domenica 18 febbraio 2018

La cartuccia nell'orto (2)

Segue dalla prima parte

Proseguiamo con la valutazione della prova regina contro Pacciani prima dell’avvento del presunto pentito Lotti. In questa seconda parte verranno affrontate alcune questioni tecniche. Del tutto a digiuno della materia, ho cercato per quanto possibile di capirne prima qualcosa, ma sono consapevole della possibilità di aver commesso degli errori, della cui segnalazione sarei ben lieto.

Il periodo di interramento. Nelle settimane e nei mesi successivi sulla cartuccia furono effettuati vari esami. Ai fini della valutazione della genuinità della prova il più importante fu senza dubbio quello che cercò di stabilire per quanto tempo essa fosse rimasta imbozzolata nel terriccio, e quindi valutare il momento nel quale poteva essere caduta nel foro oppure esservi stata inserita. A questo scopo fu misurato il livello di corrosione della superficie del bossolo, il cui materiale, l’ottone, si prestava molto meglio a tale esame rispetto al piombo del proiettile. L’ottone è una lega di rame e zinco, nella quale il fenomeno di degrado della superficie, chiamato “dezincificazione”, consiste nella perdita dello zinco e nel successivo rideposito del solo rame in forma spugnosa, processo più o meno rapido in dipendenza dell’aggressività dell’ambiente esterno, determinata più che altro dalla sua acidità. Valutata quest’ultima, lo spessore dello strato di rame spugnoso dà un’indicazione del momento in cui il fenomeno è iniziato. Purtroppo, per misurare quello della cartuccia Pacciani, fu necessario sezionarne il bossolo – ma non fu chiesto il permesso al GIP, come sarebbe stato opportuno – con la sua inevitabile compromissione, e se è vero che gli esami balistici erano già stati effettuati, è altrettanto vero che essi non si sarebbero potuti più ripetere, almeno non con analoghe modalità.
Il perito incaricato dell’esame, Giancarlo Mei (vedi), lamentò la mancanza di salvaguardia del grumo di terra contenente la cartuccia, del quale avrebbe voluto studiare le caratteristiche elettrochimiche per valutarne il livello di aggressività. Il che rafforza le perplessità già espresse sulla troppa fretta con la quale Perugini aveva estratto la cartuccia seduta stante. In ogni caso bisogna dire che anche con il grumo di terra salvaguardato Mei avrebbe potuto concludere ben poco, almeno a sentire lui, poiché l’unico termine di confronto che era riuscito a reperire in letteratura risultava molto grossolano, senza distinzione del tipo di terreno e per di più limitato al solo intervallo temporale di cinque anni, per il quale veniva indicata una misura minima dello strato dezincificato di 20-25 micron (millesimi di millimetro). La misura per la cartuccia Pacciani risultò andare da un minimo di 0,2 micron a un massimo di 5, dalla quale, secondo Mei, si poteva trarre l’ovvia deduzione che il bossolo era stato interrato da meno di cinque anni. Ma su quanto potesse valere quel “meno” il perito non volle sbilanciarsi, invocando la mancanza di linearità della funzione di correlazione tra tempo e profondità dello strato, la cui velocità di accrescimento non è dunque costante. In realtà Mei non voleva scontentare il suo committente in ultima analisi il PM come purtroppo spesso succede. Avrebbe infatti osservato il giudice di secondo grado:

Si può convenire con il perito che la rimarcata variabilità dei fenomeni corrosivi non permetta una precisa determinazione temporale dell'inizio del periodo d'interramento, ma non si può convenire anche sul rifiuto di concludere per un tempo d'interramento ben inferiore ai cinque anni, quantomeno sotto un profilo di elevata probabilità.
Appare, in effetti ragionevole concludere, in presenza di un grande divario tra i valori dì dezincificazione rilevati sulla cartuccia repertata ed i valori di dezincificazione corrispondenti ad un periodo d'interramento di cinque anni, per un tempo d'interramento della cartuccia stessa nettamente inferiore ai cinque anni.

Non si può che essere d’accordo con Ferri, poiché anche un profano non può ignorare come la misura trovata da Mei, lontanissima da quella limite dei cinque anni, non possa che indicare un periodo d’interramento molto, molto più breve. Anche considerando il valore più basso dello strato di rame spugnoso dopo cinque anni, 20 micron, gli 0,2 minimi della cartuccia Pacciani sono 100 volte inferiori, i 5 massimi 4 volte. Se quindi si volesse dare per buono – e vedremo subito quanto bisogno ne aveva l’accusa – immaginare un periodo d’interramento prossimo ai cinque anni, dovremmo anche accettare una repentina impennata della velocità di dezincificazione nell’ultimo periodo, fino a portarsi ai valori noti; il che suona, più che improbabile, decisamente impossibile. In realtà tutto doveva far ritenere che la cartuccia Pacciani fosse rimasta interrata soltanto per qualche mese, ma, a dire il vero, era persino lecito pensare che non lo fosse mai stata, poiché l’ottone si ossida un po’ anche al semplice contatto dell’aria, soprattutto se umida, e quella cartuccia era stata prodotta non meno di dieci anni prima. Del resto le foto pubblicate mostrano una superficie del bossolo lucente, con ben evidenti tutte le ammaccature che furono oggetto di studio, e anche la posizione superficiale della cartuccia nel grumo di terra non faceva certo pensare ad anni trascorsi in fondo a un buco riempito pian piano dai detriti portati dal vento e cementati dall’umidità.
A questo punto è necessario riflettere sul fatto che Pacciani era entrato in carcere il 30 maggio 1987, 4 anni e 11 mesi prima del ritrovamento della cartuccia, e ne era uscito il 6 dicembre 1991, da meno di 5 mesi. Quindi, in base ai risultati dell’esame della dezincificazione del bossolo, soltanto in quest’ultimo periodo avrebbe potuto perdere la cartuccia. Ma non è pensabile che in un momento nel quale aveva l’intera SAM a fiatargli sul collo – e lui ben lo sapeva, visto che aveva anche trovato una microspia – si sarebbe messo a giocherellare nell’orto con la famigerata pistola fino a farla inceppare. Perché lo avrebbe fatto, e dove teneva nascosta quella fantomatica arma che le tre perquisizioni domiciliari subite mentre si trovava in carcere non erano riuscite a trovare?
L’iper colpevolista giudice di primo grado cercò di abbozzare qualche pallida ipotesi in grado di superare almeno in parte l’antipatica difficoltà.

È possibile, anzi possibilissimo, che invece la cartuccia sia caduta dalla tasca di un qualche indumento ove il prevenuto poteva averla riposta dopo che l'arma destinata ad accoglierla in canna si era inceppata; come pure è possibile che essa sia caduta da un indumento del Pacciani, che la Manni Angiolina poteva avere scosso o spazzolato fuori di casa durante l'ultima detenzione dei marito, ovvero anche, ipotesi non del tutto remota, la cartuccia poteva essere stata perduta da un complice dell'imputato che faceva capo alla casa di via Sonnino.

Ipotesi poco convincenti, e non certo possibilissime, in seguito sarcasticamente respinte dal secondo giudice. Del resto in fondo in fondo ne era consapevole lo stesso Ognibene, che infatti proseguiva così:

Come si vede è tutta una serie di ipotesi che si possono avanzare e che hanno, ciascuna, un proprio ambito di ragionevolezza ma che, proprio per questo, mostrano la loro globale insufficienza non essendo ancorate a dati rigorosamente obbiettivi. Ed allora la Corte non può che ancorarsi all'unico dato obbiettivo che la paziente analisi dei dati processuali consente dì considerare acquisito con tranquillante sicurezza: il dato rappresentato dal fatto che la cartuccia cal. 22 L.R. trovata il 29 aprile 1992 nell'orto dei Pacciani era stata inserita in epoca non nota nella pistola Beretta serie 70 usata per commettere la serie di duplica omicidi e, successivamente, in data anch'essa non nota ma collocabile tra l'aprile 1987 e l'aprile 1992, era finita interrata dentro il foro dei paletto di cemento dove poi è stata rinvenuta.

In sostanza, appellandosi a presunte certezze sull’incameramento della cartuccia nella pistola del Mostro, certezze come vedremo tutt’altro che giustificate, il giudice di primo grado ignorò il problema del troppo breve periodo d’interramento. Che invece esiste, è gigantesco e incrementa a dismisura i sospetti sulla mancanza di genuinità della prova. Si tratta in sostanza della classica situazione cui ben si applica il detto: “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”…
Possiamo infine osservare che il grumo di terra rappresa che fu trovato attorno a una cartuccia rimasta sepolta da troppo poco tempo per darne giustificazione dà un valore aggiunto ai sospetti di Pacciani sull’uso dell’acido muriatico o comunque di una sostanza similare per provocarne un artificioso invecchiamento.

Lo studio della lettera “H”. Prima della distruzione del bossolo causa gli esami della perizia Mei, la cartuccia Pacciani era stata affidata nelle mani di due esperti balistici di grande prestigio: Ignazio Spampinato, generale dell’esercito, e Pietro Benedetti, tecnico del BNP, Banco Nazionale di Prova delle armi da fuoco di Gardone Val Trompia. Oltre al ben più importante studio sulle “microstrie”, del quale tratteremo più avanti, ai due periti fu richiesto un giudizio sul confronto delle punzonature a forma di “H” presenti sul bossolo della cartuccia Pacciani e sui bossoli del Mostro, approfondendo il sibillino giudizio di “compatibilità” ma “non esatta corrispondenza” formulato a caldo dalla Polizia Scientifica. Lo scopo ultimo era quello di verificarne l’eventuale appartenenza al medesimo lotto di produzione, e quindi la probabilità di aver fatto parte della medesima scatola.
Vale la pena ricordare che in base al parere fornito nel 1984 dalla casa costruttrice, le cartucce usate negli otto duplici omicidi del Mostro erano tutte di produzione anteriore al 1968 e corrispondenti a tre diversi lotti. Si è poi qui supposto che probabilmente a quei tre lotti corrispondevano tre diverse scatole, una per Signa, una per Borgo, e una per i delitti degli anni ’80. Le cartucce di quest’ultima erano le uniche in piombo nudo, per cui il termine di confronto con quella Pacciani, anch’essa in piombo nudo, avrebbe potuto limitarsi ai relativi bossoli. Ma la perizia mise dentro tutto, addirittura anche la cartuccia raccolta nell’ospedale di Ponte a Niccheri dopo Scopeti, e giunse a conclusioni molto confuse (una disamina dell’argomento si può leggere qui).
Furono trovate alcune coincidenze, come la gambetta orizzontale superiore destra di larghezza minore delle altre, una minima inclinazione della barra centrale, più una terza poco comprensibile, e questo fece supporre che la matrice dalla quale erano derivati tutti i punzoni potesse anche essere la medesima. Furono altresì evidenziate alcune difformità, in modo però poco chiaro: la presenza nella cartuccia Pacciani di striature all’interno della lettera “H” assenti in alcuni bossoli del Mostro e presenti in altri, ma in numero decisamente inferiore; la larghezza delle gambe verticali assai maggiore nella cartuccia Pacciani rispetto a quella di alcuni dei bossoli del Mostro, ma non venne specificato se ve n’erano altri nei quali la differenza non sussisteva; la profondità e definizione dei lati della lettera “H” minore nella cartuccia Pacciani, anche in questo caso però rispetto ad alcuni dei bossoli del Mostro, senza specificare se per altri non era così. Nessuna di queste differenze e somiglianze venne associata a bossoli specifici, e inevitabilmente questo autorizza a ritenere che neppure uno aveva la lettera “H” del tutto identica a quella della cartuccia Pacciani, altrimenti i periti lo avrebbero ben riportato.
Sulla base della perizia il giudice di primo grado si ritenne convinto del fatto che su tutti i bossoli erano stati impiegati punzoni provenienti da una medesima matrice, e anche se questo non lo autorizzava “a sostenere con assoluta certezza che il reperto Pacciani appartenesse ad uno dei lotti di cui facevano parte le munizioni impiegate nei duplici omicidi”, così concluse:

Osserva la Corte come, fermo restando il valore relativamente identificativo, per le ragioni e nei limiti già visti, della lettera H impressa sul fondello dei bossoli, sta di fatto che non solo non esistono incompatibilità tra il reperto Pacciani e quelli degli omicidi ma, al contrario, esso si pone con gli stessi in un rapporto di compatibilità e di probabile connessione sia temporale che di fabbricazione.

Non si comprende dove stesse la connessione indicata dal giudice, poiché l’unica possibile sarebbe stata la dimostrata provenienza da una medesima scatola. Ma anche ammesso e non concesso che davvero la matrice d’origine fosse stata una sola per tutti i bossoli, da essa ne erano derivati milioni, e soltanto una perfetta coincidenza di ogni particolare della lettera “H” avrebbe potuto autorizzare il sospetto di provenienza da un’unica scatola (mai comunque la certezza). Ma non fu trovata nessuna coincidenza perfetta.
Per di più non vi furono certezze neppure riguardo la matrice, e sull’argomento l’attento e inflessibile giudice di secondo grado non mancò di censurare le conclusioni sia dei periti sia del giudice di primo grado:

V'è in primo luogo da rilevare che i periti Benedetti e Spampinato, evidenziate in tre punti le caratteristiche morfologiche generali coincidenti, ed in tre punti le differenze, hanno immotivatamente valorizzato soltanto le prime, ed ignorato le seconde, così giungendo a stabilire che si tratta di lettere "H" marcate con punzoni ottenuti dalla medesima matrice; ugualmente ha fatto il primo giudice.
Eppure, già il Gabinetto di Polizia Scientifica in sede di primo esame aveva rimarcato che la lettera stampigliata sul fondello della cartuccia sequestrata, presentava alla base interna dell'asse sinistro una piccola amputazione, causata molto verosimilmente dall'usura dello stampo, e che tale particolarità non trovava esatta corrispondenza nell'analoga anomalia presente nella stessa sede del fondello dei bossoli esaminati nella perizia Iadevito: tant'è che ipotizzava uno stato d'usura del punzone, progredito dallo stampo della prima "H" allo stampo delle seconde "H". I periti sono parsi ignorare tale rilievo, e nel contempo non hanno tratto alcuna conseguenza dalle differenze che essi stessi avevano rilevato: la prima delle quali veniva così descritta "all'interno della lettera H della cartuccia sequestrata al Pacciani si notano numerose microstrie, fenomeno rilevato soltanto su alcuni dei bossoli repertati, sui quali però le stesse sono presenti in quantità inferiore", e quindi sembrava essere comune a tutti i bossoli repertati. Così come hanno ignorato il possibile significato differenziante della depressione circolare concentrica rispetto alla circonferenza del bossolo, presente sul fondello della cartuccia (pag. 14 della perizia, lett. a), pur avendo rilevato l'impronta, e pur avendo ipotizzato che essa stesse ad indicare una peculiarità di fabbricazione della cartuccia.

Come si vede Ferri elencò un buon numero di differenze riscontrabili nelle perizie e del tutto ignorate sia dai periti in dibattimento sia e soprattutto dal giudice in sentenza.
Si può infine rilevare come nessuna indagine fu disposta né tantomeno eseguita sulla composizione chimica della polvere da sparo presente nel bossolo e nell’innesco, non sempre costante nel tempo per ogni modello di cartuccia. Un confronto con i valori reperibili presso la casa madre avrebbe forse potuto fornire una data di fabbricazione più o meno precisa.

Le microstrie. Ogni arma da fuoco che spara cartucce a proiettile unico lascia su di esse due firme univoche: l’impronta di percussione sul fondo del bossolo e le impronte di rigatura sulla superficie laterale del proiettile. La prima si presenta come un avvallamento dovuto al forte urto del percussore al momento dello sparo, le seconde hanno forma di solchi elicoidali incisi dalle rigature interne della canna, a rilievo e anch’esse elicoidali, necessarie per imprimere al proiettile un moto rotatorio attorno al proprio asse che lo mantenga, in virtù del conseguente effetto giroscopico, con la punta (ogiva) in avanti. Oltre a manifestare caratteristiche ben precise a seconda del modello dell’arma, in entrambi i casi le impronte vengono personalizzate dalle inevitabili imperfezioni e gradi di consumo dei rispettivi elementi incidenti – nel caso del proiettile anche da quelli delle superfici tra una rigatura e l’altra – rilevabili da un esame al microscopio e in grado di consentire l’associazione di bossolo e proiettile al particolare esemplare che li ha sparati, se non con certezza assoluta almeno con un elevatissimo grado di probabilità.


Con armi automatiche e semiautomatiche, ad aiutare il perito balistico concorrono altri due elementi identificativi: l’impronta di estrazione e l’impronta di espulsione, riguardanti entrambe il bossolo, e prodotte da componenti del carrello otturatore (o semplicemente otturatore), mentre questo si muove sotto l'effetto dei gas di sparo. La prima è dovuta a un piccolo dente, l’estrattore, che aggancia e tira il bossolo esploso liberando la camera di sparo, e ha la forma di una piccola incisione sul corpo cilindrico a poca distanza dal fondo. La seconda è dovuta all’espulsore, un congegno che spinge fuori dall’arma il bossolo vuoto, e si presenta anch’essa come una piccola incisione ma sul fondo (fondello).


La parte in alto della figura precedente, tratta dall’ottimo articolo consultabile qui, mostra il dente dell’estrattore che aggancia il collarino del bossolo e tira, e la punta dell’espulsore che successivamente spinge lo stesso bossolo inclinandolo e facendogli imboccare l’apposita fessura di uscita dall’arma. Viene anche indicato il percussore, in questo caso centrale, nel caso della Beretta del Mostro invece periferico, trattandosi di una cartuccia a percussione anulare. Il contatto di estrattore ed espulsore, fatti di metallo duro, generalmente acciaio, con il più tenero ottone del bossolo produce su quest’ultimo delle impronte, evidenziate in rosso nella figura. Tali impronte, come quella del percussore, vengono considerate primarie, anche se non hanno la medesima affidabilità, sia per la piccolezza delle incisioni sia per una loro maggiore variabilità nel tempo. Per una identificazione sicura dell’arma basata sui bossoli espulsi le tre impronte primarie dovrebbero coincidere tutte.
La cartuccia Pacciani naturalmente non poteva portare né le rigature sul proiettile, né l’impronta del percussore sul bossolo, visto che non era stata esplosa. Diverso è il discorso riguardante l’impronta di estrazione e l’impronta di espulsione. Se la cartuccia fosse stata inserita dentro un’arma e per qualche motivo non avesse funzionato, come in effetti l’accusa ipotizzava, per toglierla il mancato sparatore avrebbe dovuto tirare indietro a mano il carrello otturatore per poi lasciarlo tornare al suo posto sotto l’effetto della relativa molla. In questo modo avrebbe fatto entrare in opera sia l’estrattore che l’espulsore, con la conseguente produzione delle relative impronte. È però evidente che una scarrellatura manuale non può replicare le medesime caratteristiche di velocità e accelerazione del movimento di un otturatore spinto dai gas di scarico della cartuccia esplosa – ad esempio, il ritorno del carrello potrebbe essere accompagnato – quindi le relative impronte non è detto siano utilizzabili per confronti. In effetti sulla cartuccia Pacciani l’impronta di espulsione non c’era, e quella di estrazione non era come avrebbe dovuto essere, ci torneremo sopra. Alla luce di tutto questo, è facile concludere che, secondo le regole ufficiali della balistica forense, non sussisteva la minima possibilità di poter effettuare delle comparazioni di impronte tra la cartuccia Pacciani e i bossoli e i proiettili attribuiti alla pistola del Mostro. Ma gli inquirenti non si arresero così facilmente, e andarono alla ricerca di altri segni.
Già dal momento dell’introduzione della cartuccia nel caricatore, l’acciaio dei meccanismi interni dell’arma può provocare striature e graffi, sia sulla superficie del bossolo sia su quella del proiettile, i quali possono continuare a prodursi anche durante le successive fasi di avvicinamento e arrivo nella camera di sparo.


Con l’aiuto della figura soprastante, che rappresenta la sezione di una semiautomatica con sette colpi nel caricatore e uno in canna, cerchiamo di seguire il viaggio della cartuccia all’interno dei meccanismi della pistola. Per prima cosa il caricatore vuoto viene tolto dal suo alloggiamento nel calcio dell’arma e riempito di cartucce spingendole a mano nella sua bocca situata in alto. Ogni cartuccia introdotta spinge le precedenti verso il basso, comprimendo nel contempo una molla, quella che in figura si vede raccolta in fondo. Poi il caricatore viene introdotto nel calcio, e, con un movimento manuale del carrello otturatore che viene arretrato e poi rilasciato, la prima cartuccia in alto, l’ultima a essere stata inserita, entra nella camera di sparo, mentre le sottostanti salgono spinte dalla molla di cui si è detto. I medesimi movimenti si ripetono a ogni sparo, con la differenza che il carrello otturatore si muove non più spinto dalla mano dell’uomo ma dalla pressione di parte dei gas dello scoppio.
Le impronte prodotte dagli sfregamenti della cartuccia contro l’acciaio dei meccanismi interni dell’arma durante il viaggio sopra descritto sono dette secondarie, non altrettanto idonee all’identificazione dell’arma come le tre primarie, ma comunque sempre di un certo interesse. In particolare, riguardo la cartuccia Pacciani, la polizia scientifica ne aveva individuata una sulla quale lavorare, la cosiddetta impronta di spallamento, che si produce nella fase finale del viaggio. Tale impronta è costituita da graffietti, detti in gergo tecnico microstrie, che si imprimono sul bordo del fondello per effetto dello strisciare della parte inferiore dell’otturatore mentre, dopo essere arretrato per lo sparo precedente, spinto dalla molla di recupero, torna in posizione, agganciando una nuova cartuccia e allineandola alla camera di sparo. Il movimento può avvenire anche in conseguenza di una manovra manuale, come quando si inserisce il primo colpo in canna dopo aver caricato l’arma, lo abbiamo visto. Sulla cartuccia Pacciani era avvenuto proprio questo: il carrello otturatore era stato tirato indietro a mano e rilasciato con il conseguente incameramento della cartuccia e la produzione delle microstrie (qui una trattazione approfondita dell’argomento).
Teoricamente l’impronta potrebbe consentire di identificare il singolo esemplare d’arma, poiché riproduce le imperfezioni della superficie incidente, individualizzate in sede di fabbricazione dall’intervento diretto dell’operaio che, lima alla mano, rifinisce il manufatto. Ma per i complessi giochi di forze che agiscono sulla cartuccia in fase di incameramento, il contatto tra le due superfici può avvenire con modalità molto variabili, e il più delle volte non avviene affatto. Nel caso dei 51 bossoli repertati negli otto duplici omicidi di Firenze, soltanto 13 riportavano l’impronta, per di più con non piccole differenze tra loro di profondità e continuità delle microstrie. Nel caso di armi a percussione anulare, come la Beretta del Mostro, a complicare i confronti si aggiunge la possibile cancellazione di una parte dell’eventuale impronta per opera del percussore, che va a battere proprio nella stessa zona, e, poiché la cartuccia ruota in modo casuale prima di fermarsi nella camera di sparo, la parte cancellata varia. Va da sé che la cartuccia Pacciani riportava un’impronta di spallamento completa, non essendo stata colpita dal percussore, mentre i bossoli del Mostro no, lo vedremo.
Nonostante le oggettive difficoltà del confronto, Spampinato e Benedetti tentarono comunque di percorrere l’impervia strada, dato che il GIP lo aveva specificatamente richiesto in conseguenza delle prime rilevazioni della scientifica che si era accorta di quelle microstrie. Allo scopo i periti condussero una preventiva verifica empirica, sparando numerosi colpi con tre Beretta simili a quella presunta del Mostro e caricate con cartucce analoghe. L’esame comparato dei bossoli li convinse che, in base ai fasci di microstrie componenti l’impronta di spallamento – naturalmente quando si produceva – era possibile distinguere un esemplare di pistola dall’altro. In più verificarono che l’impronta si produceva anche per un incameramento manuale, come del resto era avvenuto sul bossolo della cartuccia Pacciani.
Il passo successivo fu quello di verificare e confrontare le impronte di spallamento sui bossoli del Mostro. Sappiamo già che esse erano presenti soltanto in 13 esemplari su 51, ma in quei 13 i periti dichiararono di aver trovato “buona identità”.
Infine il confronto fu esteso alla cartuccia Pacciani, con risultati incerti, così riassunti dalla sentenza di secondo grado:

[I periti] pervenivano alla conclusione che, nella maggior parte delle comparazioni, sussisteva "una buona identità di andamento e di posizione reciproca fra le microstrie più profonde, presenti sulle superfici comparate. Tuttavia, tutta questa serie di confronti non si è potuta effettuare fra superfici omogenee, sulle quali cioè si potessero comparare le microstrie incise su un arco di circonferenza della medesima ampiezza" in quanto "su nessuno dei bossoli repertati è stato rilevato un settore di microstrie, avente la stessa larghezza di quello presente sul bossolo della cartuccia sequestrata presso il Pacciani", e ciò perché "sui bossoli repertati, buona parte della superficie ove erano impresse le microstrie è stata obliterata dall'impronta prodotta, dopo la fase dell'introduzione in canna della cartuccia, dall'urto del percussore"; inoltre, "in prossimità dei lati destro o sinistro dell'impronta del percussore di alcuni bossoli repertati sono state rilevate alcune microstrie, che presentano una lieve discontinuità con quelle presenti sulla cartuccia del Pacciani; questa anomalia però dovrebbe, con buone probabilità, essere stata causata dalla deformazione, con conseguente stiramento del metallo e incurvamento della superficie, provocata sul fondello dall'urto del percussore".
Concludevano, sul punto, i periti nel senso che "gli elementi raccolti nel corso di questa indagine non siano sufficienti, per formulare un giudizio di certezza in ordine alla provenienza degli elementi di colpo sopracitati dalla medesima arma. Per contro, la buona coincidenza di singoli fasci di microstrie presenti sui reperti comparati non consente di escludere questa possibilità".

La comparazione fu ostacolata dalla disomogeneità degli elementi, essendo l’impronta sulla cartuccia Pacciani completa e intonsa, quelle sui bossoli del Mostro obliterate e deformate dall’urto del percussore, e in alcuni casi anche ossidate. Seppure Spampinato e Benedetti riscontrarono “buona identità” e “buona coincidenza” tra le microstrie più profonde, conclusero comunque con un giudizio di incertezza, sia in un senso che nell’altro: in base al confronto di quelle microstrie non potevano né confermare né escludere che la cartuccia Pacciani fosse stata incamerata nella pistola del Mostro.


Sulla cartuccia Pacciani i periti trovarono un’altra impronta di un certo interesse, un piccolo solco rettilineo sul fondello del bossolo provocato dal contatto della cartuccia con una delle labbra del caricatore durante l’inserimento manuale nello stesso. La figura precedente schematizza il dispositivo a labbra, il cui scopo è quello di trattenere la cartuccia dopo il suo inserimento. L’impronta è trattata in balistica forense, ma è considerata di importanza minima, poiché è molto dipendente dal modo in cui viene inserita la cartuccia da chi carica l’arma, e spesso non c’è. Ma dentro il piccolo solco della cartuccia Pacciani fu trovata una microstria, dovuta, secondo i periti, a una particolarità costruttiva o di usura di una delle labbra del caricatore, e per questo individualizzante. Analogo solco e analoga microstria, coincidente “per alcuni tratti”, era riscontrabile su due dei 51 bossoli del Mostro. Tale parzialissima coincidenza, rientrante peraltro in un accettabile risultato probabilistico, era comunque priva di valore. È evidente che con l’esame di quest’ultima impronta i periti erano andati a raschiare il fondo del barile, dove ormai potevano trovare soltanto fuffa.
Alla fine, nonostante la loro disponibilità verso i bisogni dell’accusa, Benedetti e Spampinato non se la sentirono di affermare con certezza che la cartuccia Pacciani era stata incamerata nella pistola del Mostro, ma non per questo si salvarono dalle pesanti critiche del giudice di secondo grado, che lamentò la non applicazione di un metodo sicuro e codificato nelle comparazioni – del resto non esistente in letteratura per le tracce trovate sulla cartuccia Pacciani – sostituito dal “colpo d’occhio del perito”:

Orbene, v'è innanzitutto da rilevare che i periti parlano costantemente, nel loro elaborato, di microstrie o fasci di microstrie, ma non quantificano mai le microstrie o i fasci di microstrie o il numero di microstrie presenti all'interno di ciascun fascio, e soprattutto non indicano mai il limite oltre il quale deve ritenersi l'identità e sotto il quale non può ritenersi l'identità: ciò evidentemente non per loro ignoranza, ma perché mancano loro i parametri di riferimento, allo stadio attuale delle acquisizioni scientifiche in materia balistica.
Se poi si passa al diretto riscontro visivo delle microfoto di comparazione allegate alla relazione, si riscontrano i fenomeni descritti dai periti, ma non si evidenzia la presenza di fasci di microstrie, tra loro adiacenti, coincidenti per andamento e posizione reciproca. Ciò che emerge visivamente, dalle microfoto nn.162 e seguenti, è la coincidenza di singole microstrie, intervallate da palesi discontinuità e difformità; anche il reperto "5" Baldi-Cambi, nel quale secondo i periti "la quasi totalità delle microstrie presenti sulla superficie comparata hanno andamento e posizione reciproca coincidenti", presenta al controllo visivo singole strie coincidenti, intervallate da discontinuità e difformità. […]
L'enunciazione del principio, secondo il quale l'accertamento sulle tracce può essere solo qualitativo e va rimesso al colpo d'occhio del perito […] costituisce mera prospettazione di un modo di procedere, che può avere qualche valenza ai fini investigativi, ma non ne ha affatto sotto il profilo scientifico e sotto il profilo giuridico-processuale. […]
Se non v'è possibilità di controllo da parte del giudice, la valutazione finisce per essere affidata interamente all'interprete tecnico, e viene a mancare l'essenza stessa della giurisdizione; le stesse garanzie difensive per l'imputato vengono ad essere vanificate.

Il ragionamento di Ferri è ineccepibile: non esistendo precise regole che consentano confronti inequivoci – e se non ne esistono vuol dire che al momento non è possibile formularne – ogni valutazione è affidata al giudizio personale dell’esaminatore, senza possibilità di verifica, ed è quindi priva di valore giuridico. Non a caso, osservò ancora Ferri,

non risultava nel mondo un solo caso di identificazione tramite l'impronta di spallamento, con riferimento ad una pistola e con riferimento ad un'arma non repertata, e nel caso dell'omicidio Kennedy l'impronta di spallamento era accompagnata dall'impronta dell'estrattore, e si riferiva ad un fucile repertato.

L’inceppamento. La prima ipotesi sul modo in cui si erano prodotti i gravi danni della cartuccia Pacciani – proiettile disassato e libero di ruotare rispetto al bossolo – fu formulata dalla Polizia Scientifica nella relazione del 2 maggio, secondo la quale il responsabile sarebbe stato il bossolo precedente rimasto bloccato nella camera di sparo causa qualche malfunzionamento. La cartuccia Pacciani vi avrebbe sbattuto contro, spinta dal ritorno del carrello otturatore, deformandosi e inceppando l’arma. In effetti il piombo morbido del proiettile riportava un’ammaccatura, però di forma concava, e non piatta, come avrebbe dovuto essere se prodotta dall’urto contro la superficie piana del fondello di un bossolo.


Nel tentativo di riprodurre analoghe deformazioni, i periti cercarono in tutti i modi di provocare un inceppamento “naturale” nelle tre pistole sotto test, cioè sparando, ma non vi riuscirono. Ricorsero allora, con miglior fortuna, a spostamenti manuali del carrello otturatore, potendo subito verificare come la dinamica ipotizzata dalla scientifica fosse da escludersi. Con un bossolo dentro la camera di sparo, non soltanto non riuscirono a ottenere l’ammaccatura concava della cartuccia Pacciani, come era prevedibile, ma anche due scalfitture dovute all’inceppamento e presenti in entrambi i casi furono trovate ad altezze differenti.
Si procedette quindi a verificare un’ipotesi alternativa, a camera di sparo libera e cartuccia mal posizionata in cima al caricatore. I risultati furono decisamente migliori e le due scalfitture assunsero una posizione più prossima a quella della cartuccia Pacciani. L’impronta concava sul proiettile, però, non fu possibile riprodurla neppure così, e per essa continuò a mancare una spiegazione accettabile. In dibattimento l’imbarazzo di Benedetti e Spampinato apparve evidente (vedi). Dopo il tentativo d’imbeccata del colpevolista Ognibene, non raccolto – “A questo punto si inserisce il Presidente. Ma... queste deformazioni potevano anche preesistere?” – Benedetti buttò lì la ridicola e disperata ipotesi della caduta sopra un sassolino: “Signor Avvocato, potrebbero... Se in teoria, nell'infilare o nel mettere... o nel cadere nel terriccio ci fosse stato un sassolino, o nell'introdurlo ci fosse stato un sassolino, forse poteva anche far questo”.
I due periti si trovarono spiazzati anche di fronte a un’incisione riscontrata alla base del bossolo, proprio dove normalmente avrebbe dovuto trovarsi l’impronta di estrazione. Ma sulla cartuccia Pacciani quell’impronta era larga il doppio del normale, per una Beretta della serie 70, tantoché i due periti si rifiutarono di ritenerla riferibile all’azione di un estrattore, senza però riuscire a darne una spiegazione alternativa. La difesa colse la palla al balzo, e contestò tutto il loro lavoro alla radice, rovesciando il ragionamento: possedendone le caratteristiche di forma e posizione, e mancando una spiegazione di diversa origine, l’impronta andava ritenuta di estrazione, ma poiché una Beretta della serie 70 ne produceva di forma differente, si doveva concludere che la cartuccia non era stata incamerata in un’arma di quel tipo.
Il giudice di primo grado, al solito, fu più realista del re, e suppose che la manovra di estrazione della cartuccia Pacciani avesse prodotto un’impronta più marcata perché manuale, anche se, a dire il vero, nelle prove condotte da Benedetti e Spampinato il fenomeno non era emerso, almeno non nelle medesime proporzioni. Ma sembra comunque ragionevole ritenere che la strada indicata da Ognibene fosse quella giusta, tanto più che le pressioni sulla povera cartuccia, piena di incisioni e scalfitture di ogni tipo, dovettero essere state particolarmente forti per riuscire a disincastrarla. Forse anche il segno concavo sull’ogiva era frutto del medesimo tentativo, una spinta con un perno metallico infilato dentro la canna. In ogni modo appare chiaro che sulla cartuccia Pacciani doveva essere stato compiuto un grosso lavoro di manipolazione. Lo stesso Benedetti, illustrando in dibattimento le manovre che furono necessarie per riprodurre deformazioni e tracce simili, involontariamente ne dette un’idea:

Allora abbiamo cercato di riprodurre queste tracce manualmente, cioè introducendo la cartuccia nel caricatore in modo che il fondello del bossolo si trovasse vicino alla parte anteriore delle labbra del caricatore, e il proiettile invece disposto più in alto, inclinato in modo che non potesse entrare nella camera di cartuccia. Lasciando andare l'otturatore noi abbiamo riprodotto, come dimostrano anche le fotografie, impronte e deformazioni, direi, molto simili a quelle trovate sul reperto.

Ancora un elemento importante si aggiunge a dimostrare le manipolazioni subite dalla cartuccia: prima dell’inceppamento che l’avrebbe deformata, era stata normalmente introdotta in canna e poi normalmente scaricata. Le microstrie dell’impronta di spallamento, infatti, non potevano che essersi prodotte così. Questo voleva dire che Pacciani avrebbe tolto una cartuccia inesplosa ma non inceppata – residuo di uno degli omicidi? – sulla quale erano rimaste impresse le microstrie, e poi l’aveva reinserita in un successivo momento facendola inceppare. Benedetti affermò che incameramenti multipli erano normali, ad esempio per le forze dell’ordine che scaricavano le loro armi dopo una missione, però fu costretto ad ammettere che in nessuno dei bossoli del Mostro erano state trovate doppie impronte, quindi per nessuno di essi si poteva dimostrare un doppio incameramento (il che poteva voler dire che l’individuo, dopo ogni omicidio, lasciava le munizioni residue nel caricatore); per la cartuccia Pacciani invece sì, e la difesa non mancò di sottolineare la strana coincidenza. Il giudice di primo grado risolse la questione sulla base di un calcolo probabilistico: le impronte di spallamento sui bossoli del Mostro si erano prodotte soltanto in 13 casi su 51, e quindi, se qualcuna di quelle 13 cartucce fosse stata reintrodotta, su di essa avrebbe potuto benissimo non rimanere un’altra impronta, oppure la prima volta non era rimasta e la seconda sì. Si tratta di un’ipotesi senz’altro valida che però si va ad aggiungere a molti altri aggiustaggi che si rendono necessari per far quadrare dei conti che tornano poco.

Conclusioni. In conclusione possiamo senz’altro affermare che sulla cartuccia Pacciani non c’era neppure un’impronta che potesse ricondurre in modo sicuro – ma neppure probabile – alla pistola del Mostro, anzi, la miriade di graffietti, ammaccature e strisciamenti vari non poteva che confermare l’impressione di una prova preparata a tavolino. Qualcuno con quella cartuccia aveva giocato a lungo, questo è indubbio. Era stato Pacciani a gingillarcisi introducendola nella pistola con la quale aveva compiuto i duplici omicidi, oppure l’aveva manipolata qualche entità nascosta per poi spingerla nel foro di quel paletto rotto sopra il quale avrebbe camminato Perugini?
A tanti anni di distanza è arrivato ormai il momento di guardare ai fatti con serenità, senza paura di ipotizzare lo scenario inquietante che essi indubbiamente lasciano intravedere. Il che vale anche per gli attori dell’epoca, che in tutta buona fede avevano collaborato a incastrare colui che credevano fosse il famigerato Mostro. Non potendo disporre di un bossolo esploso dalla introvabile Beretta, e non potendone “costruire” uno data l’univocità di ogni percussore, si cercò di procurarsi qualcosa di comunque indiziante. Una semplice cartuccia nuova, seppure del tipo di quelle usate dal Mostro, sembrò troppo poco, quindi se ne manipolò una cercando di imprimerle dei segni che potessero almeno far sorgere dei dubbi. Ecco allora che l’impronta di spallamento, presente soltanto una volta su quattro tra i 51 bossoli del Mostro, nel caso della cartuccia Pacciani c’era. E così anche il solco sul fondello con dentro la microstria, che invece era rimasta impressa soltanto due volte, e nella cartuccia Pacciani, guarda caso, c’era.
Fu soltanto una coincidenza che due impronte di solito più mancanti che presenti fossero entrambe presenti? Quelle due impronte, per la loro ambigua qualità individualizzante, e magari con la scelta delle più simili dopo diverse prove, potevano costituire l’elemento indiziante cercato. E così probabilmente andò.

venerdì 16 febbraio 2018

La cartuccia nell'orto (1)

Il 17 aprile 1992 Pietro Pacciani fu condannato a una multa e a quattro mesi di carcere, condonati, per il possesso del materiale da guerra sequestrato in casa sua due anni prima. Regolata anche questa pendenza, al momento contro di lui non c’era più nulla. Dalla comunicazione giudiziaria riguardante i delitti del Mostro erano trascorsi già quasi sei mesi, quattro e più dal suo ingresso nella casa di via Sonnino, e nessun indizio era stato trovato, nonostante gli strenui sforzi. Neppure la mossa disperata e maliziosa dell’appello in televisione aveva ottenuto dei risultati, e alla fine in mano agli inquirenti non era rimasto altro che un teorema, non certo sufficiente per chiedere un rinvio a giudizio, poiché qualsiasi giudice lo avrebbe senz’altro respinto. Per far fronte all’inevitabile figuraccia che si prospettava, gli inquirenti dovevano assolutamente trovare qualcosa di meglio, e che cosa se non la pistola? Eppure all’origine dei loro sospetti contro Pacciani c’era anche la sua supposta rinuncia a un nuovo duplice omicidio nell’estate del 1986, in ipotesi indotta dai controlli cui era stato sottoposto dopo Scopeti. Ma allora, se davvero l’individuo si era messo così paura da interrompere la catena di uccisioni che durava dal 1981, perché avrebbe dovuto tenere con sé un oggetto come la pistola, la prova di gran lunga più pericolosa? In ogni caso non c’erano alternative, quella pistola andava cercata comunque.
Prima di proseguire mi sia concessa una breve digressione nel mondo della letteratura poliziesca. Il mistero della camera gialla è un bellissimo romanzo di Gaston Leroux, pubblicato nel 1907, dove fa la sua prima apparizione il personaggio di Rouletabille, un giornalista che s'impegna nella risoluzione degli enigmi polizieschi con i quali il suo mestiere lo mette a contatto. Ne voglio riportare un breve frammento, nel quale il giovane investigatore dilettante, durante uno scambio di opinioni sulla scena del crimine, critica il più maturo investigatore professionista – il poliziotto Frederic Larsan – che lo aveva accusato di usare troppo la logica, brutalizzandola invece di trattarla dolcemente e prenderla alla lontana.

C’è qualcosa, signor Frédéric Larsan, che è molto più grave del fatto di brutalizzare la logica, ed è quella conformazione mentale propria di alcuni poliziotti che li porta, in perfetta buona fede, ad adattare pian piano quella logica alle loro concezioni. Voi avete già la vostra idea sull’assassino, signor Fred, non negatelo… e il vostro assassino non deve essere stato ferito alla mano, altrimenti la vostra idea non starebbe più in piedi. E avete cercato, e avete trovato qualche altra cosa. È un sistema molto pericoloso, signor Fred, quello di partire dall’idea che ci si è fatta dell’assassino per arrivare alle prove di cui si ha bisogno! Questo sistema potrebbe condurvi lontano… State attento all’errore giudiziario, signor Fred; è in agguato.

Strane manovre. Secondo quanto risulta dalle notizie emerse, pare che lo stimolo a muoversi fosse arrivato dallo stesso Pacciani, sempre un vero talento come cerca guai (ma, a dire il vero, non era tanto colpa sua quanto conseguenza dell’inesauribile sospettosità dei suoi inquisitori). Il 1° gennaio 1992 Perugini era andato a casa sua per consegnargli un documento, e nell’occasione si era sentito raccontare un fatto:

Per Natale è venuto a farmi gli auguri don Cuba con due detenuti: ce n’era uno che doveva fare un monte d’anni e che aveva detto di sapere un sacco di cose sul Mostro; poi è venuto fuori che non aveva niente da dire. Non vorrei che m’avessero messo qualche gingillo nell’orto…

Don “Cuba” (Cubattoli) era stato il cappellano di Pacciani in carcere, convinto assertore della sua innocenza, mentre il detenuto “che doveva fare un monte d’anni” era Giuseppe Sgangarella, condannato all’ergastolo per aver violentato e ucciso una bambina di otto anni, con il quale Pacciani pare avesse intessuto buoni rapporti durante la comune detenzione. Un paio di mesi prima il losco figuro aveva affermato davanti all’autorità giudiziaria di essere a conoscenza del nome di chi custodiva la pistola del Mostro, pretendendo vantaggi per rivelarlo, ma si capì presto che si trattava di un bluff. Tra l’altro l’individuo si sarebbe riciclato qualche anno dopo con altre clamorose panzane.
Considerato il precedente e comunque già sospettoso di suo, Pacciani non si fidava di Sgangarella, dal quale temeva brutti scherzi. Se è improbabile che il detenuto fosse riuscito a sfilarsi dall’occhio vigile del padrone di casa – anche perché aveva partecipato al tentativo di mettere in moto la sua auto bloccata in garage – non va però dimenticato che Pacciani era uscito da poco di galera, e chiunque, nella sua brutta situazione, avrebbe temuto una visita malevola mentre era assente. Ma quell’accenno a “qualche gingillo nell’orto” fece vibrare le sensibili antenne di Perugini, che lo interpretò come un mettere le mani avanti nel timore del ritrovamento di un oggetto compromettente nascosto o perduto. Se così fosse stato, viene però spontaneo chiedersi perché il furbo contadino avrebbe dovuto attirare l’attenzione del suo inquisitore mettendogli una pulce in un orecchio. In ogni caso Perugini raccomandò ai suoi di vigilare su eventuali movimenti sospetti tra le verdure dell’orto.
Come se il piccolo esercito schierato contro Pacciani non fosse stato già abbastanza numeroso, poco dopo si offerse volontario anche un vicino, la cui abitazione aveva una finestra affacciata sull’orto. Sbirciando incuriosito, l’uomo ebbe modo di notare – e poi riferire alla polizia – strane manovre, come lo spostamento di tegole, il taglio di un’acacia, e sospetti lunghi periodi nei quali il contadino rimaneva a contemplare le proprie piante con le mani in mano. A dire il vero si trattava di attività normalissime in un orto, e in più e ancora una volta bisogna osservare che, se ci fosse stato qualcosa sotto, difficilmente Pacciani si sarebbe esposto tanto apertamente. Ma a Perugini così non parve, e chiese all’aspirante poliziotto il permesso di piazzarne qualcuno vero dietro quella finestra.
Nei giorni successivi una piccola squadra di un dilettante volontario e due professionisti, dandosi il cambio al posto d’osservazione, sorprese più volte il contadino intento nelle sue incomprensibili attività, tra le quali destò particolare interesse il sondaggio del terreno con un’asta metallica. In seguito Pacciani avrebbe giustificato la serie di manovre con il proposito di liberare l’orto da un’acacia cresciuta spontaneamente durante la sua detenzione, prima tagliandola, poi sradicandone le radici con l’asta metallica, ma per Ruggero Perugini i motivi erano ben altri: l’uomo stava cercando qualcosa, forse proprio quel “gingillo” (la pistola?) per il quale aveva messo le mani avanti tempo prima. E quando il malcapitato ebbe la pessima idea di mettersi a scavare una buca profonda e larga 30 cm proprio nelle adiacenze delle tegole spostate – per eliminare il ceppo dell’acacia, disse lui in un primo momento, per riparare un tubo dell’acqua in un secondo – la Procura, già pronta, decise d’intervenire: il giorno successivo un esercito di uomini dotato dei più sofisticati macchinari di ricerca esistenti in Italia si precipitò a Mercatale.

La madre di tutte le perquisizioni. Erano le ore 9.15 del 27 aprile 1992, quando Perugini suonò il campanello dell’abitazione di via Sonnino con in mano un ampio mandato. Di lì a poco iniziò la più grandiosa e sofisticata perquisizione che la storia giudiziaria d’Italia avesse mai vissuto, fino a quel momento ma forse anche per secoli nel futuro. Perugini e un nugolo di collaboratori si apprestarono a dare il definitivo assalto, almeno nelle loro speranze, alle roccaforti del contadino. Imperativo categorico: trovare a tutti i costi la pistola.
Forse una vera e propria contabilità delle risorse in campo non è mai stata pubblicata, dalle cronache rimaste pare però fosse immensa: decine e decine di uomini, tra poliziotti della SAM e della Criminalpol, carabinieri di San Casciano e dei ROS, vigili del fuoco, consulenti; e poi strumenti e utensili di ogni tipo, atti a sondare, sventrare, fotografare, radiografare. I martelli pneumatici lavoravano fianco a fianco a pale e picconi, coadiuvati da metal detector dei quali due specialissimi (ferex) sensibili anche ai metalli non ferrosi, e addirittura da un termografo ad azoto liquido capace di penetrare i muri, lo stesso con il quale dieci anni prima erano state cercate tracce degli schizzi di Leonardo da Vinci sotto i dipinti del Vasari, nel salone dei 500 di Palazzo Vecchio.
Furono accuratamente esaminati appartamenti, garage, pertinenze, ripostigli, legnaia, soppalchi, sottotetti; ogni oggetto ivi contenuto, fosse un mobile, un elettrodomestico, un indumento o qualsiasi altro, fu controllato e alla bisogna smontato. Non si dimenticarono neppure i pozzi neri, accuratamente svuotati del loro sgradevole contenuto. Nell’orto si asportò il terreno per un metro e mezzo di profondità, passandolo al setaccio.


Come mostra la foto sopra, tutto avvenne sotto lo sguardo perplesso e preoccupato del padrone di casa, i cui problemi di cuore consigliarono la presenza costante di un cardiologo, che a un certo punto dovette intervenire davvero per un piccolo mancamento.
L’incredibile perquisizione durò ben 12 giorni, ma si sarebbe potuta limitare ai primi tre e al solo orto, poiché l’unico elemento utile fu trovato proprio lì, nel tardo pomeriggio del 29. Per reggere i filari della sua piccola vigna Pacciani aveva utilizzato dei paletti in cemento armato, parte dei quali erano stati adagiati a terra a creare dei camminamenti.


La piantina soprastante, di provenienza ignota a chi scrive e pubblicata sul sito “Insufficienza di prove”, mostra una doppia fila di paletti che compiva un arco di cerchio in mezzo al terreno.


Nella seconda piantina, disegnata dallo stesso Pacciani, si aggiunge un’ulteriore fila di paletti, parallela a due dei lati dell’orto. Di questa chi scrive non ha trovato altre notizie – ma forse qualche lettore potrà dirne qualcosa – quindi verrà ignorata. In più c’è da dire che nella piantina Pacciani non sono rispettate le proporzioni del terreno, che non era un quadrato, ma, come mostrato nella precedente, un rettangolo di circa 6x15 metri.


La foto sopra dà invece un’idea della struttura dei manufatti, dove si possono notare i fori di alleggerimento, che nel caso in questione si erano con gli anni riempiti di terriccio.
Uno degli interventi iniziali dei vigili del fuoco era stato quello di togliere i paletti e metterli da parte, sia per potervi scavare sotto, sia perché la presenza al loro interno di quattro anime ferrose disturbava il lavoro dei metal detector. Nel far leva per estrarlo, uno di essi si era rotto in due tronconi.
Alla mattina del terzo giorno, quando l’orto era stato scavato quasi completamente, si mise a piovere. Per poter proseguire il lavoro senza affondare nel fango furono installati una tettoia in plastica e dei teli, sotto ai quali si lavorò ancora per un po’, fino a quando le inevitabili infiltrazioni d’acqua consigliarono di passare a vani interni, con il trasferimento in Piazza del Popolo (nei due fotogrammi sottostanti si può notare uno tra i paletti messi all’inpiedi).


Nel pomeriggio smise di piovere e si poté riprendere. In un punto del terreno situato sotto la tettoia i vigili del fuoco avevano adagiato i due tronconi del paletto rotto, uno di fianco all’altro, a costituire un camminamento che evitasse di calpestare la soffice terra di riporto diventata fanghiglia. Sopra quei due pezzi di cemento c’era già stato un bel viavai, quando, alle 17.45 esatte, fu la volta di Perugini, il quale, costretto a chinarsi sotto la bassa tettoia e quindi con lo sguardo rivolto verso terra, notò in mezzo al terriccio contenuto in uno dei fori uno “scintillio” provocato da un oggetto metallico, la cui forma emergente ne faceva intuire la natura di cartuccia. L’investigatore chiamò immediatamente Vigna mettendolo al corrente del fatto e ricevendo le opportune direttive, tra cui quella di filmare ogni dettaglio delle operazioni successive.


Nelle immagini soprastanti si possono vedere i due tronconi di paletto stesi a terra, e un dito di Perugini che indica l’oggetto metallico, situato nel primo foro in alto del troncone di destra.


Innanzitutto i due tronconi furono sollevati e appoggiati sopra quello che pare uno sgabello. Poi Perugini prese un coltellino multiuso che teneva in tasca e con la pinzetta in dotazione estrasse l’oggetto incrostato di fango. Si trattava senza dubbio di una cartuccia che, ripulita sul posto quel poco che bastava, si rivelò simile a quelle usate dal Mostro: una Winchester 22 LR a piombo nudo, inesplosa e deformata, con una lettera “H” stampigliata sul fondello.


Il giorno dopo entrò in azione la Polizia Scientifica, e già il 2 maggio il responsabile, Francesco Donato, consegnò una relazione con i risultati dei primi sommari esami. Fu confermata l’impressione iniziale sulla natura del reperto, e formulata l’ipotesi che la deformazione, un disassamento del bossolo rispetto al proiettile, fosse dovuta a un inceppamento, dopo il quale la cartuccia era stata espulsa tramite un intervento manuale (scarrellata, come si dice in gergo balistico). Pur non esplosa, quella cartuccia era dunque entrata in un’arma, che su di essa aveva anche lasciato almeno una traccia, un’impronta di spallamento che poteva essere utile a fini identificativi, e della quale si sarebbe discusso a lungo al futuro processo. In più fu rilevata una buona compatibilità della lettera “H” stampigliata sul fondello con le analoghe dei bossoli del Mostro.
Non si trattava della introvabile pistola, non era neppure un bossolo firmato dall’impronta di un percussore, però quella cartuccia inesplosa avrebbe potuto ugualmente raccontare molte cose. In ogni modo già il fatto che nell’orto del sospettato si nascondesse una cartuccia dello stesso tipo di quelle usate dal Mostro, per di più “scarrellata” da una pistola semiautomatica come la famigerata Beretta, costituiva comunque un risultato clamoroso: spesso denominata per brevità “cartuccia Pacciani”, dopo gli opportuni esami essa sarebbe diventata la prova regina contro il contadino mugellano.
Ma davvero quella cartuccia l’aveva perduta lui?

Una prova fabbricata? I dubbi sulla genuinità della prova sono tanti, e tutti insieme inducono a ritenere che quella prova genuina non lo fosse stata neanche un po’. Gli scettici, tra i quali gli avvocati difensori e soprattutto il giudice di secondo grado, contestarono innanzitutto la possibilità che, in una giornata di cielo coperto, sotto una tettoia e ormai nel tardo pomeriggio, una cartuccia interrata e incrostata completamente di fango avesse potuto scintillare. Perugini affermò che il bagliore era stato mandato dal bordo del bossolo, ripulito dalla frizione delle scarpe di chi vi era passato sopra. Non esistono motivi per dubitare della buonafede dell’investigatore, a parere di chi scrive iper colpevolista per vera convinzione, e la possibilità di un luccichio anche in condizioni di luce poco favorevoli può comunque starci. Ci sono però ben altri elementi che fanno pensare a una prova da qualcuno (chi?) costruita.
Possiamo intanto osservare che, se genuino, il ritrovamento di quella cartuccia sarebbe stato accompagnato da una fortuna sfacciata, sempre possibile, ma inevitabilmente sospetta. Ecco quanto ne scrisse il giudice Ferri in sentenza.

Molti erano i paletti di cemento posti a delimìtare il vialetto, ma si ruppe proprio e soltanto quello nel cui foro sarebbe stata trovata la cartuccia (tutti gli altri furono poi ispezionati con esito negativo), e le circostanze della rottura non sono state mai chiarite, non essendo stati mai sentiti e neppure indicati i Vigili del Fuoco che asseritamente l'avrebbero provocata; proprio e soltanto quei due tronconi del paletto furono collocati agli inizi del vialetto, appena fuori della copertura di plastica ondulata, ossia nel punto di maggiore passaggio degli operatori al quale si arrivava abbassati per la ridotta altezza della copertura stessa; in tale posizione, ha riferito in dibattimento il dott. Perugini, egli si sarebbe trovato, quando avrebbe visto uno scintillio metallico provenire da uno dei fori di uno dei due tronconi.

Secondo le parole degli stessi Perugini e Frillici in dibattimento, a nessuno sarebbe venuto in mente di svuotare del terriccio i piccoli fori dei paletti, sui quali non era possibile neppure l’uso dei metal detector per la presenza delle quattro anime ferrose. E dunque la cartuccia fu scoperta soltanto perché il paletto che la nascondeva si era spezzato e i due tronconi affiancati erano stati utilizzati come camminamento. Considerando che tutti gli altri paletti furono spostati senza subire danni, è evidente l’intervento della dea Fortuna nel guidare il piccone in mano al maldestro vigile del fuoco oppure, tempo prima, nel far cadere la cartuccia dalle mani di Pacciani facendola finire proprio in un foro del paletto più debole, un intervento del quale si può anche tentare una quantificazione probabilistica.
Quanti fossero stati i paletti non è finora emerso, ma una valutazione approssimativa si può comunque tentare. In dibattimento fu detto che ognuno misurava un paio di metri, e che l’orto era lungo circa quindici. La doppia fila attraversava l’orto per lungo, compiendo anche una curva, quindi possiamo ipotizzare che misurasse circa 16 metri, per un totale di 16 paletti. Pertanto c’era una probabilità di circa il 6% e poco più che si spezzasse proprio quello dove si nascondeva il proiettile: come mettere in un’urna 94 palline bianche e 6 nere, e sperare di pescarne una nera al primo colpo. In più la dea Fortuna intervenne anche il giorno stesso del ritrovamento, facendo piovere, come ammise candidamente lo stesso maresciallo Frillici in dibattimento (vedi):

Il discorso è questo, avvocato, io voglio dire subito che questo è stato ritrovato grazie alla pioggia, secondo me, perché […] se non avesse piovuto, quei due tronconi sarebbero rimasti lì, nessuno avrebbe mai pensato di andare, passare il metal detector su questi tronconi, e il proiettile sarebbe stato lì.

Ad aiutare la buona sorte degli inquirenti ci si mise anche chi ebbe l’idea di utilizzare i due tronconi nel modo in cui furono utilizzati, anche se, a dire il vero, quella scelta sconcerta un po’: possibile che l’esercito di uomini attrezzato di tutto punto non avesse avuto a disposizione una semplice tavola da adagiare sul terreno soffice, preferendo avvalersi di un reperto appartenente al sospettato, che, in quanto tale, avrebbe sempre potuto diventare oggetto di indagine, sequestro, controllo, e dunque inevitabilmente inquinandolo?
Lascia poi perplessi l’operazione di estrazione compiuta in loco dietro istruzioni telefoniche di Vigna. Perché tanta fretta? Perché non portarsi via l’intero paletto per far esaminare attentamente il contenuto del foro alla polizia scientifica? Nel grumo di terra avrebbero potuto nascondersi altre informazioni importanti, ad esempio: la cartuccia era caduta nel foro che poi con il tempo si era riempito oppure qualcuno l’aveva spinta dentro nel terriccio già presente? In questo secondo caso avrebbe assunto consistenza ben maggiore il sospetto di Pacciani sul “gingillo” che gli sarebbe stato nascosto nell’orto, e in effetti la posizione della cartuccia assai prossima alla superficie del grumo potrebbe confermarlo.
Va innanzitutto puntualizzato che la faccia superiore del mezzo paletto era rimasta quella d’origine anche dopo lo spostamento, come fu confermato al processo sia da Perugini sia da Frillici. Domanda Fioravanti, risponde Perugini (vedi):

Fioravanti: Ecco ma la posizione di quando era nel vialetto, cioè quando l'avevamo nel vialetto è stata quella di rimetterlo, cioè era la stessa della posizione che ha preso dopo, quando lei ha fatto accantonare questo? Cioè quello che era la parte superiore è rimasta la parte superiore? Cioè il proiettile è stato trovato…
Perugini: Credo proprio di sì perché fra il retro e il fronte c'era una qualche differenza, credo che quello… che la parte in cui abbiamo visto il proiettile fosse quella superiore.

Le parole di Frillici furono un po’ più confuse, ma più ferme nel sostenere la circostanza. Secondo lui, nell’estrarre il paletto dal suolo, parte del terriccio contenuto nei fori era rimasta a terra, tanto da lasciare un vuoto, e fu una fortuna se i due tronconi furono ricollocati con quella parte vuota in basso:

Quando questi due tronconi sono stati messi lì, siccome i fori erano riempiti a metà, quindi alcuni erano anche vuoti, per effetto che erano stati sul terreno, quindi, quando sono stati tolti, è come aver tolto qualche cosa che avesse... o una pianta che avesse il pane di terra, ecco. Nella... in quella posizione, va bene? in quella posizione, la terra, passandoci sopra, è andata via. Se fossero stati messi, per dire, nella posizione in cui i fori, dalla parte vuota, quindi non piena per metà, noi avremmo magari, con le scarpe, pulendoci le scarpe, avremmo contribuito a occultare maggiormente il proiettile. Non l'avremmo mai trovato.

Ma se quella cartuccia anche in origine era prossima alla superficie del terriccio, vuol dire che era caduta dentro un foro già pieno, e quindi in quel momento avrebbe dovuto risultare bene in evidenza: perché Pacciani non l’aveva vista durante i suoi giri nell’orto, lo sguardo in basso come tutti i coltivatori, prima che altra terra vi si depositasse sopra? All’opposto, se qualcuno invece l’avesse inserita di proposito, non avrebbe potuto spingerla troppo in basso, pena la frammentazione del grumo, costituito da terriccio compattato, né, a dire il vero, ne avrebbe avuto l’interesse per non nasconderla troppo. Inumidendo la superficie del grumo, sarebbe stato invece semplice affondarvi la cartuccia quel poco che bastava, lasciando poi che l’umidità si disperdesse e il terriccio si seccasse di nuovo, pronto per esser grattato via alla bisogna. Queste informazioni si sarebbero potute ottenere da un appropriato esame del grumo prima di togliere la cartuccia, ma Vigna aveva fretta. Diventa quindi inevitabile prendere in considerazione i sospetti di Pacciani, così riportati dalla sentenza di primo grado.

Egli, in sostanza, accusa la polizia di avere introdotto la cartuccia nel foro pieno di terra del paletto e di aver poi provveduto ad irrorarla con acido muriatico per simulare un invecchiamento che di per sé non poteva avere ("…Lascionno perfino il flacone dell'acido muriatico, ci fu buttato sopra per l'invecchiamento.... L'acido muriatico corrode il sasso, figuriamoci il metallo... L’è ancora lassù se non è stato portato via, il flacone dell'acido muriatico...).

I dubbi sulla poca genuinità della prova aumentano ancora quando si riflette sulla delicata situazione nella quale si trovavano gli inquirenti quel 27 aprile. Le maggiori speranze di trovare qualcosa – la pistola, o parte di essa – erano riposte nello scavo dell’orto, soprattutto nel punto dove Pacciani era stato visto trafficare. E infatti è lì che già la mattina del primo giorno si era avventato inutilmente il piccolo esercito di scavatori. La ricerca si era poi estesa via via a tutto l’orto, in modo certosino, procedendo per quadranti, ma con il medesimo sconfortante risultato. Alla fine della giornata la delusione degli inquirenti era tangibile, ne può dare un’idea questo trafiletto pubblicato il 29 da “Il Corriere della Sera”:

La mega-perquisizione nella casa del sospettato numero uno dei delitti del "mostro di Firenze" prosegue da 48 ore in attesa dei risultati che, per il momento, non arrivano. Il piccolo esercito di poliziotti, carabinieri e vigili del fuoco che occupa dalle 9 di lunedì mattina la casa di Pietro Pacciani a Mercatale Val di Pesa, ha interrotto il lavoro solo dall'una di notte alle 6.30 del mattino. […]
Ieri mattina a palazzo di giustizia si respirava comunque un po' di delusione: le ricerche nell'orto dell'agricoltore, setacciato centimetro per centimetro, non avrebbero dato l'esito sperato. […]
Il capo della squadra antimostro, Ruggero Perugini, non si muove da Mercatale: "Se c'è qualcosa da trovare, la troverò".

E se qualcosa da trovare non ci fosse stata, Perugini l’avrebbe trovata lo stesso? Certo, la domanda è maliziosa, ma è lecito porsela, considerando la posta in gioco, sia per l’investigatore, sia per i suoi superiori, diretti e indiretti. Si possono immaginare i sudori freddi suoi e della Procura al pensiero che davvero il loro agguerrito e dispendioso esercito avrebbe potuto non trovare nulla: la figuraccia sarebbe stata enorme, e le conseguenze per i responsabili molto serie. Ma già al momento di autorizzare la clamorosa perquisizione, peraltro priva di certezze e non giustificata da alcuna urgenza, qualcuno senz’altro si sarà posto il problema degli effetti spiacevoli di un possibile fallimento: ci sarebbe dunque da stupirsi se un’entità previdente avesse predisposto un piano “B”, condiviso con il minor numero possibile degli attori in gioco?
Probabilmente fu quello che accadde davvero: passate le prime inutili 48 ore, e capito ormai che le manovre di Pacciani nell’orto erano state malevolmente e malamente interpretate, il piano “B” fu reso operativo. Pensieri troppo malevoli? Può darsi, ma chi vuole tentare una ricostruzione storica degli eventi deve per forza misurarcisi. Si potrebbe quindi sospettare che qualcuno avesse piazzato quella cartuccia lo stesso giorno in cui fu trovata, mentre le operazioni si erano temporaneamente spostate in Piazza del Popolo.
Perché sarebbe stato scelto di mettere la cartuccia proprio in un foro di quel mezzo paletto? Nel tentativo di confutare le illazioni della difesa sulla genuinità della prova, il giudice di primo grado sostenne che la polizia avrebbe scelto un nascondiglio differente, dove sarebbe stato più semplice trovarla, ad esempio in qualche angolo di una delle abitazioni. Sul punto osservò molto acutamente il giudice di secondo grado Francesco Ferri, il quale lanciò pesantissimi sospetti sulla genuinità di quella prova e non soltanto di quella:

Il rilievo sub 3) è altrettanto illogico, perché una polizia giudiziaria la quale fosse stata, in ipotesi, disonesta ma accorta, avrebbe collocato la cartuccia proprio li dove è stata ritrovata, sì da fare apparire accidentale la perdita da parte del Pacciani, problematico il ritrovamento da parte dello stesso Pacciani, e casuale il rinvenimento da parte degli ufficiali di P.G.

E forse non è inutile aggiungere a quanto indicato da Ferri che quel paletto in origine si trovava proprio nella zona dove Pacciani era stato visto compiere operazioni sospette, dunque a esse in qualche modo ci si poteva ricollegare. Pur senza manifestare le certezze che ufficialmente non avrebbe potuto manifestare, il giudice non poté fare a meno di concludere sull’argomento:

In definitiva, sussistevano "ab initio", e non sono state affatto diradate alla stregua delle considerazioni del primo giudice su esposte, ampie zone d'ombra già in ordine alle circostanze del rinvenimento della cartuccia: il che si traduce in dubbi sulla genuinità dell'elemento di prova.

Per completare il quadro vale infine la pena riportare le dichiarazioni che Mario Spezi, probabilmente poco prima del processo, riuscì a carpire al maresciallo Arturo Minoliti, comandante della caserma dei carabinieri di San Casciano, presente al momento in cui la cartuccia fu rinvenuta, registrandole su videocassetta:

Io mi sono incazzato per quanto riguarda il rinvenimento del proiettile. Rimproverai il commissario Perugini che metteva noi in difficoltà sulla verità. Eravamo nell’orto di Pacciani, io, il commissario e due agenti della squadra. Quei tre si stavano pulendo le suole sul paletto per le viti steso a terra e scherzavano sul fatto che due di loro avevano le scarpe uguali. A un certo punto, vicino alla scarpa di uno appare il fondello della cartuccia...
Perugini dice: “il fascio di luce ha fatto brillare la cartuccia...” Ma quale fascio di luce! Se ce l’hanno messa? È un’ipotesi. Anzi, più che un’ipotesi. Non dico di essere arrivato alla certezza. Ho dovuto considerare questo, mio malgrado. È una quasi certezza. Alla luce dei fatti non trovo altre spiegazioni.
Poi dico, Perugini fa quella testimonianza sul fascio di luce, io mi incazzo e dico: “commissario, lei mi sputtana. Se io vado in contraddizione con lei, mi fanno un culo così. Cioè: a chi devono credere i giudici? Al sottufficiale o al commissario? A un certo momento io sono costretto ad avvalorare la sua tesi, ma è chiaro che la bugia, io, non riesco a ricordarmela bene!

Secondo Spezi la notizia delle clamorose rivelazioni sarebbe dovuta uscire sui telegiornali Rai, che però in ultimo si tirarono indietro. Il frammento precedente e altri apparvero nel libro “Toscana nera”, pubblicato nel 1998, provocando l’intervento della magistratura che sequestrò la videocassetta. Nel processo d’appello ai Compagni di merende Nino Filastò ne chiese l’acquisizione agli atti, senza successo. Nel 2006 Mario Spezi ne avrebbe riportato ancora dei brani nel suo “Dolci colline di sangue”. E dunque, se anche non è mai stato reso pubblico l’audio originale dell’intervista, non dovrebbero sussistere dubbi sulla genuinità del contenuto fin qui emerso.

Addendum 27 febbraio 2022. A distanza di quattro anni dalla pubblicazione dell'articolo, mi pare il caso di segnalare la vicenda del rapporto che Michele Giuttari inviò in procura il 3 febbraio 1999, del quale all'epoca non sapevo ancora nulla (vedi). Il rapporto non è ancora emerso, ma le notizie uscite sulla stampa consentono di capire che conteneva gravi sospetti sulle modalità di rinvenimento della cartuccia.
Colgo anche l'occasione per segnalare l'intervento del lettore Cesare sul paletto spezzato. Difficile che a spezzarlo fossero state le manovre dei vigili del fuoco, doveva essere stato così già in origine. Questo perché le quattro anime ferrose avrebbero comunque tenuto assieme i due monconi, a meno che non le avessero tagliate gli stessi vigili, evenienza possibile ma anche improbabile. Rimangono comunque valide tutte le considerazioni espresse nell'articolo sul fatto che la cartuccia si sarebbe infilata proprio in quel buco.