Alla fine
dell’articolo La
moglie del farmacista eravamo giunti alla perquisizione del 7 luglio 1998
nelle proprietà di Francesco Calamandrei, uno dei possibili “mandanti”
individuati da Michele Giuttari. Anche se l’esito era stato nullo – e nulla
c’era contro di lui, se non le vecchie accuse della moglie malata di mente già
archiviate da anni – con il mastino che gli stava addosso il farmacista di San
Casciano non aveva di che stare troppo
tranquillo. Ma per il momento la fortuna parve guardare dalla sua parte.
Promozione e trasferimento. Nell’ambito
di un’indagine formalizzata – come era quella sul Mostro – da un punto di vista
operativo la squadra mobile dipende strettamente dalla procura, alla quale
deve chiedere i permessi per effettuare interrogatori e perquisizioni. Ma, in
quanto parte della Polizia di Stato, gerarchicamente e amministrativamente la
dipendenza è dal Ministero dell’Interno, organo di governo con sede a Roma. Si
legge ne Il Mostro:
Non faccio in tempo a riesaminare gli atti del primo
processo e gli elementi e le testimonianze raccolte successivamente, alla luce
dell'indicazione dei giudici di indagare sull'eventuale presenza di uno o più
mandanti dei delitti […] che ricevo un telegramma con la convocazione del
ministero dell'Interno, a Roma, “per conferire presso la Direzione Centrale del
Personale”. È la sera del 19 agosto 1998. [..]
Il giorno dopo, come richiesto, mi presento davanti al funzionario
competente che, dopo i normali convenevoli, mi prospetta la promozione a
vicequestore vicario e, nello stesso tempo, il cambio della sede di servizio.
Non c'è una motivazione particolare, una zona che richieda
con urgenza le competenze che ho sviluppato nei miei anni di servizio e
prioritaria rispetto all'indagine ancora incompiuta sul “mostro”.
Sono perplesso, e non lo nascondo.
Il libro
prosegue, facendoci partecipi della tempesta di pensieri che si agitava nella
mente dell’investigatore durante il viaggio di ritorno a Firenze.
Riparto da Roma ancora incredulo. I 250 chilometri che la
separano da Firenze servono a calmarmi e a riordinare le idee. Cerco di capire
la mossa dei miei superiori ma non ci riesco. Posso comprendere che ormai per
molti la storia del “mostro” sia diventata obsoleta, sorpassata, in fondo tutto
sommato risolta con l'arresto dei complici di Pacciani e la sua morte, più che
sufficienti ad appagare la curiosità dell'opinione pubblica forse ormai
distratta da altri eventi. Per molti, ma non per i vertici della polizia di
Stato che certo non possono ignorare le indicazioni dei giudici che hanno
condannato Vanni e Lotti.
No, qualcosa non torna.
Se c'è qualcuno che dovrebbe non poterne più di questa
storia, e che potrebbe uscirne all'apice del successo perché ha dimostrato
inequivocabilmente l'esistenza di complici e con essa in modo indiretto la
colpevolezza di Pacciani, e assicurato i complici alla giustizia, quello sono
proprio io. Potrei limitarmi a godere i frutti del mio successo invece di
tornare a sporcarmi le mani con un'inchiesta difficile e già contrastata.
Ho deciso lungo il percorso che costi quel che costi devo
rinunciare alla promozione e resistere a quel trasferimento: lo devo
all'integrità della mia professione, alle vittime del “mostro”, alla sete di
giustizia del padre di Pia Rontini, all'opinione pubblica che ha il diritto di
sapere la verità fino in fondo e non solo ciò che aggrada agli organi di stampa
o conviene a qualcuno per suoi imperscrutabili motivi.
Quindi Giuttari,
a suo dire con stoica determinazione e per amor di giustizia, per di più
rischiando la propria appena raggiunta reputazione di poliziotto di successo,
decise di opporsi al trasferimento (e al conseguente blocco delle indagini sui
mandanti, che senza di lui senz’altro si sarebbero fermate).
Ma torniamo un
momento sulla frase “lo devo […] all'opinione
pubblica che ha il diritto di sapere la verità fino in fondo e non solo ciò che
aggrada agli organi di stampa o conviene a qualcuno per suoi imperscrutabili
motivi”. Lasciamo perdere la stampa, il cui interesse era soltanto
quello di vendere, quindi sarebbe stata ben contenta di sfornare altri articoli
sulla vicenda del Mostro, e concentriamoci su quel qualcuno che avrebbe cercato
di bloccare le indagini di Giuttari per incomprensibili ragioni. Il libro non
fornisce elementi né per assegnare un’identità a quel qualcuno, né per almeno
ipotizzare la natura delle sue ragioni. Questa mancanza di chiarezza più alcune
sibilline risposte dell’ex superpoliziotto rilasciate nel corso di varie
interviste hanno favorito la nascita di convinzioni poco ragionevoli. Trova
infatti ancor oggi molto credito – si leggano a tal proposito le fantasiose teorie
di cui si discute nel forum “I Mostri di Firenze” – l’ipotesi che forze oscure
avessero tramato nell’ombra per proteggere personaggi potenti a rischio di
essere smascherati. Chi scrive non lo crede affatto, e quindi, nello spirito dichiarato
per questo blog – sgomberare il campo dalle mistificazioni che gravano sulla
vicenda – verrà esaminata la documentazione disponibile alla ricerca dei veri
motivi che indussero il Ministero dell’Interno a decretare il trasferimento di
Giuttari.
Quattro si potevano salvare. Il 23
giugno 1997, a processo ai compagni di merende appena iniziato, Giuttari prese
posto sul banco dei testimoni (vedi),
per la prima di quattro lunghissime deposizioni durante le quali fornì un resoconto
completo delle proprie indagini, dedicando la partenza ai “testimoni
dimenticati”, ben 20 persone le cui testimonianze dell’epoca non sarebbero state
prese in esame per come avrebbero meritato. Bisogna dire che risultò abbastanza
evidente a tutti un certo tono critico verso chi aveva investigato prima di
lui: “Testimonianze per me ritenute utili […] che
mi accorsi purtroppo non erano state portate alla conoscenza della Corte di
Assise che aveva giudicato Pacciani”; “[…]
può dare l'idea di quanto importanti dovevano essere quelle circostanze e
quanto importante sarebbe stato portarle alla valutazione del Giudice della
Corte di Assise”; “Sempre per il delitto
dell'84 […] già all'epoca c'erano altre testimonianze importanti che non erano
state valutate”.
È probabile che
di per sé le velate critiche non avrebbero poi suscitato così grande interesse,
se non ci si fossero messi di mezzo i giornalisti, che naturalmente
approfittarono dell’occasione per interrogare Giuttari – che da par suo di certo
non si tirò indietro – sul ghiotto argomento. Leggiamo, tra i tanti, il
resoconto di Giulia Baldi su “L’Unità” del giorno dopo (vedi),
dal titolo eloquente: “Il mostro di Firenze poteva
essere fermato”.
Se fosse vero gli ultimi quattro ragazzi uccisi dal «mostro»
di Firenze potrebbero essere ancora vivi. Se fosse vero Pia Rontini, Claudio Stefanacci,
Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili potevano essere salvati: se le
indagini non si fossero incaponite sul serial killer isolato, forse, la feroce
lista dei delitti del maniaco si sarebbe fermata al 1983. Ne sembra convinto il
capo della mobile di Firenze, Michele Giuttari […]
Le prime quattro ore di deposizione di Giuttari sono un vero
e proprio atto d’accusa a stile e strategie delle indagini precedenti: sono
decine le segnalazioni di una macchina rossa e di tipo sportivo (Lotti a metà degli
anni ‘80 aveva una 128 coupé rossa) nei luoghi degli ultimi tre delitti del «mostro»,
ma nessuno se ne è curato. La prima è del 13 settembre 1983, quattro giorni
dopo il delitto di Giogoli, dove morirono Uwe Rusch e Horst Meyer. Giovanni
Nenci, un operaio argentiere che abitava nella zona, si presenta spontaneamente
ai carabinieri e dice di aver visto nella piazzola non solo il camper dei due
tedeschi ma anche una macchina sportiva con la parte posteriore tronca e di
colore rosso. […] Ma nessuno […] approfondì la segnalazione. […]
La testimonianza più sconvolgente, dice Giuttari alla corte,
è quella di Maria Grazia Frigo a proposito del delitto di Vicchio, nell’84. La
signora avrebbe ben visto un uomo su una macchina che procedeva a grande velocità
intorno a mezzanotte, a due passi dal luogo dove i due ragazzi erano stati uccisi. Lo
disse ai carabinieri, ma della sua deposizione non c’è traccia.
L’investigatore, formalmente, se la prende con i
criminologi: «Posso soltanto dire che queste testimonianze citate sono tutte
testimonianze importanti […] Il fatto che non siano state portate alla
valutazione – io non ho fatto la prima indagine – è perché probabilmente c’è
stato un condizionamento in quell’inchiesta dei risultati dei periti
criminologi, che sostenevano con fermezza che l’autore di quei delitti era un
serial killer solitario. E quindi tutte le circostanze che portavano alla
presenza di più macchine e quindi di più persone non interessavano a quella
ricostruzione sposata dagli investigatori dell’epoca che però è stata smentita
dai fatti. I fatti sono questi qua. Sono dati oggettivi che non si potevano non
registrare: sono persone serie, umiliate perché non credute, convinte di fare il
loro dovere».
Significativo anche
il titolo dell’articolo uscito su “Repubblica” in cronaca di Firenze: “Mostro, il superpoliziotto accusa: Indagini sbagliate
qualcuno poteva salvarsi” (qui,
qui
e qui),
mentre “La Nazione” attribuì allo stesso Giuttari la seguente frase: “Quattro vittime del mostro potevano essere salvate”,
scritta a grandi caratteri sopra una foto che ritraeva l’investigatore
attorniato dai microfoni dei giornalisti.
Letti i
giornali, Carlo Papini, segretario del S.A.P. (Sindacato Autonomo di Polizia), fece
affiggere in tutte le bacheche sindacali degli uffici dipendenti dalla questura
di Firenze un durissimo comunicato (vedi):
Solo due righe perché ci sentiamo in dovere, come
rappresentanti dei Poliziotti, di chiedere scusa alle persone presenti in aula
che hanno ascoltato le dichiarazioni del Dirigente la Squadra Mobile
Fiorentina, Dott. Michele GIUTTARI, e riassunte dagli organi d'informazione
nella frase "QUATTRO VITTIME DEL MOSTRO POTEVANO ESSERE SALVATE".
La cosa ci sembra molto grave, sia per la deontologia
professionale che avrebbe dovuto portare il Dott. GIUTTARI solo all'escussione
dei fatti che lo hanno indirizzato al coinvolgimento nell'inchiesta di altre
persone e non alle valutazioni personali di errori commessi dagli investigatori
precedenti.
Le dichiarazioni rese dal Dott. GIUTTARI sarebbero dovute
rimanere nella pertinenza del processo che si stava svolgendo, tenendo conto
che ogni parola detta nel dibattimento, anche se emessa senza pensarci troppo (o pensandoci molto) screditando
l'operato di altri Poliziotti, viene ascoltata oltre che dai giornalisti (utili sempre per far carriera ed emarginati
quando non sono in sintonia con la Dirigenza N.d.R.) anche dai familiari
delle vittime che dopo la sofferenza straziante trascorsa in questi anni per la
perdita di una persona cara, hanno dovuto sentirsi dire dalla stessa Polizia
che si sarebbero potuti salvare e potevano essere sempre lì insieme a loro.
Chiediamo di nuovo scusa ai familiari che sono passati in
secondo ordine lasciando il posto a lotte interne per un posto Dirigenziale più
ambito, a cui la risoluzione del caso "mostro di Firenze" porterebbe.
Il Dott. GIUTTARI, che giorni fa dichiarava sui giornali
"che qualcuno vuol gettare fango sulla Polizia di Stato", non si è
accorto che con le sue dichiarazioni si è trasformato proprio in uno di loro,
con la differenza che oggi si sta parlando senza pensare al dolore delle
famiglie coinvolte.
In ultimo vogliamo porgere gli auguri per il nuovo incarico
del Dott. GIUTTARI e cioè di nuovo Dirigente il Centro Criminalpol Toscana di
Firenze.
Ancora scusa a tutti.
Immediata partì
la denuncia di Giuttari per diffamazione contro Papini. Vedremo tra non molto come andò a
finire, intanto è il caso di spendere qualche parola sulla possibilità che, se
si fosse indagato sulla Fiat 128 rossa vista a Giogoli da Giovanni Nenci, si
sarebbero potuti evitare i due delitti successivi. Va però premesso che
difficilmente Giuttari poté esprimere un giudizio così
diretto di fronte ai giornalisti, i quali comunque quello intesero (in effetti pare che quel 23 giugno
la sua risposta a una domanda in tal senso fosse stata questa: “Io questo non l’ho detto, certamente i miei colleghi avranno
lavorato bene, fatto di tutto, io ho riferito i fatti, le conclusioni non le
posso fare io…”). Poi: l’auto poteva anche essere stata quella
di Giancarlo Lotti – anzi, chi scrive lo ritiene probabile –, però il presupporlo
andava contro la credibilità dello stesso Lotti, che lo aveva sempre negato,
affermando invece di essere stato condotto sulla piazzola quella stessa sera da
Vanni e Pacciani, senza alcun preavviso.
La teste Frigo. Nella deposizione del
23 giugno 1997, Giuttari aveva insistito moltissimo su uno dei “testimoni
dimenticati”, l’imprenditrice Maria Grazia Frigo. Rincasando dopo essere stata
ospite di amici, la donna avrebbe visto due auto – una bianca di modello Ford guidata
da Pacciani, una a coda tronca di colore rosso sbiadito guidata da una persona
di fisionomia simile a quella di Lotti – su una sterrata non lontana dalla
piazzola di Vicchio la notte del delitto. Senza riserva le lodi alla sua
affidabilità:
La signora è molto precisa ha, una memoria devo dire,
formidabile ed è stata molto, molto precisa. […]
Vedremo che è una testimone che mi ha impressionato
veramente in una maniera eccezionale, positivamente e che devo dire, quando
l'ho sentito, era mortificata perché non era stata quasi creduta nel '92,
quando si era presentata spontaneamente”.
Abbiamo già
visto (qui)
che in realtà la testimone era pronta a tutto pur di rendersi utile, anche a
modificare totalmente i propri ricordi. Ecco una breve sintesi delle sue
dichiarazioni.
Dopo aver
taciuto per otto anni sullo strano incontro, il 2 dicembre 1992 la Frigo telefonò
a Canessa (vedi)
dichiarando di aver visto Pacciani alla guida di un’auto rossa. Sentita due
giorni dopo dalla SAM (vedi),
quell’auto divenne genericamente scura. Il relativo verbale fu trasmesso a
Canessa (vedi),
che decise di non convocarla al processo, suscitando il suo vivo disappunto.
Segnalata al PM – assieme ad altri testimoni, erano i tempi della ricerca di
un’auto rossa – nella nota SAM del 12 ottobre 1995 (vedi),
il 26 marzo 1996 venne interrogata da Giuttari (vedi),
e il successivo 29 condotta sui luoghi (vedi),
con il sorprendente risultato che le auto divennero due: una bianca guidata da
Pacciani, una rossa guidata da Lotti. Con nota del 30 marzo (vedi)
Giuttari segnalò la testimonianza alla procura, valorizzandola moltissimo.
Infine il 15 aprile la donna venne sentita da Vigna e Canessa (vedi).
La signora Frigo
rilasciò la propria deposizione il 7 luglio 1997 (vedi),
suscitando molte perplessità. Di fronte alle contestazioni di Pepi e Bagattini,
difensori di Vanni e Faggi, cercò di cavarsela come meglio poteva ma senza
convincere nessuno. Bagattini la incalzò in particolare sulle differenze di
colore dell’unica auto della quale aveva detto nella telefonata del 1992 a
Canessa (rossa), e nell’audizione di due giorni dopo davanti alla SAM (scura).
Dopo aver cercato inutilmente di uscire dall'angolo affermando di essersi confusa con la
seconda auto – della quale però avrebbe detto soltanto quattro anni dopo – la
donna lanciò pesanti accuse alla serietà di chi l’aveva ascoltata:
Frigo: Durante questo interrogatorio ho guardato tutte le
fotografie. Senza esitazione ho trovato quella che corrispondeva a quello che a
me interessava per il mio ricordo della persona che avevo visto nella macchina
bianca. Era tutto un via vai di entro dall'ufficio, esco dall'ufficio, tipo
andare a consultarsi con qualcuno, una cosa e un'altra. Poi, a un certo punto,
io ho accusato una certa fretta di stilare il verbale, perché, insomma,
bisognava chiudere, diciamo, quella... come si può chiamare? Verbale. […] E una
di queste persone ha detto: «Non possiamo scrivere del colore bianco, perché la
signora ha detto al PM. che era rossa, e quindi diciamo genericamente che è
scura».
Bagattini: «Genericamente che è scura», scusi?
Frigo: Cioè, per loro non era particolarmente importante che si
segnasse...
Bagattini: E questo, scusi signora, nonostante che lei avesse fatto
presente: «Ma guardate che io l'ho vista, bianca»?
Frigo: Ascolti, può darsi che anche io, dopo due ore fossi stata
un po' giù di tono. Per me la cosa importante, quella che io ritenevo
importante, era che avevo riconosciuto la persona che avevo visto quella sera.
[...]
Bagattini: Comunque, ecco, questa frase «Non voglio esprimermi con
assoluta certezza, anche se ritengo che propendesse sullo scuro»...
Frigo: Come le ripeto, è stata una decisione delle persone che
stavano in ufficio. Mi dice: «Guarda, al PM la signora ha detto che era rossa, non
possiamo scrivere che era bianca. Allora mettiamo genericamente che era scura».
Avevano tutti una gran premura di andare a mangiare, scusi
se glielo dico.
Poco dopo che la
donna fu congedata, intervenne Pepi:
All'esito delle dichiarazioni oggi rese dalla Frigo Maria
Grazia, chiedo che la Corte voglia sentire immediatamente – ovviamente nei tempi
necessari, quindi magari domani – i verbalizzanti dell'interrogatorio 04/12/92,
che sarebbero l'ispettore Lamperi, Frillici, Di Genova e Scirocchi. Mi pare che
tre di questi sono già indicati anche dal Pubblico Ministero nella lista.
Io chiedo l'audizione soprattutto a chiarimento di queste
affermazioni fatte dalla Frigo, perché, a avviso di questo difensore, se
emergesse la conferma di quanto la signora Frigo oggi ha dichiarato, vi
potrebbero essere anche delle responsabilità di ordine penale di cui la difesa,
in questo momento, si riserva eventualmente di esperire le vie necessarie.
Naturalmente i
giornalisti presenti non si lasciarono sfuggire l’occasione, e negli articoli
del giorno dopo soffiarono sul fuoco delle polemiche, come in questo di
“Repubblica” (vedi),
intitolato: “«Quella notte vidi l’auto di Pacciani»
Ed esplode la polemica con la SAM”, e questo della “Nazione” (vedi),
intitolato: “In udienza nuove ombre sulla squadra
antimostro”. È bene precisare che nei primi mesi del proprio mandato
Giuttari aveva sciolto quanto era rimasto della SAM, due componenti della
quale, Riccardo Lamperi e Alessandro Venturini, si erano poi fatti trasferire
alla Criminalpol. Lamperi rimase male di fronte a insinuazioni – che si
aggiungevano ad altre precedenti – ritenute lesive della propria onorabilità e
del proprio lavoro, e volentieri sarebbe andato in aula, come richiesto da
Pepi, a fornire le spiegazioni richieste, ma capì presto che ciò non sarebbe mai
avvenuto – l’unico dei quattro verbalizzanti chiamato a deporre sarebbe stato Pietro
Frillici, il 27 dicembre 1997 (vedi),
ma non sulla questione sollevata dalla Frigo. Quindi, assieme all’ex collega
Alessandro Venturini, che quasi sempre lo aveva affiancato nel lavoro alla SAM,
il 28 luglio 1997 prese carta e penna e indirizzò la propria protesta al
vicecapo della Polizia (vedi),
in quel momento il ben noto Gianni De Gennaro. Ecco qualche frammento dello
scritto:
Duole constatare come da mesi ed in particolare in questi
ultimi tempi, in coincidenza dell’avvio del processo di primo grado a carico di
VANNI Mario, LOTTI Giancarlo ed altri, siano frequenti gli articoli di giornale
pubblicati anche in cronaca nazionale, in cui sono raccolte dichiarazioni
secondo cui gli investigatori della SAM […] “hanno dimenticato di valutare
nella giusta luce testimonianze ed hanno omesso di compiere le doverose
indagini”.
Tali affermazioni, peraltro presenti anche in sede
dibattimentale, sono gratuite e false ed inoltre ledono l’onorabilità e la
professionalità degli scriventi che – si
ribadisce – non hanno nulla, ma proprio nulla da rimproverarsi.
Tutti gli spunti investigativi di cui si fa ora un gran
parlare sono stati da anni rappresentati nella loro interezza e consistenza in
atti formali diretti alla A.G. che – è
bene ricordarlo – ha sempre coordinato le indagini.[…]
Alla luce di queste considerazioni e del fatto che
l’avvocato Giangualberto PEPI, difensore di VANNI Mario, ha richiesto in
dibattimento l’audizione degli uomini della SAM poiché a loro carico potrebbero
concretizzarsi anche delle responsabilità penali per aver omesso di portare in
giudizio di primo grado contro Pietro PACCIANI delle testimonianze importanti,
si fa rilevare come la continua opera di delegittimazione e di svilimento del
lavoro da noi svolto unitamente ad altri abbia prodotto i suoi frutti nefasti
che hanno instillato nella mente di coloro che seguono il processo l’erronea
convinzione che le indagini siano state affidate a persone di scarsa capacità,
poco professionali e molto superficiali.
Questa situazione ha determinato nei confronti degli
scriventi danni immeritati e gravissimi al loro prestigio ed alla loro
onorabilità, ingenerando l’idea sbagliata che tutta la verità sia dovuta “alle
attente riletture” che altro non sono che l’utilizzo sistematico dell’ottimo
lavoro investigativo già svolto.
Si può concludere con la riflessione secondo la quale la
lista dei testi non la compila la polizia giudiziaria, bensì l’ufficio del P.M.
il quale, sicuramente ben informato su tutte le testimonianze raccolte – fatte
passare ora per inedite o trascurate – decise, molto opportunamente, di portare
in primo grado quelle che riteneva più utili per resistere agli attacchi del
collegio di difesa in sede di controesame.
Quanto sopra si riferisce, con la speranza che la S.V. vorrà
accertare la verità dei fatti sulla base di dati oggettivi.
Il 3 settembre
successivo Lamperi e Venturini vennero convocati a Roma nella sede dello SCO
(Servizio Centrale Operativo), ufficio della Polizia di Stato che coordina il
lavoro di tutte le squadre mobili delle questure italiane. Lì vennero accolti
da un funzionario di alto rango, il questore Vincenzo Caso, che li intrattenne in
un colloquio insolitamente lungo, dimostrando di comprendere le loro ragioni e
dichiarandosi preoccupato per il clima poco sereno creatosi a Firenze tra gli
uomini della polizia. Si tenga presente che in quel momento era già in essere
la denuncia di Giuttari contro Papini, quindi, al di là dei torti e delle
ragioni degli uni e degli altri, si può ben comprendere l’irritazione dei vertici
della Polizia di Stato, che senz’altro va ritenuta una significativa componente
nella loro futura decisione di trasferire Giuttari.
Prima di
concludere il presente paragrafo, è il caso di riportare il giudizio sulla
testimonianza Frigo contenuto in sentenza. L’estensore, dopo aver elencato
tutta una serie di ragioni che squalificavano la credibilità della teste,
scrisse:
Il che sta chiaramente a significare o che la Frigo si è
inventata tutto (per la sua mania di protagonismo o per apparire comunque nella
vicenda di Vicchio) o che quell’auto non era quella condotta dal Pacciani, come
è dato cogliere anche dalle dichiarazioni del Lotti, che ha parlato di un
diverso percorso fatto nel viaggio di ritorno dalla piazzola, a delitto avvenuto.
[…]
Ritiene quindi la Corte di non riconoscere credibilità alla
suddetta teste, a prescindere da ogni considerazione sulla certezza
dell’asserito riconoscimento del Pacciani e sull’asserita “memoria fotografica”
della stessa teste, di cui ha in particolare parlato il marito nella medesima
udienza del 7.7.97.
Compagni di sangue. Il processo a Vanni
e Lotti si concluse il 24 marzo 1998; appena un mese dopo uscirono le prime
notizie su un libro in preparazione. Da “Repubblica” del 25 aprile (vedi):
L'idea di scrivere un libro sul mostro di Firenze
l'accarezzava da tempo. Non un romanzo ispirato a uno dei casi di cronaca più
inquietanti degli ultimi trent'anni, ma un true crime, ovvero qualcosa di più
di un giallo: una narrazione in forma di saggio dove si raccontano fattacci
accaduti davvero, appoggiandosi a documenti e prove, rinunciando alla fiction. Quelle
di Carlo Lucarelli, il miglior giovane giallista italiano e da qualche mese
conduttore televisivo di successo (Mistero in blu, viaggio nei casi irrisolti
delle cronaca nera italiana) sono prove eccellenti: per scrivere il suo libro
sui delitti delle coppiette che per anni hanno seminato l'incubo nella campagna
toscana (probabile titolo Compagni di sangue, lo pubblicherà a metà maggio la
casa editrice Le Lettere), ha utilizzato i documenti fornitigli da Michele
Giuttari, capo della squadra mobile di Firenze: interrogatori, verbali dei
processi e delle deposizioni in folkloristico vernacolo toscano, che Lucarelli
ha inserito senza cambiare una virgola, mantenendo integro il tono grottesco.
Il libro uscirà a doppia firma “e sarà strutturato in tre parti – racconta
Lucarelli – una iniziale e una finale, scritta in terza persona, dove è il
giallista a parlare, a raccontare i fatti dall'esterno; in mezzo, una corposa
porzione in prima persona dove la parola passa a chi ha condotto le indagini.
Il 18 maggio Giuttari
e Lucarelli presentarono il libro in una conferenza stampa alla quale era
presente anche Canessa. Come prevedibile, l’attenzione maggiore non fu per le
vicende, oramai chiuse, di Vanni, Lotti e Pacciani, ma per gli sviluppi delle
indagini verso i mandanti, una pista che il libro abbondantemente adombrava.
L’argomento fu oggetto di dibattito al Maurizio Costanzo Show del giorno dopo,
dove erano presenti Lucarelli, Nino Filastò, Francesco Bruno, Renzo Rontini,
Gianpaolo Curandai e Ugo Fornari. Anche Giuttari avrebbe dovuto essere della
partita, ma i suoi superiori lo bloccarono: “Sarebbe
stata l’occasione di far sentire per una volta anche la voce di chi ha fatto
l’indagine. Ma sono un funzionario di polizia e quindi obbedisco ai miei
superiori” (“L’Unità”, 19 maggio 1998, vedi).
Purtroppo la
registrazione del programma non è nelle disponibilità di chi scrive; peccato,
poiché sarebbe stato interessante ascoltare le bibliche sciocchezze pronunciate
in quella che dovette essere stata una gara, senza esclusione di colpi, a chi la
sparava più grossa. Accontentiamoci di questo resoconto apparso sulle pagine
fiorentine di “Repubblica” del 20 maggio (vedi):
Un mandante ricco, colto e potente che usa i rozzi compagni
di merende come massacratori delle coppie e poi interviene sulla scena del
delitto, forse per eseguire personalmente le mutilazioni. È lo scenario che
emerge dalle ultime indagini sui delitti del mostro.
«Credevo di avere delle idee, adesso non le ho più. Sono
confuso», sintetizza Maurizio Costanzo al termine del dibattito andato in onda ieri
su Canale 5 su Compagni di sangue, il libro scritto dal giallista Carlo
Lucarelli e dal capo della squadra mobile Michele Giuttari. Lanciando l'ipotesi
di un mandante ricco, raffinato, medico, anzi ginecologo, un Doctor Jeckill in
micidiale connubio con un Mister Hyde rappresentato da Pacciani e C., e
gettando qualche fascio di luce sull'inchiesta ter sui delitti, il libro ha già
scatenato notevoli polemiche. La trasmissione di Costanzo, a cui Giuttari non
ha potuto partecipare, probabilmente le dilaterà.
Confrontandosi con Carlo Lucarelli, con Renzo Rontini, con
il criminologo Francesco Bruno (che ha fatto sensazione sostenendo che a suo
avviso il mostro è probabilmente l'esponente di una nobile famiglia toscana), e
con gli avvocati Nino Filastò, difensore di Vanni, e con l'avvocato Giampaolo
Curandai di parte civile, lo psichiatra forense Ugo Fornari ha rivelato
dettagli inediti sulla nuova inchiesta. «Sto lavorando sul secondo livello dei
delitti, per incarico della procura di Firenze», ha spiegato il professore, che
da anni fa con il collega Lagazzi ha eseguito una consulenza psichiatrica su
Giancarlo Lotti, il «compagno pentito». «Alcune cose non posso dirle. Il
materiale trovato nella villa dove viveva il pittore svizzero è molto
inquietante». Ci sono, in quel materiale, foto di cadaveri di donna mutilati.
«Avete visto le foto delle vittime del mostro?», chiede il
professor Fornari: «Una storia è stata scritta su quei cadaveri». Una storia
che bisogna decifrare, a suo avviso, con il metodo della falsificazione, e cioè
mettendo continuamente in dubbio ogni ipotesi, «mentre qui ciascuno giura sulla
sua verità». «Il materiale esaminato - sostiene il professor Fornari - mi fa
pensare che il serial killer usi altre persone per prepararsi il campo. Poi
interviene. Potrebbe essere stato lui a eseguire i tagli. Potrebbe essere un
necrofilo in preda a un delirio mistico-religioso. E certamente è stato lui ad
aprire e rovistare nelle borse delle vittime. La mia ipotesi è che si tratti di
una persona non necessariamente toscana, certamente molto ben protetta, forse
chiusa in qualche istituto». Parole che aprono orizzonti ancora tutti da
sondare. «Questa - avverte Lucarelli - è una vicenda talmente fondamentale
nella storia criminale italiana che occorre sviscerarla fino in fondo».
Intanto in
procura si erano confrontati Fleury e Canessa, con il primo a far le veci di
procuratore capo verso il collega più giovane. Nella medesima pagina di cui
sopra si poteva leggere:
Prima una riunione a quattr’occhi, l’aggiunto Francesco
Fleury e il sostituto Paolo Canessa. Dopo la conferenza per presentare il
libro-bomba «Compagni di sangue» scritto dal capo della quadra mobile Michele
Giuttari, non si erano ancora confrontati. Poi con molta calma ma altrettanta
franchezza, arriva il commento secco di Fleury.
«Stiamo valutando se in quelle pagine c'è stata una
violazione del segreto istruttorio. Di sicuro non è stato opportuno rivelare
certi particolari ed è altrettanto sicuro che gli argomenti di questo libro ce
li troveremo pari pari dei motivi di appello della difesa alla sentenza ai
compagni di merende».
Insomma un libro che poteva essere evitato, per contenuti e
tempi di uscita. E che potrebbe costare qualche fastidio anche a chi lo ha
scritto […]
Fleury dice che «la procura sta valutando e che non è solita
anticipare le proprie iniziative a mezzo stampa […]. Sui mandanti dei duplici
delitti del mostro c'è un'indagine in corso su cui questo ufficio sta lavorando
da tempo e di cui non abbiamo intenzione di parlare. E questo sia chiaro non
vuol dire confermare quello che si ipotizza nel libro». […]
Paolo Canessa non ha voluto commentare il contenuto del
libro. Lunedì mattina era presente alla conferenza stampa di presentazione. Ma
appena le domande dei giornalisti si sono accentrate sui particolari
dell’inchiesta ter, quella sui mandanti dei delitti, Canessa ha immediatamente
lasciato l’aula dell’hotel Baglioni.
A Giuttari la
reprimenda di Fleury non fece né caldo né freddo, come si deduce da
un’intervista da lui rilasciata allo stesso quotidiano, e pubblicata il 21 (vedi).
Eccone qualche stralcio:
Pentito di
avere scritto il libro?
No, assolutamente, ci ho pensato molto prima di dire sì alla
casa editrice Le Lettere. Ma ora rifarei esattamente quello che ho fatto.
Perché i bisogni che mi hanno spinto sono ancora forti dentro di me.
Quali bisogni?
Volevo far riflettere sull’inchiesta bis. Alcuni elementi
hanno reso la vicenda unica e irripetibile. La durata dei delitti, il dolore
infinito di tanti familiari, l’incredibile mondo di perversione affiorato
giorno dopo giorno. […]
Resta il fatto
che molti non hanno gradito l’idea del libro. A cominciare dai magistrati
fiorentini. Addirittura in procura sembrano decisi a non affidarle più le
indagini. È vero?
Non mi risulta. La delega ce l’ho io, e continuerò il mio
lavoro come sempre. […]
E il
particolare del blocco da disegno sequestrato al pittore svizzero simile a
quello sequestrato a Pacciani, che secondo l’accusa era di uno dei tedeschi
uccisi nell’83?
È un’analogia inquietante, ma da valutare. Al momento
sappiamo solo che Pacciani e il pittore svizzero hanno frequentato la stessa
villa di San Casciano.
Probabilmente
proprio perché è un episodio da valutare la procura preferiva tenerlo segreto.
Ma è significativo, come gli altri contenuti del libro. E io
volevo che la gente conoscesse per la prima volta tutta la storia
dell’inchiesta. Non da un altro, ma da chi l’ha vissuta dall’interno. Il
racconto dell’investigatore insomma, qualcosa di diverso dai tanti libri
scritti finora sul mostro con presupposti e obiettivi differenti dal mio.
Quasi uno
sfogo?
No, nessuno sfogo, ma un messaggio.
Lanciato a chi?
Al mandante dei delitti della calibro 22. A chi finora è
rimasto nell’ombra e continua a nascondersi dietro le quinte. Un modo per
avvisarlo e dirgli: so che ci sei e lavorerò per scoprirti.
Il lettore
capisce anche da sé quanto poco plausibili suonassero le parole di Giuttari, la
cui discutibile iniziativa poteva essere nata soltanto da ambizioni personali – legittime certo, ma anche poco opportune, considerata la sua posizione –, come
dimostrava la presenza di un coautore giallista di grande successo e come la
storia futura avrebbe confermato. Poi, in un articolo del settimanale
“Panorama” uscito in quei giorni (numero 1676 datato 28 maggio 1998, vedi), Giuttari rincarò
la dose, affermando: “Mi hanno tappato la bocca.
Sono un poliziotto e obbedisco, ma con molta amarezza: un funzionario avrebbe
anche il diritto e il dovere di contribuire ad una corretta informazione su
vicende come i 16 omicidi di Firenze”. Per di più il giornalista
firmatario dell’articolo – Maurizio Bono – si lanciava in considerazioni molto
irriguardose verso funzionari di grande prestigio:
Un poliziotto descrive in un libro verità l’indagine su
Pacciani & C. e gli errori dei colleghi. Ma viene zittito. Ecco perché.
[…] la ragione va cercata forse nelle pagine in cui narra
come si è imbattuto negli errori di colleghi e giudici che l’hanno preceduto:
‘indizi trascurati’, ‘testimoni incomprensibilmente dimenticati’. Come quella
signora dal grande senso civico, Maria Grazia Frigo che sentì sparare e
tornando […] vide in faccia il guidatore […]. E lo disse nel 1992 ma non fu
presa in considerazione […]
Qui sta il bello. Quasi tutti i protagonisti dell’inchiesta
scalcinata hanno fatto nel frattempo carriera. Piero Luigi Vigna, pubblico
ministero a Firenze dall’inizio delle indagini, è ora a capo della Procura
Antimafia. Uno dei sostituti incaricati delle indagini, Silvia Della Monica,
adesso ha per le mani a Perugia l’inchiesta bollente sull’alta velocità. La
Squadra Antimostro era coordinata dal Capo del Nucleo Centrale Anticrimine
Gianni De Gennaro, da poco vicario del Capo della Polizia Fernando Masone. Il
funzionario che dirigeva la squadra regge da allora l’Unità analisi crimine
violento, vantato gioiello tecnologico dell’indagine all’americana. Che
sfortuna, Giuttari: la sua carriera la stava facendo anche lui… Ora invece
circola la voce di un trasferimento per aver detto la sua.
Pur se le frasi
precedenti non gli erano state messe in bocca, agli occhi di qualsiasi lettore
– quindi anche a quelli dei propri superiori – Giuttari risultava comunque
responsabile del loro contenuto, almeno moralmente. Tra l’altro vale la pena
ricordare che le pagine del libro avevano messo in piazza i sospetti su persone
rivelatesi poi del tutto innocenti, come la vedova di Zucconi e le proprietarie
della villa di San Casciano della quale era stato ospite il pittore svizzero.
Problemi giudiziari. Un mese dopo la
presentazione del libro, il 18 giugno, venne archiviata la denuncia di Giuttari
verso Papini. Nella sostanza il giudice per le indagini preliminari, Giuseppe
Soresina, ritenne che le affermazioni di Papini fossero sì state gravi, ma non abbastanza da
costituire reato,
se commisurate all’eccessivo protagonismo di Giuttari. Dalla sentenza (qui):
Le dichiarazioni pubbliche successive, e il libro dato alle
stampe, dimostrano nella sostanza la correttezza della lettura fatta a suo
tempo delle interviste seguite alla deposizione dibattimentale, vale a dire
l’atteggiamento fortemente critico nei confronti dei colleghi i quali avevano
investigato sugli omicidi seriali, e l’essere tale atteggiamento critico non
limitato al dissenso sulle scelte investigative, ma allargato a vere e proprie
censure di dimenticanza, dunque di negligenza, d’incapacità.
Coerente con tali censure era la forte affermazione pubblica
del proprio ruolo centrale e, si direbbe, la vera e propria personalizzazione
dell’inchiesta e dei suoi risultati, giunta fino alla pubblicazione di un
volume nel quale il proprio ruolo, in ciò che si era compiuto nell’esercizio di
una pubblica funzione, relativamente a grave vicenda processuale tuttora al
vaglio della magistratura giudicante, veniva esaltato tanto quanto era
riprovato il ruolo dei predecessori simile esaltazione traendo alimento proprio
dalla auto riconosciutasi capacità di valorizzare elementi dimenticati
colposamente da altri.
Non essendo qui in discussione l’opportunità, o meno, di
ergersi a protagonista pubblico di una vicenda processuale vissuta dall’interno
quale inquirente e quale testimone nella veste di ufficiale di polizia
giudiziaria, è peraltro evidente come tale atteggiamento di esaltazione
pubblica del proprio ruolo e della propria abilità investigativa, anche
attraverso gli apprezzamenti pesantemente negativi verso i colleghi suoi
predecessori nell’inchiesta, autorizzasse il rappresentante sindacale, nella
cura degli interessi di costoro, a registrarsi su toni altrimenti eccedenti i
limiti della legittima critica.
L’attribuzione del perseguimento da parte del dr. Giuttari
di scopi di carriera, dimentico delle ulteriori sofferenze per i familiari
della vittime, è infatti critica aspra, a sua volta demolitrice, impropria e
tendenziosa, la quale peraltro trova giustificazione sul piano della
fattispecie incriminatrice di cui all’art. 595 cod. pen. in tale atteggiamento
di esasperata personalizzazione e autoesaltazione, tenuto al di fuori delle
sedi istituzionali proprie del pubblico ufficiale che aveva operato nell’ambito
della propria funzione di polizia giudiziaria, e tale quindi da rendere
penalisticamente tollerabili le allusioni in questione, con cui si dava
risposta al plausibile interrogativo suscitato dalla volontaria assunzione di
un’immagine e di un ruolo presso il pubblico, ultronei rispetto a quelli
istituzionali (e da ultimo clamorosamente confermati con il dare alle stampe
addirittura un volume contenente la narrazione in prima persona, fortemente
autogratificante).
Balza agli occhi
la dura critica del giudice all’immagine pubblica che si era dato Giuttari, dalla
quale anch’egli trasse il sospetto di ambizioni travalicanti il suo ruolo
istituzionale di dirigente della Polizia di Stato.
Preoccupati per
ulteriori denigrazioni del loro lavoro, già alle prime notizie sull’uscita del
libro Lamperi e Venturini avevano inviato una lettera di protesta a Piero Luigi
Vigna, capo dell’antimafia (29 aprile 1998, vedi),
riportante più o meno il medesimo testo di quella del luglio dell’anno prima
indirizzata a Gianni De Gennaro. Infine, dopo la presentazione ufficiale e il
can can mediatico conseguente, i due ex uomini della SAM saltarono il fosso e
il 22 maggio successivo sporsero formale denuncia inviando una lettera a Fleury
(vedi)
nella quale chiedevano di verificare se in Compagni
di sangue fosse ravvisabile il reato di diffamazione nei loro confronti. Si
legge nel documento:
In particolare si segnala il capitolo intitolato “L’INCHIESTA
- I testimoni dimenticati” ove il funzionario di polizia, parlando in prima
persona, dichiara ripetutamente (pagg. 30-31-32-34-35-37-41-42) che numerose testimonianze
importanti erano state trascurate dagli investigatori della SAM, i quali non
avevano ritenuto, inspiegabilmente, di utilizzarle nel dibattimento di primo
grado a carico di PACCIANI Pietro. Solo grazie alla sua “rilettura” queste
testimonianze erano state riesumate dall'oblio ove erano state colpevolmente
riposte e l’indagine aveva potuto decollare e riprendere nuovo vigore.
È di tutta evidenza come tali affermazioni, peraltro assolutamente
confutabili come si dimostrerà qui di seguito, insinuino nei lettori la convinzione
che gli investigatori della SAM furono un manipolo di persone superficiali,
incapaci e incompetenti. […]
La lettera approfondisce
la testimonianza Frigo, proprio quella su cui più si era concentrata la critica
di Giuttari.
Alla luce di queste considerazioni e del fatto che l'avvocato
Giangualberto PEPI, primo difensore di VANNI Mario, richiese in dibattimento
l'audizione degli uomini della SAM poiché a loro carico avrebbero potuto
concretizzarsi anche delle responsabilità penali per aver omesso di portare in giudizio
di primo grado contro Pietro PACCIANI delle testimonianze importanti (il
riferimento è in particolare, tra 1e altre numerosissime, alla deposizione di
Maria Grazia FRIGO e alle totali discordanze tra le dichiarazioni rese
ripetutamente da questa alla SAM e al PM nel 1992, con quelle rese
successivamente dalla donna al nuovo dirigente
della Squadra Mobile), si fa rilevare come la continua opera di
delegittimazione e di svilimento del 1avoro da noi svolto, unitamente ad altri, abbia
prodotto i suoi frutti nefasti che hanno instillato nella mente di coloro che
hanno seguito i1 processo l'erronea convinzione che 1e indagini furono affidate
a persone di scarsa capacità, poco professionali e molto superficiali.
Si aggiunge che per quanta riguarda specificamente la deposizione
della FRIGO innanzi a1 dirigente della Mobile (pagg. da 130 a 139) È BENE CHE
SI SAPPIA che i coniugi BIANCHI (BIANCHI Edmondo e FALCHETTI Lydia) furono
sentiti dalla SAM direttamente e in tempi diversi – non solo per telefono come afferma
GIUTTARI – presso l'ufficio dell‘uomo […] presso la loro abitazione […]. In
entrambi i casi dichiararono di conoscere la coppia FRIGO/BERTACCINI ma di non
ricordare assolutamente se questi ultimi erano stati loro ospiti la sera del
duplice omicidio di Vicchio.
Anche il marito della FRIGO, signor BERTACCINI Giampaolo, sentito
dalla SAM e dal ROS presso la sua abitazione, dichiarò di non poter confermare
in alcun modo il racconto della moglie perché non ricordava nulla dell’episodio
riferito dalla donna.
Per opportunità, cioè per non pregiudicare un eventuale
futuro utilizzo della testimonianza FRIGO, che conteneva indubitabili ed
interessanti elementi di contatto con il racconto dei coniugi CAINI/MARTELLI, fu
deciso di non formalizzare in alcun modo queste testimonianze così negative
perché avrebbero potuto invalidare (anche in forma di semplice relazione di
servizio) uno spunto investigativo da poter sfruttare utilmente in un prossimo
futuro.
Viene toccato
anche l’argomento della macchina rossa di Lotti:
Questa denuncia-querela non ha sinora toccato un altro
aspetto, certamente non secondario e, a nostro avviso gravissimo, circa i1 modo
con il quale sono rappresentati da GIUTTARI ai lettori i fatti oggetto dei
successivi capitoli a quello de “I testimoni dimenticati”. Egli parla in prima
persona come il dominus dell'indagine attribuendosi interamente attività e
meriti non suoi, come, ad esempio, l‘identificazione dell’auto FIAT 128 sport
coupé di colore rosso sbiadito intestata a LOTTI Giancarlo.
Si ricorda che GIUTTARI, da una sua prima “rilettura” della
fine del 1995 aveva concentrato la sua attenzione su una vettura Volkswagen Maggiolino
di colore rosso aragosta e che la predetta FIAT 128 coupé rossa emergeva con
tutta chiarezza da una annotazione da noi redatta, unitamente all'Agente Sc.
Lidia SCIROCCHI, in data 26.07.1994, circa l'attività di indagine svolta circa la presenza del PACCIANI Pietro a Signa, le sue frequentazioni con VANNI Mario
e LOTTI Giancarlo e i rapporti di questi ultimi con Nicoletti Filippa.
Si muove il Ministero. A questo punto
il lettore dovrebbe aver chiaro lo scenario generale in cui i vertici della Polizia,
il 20 agosto 1998, comunicarono a Giuttari il suo trasferimento ad altra
questura. È pacifico che le loro motivazioni nulla avevano a che fare con la
necessità di tener fuori dalle indagini qualche personaggio importante, come
tanti oggi pensano, ma riguardavano il clima poco sereno che si era creato in
questura e in procura a Firenze.
È notorio tra
gli addetti ai lavori come anche le più sgradite disposizioni del Viminale non
ammettano repliche, pena il pericolo di incorrere in provvedimenti ancora più severi.
Ma in questo caso al Ministero avevano fatto i conti senza l’oste, come
avrebbero dimostrato gli eventi successivi. Da Il Mostro:
Tornato a Firenze senza perdere tempo metto al corrente
Paolo Canessa, che più stupito di me scrive subito ad Antonino Guttadauro che
nel frattempo ha sostituito Piero Luigi Vigna al vertice della Procura di
Firenze. È una lettera fermissima che conclude dicendo senza mezzi termini che “nell'ipotesi
del trasferimento ci sarebbe una responsabilità sul punto dello stesso ufficio
della Procura della Repubblica essendo il funzionario impegnato nelle indagini
e, in particolare, in quel filone che mira a far luce sul mandante dei duplici
omicidi che, secondo le risultanze dibattimentali, sarebbe stato un medico
conoscente di Pacciani”.
Giuttari seppe
giocare più che bene le proprie carte, approfittando dell'errore del Ministero che evidentemente non si era accertato a sufficienza del bisogno che avevano di lui in procura. Se infatti la Polizia a
livello gerarchico dipende dal Ministero dell’Interno, nello spostarne i dirigenti
questo deve tener conto delle esigenze dei magistrati per i quali detti
dirigenti stanno eventualmente lavorando. Ecco quindi che Giuttari chiese aiuto
a Canessa, il quale prese carta e penna e scrisse al proprio capo, l’anziano e
stanco Antonino Guttadauro ormai prossimo alla pensione.
Evidentemente Guttadauro trovò il modo di farsi ascoltare e bloccò il trasferimento. Intanto però i motivi di malumore nell’ambiente della questura non si placavano. Il SAP si fece forte della sentenza Papini per attaccare Giuttari (“Il Giornale”, 28 novembre 1998, vedi) chiedendo i danni. Si aggiunsero persino questioni politiche, incentrate su presunti rapporti privilegiati dell’investigatore con il PDS. Dall’edizione fiorentina di “Repubblica” del 28 novembre 1998 (vedi):
Evidentemente Guttadauro trovò il modo di farsi ascoltare e bloccò il trasferimento. Intanto però i motivi di malumore nell’ambiente della questura non si placavano. Il SAP si fece forte della sentenza Papini per attaccare Giuttari (“Il Giornale”, 28 novembre 1998, vedi) chiedendo i danni. Si aggiunsero persino questioni politiche, incentrate su presunti rapporti privilegiati dell’investigatore con il PDS. Dall’edizione fiorentina di “Repubblica” del 28 novembre 1998 (vedi):
«BATTITORE libero o inviato molto speciale?». Che ci fa
tutti i giorni in questura il responsabile della sicurezza dcl Pds? Lo chiede l'onorevole
Roberto Tortoli di Forza Italia, che annuncia una interrogazione parlamentare sulla
vicenda riferita ieri da «Repubblica». II responsabile della sicurezza del Pds «da un po' di tempo sarebbe
di casa negli uffici della questura di Firenze»: «Una presenza giornaliera, sempre
a contatto con i funzionari con i quali avrebbe colloqui anche a porte chiuse
per informazioni, per conoscere il come e il perché dell'inchiesta sul mostro o
di altre indagini della polizia».
«Perché, a qual fine?», chiede l’onorevole Tortoli, che si
rivolgerà al Ministro dell'Interno per sapere «se risponde a verità quanto è
stato pubblicato sulla stampa e le motivazioni di una presenza così assidua e
così inusuale negli uffici della Questura di Firenze». In ogni caso l'onorevole
Tortoli chiede «che sia ristabilito un clima di garanzia e imparzialità rispetto
a qualsiasi eventuale influenza politica sulla questura di Firenze».
Dal canto suo
Giuttari continuò a buttare benzina sul fuoco – al posto dell’acqua che di
sicuro sarebbe stata più opportuna – con la poco nota vicenda della presunta
frode processuale sulla cartuccia di Pacciani.
La cartuccia Pacciani. I quotidiani del
4 febbraio 1999 dettero notizia dell’esistenza di un clamoroso rapporto inviato
dalla questura alla procura. Leggiamo il resoconto de “L’Unità” (vedi):
Qualcuno ha barato? Qualcuno ha nascosto filmati, registrazioni
e carte? Qualcuno ha fatto sì che al processo arrivasse una documentazione
«monca» e, in quanto tale, fuorviante per chi doveva giudicare? Fatti gravi,
anche se si fosse trattato di una semplice vicenda di ladri di polli. Ma ancora
più gravi perché le «manomissioni» avrebbero riguardato il processo sul «mostro
di Firenze», che in primo grado si era concluso con la condanna all'ergastolo
di Pietro Pacciani. Ora, a distanza di anni, stanno emergendo spezzoni di un'altra
verità.
Fatti, documenti. Tutti diligentemente annotati in un
rapporto alto un palmo che la squadra mobile ha inviato alla procura di Firenze.
Un rapporto che può davvero essere definito esplosivo. Destinato a provocare
polemiche, sconquassi e una severissima inchiesta giudiziaria per frode
processuale, abuso di potere, falsa testimonianza e quant’altro. Il tutto mentre
riprende vigore un vecchio sospetto: qualcuno fabbricò ad arte alcune prove per
incastrare Pacciani? […]
Nel 1992 – secondo la versione data all'epoca – il
proiettile venne ritrovato durante una mega-perquisizione nell’orto di
Pacciani, infilato nel foro di un paletto di cemento, di quelli utilizzati per
sostenere i filari di vite. La scoperta – fu detto – sarebbe stata fatta
personalmente dal commissario capo Ruggero Perugini […]. «Vidi uno scintillio –
raccontò il funzionario davanti alla corte d’Assise – passando davanti al paletto
spezzato, che in precedenza era stato rimosso».
Perugini, a quel punto, chiese l'intervento di un operatore
della scientifica che filmò tutta l’operazione, ricavandone quattordici cassette.
Quella versione, adesso, è messa in discussione dalla squadra mobile. Infatti
gli investigatori hanno scoperto che una parte di quei filmati non sono mai
arrivati in Corte d'Assise e, quindi, non sono stati visionati né dai giudici,
né dai difensori dell'imputato.
Un fatto – viene rilevato – molto strano per un semplice
motivo: il filmato (corredato dal sonoro) era stato «depurato» di un passaggio significativo.
Infatti, ad un tratto, si sentirebbe distintamente la voce di Perugini chiedere
a mezza bocca ad un poliziotto non ancora identificato: «Sei tu che l’hai
notato?». Al che il poliziotto risponderebbe affermativamente. Una frase che
dimostrerebbe, secondo il rapporto della squadra mobile, che l’autore materiale
del ritrovamento non sarebbe il capo della Sam. […]
Ma come si è giunti a ipotizzare questo nuovo scenario? Lo
spunto è venuto dall’avvocato Pietro Fioravanti, difensore di Pietro Pacciani,
il quale, ascoltato nell’ambito dell’inchiesta ter sui mandanti, ha fornito alcuni
spunti sulla vicenda del proiettile che poi si sono rivelati non privi di
fondamento. […]
E adesso? La parola passa di nuovo alla procura di Firenze. Quello
che è certo è che il rapporto della squadra mobile è durissimo: qualcuno – si
sostiene – ha barato. Qualcuno ha tenuto nascosti ai giudici filmati e
registrazioni. Qualcuno ha avallato verbali irregolari. Chi? Lo dovranno dire
le prossime indagini. Di fronte ad un rapporto tanto duro quanto circostanziato,
non sarà facile fare finta di nulla.
Naturalmente
nessuno aveva interesse a riaprire una questione del genere, quindi il rapporto
di Giuttari creò non pochi imbarazzi in procura: “«Una
guerra fra bande» si mormora con fastidio in procura, sottointeso fra bande di
poliziotti. Ci sono nuovi strascichi al veleno per il processo sul mostro di
Firenze” (“la Repubblica”, 5 febbraio 1999, vedi);
“Imbarazzo. Sconcerto. E una lunga riunione in
procura tra i magistrati che si occupano dell’inchiesta-ter (quella sui mandanti)
sul mostro di Firenze. Sul loro tavolo il durissimo rapporto della mobile
fiorentina […]” (“L’Unità”, 5 febbraio 1999, vedi).
Peraltro non si
comprende quale giovamento avrebbero potuto trarre le indagini di Giuttari sui mandanti dal
mettere sulla graticola Ruggero Perugini, che già molto prima del suo arrivo
aveva tolto il disturbo e in seguito aveva evitato ogni interferenza nella
nuova inchiesta. Forse con la sua clamorosa iniziativa l’investigatore aveva cercato
di valorizzare delle indagini che stentavano a fornire risultati, oppure più facilmente era alla ricerca di
pezze d’appoggio per il proprio atteggiamento critico verso l’inchiesta
precedente, di cui rischiava a breve di essere chiamato a rispondere in sede
penale. In effetti la sua memoria difensiva (6 aprile 1999) per l'udienza preliminare avrebbe richiamato vari passaggi della
sentenza Ferri, dove abbondavano le critiche alle indagini di Perugini,
compresa la questione della cartuccia, sul rinvenimento della quale si paventava la presenza di “ampie zone d'ombra e di obbiettive e consistenti perplessità in ordine alla genuinità dell'elemento di prova”. In ogni caso tutto finì in niente,
poiché non si ha notizia di ulteriori sviluppi.
Il Ministero non demorde, ma invano. È
chiaro che il perdurare di questo clima di veleni mantenne alto il livello di
preoccupazione negli ambienti dirigenziali di questura, procura e ministero.
Negli scambi di comunicazioni più o meno riservate tra gli uffici preposti si
stigmatizzavano i difficoltosi rapporti di Giuttari sia con gli organi
istituzionali sia con gli stessi agenti e si evidenziava l’opportunità di
procedere a una assegnazione ad altro incarico. E infatti il 3 marzo il
Ministero reiterò la propria proposta di trasferimento – in questo caso alla
questura di Pesaro, mentre della precedente destinazione chi scrive nulla sa – con
annesso avanzamento di carriera; ma ancora una volta l’interessato rifiutò di
ubbidire.
Dopo aver
ascoltato le sue ragioni il 16 febbraio, il 15 marzo il pubblico ministero
Rodrigo Merlo chiese il rinvio a giudizio di Giuttari per diffamazione nei
confronti di Lamperi e Venturini (vedi),
la qual cosa, comunicata per legge, fu senz’altro di ulteriore stimolo al Ministero
dell’Interno per inasprire il proprio atteggiamento, fino ad allora tutto sommato
paziente. Ottenuto il 20 aprile il nulla osta del Procuratore della Repubblica
e il 23 quello del Procuratore Generale – in questo modo cautelandosi da
eventuali recriminazioni, come era accaduto in precedenza –, il 14 luglio il
Ministero emise un decreto di trasferimento all’Ufficio Stranieri della stessa
questura di Firenze, notificato a Giuttari il successivo 5 agosto.
Il provvedimento
del Ministero suonò come una punizione (la qual cosa, lo vedremo presto, fu un secondo errore). Immediatamente il sindacato cui era
iscritto Giuttari, il S.I.U.L.P. (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori
Polizia) si fece sentire su tutti i giornali attraverso il proprio segretario
Antonio Lanzilli (vedi
“la Repubblica” del 7, per esempio): “Si tratta di
una punizione, non c’è dubbio, è lampante. Non è certo una promozione, visto
che come prestigio la squadra mobile è un gradino superiore all’ufficio
stranieri”. C’è da dire che Lanzilli attribuì il provvedimento del
Ministero proprio alle polemiche che c’erano state in precedenza, e delle quali
abbiamo fin qui discusso, quindi anche per lui niente poteri forti che volevano
proteggere chissà chi: “Una punizione per quelle
polemiche? Penso proprio di sì”.
Naturalmente
anche Giuttari la prese male – da Il
Mostro: “Dopo anni di lavoro dedicati a
contrastare la criminalità organizzata e mafiosa […] vengo destinato a un
ufficio burocratico molto meno importante di quello attuale” –, e
probabilmente qualsiasi altro poliziotto a quel punto avrebbe chinato la testa.
Ma non lui: dopo essersi messo in aspettativa per motivi di salute – il suo
posto fu preso da Gilberto Caldarozzi –, fece ricorso al TAR del Lazio, organo
regionale preposto a dirimere i conflitti in materia di pubblica
amministrazione (del Lazio poiché il Ministero dell’interno aveva sede a Roma).
Richiese poi il trasferimento da Firenze a Prato del proprio procedimento
giudiziario per diffamazione – la casa editrice del libro aveva una stamperia a Calenzano, che rientrava sotto la giurisdizione di Prato; in questo modo evitò d'incontrare di nuovo il GIP Giuseppe Soresina, che nel caso Papini non si era mostrato benevolo verso di lui – e denunciò a sua volta Lamperi e Venturini per
calunnia (27 settembre).
Chi scrive non
ha consultato alcuna documentazione al riguardo, si può però supporre che nel
proprio ricorso Giuttari fosse riuscito a dimostrare il carattere punitivo del
provvedimento del Ministero, al quale aveva contrapposto i propri indubitabili
successi nell’inchiesta sul Mostro, ben evidenziati da tutti gli organi di
stampa e stigmatizzati da un elogio del tutto inusuale contenuto nella sentenza
di primo grado di condanna a Vanni e Lotti, depositata il 30 luglio 1998:
Dopo la predetta sentenza [condanna di Pacciani in primo grado] venivano
quindi riprese ed intensificate le indagini a tutto campo, nel senso indicate
dalla Corte di Assise. Ad esse si dedicava in particolar modo il dott. Michele
Giuttari, nella sua qualità di nuovo dirigente della Squadra Mobile presso la
Questura di Firenze, che, dall'ottobre 1995 (da quando assunse tale carica), vi
si applicava con grande impegno e capacità, riuscendo ben presto ad ottenere i
primi risultati utili.
In ogni caso il
2 dicembre il TAR dette ragione a Giuttari, sospendendo il provvedimento e costringendo
il Ministero a rivolgersi al Consiglio di Stato – l’equivalente di un tribunale
di secondo grado –, dove l’8 febbraio 2000 vennero ancora una volta riconosciute
le ragioni dell’investigatore.
Al termine del
periodo di aspettativa di cui stava usufruendo, il 28 febbraio Giuttari riprese
il proprio posto in servizio alla squadra mobile, ma per poco, poiché il 25
marzo il Ministero di nuovo decretò il suo trasferimento all’Ufficio Stranieri.
Ancora Giuttari fece ricorso, ma questa volta il provvedimento doveva essere
stato motivato meglio, poiché il TAR non ebbe nulla da eccepire. Fu allora
Giuttari a rivolgersi al Consiglio di Stato, che il 27 luglio gli dette
ragione. A quel punto al Ministero si dichiararono sconfitti, e non emisero
altri provvedimenti. Giuttari poté così riprendere stabilmente il proprio posto
a capo della squadra mobile e soprattutto le indagini alla ricerca dei mandanti,
pressoché ferme da due anni.
Prima di passare
a qualche commento sui fatti narrati, un cenno alla conclusione dello scontro
con Lamperi e Venturini, su cui chi scrive ha per ora una documentazione soltanto
parziale. Il 30 novembre 2000 il PM di Prato, Christine Von Borries, rinviò a
giudizio Giuttari per diffamazione, ma il 26 gennaio 2001 il GUP archiviò il
procedimento riconoscendo all’imputato l’esercizio del diritto di cronaca. La
procura di Firenze, che aveva ancora in capo l’eventuale reato di falsa
testimonianza commesso durante il dibattimento – sempre per la questione delle
indagini precedenti mal riportate – due giorni prima ne aveva chiesto
l’archiviazione. Ultimo atto la sentenza di Francesco Carvisiglia, il quale,
nella veste di GIP, il 9 marzo 2001 prosciolse Giuttari dal reato di falsa
testimonianza e Lamperi e Venturini da quello di calunnia.
Tutti innocenti,
quindi, la qual cosa appare però contraddittoria, poiché almeno una delle due
parti avrebbe dovuto trovarsi in torto.
Considerazioni. Probabilmente la
stragrande maggioranza dei lettori si sarà molto annoiata nel leggere
il presente articolo, nel quale la fanno da padrone diatribe tutte interne alle
forze dell’ordine, con la vera e propria vicenda dei delitti del Mostro a fare
da debolissimo sfondo. Ma era importante raggiungere un risultato: la
dimostrazione che i due anni di blocco delle indagini di Giuttari, da tanti
appassionati attribuiti a forze oscure impegnate a proteggere fantomatici
mandanti, avevano avuto motivazioni assai più prosaiche. Non erano stati né la
massoneria né l’Ordine della Rosa Rossa e della Croce d'Oro Indipendente e
Rettificato a voler trasferire Giuttari ad altro incarico, ma un Ministero
dell’Interno irritato per la sua esposizione mediatica e preoccupato per i conflitti
da essa suscitati.
La vittoria alla
fine fu di Giuttari, ma oggi è possibile e legittimo chiedersi: ci guadagnò
anche la giustizia? A conti fatti si direbbe di no, poiché quei mandanti che
con tanta caparbietà il superpoliziotto voleva cercare sappiamo bene che dopo
tanti anni non sarebbero stati trovati, nonostante l’enorme dispendio di
energie da lui messo in campo. E che ancora in anni recenti dichiari, o almeno
lasci intendere: “Eravamo a un passo dalla svolta,
la procura di Firenze ci bloccò”
(vedi)
suona francamente fuori luogo. Quale svolta? Davvero i misteriosi mandanti stavano per essere stanati? Vedremo più avanti che la lotta tra
Giuttari e chi lo voleva fermare continuò, ma senza nessuna forza oscura che operava dietro
le quinte; in ogni caso lui riuscì ad andare avanti per la propria strada
fino addirittura al 2007, mettendo in campo risorse non certo indifferenti (è legittimo chiedersi: con quali costi per la collettività?).
A scuola ci
hanno insegnato che “con i se e con i ma la storia non si fa”, si potrebbe però
ugualmente scommettere che se Vigna fosse rimasto al proprio posto le indagini
si sarebbero fermate subito. Anni dopo, a bocce ormai quasi ferme, l’ex procuratore
capo avrebbe scritto (In difesa della giustizia, 2011):
Esistono i mandanti di quei delitti, tanto tenacemente
ricercati dalla procura e dall’investigatore Michele Giuttari?
Da ex procuratore non posso che affermare che, nonostante le
indagini, non si è mai giunti all’individuazione dei mandanti. E, francamente,
non credo che esistano.
Mi sembrerebbe strano infatti che chi ha commesso tante
volte questi terribili omicidi possa averlo fatto obbedendo ad un input
esterno, per esaudire la richiesta di altri. L’ipotesi, già inverosimile per un
solo omicidio, lo è ancora di più per una scia di morte tanto lunga e dilatata
nel tempo. E poi, questi soldi, dove sarebbero finiti? Si è parlato del
patrimonio di Pacciani come se si trattasse di un tesoro. Ricordiamo però che
si tratta di un contadino che ha lavorato per quarant’anni, sicuramente
parsimonioso, uno che dava da mangiare alle figlie il cibo per cani.
E a Vanni e Lotti non sarebbe andato niente di quel
compenso? Lotti addirittura viveva in un alloggio della parrocchia che
condivideva con alcuni immigrati. Il vantaggio patrimoniale per una serie
ripetuta di omicidi avrebbe dovuto essere cospicuo e invece non se n’è trovata
traccia.
E credo che mai si troverà.
C’è a questo punto
una domanda alla quale sarebbe utile rispondere per poter meglio valutare gli
accadimenti successivi: la tenacia di Giuttari nel voler portare avanti a tutti
i costi le indagini sui mandanti, rifiutando anche un avanzamento di carriera,
era davvero frutto di un alto senso del dovere, come lui afferma con decisione?
Sono in molti a ritenere le sue ambizioni di scrittore non del tutto estranee
alla volontà di percorrere una strada che gli offriva un ottimo palcoscenico
dal quale farsi conoscere; un sospetto inevitabile, visti anche i successivi
sviluppi della sua attività di giallista di successo, che indubbiamente deve
molto al ruolo, sempre ben pubblicizzato, di investigatore sui delitti del
Mostro. Un successo che però sembra sia andato calando via via che si
allontanavano i tempi delle sue imprese investigative, tantoché oggi ci si
chiede se e quando uscirà il prossimo romanzo, dopo la cadenza quasi annuale
dei precedenti e i sei anni di distanza dall’ultimo, Il cuore oscuro di Firenze, con
l’autobiografia di Confesso che ho
indagato a costituire il possibile canto del cigno.
I mandanti e
le sentenze. Per trovare giustificazione alla propria incrollabile volontà
di proseguire nella ricerca dei mandanti, Giuttari si è sempre fatto scudo
delle “indicazioni dei giudici che hanno condannato
Vanni e Lotti”. Proviamo ad approfondire la questione.
In effetti nella
sentenza di primo grado viene accolta, come ipotesi di lavoro, la possibile
esistenza dei mandanti. Ma molto flebilmente.
Le risultanze processuali non hanno invece portato ad alcuna
conferma delle dichiarazioni del Lotti in ordine al "dottore", che
avrebbe commissionato i delitti e che avrebbe acquistato le parti escisse dal
cadavere delle ragazze, pagandole materialmente al Pacciani.
La Corte ha cercato di acquisire elementi anche su tale
punto (ex art. 507 CPP, al fine di avere il maggior materiale probatorio
possibile relativamente alle dichiarazioni del Lotti sugli omicidi), ma il
risultato non è stato positivo, nel senso che non vi è stato alcun
"riscontro" preciso sul predetto "dottore”.
Non sembra, tuttavia, che il Lotti possa aver mentito solo
su tale circostanza, non avendo avuto alcun ragionevole motivo per farlo.
A dire il vero,
secondo gli stessi giudici, questa non sarebbe stata l’unica circostanza nella
quale Lotti avrebbe mentito, poiché già non avevano creduto alla sua
ricostruzione del delitto di Giogoli. In ogni caso aggiungono poi ulteriori
elementi per avvalorare in qualche modo l’ipotesi dei mandanti.
D'altra parte, l'istruttoria dibattimentale ha lasciato
intravedere "qualcosa", che porta nella direzione indicata dal Lotti
e, quindi, del predetto fantomatico "dottore". È emerso infatti:
1) che, in occasione dei duplici omicidi di Scopeti e di
Vicchio (che furono appunto caratterizzati dall'asportazione del seno sinistro
e della zona pubica dal corpo delle ragazze), il Pacciani ed il Vanni, al
termine di tutta l'operazione, avrebbero lasciato un "fagotto" al
limite di tali piazzole, poggiandolo delicatamente per terra nella zona dei
cespugli, il che lascia ragionevolmente presumere che si sia trattato delle
parti escisse dal corpo delle ragazze, che venivano lasciate temporaneamente
lì, a disposizione di altro soggetto che avrebbe dovuto rimuoverle e portarle
via; […]
Ciò porta ancora a ritenere che possa esserci stato, in
occasione dei duplici omicidi, anche qualche altro "personaggio"
nascosto tra i cespugli, personaggio che non si voleva far vedere da tutti
quelli che partecipavano ai delitti e che chiaramente interveniva subito dopo,
per prelevare e portar via le parti escisse, non appena gli altri si fossero
allontanati dalla piazzola. […]
2) che le indagini di carattere finanziario, eseguite
dalla PG sul conto di Pacciani, hanno portato ad una situazione economica del
tutto incompatibile con la sua condizione di contadino, che lavorava i terreni
altrui e che guadagnava appena il sufficiente per vivere […]
3) che una situazione un po’ simile si riscontra anche
relativamente al Vanni, per quanto costui abbia fatto per anni il "postino"
ed abbia preso una "liquidazione" all'atto della sua andata in
pensione, essendo risultati a suo carico notevoli investimenti di denaro […]
Le predette situazioni vanno comunque meglio verificate da
parte del PM, ai fini di una valutazione più sicura, nell’ambito delle nuove
indagini in ordine al predetto "dottore". D’altra parte, la Corte non
poteva non segnalare anche tutte le predette circostanze, che possono portare a
maggiori risultati ed a fare finalmente completa luce sulla presente vicenda, che
si trascina purtroppo da molti anni.
Questo blog si è
già occupato delle assurdità delle quali è infarcita la sentenza di condanna di
Vanni e Lotti in primo grado, e, come si vede, il passaggio precedente è del
tutto in linea. Ci si domanda infatti come sia stato possibile anche soltanto
ipotizzare uno scenario dove le parti di donna sarebbero passate dagli
esecutori ai committenti – nascosti tra i cespugli! – attraverso fagotti
lasciati sul posto, anzi, addirittura sepolti, secondo certe indicazioni di
Lotti. Poi i soldi. Di quelli di Pacciani si è già detto (vedi),
mentre di quelli di Vanni non c’è nulla da dire, poiché si trattava di una cifra
del tutto compatibile con i risparmi di chi aveva lavorato una vita intera.
È pur vero
tuttavia – quindi formalmente Giuttari ha ragione – che in qualche modo i
giudici di primo grado avevano invitato l’autorità giudiziaria a indagare sul
“dottore” di Lotti. Vediamo però quanto ne avrebbero scritto quelli di secondo
grado un anno dopo.
Né ha trovato riscontro alcuno la ipotesi adombrata dalla
impugnata decisione per la quale probabilmente vi era un medico che acquistava
le dette parti anatomiche.
La cosa è stata riferita dal Lotti il quale ha detto di aver
saputo dal Vanni che le parti escisse venivano vendute ad un non identificato
“dottore” il quale pagava il tantundem al Pacciani.
Lotti ha dichiarato di non sapere chi fosse mai questo
dottore e se la cosa riferitagli dal Vanni potesse rispondere o meno a verità:
conseguentemente pare del tutto inutile ipotizzare, come ha fatto il primo
giudice, oscuri personaggi che nottetempo si sarebbero nascosti nei boschi in
attesa che il Pacciani e il Vanni consegnassero loro le parti anatomiche appena
tagliate. Si tratta di mere illazioni che non meritano alcun commento o esame
critico.
Come si vede i
giudici di secondo grado badarono bene di togliere di mezzo, peraltro in modo
sprezzante, l’assurda ipotesi dei fagotti, mentre ai soldi di Vanni e Pacciani
neppure accennarono. Secondo loro i delitti trovavano spiegazione all’interno
della stessa combriccola dei compagni di merende, poiché non c’era alcuna
ragione di escludere che
alcuni criminali di provincia, certamente afflitti da
personalità psicopatologica, chi in misura maggiore e chi in misura minore, ben
protetti dalle omertà dell'ambiente che li circondava, ogni tanto decidessero
di uccidere coppie di giovani durante o prima i rapporti amorosi, o successivamente,
traendo da ciò, probabilmente ma non certamente, un qualche gradimento
sessuale.
A pensar male,
considerando che il documento venne scritto tra il giugno e l’agosto 1999 –
durante il primo tentativo di trasferire Giuttari all’Ufficio Stranieri – si
potrebbe anche sospettare che i giudici avessero voluto dare una mano al
Ministero. In ogni caso il 26 aprile 2000 la sentenza di secondo grado fu
confermata dalla Cassazione; possiamo quindi concludere che alla fine, visto
che il verdetto valido è sempre quello più recente, non c’è stato alcun invito
dei giudici a effettuare indagini sul “dottore” di Lotti.
Nasce la
leggenda. Vedremo in un prossimo articolo quali furono le mosse
investigative di Giuttari al suo rientro in piena fase operativa dopo i due
anni di contrasti con il Ministero. Intanto vale la pena dare un’occhiata al
modo in cui, fin da subito, l’investigatore cercò di capitalizzare la propria vittoria in termini di immagine mediatica, dando così inizio alla leggenda dei
poteri forti che avrebbero cercato di fermarlo per proteggere i mandanti,
proprio quella che il presente articolo si è proposto di confutare. A darci una
mano è questo gustoso servizio, “C’è un mostro
dietro il mostro”, uscito sul mensile “GQ” (Gentlemen's Quarterly)
del settembre 2000 (vedi)
a firma Marco Gregoretti.
L’uomo del sigaro ha un appuntamento con qualcuno. Meno
gente lo sa, meglio è: Firenze per lui, poliziotto investigatore senza padrini,
è sempre più calda. Quell’incontro con un giornalista che viene da fuori può
essere pericoloso. Un cenno veloce del capo. Un sorriso che ricorda vecchi
tempi quando le cose andavano senz’altro meglio. C’è poco tempo per parlare.
Soltanto un caffè. E un pacchetto che velocemente passa dalle mani del
poliziotto a quelle del giornalista. Poi Michele Giuttari, siciliano di
Messina, uno dei cinque migliori investigatori d’Italia, per sette anni capo
della Squadra mobile di Firenze, ovvero colui che ha scoperto e inchiodato i
compagni di merende, se ne va rapido e silenzioso.
Che cosa ci sarà
stato mai dentro quel misterioso pacchetto che Giuttari consegnò di soppiatto
al giornalista investigativo Gregoretti?
Il giornalista aspetta un paio di minuti e scompare anche
lui. Si avvia verso l’albergo […]. Sale in camera, la 162. Appoggia il
pacchettino sul comodino. Lo apre. Vorrebbe farlo lentamente. La foga curiosa
lo spinge a strappare con veemenza la carta. «Pensa te! Un libro, soltanto un
libro. Il suo libro. Tutto ‘sto mistero per una copia di Compagni di sangue, di
Michele Giuttari e Carlo Lucarelli». Ma un segno giallo sul nome di Michele
Giuttari cattura la sua attenzione. Mah. Sfoglia il volume. A fianco della
parola Epilogo, titolo dell’ultimo capitolo, c’è scritto in stampatello: «È
l’ultima vittima del Mostro».
Svelato il primo
mistero, se ne apre subito un secondo: quale fu l’ultima vittima del Mostro di
Firenze tra le tante che gli vennero attribuite dopo l’ultimo duplice omicidio?
Il giornalista si incuriosisce. Legge quel capitolo. […] Le
parole scritte da Giuttari sono messaggi rivolti a una persona precisa e a chi
la copre, o ne protegge il buon nome. «Ma sì, certo», si convince il
giornalista. «È lui, è Giuttari, l’ultima vittima del mostro». Il poliziotto
con il sigaro ha capito che […] i compagni di merende agivano anche per conto
di un uomo misterioso e potente che pagava. Il magistrato Paolo Canessa gli crede.
E lui comincia a indagare. Si avvicina sempre più all‘uomo. Ne delinea i contorni:
un medico appartenente a una famiglia molto importante. Ma un decreto del
ministro degli Interni lo catapulta fuori dalla Squadra mobile. Mandato a dirigere
all'Ufficio stranieri della Questura […]. Ricorre al Tar. Che gli dà ragione.
Ma il ministro lo sposta di nuovo. E a fine luglio, il 27, proprio mentre
questo articolo sta per andare in macchina, il Consiglio di Stato annuncia: «Il
25 luglio abbiamo sospeso il trasferimento del dottor Michele Giuttari all’Ufficio
stranieri». Come dire: deve tornare a dirigere la Squadra mobile di Firenze.
Dunque l’ultima
vittima era stato proprio Giuttari, per fortuna niente di fisico, ma “soltanto”
un tentativo di bloccare le sue indagini.
Sì, il giornalista si convince: questa è la dimostrazione che
quel trasferimento puzzava. Che forse era meglio non dare volto, nome e cognome
al secondo livello. Al mostro, o ai mostri, dietro i mostri. In Italia si possono
scoprire solo mezze verità. E al suo amico Michele, invece, interessano quelle
intere: non crede che nelle storie criminali esistano soltanto gli esecutori.
Lo chiama al cellulare: «Sono contento che ti abbiano dato ragione. Vediamoci,
ho capito». «No, non ci vediamo. Non posso dirti nulla». «Solo una cosa, per
favore: sei tu l’ultima vittima?».
«Sì».
E così la
leggenda ebbe inizio.
Il mandante, e le persone a lui collegate, sono così potenti
che sono riusciti a muovere le fila fino a far trasferire il loro nemico numero
uno. «Non potevano ammazzarmi», ha confidato Giuttari a un amico, «perché
nell’ultimo capitolo del libro faccio intendere che conosco la verità e che,
oltre a me, la conoscono anche altri»
Questa dunque fu la versione che Giuttari lasciò passare, poiché non si ha notizia di sue smentite riguardo il contenuto dell'articolo.