Proseguiamo con
la valutazione della prova regina contro Pacciani prima dell’avvento del
presunto pentito Lotti. In questa seconda parte verranno affrontate alcune
questioni tecniche. Del tutto a digiuno della materia, ho cercato per quanto
possibile di capirne prima qualcosa, ma sono consapevole della possibilità di
aver commesso degli errori, della cui segnalazione sarei ben lieto.
Il periodo di interramento. Nelle settimane e nei mesi successivi sulla
cartuccia furono effettuati vari esami. Ai fini della valutazione della
genuinità della prova il più importante fu senza dubbio quello che cercò di
stabilire per quanto tempo essa fosse rimasta imbozzolata nel terriccio, e
quindi valutare il momento nel quale poteva essere caduta nel foro oppure
esservi stata inserita. A questo scopo fu misurato il livello di corrosione
della superficie del bossolo, il cui materiale, l’ottone, si prestava molto
meglio a tale esame rispetto al piombo del proiettile. L’ottone è una lega di
rame e zinco, nella quale il fenomeno di degrado della superficie, chiamato
“dezincificazione”, consiste nella perdita dello zinco e nel successivo
rideposito del solo rame in forma spugnosa, processo più o meno rapido in
dipendenza dell’aggressività dell’ambiente esterno, determinata più che altro
dalla sua acidità. Valutata quest’ultima, lo spessore dello strato di rame spugnoso dà
un’indicazione del momento in cui il fenomeno è iniziato. Purtroppo, per
misurare quello della cartuccia Pacciani, fu necessario sezionarne il bossolo –
ma non fu chiesto il permesso al GIP, come sarebbe stato opportuno – con la sua
inevitabile compromissione, e se è vero che gli esami balistici erano già stati
effettuati, è altrettanto vero che essi non si sarebbero potuti più ripetere,
almeno non con analoghe modalità.
Il perito
incaricato dell’esame, Giancarlo Mei (vedi), lamentò la mancanza di salvaguardia del grumo di terra contenente la
cartuccia, del quale avrebbe voluto studiare le caratteristiche elettrochimiche
per valutarne il livello di aggressività. Il che rafforza le perplessità già
espresse sulla troppa fretta con la quale Perugini aveva estratto la cartuccia
seduta stante. In ogni caso bisogna dire che anche con il grumo di terra
salvaguardato Mei avrebbe potuto concludere ben poco, almeno a sentire lui, poiché
l’unico termine di confronto che era riuscito a reperire in letteratura risultava
molto grossolano, senza distinzione del tipo di terreno e per di più limitato
al solo intervallo temporale di cinque anni, per il quale veniva indicata una
misura minima dello strato dezincificato di 20-25 micron (millesimi di
millimetro). La misura per la cartuccia Pacciani risultò andare da un minimo di
0,2 micron a un massimo di 5, dalla quale, secondo Mei, si poteva trarre
l’ovvia deduzione che il bossolo era stato interrato da meno di cinque anni. Ma
su quanto potesse valere quel “meno” il perito non volle sbilanciarsi,
invocando la mancanza di linearità della funzione di correlazione tra tempo e
profondità dello strato, la cui velocità di accrescimento non è dunque
costante. In realtà Mei non voleva scontentare il suo committente – in ultima analisi il PM – come
purtroppo spesso succede. Avrebbe infatti osservato il giudice di secondo
grado:
Si può convenire con il perito
che la rimarcata variabilità dei fenomeni corrosivi non permetta una precisa
determinazione temporale dell'inizio del periodo d'interramento, ma non si può
convenire anche sul rifiuto di concludere per un tempo d'interramento ben
inferiore ai cinque anni, quantomeno sotto un profilo di elevata probabilità.
Appare, in effetti ragionevole
concludere, in presenza di un grande divario tra i valori dì dezincificazione
rilevati sulla cartuccia repertata ed i valori di dezincificazione
corrispondenti ad un periodo d'interramento di cinque anni, per un tempo
d'interramento della cartuccia stessa nettamente inferiore ai cinque anni.
Non si può che
essere d’accordo con Ferri, poiché anche un profano non può ignorare come la
misura trovata da Mei, lontanissima da quella limite dei cinque anni, non possa
che indicare un periodo d’interramento molto, molto più breve. Anche
considerando il valore più basso dello strato di rame spugnoso dopo cinque
anni, 20 micron, gli 0,2 minimi della cartuccia Pacciani sono 100 volte
inferiori, i 5 massimi 4 volte. Se quindi si volesse dare per buono – e vedremo
subito quanto bisogno ne aveva l’accusa – immaginare un periodo d’interramento
prossimo ai cinque anni, dovremmo anche accettare una repentina impennata della
velocità di dezincificazione nell’ultimo periodo, fino a portarsi ai valori
noti; il che suona, più che improbabile, decisamente impossibile. In realtà
tutto doveva far ritenere che la cartuccia Pacciani fosse rimasta interrata
soltanto per qualche mese, ma, a dire il vero, era persino lecito pensare che
non lo fosse mai stata, poiché l’ottone si ossida un po’ anche al semplice
contatto dell’aria, soprattutto se umida, e quella cartuccia era stata prodotta
non meno di dieci anni prima. Del resto le foto pubblicate mostrano una
superficie del bossolo lucente, con ben evidenti tutte le ammaccature che
furono oggetto di studio, e anche la posizione superficiale della cartuccia nel
grumo di terra non faceva certo pensare ad anni trascorsi in fondo a un buco
riempito pian piano dai detriti portati dal vento e cementati dall’umidità.
A questo punto è
necessario riflettere sul fatto che Pacciani era entrato in carcere il 30
maggio 1987, 4 anni e 11 mesi prima del ritrovamento della cartuccia, e ne era
uscito il 6 dicembre 1991, da meno di 5 mesi. Quindi, in base ai risultati dell’esame
della dezincificazione del bossolo, soltanto in quest’ultimo periodo avrebbe
potuto perdere la cartuccia. Ma non è pensabile che in un momento nel quale
aveva l’intera SAM a fiatargli sul collo – e lui ben lo sapeva, visto che aveva
anche trovato una microspia – si sarebbe messo a giocherellare nell’orto con la
famigerata pistola fino a farla inceppare. Perché lo avrebbe fatto, e dove
teneva nascosta quella fantomatica arma che le tre perquisizioni domiciliari
subite mentre si trovava in carcere non erano riuscite a trovare?
L’iper
colpevolista giudice di primo grado cercò di abbozzare qualche pallida ipotesi
in grado di superare almeno in parte l’antipatica difficoltà.
È possibile, anzi possibilissimo,
che invece la cartuccia sia caduta dalla tasca di un qualche indumento ove il
prevenuto poteva averla riposta dopo che l'arma destinata ad accoglierla in
canna si era inceppata; come pure è possibile che essa sia caduta da un
indumento del Pacciani, che la Manni Angiolina poteva avere scosso o spazzolato
fuori di casa durante l'ultima detenzione dei marito, ovvero anche, ipotesi non
del tutto remota, la cartuccia poteva essere stata perduta da un complice
dell'imputato che faceva capo alla casa di via Sonnino.
Ipotesi poco
convincenti, e non certo possibilissime, in seguito sarcasticamente respinte dal secondo giudice. Del resto in fondo in fondo ne era consapevole lo stesso Ognibene, che infatti proseguiva così:
Come si vede è tutta una serie di
ipotesi che si possono avanzare e che hanno, ciascuna, un proprio ambito di
ragionevolezza ma che, proprio per questo, mostrano la loro globale
insufficienza non essendo ancorate a dati rigorosamente obbiettivi. Ed allora
la Corte non può che ancorarsi all'unico dato obbiettivo che la paziente
analisi dei dati processuali consente dì considerare acquisito con
tranquillante sicurezza: il dato rappresentato dal fatto che la cartuccia cal.
22 L.R. trovata il 29 aprile 1992 nell'orto dei Pacciani era stata inserita in
epoca non nota nella pistola Beretta serie 70 usata per commettere la serie di
duplica omicidi e, successivamente, in data anch'essa non nota ma collocabile
tra l'aprile 1987 e l'aprile 1992, era finita interrata dentro il foro dei
paletto di cemento dove poi è stata rinvenuta.
In sostanza,
appellandosi a presunte certezze sull’incameramento della cartuccia nella
pistola del Mostro, certezze come vedremo tutt’altro che giustificate, il
giudice di primo grado ignorò il problema del troppo breve periodo
d’interramento. Che invece esiste, è gigantesco e incrementa a dismisura i
sospetti sulla mancanza di genuinità della prova. Si tratta in sostanza della
classica situazione cui ben si applica il detto: “il diavolo fa le pentole ma
non i coperchi”…
Possiamo infine
osservare che il grumo di terra rappresa che fu trovato attorno a una cartuccia
rimasta sepolta da troppo poco tempo per darne giustificazione dà un valore
aggiunto ai sospetti di Pacciani sull’uso dell’acido muriatico o comunque di
una sostanza similare per provocarne un artificioso invecchiamento.
Lo studio della lettera “H”. Prima della distruzione del bossolo causa
gli esami della perizia Mei, la cartuccia Pacciani era stata affidata nelle
mani di due esperti balistici di grande prestigio: Ignazio Spampinato, generale
dell’esercito, e Pietro Benedetti, tecnico del BNP, Banco Nazionale di Prova
delle armi da fuoco di Gardone Val Trompia. Oltre al ben più importante studio
sulle “microstrie”, del quale tratteremo più avanti, ai due periti fu richiesto
un giudizio sul confronto delle punzonature a forma di “H” presenti sul bossolo
della cartuccia Pacciani e sui bossoli del Mostro, approfondendo il sibillino
giudizio di “compatibilità”
ma “non esatta
corrispondenza” formulato a caldo dalla Polizia Scientifica. Lo
scopo ultimo era quello di verificarne l’eventuale appartenenza al medesimo
lotto di produzione, e quindi la probabilità di aver fatto parte della medesima
scatola.
Vale la pena
ricordare che in base al parere fornito nel 1984 dalla casa costruttrice, le
cartucce usate negli otto duplici omicidi del Mostro erano tutte di produzione
anteriore al 1968 e corrispondenti a tre diversi lotti. Si è poi qui supposto
che probabilmente a quei tre lotti corrispondevano tre diverse scatole, una per
Signa, una per Borgo, e una per i delitti degli anni ’80. Le cartucce di
quest’ultima erano le uniche in piombo nudo, per cui il termine di confronto
con quella Pacciani, anch’essa in piombo nudo, avrebbe potuto limitarsi ai
relativi bossoli. Ma la perizia mise dentro tutto, addirittura anche la
cartuccia raccolta nell’ospedale di Ponte a Niccheri dopo Scopeti, e giunse a
conclusioni molto confuse (una disamina dell’argomento si può leggere qui).
Furono trovate
alcune coincidenze, come la gambetta orizzontale superiore destra di larghezza
minore delle altre, una minima inclinazione della barra centrale, più una terza
poco comprensibile, e questo fece supporre che la matrice dalla quale erano
derivati tutti i punzoni potesse anche essere la medesima. Furono altresì
evidenziate alcune difformità, in modo però poco chiaro: la presenza nella
cartuccia Pacciani di striature all’interno della lettera “H” assenti in alcuni
bossoli del Mostro e presenti in altri, ma in numero decisamente inferiore; la
larghezza delle gambe verticali assai maggiore nella cartuccia Pacciani
rispetto a quella di alcuni dei
bossoli del Mostro, ma non venne specificato se ve n’erano altri nei quali la
differenza non sussisteva; la profondità e definizione dei lati della lettera
“H” minore nella cartuccia Pacciani, anche in questo caso però rispetto ad alcuni dei bossoli del Mostro, senza
specificare se per altri non era così. Nessuna di queste differenze e
somiglianze venne associata a bossoli specifici, e inevitabilmente questo
autorizza a ritenere che neppure uno aveva la lettera “H” del tutto identica a
quella della cartuccia Pacciani, altrimenti i periti lo avrebbero ben
riportato.
Sulla base della
perizia il giudice di primo grado si ritenne convinto del fatto che su tutti i
bossoli erano stati impiegati punzoni provenienti da una medesima matrice, e
anche se questo non lo autorizzava “a sostenere con assoluta certezza che il reperto Pacciani
appartenesse ad uno dei lotti di cui facevano parte le munizioni impiegate nei
duplici omicidi”, così concluse:
Osserva la Corte come, fermo
restando il valore relativamente identificativo, per le ragioni e nei limiti
già visti, della lettera H impressa sul fondello dei bossoli, sta di fatto che
non solo non esistono incompatibilità tra il reperto Pacciani e quelli degli
omicidi ma, al contrario, esso si pone con gli stessi in un rapporto di
compatibilità e di probabile connessione sia temporale che di fabbricazione.
Non si comprende
dove stesse la connessione indicata dal giudice, poiché l’unica possibile
sarebbe stata la dimostrata provenienza da una medesima scatola. Ma anche ammesso e non
concesso che davvero la matrice d’origine fosse stata una sola per tutti i
bossoli, da essa ne erano derivati milioni, e soltanto una perfetta coincidenza
di ogni particolare della lettera “H” avrebbe potuto autorizzare il sospetto di
provenienza da un’unica scatola (mai comunque la certezza). Ma non fu trovata
nessuna coincidenza perfetta.
Per di più non vi
furono certezze neppure riguardo la matrice, e sull’argomento l’attento e
inflessibile giudice di secondo grado non mancò di censurare le conclusioni sia
dei periti sia del giudice di primo grado:
V'è in primo luogo da rilevare
che i periti Benedetti e Spampinato, evidenziate in tre punti le
caratteristiche morfologiche generali coincidenti, ed in tre punti le
differenze, hanno immotivatamente valorizzato soltanto le prime, ed ignorato le
seconde, così giungendo a stabilire che si tratta di lettere "H"
marcate con punzoni ottenuti dalla medesima matrice; ugualmente ha fatto il
primo giudice.
Eppure, già il Gabinetto di
Polizia Scientifica in sede di primo esame aveva rimarcato che la lettera stampigliata
sul fondello della cartuccia sequestrata, presentava alla base interna
dell'asse sinistro una piccola amputazione, causata molto verosimilmente
dall'usura dello stampo, e che tale particolarità non trovava esatta
corrispondenza nell'analoga anomalia presente nella stessa sede del fondello
dei bossoli esaminati nella perizia Iadevito: tant'è che ipotizzava uno stato
d'usura del punzone, progredito dallo stampo della prima "H" allo
stampo delle seconde "H". I periti sono parsi ignorare tale rilievo, e
nel contempo non hanno tratto alcuna conseguenza dalle differenze che essi
stessi avevano rilevato: la prima delle quali veniva così descritta
"all'interno della lettera H della cartuccia sequestrata al Pacciani si
notano numerose microstrie, fenomeno rilevato soltanto su alcuni dei bossoli
repertati, sui quali però le stesse sono presenti in quantità inferiore",
e quindi sembrava essere comune a tutti i bossoli repertati. Così come hanno
ignorato il possibile significato differenziante della depressione circolare
concentrica rispetto alla circonferenza del bossolo, presente sul fondello
della cartuccia (pag. 14 della perizia, lett. a), pur avendo rilevato
l'impronta, e pur avendo ipotizzato che essa stesse ad indicare una peculiarità
di fabbricazione della cartuccia.
Come si vede
Ferri elencò un buon numero di differenze riscontrabili nelle perizie e del
tutto ignorate sia dai periti in dibattimento sia e soprattutto dal giudice in
sentenza.
Si può infine
rilevare come nessuna indagine fu disposta né tantomeno eseguita sulla
composizione chimica della polvere da sparo presente nel bossolo e
nell’innesco, non sempre costante nel tempo per ogni modello di cartuccia. Un
confronto con i valori reperibili presso la casa madre avrebbe forse potuto
fornire una data di fabbricazione più o meno precisa.
Le microstrie. Ogni arma da fuoco che spara cartucce a
proiettile unico lascia su di esse due firme univoche: l’impronta di percussione sul fondo del bossolo e le impronte di rigatura sulla superficie
laterale del proiettile. La prima si presenta come un avvallamento dovuto al
forte urto del percussore al momento
dello sparo, le seconde hanno forma di solchi elicoidali incisi dalle rigature interne della canna, a rilievo
e anch’esse elicoidali, necessarie per imprimere al proiettile un moto rotatorio attorno al proprio asse che lo mantenga, in virtù del conseguente effetto giroscopico, con la punta (ogiva)
in avanti. Oltre a manifestare caratteristiche ben precise a seconda del
modello dell’arma, in entrambi i casi le impronte vengono personalizzate dalle
inevitabili imperfezioni e gradi di consumo dei rispettivi elementi incidenti –
nel caso del proiettile anche da quelli delle superfici tra una rigatura e
l’altra – rilevabili da un esame al microscopio e in grado di consentire
l’associazione di bossolo e proiettile al particolare esemplare che li ha
sparati, se non con certezza assoluta almeno con un elevatissimo grado di
probabilità.
Con armi
automatiche e semiautomatiche, ad aiutare il perito balistico concorrono altri
due elementi identificativi: l’impronta
di estrazione e l’impronta di
espulsione, riguardanti entrambe il bossolo, e prodotte da componenti del carrello otturatore (o semplicemente otturatore),
mentre questo si muove sotto l'effetto dei gas di sparo. La prima è dovuta a un piccolo
dente, l’estrattore, che aggancia e
tira il bossolo esploso liberando la camera di sparo, e ha la forma di una
piccola incisione sul corpo cilindrico a poca distanza dal fondo. La seconda è
dovuta all’espulsore, un congegno che
spinge fuori dall’arma il bossolo vuoto, e si presenta anch’essa come una
piccola incisione ma sul fondo (fondello).
La parte in alto
della figura precedente, tratta dall’ottimo articolo consultabile qui, mostra il dente dell’estrattore che aggancia il collarino del bossolo e tira, e la punta dell’espulsore che
successivamente spinge lo stesso bossolo inclinandolo e facendogli imboccare l’apposita
fessura di uscita dall’arma. Viene anche indicato il percussore, in questo caso
centrale, nel caso della Beretta del Mostro invece periferico, trattandosi di
una cartuccia a percussione anulare. Il contatto di estrattore ed espulsore,
fatti di metallo duro, generalmente acciaio, con il più tenero ottone del
bossolo produce su quest’ultimo delle impronte, evidenziate in rosso nella
figura. Tali impronte, come quella del percussore, vengono considerate primarie, anche se non hanno la medesima
affidabilità, sia per la piccolezza delle incisioni sia per una loro maggiore
variabilità nel tempo. Per una identificazione sicura dell’arma basata sui
bossoli espulsi le tre impronte primarie
dovrebbero coincidere tutte.
La cartuccia
Pacciani naturalmente non poteva portare né le rigature sul proiettile, né l’impronta
del percussore sul bossolo, visto che non era stata esplosa. Diverso è il
discorso riguardante l’impronta di
estrazione e l’impronta di espulsione. Se la cartuccia fosse stata inserita
dentro un’arma e per qualche motivo non avesse funzionato, come in effetti
l’accusa ipotizzava, per toglierla il mancato sparatore avrebbe dovuto tirare
indietro a mano il carrello otturatore
per poi lasciarlo tornare al suo posto sotto l’effetto della relativa molla. In
questo modo avrebbe fatto entrare in opera sia l’estrattore che l’espulsore,
con la conseguente produzione delle relative impronte. È però evidente che una scarrellatura manuale non può replicare
le medesime caratteristiche di velocità e accelerazione del movimento di un otturatore
spinto dai gas di scarico della cartuccia esplosa – ad esempio, il ritorno del
carrello potrebbe essere accompagnato – quindi le relative impronte non è detto
siano utilizzabili per confronti. In effetti sulla cartuccia Pacciani l’impronta di
espulsione non c’era, e quella di estrazione non era come avrebbe dovuto
essere, ci torneremo sopra. Alla luce di tutto questo, è facile concludere che,
secondo le regole ufficiali della balistica forense, non sussisteva la minima
possibilità di poter effettuare delle comparazioni di impronte tra la cartuccia
Pacciani e i bossoli e i proiettili attribuiti alla pistola del Mostro. Ma gli
inquirenti non si arresero così facilmente, e andarono alla ricerca di altri segni.
Già dal momento dell’introduzione della cartuccia nel caricatore, l’acciaio dei meccanismi interni dell’arma può provocare striature e graffi, sia sulla superficie del bossolo sia su quella del proiettile, i quali possono continuare a prodursi anche durante le successive fasi di avvicinamento e arrivo nella camera di sparo.
Già dal momento dell’introduzione della cartuccia nel caricatore, l’acciaio dei meccanismi interni dell’arma può provocare striature e graffi, sia sulla superficie del bossolo sia su quella del proiettile, i quali possono continuare a prodursi anche durante le successive fasi di avvicinamento e arrivo nella camera di sparo.
Con l’aiuto della
figura soprastante, che rappresenta la sezione di una semiautomatica con sette
colpi nel caricatore e uno in canna, cerchiamo di seguire il viaggio della
cartuccia all’interno dei meccanismi della pistola. Per prima cosa il
caricatore vuoto viene tolto dal suo alloggiamento nel calcio dell’arma e
riempito di cartucce spingendole a mano nella sua bocca situata in alto. Ogni
cartuccia introdotta spinge le precedenti verso il basso, comprimendo nel
contempo una molla, quella che in figura si vede raccolta in fondo. Poi il
caricatore viene introdotto nel calcio, e, con un movimento manuale del carrello otturatore che viene arretrato e poi
rilasciato, la prima cartuccia in alto, l’ultima a essere stata inserita, entra
nella camera di sparo, mentre le sottostanti salgono spinte dalla molla di cui
si è detto. I medesimi movimenti si ripetono a ogni sparo, con la differenza
che il carrello otturatore si muove
non più spinto dalla mano dell’uomo ma dalla pressione di parte dei gas dello
scoppio.
Le impronte
prodotte dagli sfregamenti della cartuccia contro l’acciaio dei meccanismi
interni dell’arma durante il viaggio sopra descritto sono dette secondarie, non altrettanto idonee
all’identificazione dell’arma come le tre primarie, ma comunque sempre di un
certo interesse. In particolare, riguardo la cartuccia Pacciani, la polizia
scientifica ne aveva individuata una sulla quale lavorare, la cosiddetta impronta di spallamento, che si produce
nella fase finale del viaggio. Tale impronta è costituita da graffietti, detti
in gergo tecnico microstrie, che si imprimono
sul bordo del fondello per effetto dello strisciare della parte inferiore
dell’otturatore mentre, dopo essere arretrato per lo sparo precedente, spinto
dalla molla di recupero, torna in
posizione, agganciando una nuova cartuccia e allineandola alla camera di sparo.
Il movimento può avvenire anche in conseguenza di una manovra manuale, come
quando si inserisce il primo colpo in canna dopo aver caricato l’arma, lo
abbiamo visto. Sulla cartuccia Pacciani era avvenuto proprio questo: il
carrello otturatore era stato tirato indietro a mano e rilasciato con il
conseguente incameramento della cartuccia e la produzione delle microstrie (qui una trattazione approfondita dell’argomento).
Teoricamente
l’impronta potrebbe consentire di identificare il singolo esemplare d’arma,
poiché riproduce le imperfezioni della superficie incidente, individualizzate
in sede di fabbricazione dall’intervento diretto dell’operaio che, lima alla
mano, rifinisce il manufatto. Ma per i complessi giochi di forze che agiscono
sulla cartuccia in fase di incameramento, il contatto tra le due superfici può
avvenire con modalità molto variabili, e il più delle volte non avviene
affatto. Nel caso dei 51 bossoli repertati negli otto duplici omicidi di
Firenze, soltanto 13 riportavano l’impronta, per di più con non piccole
differenze tra loro di profondità e continuità delle microstrie. Nel caso di
armi a percussione anulare, come la Beretta del Mostro, a complicare i
confronti si aggiunge la possibile cancellazione di una parte dell’eventuale
impronta per opera del percussore, che va a battere proprio nella stessa zona,
e, poiché la cartuccia ruota in modo casuale prima di fermarsi nella camera di
sparo, la parte cancellata varia. Va da sé che la cartuccia Pacciani riportava un’impronta di
spallamento completa, non essendo stata colpita dal percussore, mentre i
bossoli del Mostro no, lo vedremo.
Nonostante le
oggettive difficoltà del confronto, Spampinato e Benedetti tentarono comunque
di percorrere l’impervia strada, dato che il GIP lo aveva specificatamente
richiesto in conseguenza delle prime rilevazioni della scientifica che si era
accorta di quelle microstrie. Allo scopo i periti condussero una preventiva
verifica empirica, sparando numerosi colpi con tre Beretta simili a quella
presunta del Mostro e caricate con cartucce analoghe. L’esame comparato dei
bossoli li convinse che, in base ai fasci di microstrie componenti l’impronta
di spallamento – naturalmente quando si produceva – era possibile distinguere un
esemplare di pistola dall’altro. In più verificarono che l’impronta si
produceva anche per un incameramento manuale, come del resto era avvenuto sul
bossolo della cartuccia Pacciani.
Il passo
successivo fu quello di verificare e confrontare le impronte di spallamento sui
bossoli del Mostro. Sappiamo già che esse erano presenti soltanto in 13
esemplari su 51, ma in quei 13 i periti dichiararono di aver trovato “buona identità”.
Infine il
confronto fu esteso alla cartuccia Pacciani, con risultati incerti, così
riassunti dalla sentenza di secondo grado:
[I periti] pervenivano alla
conclusione che, nella maggior parte delle comparazioni, sussisteva "una
buona identità di andamento e di posizione reciproca fra le microstrie più
profonde, presenti sulle superfici comparate. Tuttavia, tutta questa serie di
confronti non si è potuta effettuare fra superfici omogenee, sulle quali cioè
si potessero comparare le microstrie incise su un arco di circonferenza della
medesima ampiezza" in quanto "su nessuno dei bossoli repertati è
stato rilevato un settore di microstrie, avente la stessa larghezza di quello
presente sul bossolo della cartuccia sequestrata presso il Pacciani", e
ciò perché "sui bossoli repertati, buona parte della superficie ove erano
impresse le microstrie è stata obliterata dall'impronta prodotta, dopo la fase
dell'introduzione in canna della cartuccia, dall'urto del percussore";
inoltre, "in prossimità dei lati destro o sinistro dell'impronta del
percussore di alcuni bossoli repertati sono state rilevate alcune microstrie,
che presentano una lieve discontinuità con quelle presenti sulla cartuccia del
Pacciani; questa anomalia però dovrebbe, con buone probabilità, essere stata
causata dalla deformazione, con conseguente stiramento del metallo e incurvamento
della superficie, provocata sul fondello dall'urto del percussore".
Concludevano, sul punto, i periti
nel senso che "gli elementi raccolti nel corso di questa indagine non
siano sufficienti, per formulare un giudizio di certezza in ordine alla provenienza
degli elementi di colpo sopracitati dalla medesima arma. Per contro, la buona
coincidenza di singoli fasci di microstrie presenti sui reperti comparati non
consente di escludere questa possibilità".
La comparazione
fu ostacolata dalla disomogeneità degli elementi, essendo l’impronta sulla
cartuccia Pacciani completa e intonsa, quelle sui bossoli del Mostro obliterate
e deformate dall’urto del percussore, e in alcuni casi anche ossidate. Seppure
Spampinato e Benedetti riscontrarono “buona identità” e “buona coincidenza” tra le
microstrie più profonde, conclusero comunque con un giudizio di incertezza, sia
in un senso che nell’altro: in base al confronto di quelle microstrie non
potevano né confermare né escludere che la cartuccia Pacciani fosse stata
incamerata nella pistola del Mostro.
Sulla cartuccia
Pacciani i periti trovarono un’altra impronta di un certo interesse, un piccolo
solco rettilineo sul fondello del bossolo provocato dal contatto della cartuccia con una delle
labbra del caricatore durante l’inserimento
manuale nello stesso. La figura precedente schematizza il dispositivo a labbra,
il cui scopo è quello di trattenere la cartuccia dopo il suo inserimento. L’impronta
è trattata in balistica forense, ma è considerata di importanza minima, poiché
è molto dipendente dal modo in cui viene inserita la cartuccia da chi carica
l’arma, e spesso non c’è. Ma dentro il piccolo solco della cartuccia Pacciani
fu trovata una microstria, dovuta, secondo i periti, a una particolarità
costruttiva o di usura di una delle labbra del caricatore, e per questo
individualizzante. Analogo solco e analoga microstria, coincidente “per alcuni tratti”,
era riscontrabile su due dei 51 bossoli del Mostro. Tale parzialissima
coincidenza, rientrante peraltro in un accettabile risultato probabilistico,
era comunque priva di valore. È evidente che con l’esame di quest’ultima
impronta i periti erano andati a raschiare il fondo del barile, dove ormai
potevano trovare soltanto fuffa.
Alla fine, nonostante
la loro disponibilità verso i bisogni dell’accusa, Benedetti e Spampinato non se la sentirono
di affermare con certezza che la cartuccia Pacciani era stata incamerata nella
pistola del Mostro, ma non per questo si salvarono dalle pesanti critiche del
giudice di secondo grado, che lamentò la non applicazione di un metodo sicuro e
codificato nelle comparazioni – del resto non esistente in letteratura per le
tracce trovate sulla cartuccia Pacciani – sostituito dal “colpo d’occhio del perito”:
Orbene, v'è innanzitutto da
rilevare che i periti parlano costantemente, nel loro elaborato, di microstrie
o fasci di microstrie, ma non quantificano mai le microstrie o i fasci di
microstrie o il numero di microstrie presenti all'interno di ciascun fascio, e
soprattutto non indicano mai il limite oltre il quale deve ritenersi l'identità
e sotto il quale non può ritenersi l'identità: ciò evidentemente non per loro
ignoranza, ma perché mancano loro i parametri di riferimento, allo stadio
attuale delle acquisizioni scientifiche in materia balistica.
Se poi si passa al diretto
riscontro visivo delle microfoto di comparazione allegate alla relazione, si
riscontrano i fenomeni descritti dai periti, ma non si evidenzia la presenza di
fasci di microstrie, tra loro adiacenti, coincidenti per andamento e posizione
reciproca. Ciò che emerge visivamente, dalle microfoto nn.162 e seguenti, è la
coincidenza di singole microstrie, intervallate da palesi discontinuità e
difformità; anche il reperto "5" Baldi-Cambi, nel quale secondo i
periti "la quasi totalità delle microstrie presenti sulla superficie
comparata hanno andamento e posizione reciproca coincidenti", presenta al
controllo visivo singole strie coincidenti, intervallate da discontinuità e
difformità. […]
L'enunciazione del principio,
secondo il quale l'accertamento sulle tracce può essere solo qualitativo e va
rimesso al colpo d'occhio del perito […] costituisce mera prospettazione di un
modo di procedere, che può avere qualche valenza ai fini investigativi, ma non
ne ha affatto sotto il profilo scientifico e sotto il profilo
giuridico-processuale. […]
Se non v'è possibilità di
controllo da parte del giudice, la valutazione finisce per essere affidata
interamente all'interprete tecnico, e viene a mancare l'essenza stessa della
giurisdizione; le stesse garanzie difensive per l'imputato vengono ad essere
vanificate.
Il ragionamento
di Ferri è ineccepibile: non esistendo precise regole che consentano confronti
inequivoci – e se non ne esistono vuol dire che al momento non è possibile
formularne – ogni valutazione è affidata al giudizio personale
dell’esaminatore, senza possibilità di verifica, ed è quindi priva di valore
giuridico. Non a caso, osservò ancora Ferri,
non risultava nel mondo un solo
caso di identificazione tramite l'impronta di spallamento, con riferimento ad una
pistola e con riferimento ad un'arma non repertata, e nel caso dell'omicidio
Kennedy l'impronta di spallamento era accompagnata dall'impronta
dell'estrattore, e si riferiva ad un fucile repertato.
L’inceppamento. La prima ipotesi sul modo in cui si erano
prodotti i gravi danni della cartuccia Pacciani – proiettile disassato e libero
di ruotare rispetto al bossolo – fu formulata dalla Polizia Scientifica nella
relazione del 2 maggio, secondo la quale il responsabile sarebbe stato il
bossolo precedente rimasto bloccato nella camera di sparo causa qualche
malfunzionamento. La cartuccia Pacciani vi avrebbe sbattuto contro, spinta dal
ritorno del carrello otturatore, deformandosi e inceppando l’arma. In effetti
il piombo morbido del proiettile riportava un’ammaccatura, però di forma
concava, e non piatta, come avrebbe dovuto essere se prodotta dall’urto contro
la superficie piana del fondello di un bossolo.
Nel tentativo di
riprodurre analoghe deformazioni, i periti cercarono in tutti i modi di
provocare un inceppamento “naturale” nelle tre pistole sotto test, cioè sparando, ma non vi
riuscirono. Ricorsero allora, con miglior fortuna, a spostamenti manuali del
carrello otturatore, potendo subito verificare come la dinamica ipotizzata
dalla scientifica fosse da escludersi. Con un bossolo dentro la camera di
sparo, non soltanto non riuscirono a ottenere l’ammaccatura concava della
cartuccia Pacciani, come era prevedibile, ma anche due scalfitture dovute
all’inceppamento e presenti in entrambi i casi furono trovate ad altezze
differenti.
Si procedette
quindi a verificare un’ipotesi alternativa, a camera di sparo libera e
cartuccia mal posizionata in cima al caricatore. I risultati furono decisamente
migliori e le due scalfitture assunsero una posizione più prossima a quella
della cartuccia Pacciani. L’impronta concava sul proiettile, però, non fu
possibile riprodurla neppure così, e per essa continuò a mancare una
spiegazione accettabile. In dibattimento l’imbarazzo di Benedetti
e Spampinato apparve evidente (vedi). Dopo il tentativo d’imbeccata del colpevolista Ognibene, non raccolto
– “A questo
punto si inserisce il Presidente. Ma... queste deformazioni potevano anche
preesistere?” – Benedetti buttò lì la ridicola e disperata ipotesi
della caduta sopra un sassolino: “Signor Avvocato, potrebbero... Se in teoria, nell'infilare o
nel mettere... o nel cadere nel terriccio ci fosse stato un sassolino, o nell'introdurlo
ci fosse stato un sassolino, forse poteva anche far questo”.
I due periti si
trovarono spiazzati anche di fronte a un’incisione riscontrata alla base del
bossolo, proprio dove normalmente avrebbe dovuto trovarsi l’impronta di estrazione. Ma sulla
cartuccia Pacciani quell’impronta era larga il doppio del normale, per una
Beretta della serie 70, tantoché i due periti si rifiutarono di ritenerla
riferibile all’azione di un estrattore, senza però riuscire a darne una
spiegazione alternativa. La difesa colse la palla al balzo, e contestò tutto il
loro lavoro alla radice, rovesciando il ragionamento: possedendone le
caratteristiche di forma e posizione, e mancando una spiegazione di diversa
origine, l’impronta andava ritenuta di estrazione, ma poiché una Beretta della
serie 70 ne produceva di forma differente, si doveva concludere che la
cartuccia non era stata incamerata in un’arma di quel tipo.
Il giudice di
primo grado, al solito, fu più realista del re, e suppose che la manovra di
estrazione della cartuccia Pacciani avesse prodotto un’impronta più marcata
perché manuale, anche se, a dire il vero, nelle prove condotte da Benedetti e Spampinato il fenomeno non era emerso, almeno non nelle medesime
proporzioni. Ma sembra comunque ragionevole ritenere che la strada indicata da
Ognibene fosse quella giusta, tanto più che le pressioni sulla povera
cartuccia, piena di incisioni e scalfitture di ogni tipo, dovettero essere
state particolarmente forti per riuscire a disincastrarla. Forse anche il segno concavo
sull’ogiva era frutto del medesimo tentativo, una spinta con un perno metallico
infilato dentro la canna. In ogni modo appare chiaro che sulla cartuccia
Pacciani doveva essere stato compiuto un grosso lavoro di manipolazione. Lo
stesso Benedetti, illustrando in dibattimento le manovre che furono necessarie
per riprodurre deformazioni e tracce simili, involontariamente ne dette
un’idea:
Allora abbiamo cercato di
riprodurre queste tracce manualmente, cioè introducendo la cartuccia nel
caricatore in modo che il fondello del bossolo si trovasse vicino alla parte
anteriore delle labbra del caricatore, e il proiettile invece disposto più in
alto, inclinato in modo che non potesse entrare nella camera di cartuccia.
Lasciando andare l'otturatore noi abbiamo riprodotto, come dimostrano anche le
fotografie, impronte e deformazioni, direi, molto simili a quelle trovate sul
reperto.
Ancora un
elemento importante si aggiunge a dimostrare le manipolazioni subite dalla
cartuccia: prima dell’inceppamento che l’avrebbe deformata, era stata
normalmente introdotta in canna e poi normalmente scaricata. Le microstrie
dell’impronta di spallamento, infatti, non potevano che essersi prodotte così.
Questo voleva dire che Pacciani avrebbe tolto una cartuccia inesplosa ma non inceppata
– residuo di uno degli omicidi? – sulla quale erano rimaste impresse le
microstrie, e poi l’aveva reinserita in un successivo momento facendola
inceppare. Benedetti affermò che incameramenti multipli erano normali, ad
esempio per le forze dell’ordine che scaricavano le loro armi dopo una
missione, però fu costretto ad ammettere che in nessuno dei bossoli del Mostro erano
state trovate doppie impronte, quindi per nessuno di essi si poteva dimostrare
un doppio incameramento (il che poteva voler dire che l’individuo, dopo ogni
omicidio, lasciava le munizioni residue nel caricatore); per la cartuccia
Pacciani invece sì, e la difesa non mancò di sottolineare la strana
coincidenza. Il giudice di primo grado risolse la questione sulla base di un
calcolo probabilistico: le impronte di spallamento sui bossoli del Mostro si
erano prodotte soltanto in 13 casi su 51, e quindi, se qualcuna di quelle 13
cartucce fosse stata reintrodotta, su di essa avrebbe potuto benissimo non
rimanere un’altra impronta, oppure la prima volta non era rimasta e la seconda
sì. Si tratta di un’ipotesi senz’altro valida che però si va ad aggiungere a
molti altri aggiustaggi che si rendono necessari per far quadrare dei conti che
tornano poco.
Conclusioni. In conclusione possiamo senz’altro
affermare che sulla cartuccia Pacciani non c’era neppure un’impronta che
potesse ricondurre in modo sicuro – ma neppure probabile – alla pistola del
Mostro, anzi, la miriade di graffietti, ammaccature e strisciamenti vari non
poteva che confermare l’impressione di una prova preparata a tavolino. Qualcuno
con quella cartuccia aveva giocato a lungo, questo è indubbio. Era stato
Pacciani a gingillarcisi introducendola nella pistola con la quale aveva
compiuto i duplici omicidi, oppure l’aveva manipolata qualche entità nascosta
per poi spingerla nel foro di quel paletto rotto sopra il quale avrebbe
camminato Perugini?
A tanti anni di
distanza è arrivato ormai il momento di guardare ai fatti con serenità, senza
paura di ipotizzare lo scenario inquietante che essi indubbiamente lasciano
intravedere. Il che vale anche per gli attori dell’epoca, che in tutta buona
fede avevano collaborato a incastrare colui che credevano fosse il famigerato
Mostro. Non potendo disporre di un bossolo esploso dalla introvabile Beretta, e
non potendone “costruire” uno data l’univocità di ogni percussore, si cercò di
procurarsi qualcosa di comunque indiziante. Una semplice cartuccia nuova,
seppure del tipo di quelle usate dal Mostro, sembrò troppo poco, quindi se ne
manipolò una cercando di imprimerle dei segni che potessero almeno far sorgere
dei dubbi. Ecco allora che l’impronta di spallamento, presente soltanto una
volta su quattro tra i 51 bossoli del Mostro, nel caso della cartuccia Pacciani
c’era. E così anche il solco sul fondello con dentro la microstria, che invece
era rimasta impressa soltanto due volte, e nella cartuccia Pacciani, guarda
caso, c’era.
Fu soltanto una
coincidenza che due impronte di solito più mancanti che presenti fossero
entrambe presenti? Quelle due impronte, per la loro ambigua qualità
individualizzante, e magari con la scelta delle più simili dopo diverse prove,
potevano costituire l’elemento indiziante cercato. E così probabilmente andò.