulsioni da vomito, sia perché alla mattina dopo era già guarito.
È possibile che il malore accusato da Stefano Mele fosse soltanto un modo per abbandonare il posto di lavoro a fronte di una semplice mancanza di voglia di lavorare? Questa infatti potrebbe essere una spiegazione alternativa, anch'essa in grado di giustificare una malattia inesistente. Ma la famiglia Mele versava in un grave stato d’indigenza, pertanto è poco credibile che l’uomo avrebbe rischiato di mettersi in cattiva luce in un cantiere dove aveva iniziato a lavorare appena da un paio di settimane. D’altra parte il suo principale lo avrebbe definito “buon lavoratore anche se utile per lavori non impegnativi”, quindi, per quanto gli era possibile, pareva darsi da fare. E comunque ricadremmo sempre nella sorprendente e sospetta coincidenza di un evento molto improbabile accaduto proprio nel giorno in cui gli sarebbe stata uccisa la moglie.
Anche l’insistenza con la quale Natalino disse del babbo ammalato a letto agli adulti che lo soccorsero è molto sospetta. Possibile che, dopo un’esperienza traumatica come quella di aver abbandonato la propria madre morta per intraprendere un viaggio di oltre due chilometri nel buio della notte, fin dalla primissima frase pronunciata davanti a De Felice affacciato alla finestra avesse detto del padre ammalato? E poi lo avesse ribadito più volte nel corso delle ore successive? La spiegazione più logica appare quella di un adulto, e chi se non lo stesso padre, che glielo aveva raccomandato fino a un momento prima di lasciarlo suonare.
Come si sa di lì a breve Stefano Mele avrebbe iniziato un balletto di confessioni e dichiarazioni contrastanti in mezzo alle quali gli investigatori di allora non seppero districarsi, e che in seguito furono interpretate come l'effetto di pressioni e paure. Ma non va dimenticato che esistono almeno un altro paio di indizi di colpevolezza di Stefano Mele precedenti la sua prima confessione. Si legge nel rapporto giudiziario dei carabinieri, il cosiddetto Matassino (21 settembre 1968):
Si è del parere che addirittura il Mele si è
recato da solo sul posto, in bicicletta, e dopo aver lasciato il bambino,
ripercorso lo stesso tratto di strada fatto per l’andata, ha ripreso la
bicicletta ed è ritornato a casa.
A giustificare questa ipotesi stanno alcune
macchie di grasso, tipico grasso di catena di bicicletta, che il Mele presenta
su ambedue le mani al mattino del 22.8.68, quando viene accompagnato in
Caserma per le quali, a nostra richiesta, non sa dare alcuna giustificazione.
Le stesse infatti può essersele procurate nel rimettere in sesto la catena
della bicicletta evidentemente saltata dagli appositi ingranaggi. Si precisa
che il Mele non è idoneo a condurre motomezzi di sorta.
Dopo un mese di accuse,
confessioni e ritrattazioni, i Carabinieri si erano convinti che Stefano Mele
avesse fatto tutto da solo, e che avesse raggiunto il luogo del delitto in
bicicletta, visto che non possedeva un mezzo a motore né era capace di
guidarlo. Ecco quindi che i residui di grasso riscontrati sulle sue mani la
mattina dopo il delitto furono interpretati come effetti dell’azione di
aver rimesso in sede una catena di bicicletta saltata via. Ma si trattava di una convinzione
sbagliata, per tutta una serie di ragioni che per ora non è il caso di
esaminare. Piuttosto quelle tracce di grasso testimoniavano di un possibile
tentativo di eliminare i residui di sparo che Mele sapeva di avere sulle mani.
E in effetti la prova del guanto di paraffina, condotta peraltro a un po’ troppa
distanza di tempo dal momento del delitto (16 ore), evidenziò sulla sua mano destra
una “colorazione
azzurra in una zona di circa tre millimetri in corrispondenza della piega della
pelle tra il pollice e l’indice”, e quindi una leggera positività.
Quella prova oggi non si fa più,
poiché non risulta affidabile. Esistono infatti troppe sostanze (saponi,
solventi, fertilizzanti) in grado di reagire allo stesso modo della polvere da
sparo, e quindi risulta elevato il rischio d’incorrere in un falso positivo.
Però la colorazione azzurra sulla mano destra di Stefano Mele fu riscontrata proprio nella zona
lambita dai gas scaricati di una pistola semiautomatica mentre il carrello
otturatore arretra per espellere il bossolo.
Dunque Mele non soltanto
era stato presente al delitto, ma aveva anche sparato. Si tratta di un dato di
fatto sul quale non è possibile soprassedere, neppure di fronte alla difficoltà di spiegare il mistero del
passaggio della pistola. A meno di non distorcere la realtà. Anche perché esistono molti altri indizi, alcuni assai pesanti, che collocano l'uomo sulla scena del crimine.