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domenica 22 novembre 2020

Salvatore Vinci a Signa - Approfondimenti (2)

Segue dalla prima parte

Prima di procedere con la seconda parte dell’articolo, è il caso di esaminare il verbale del primo interrogatorio di Salvatore Vinci, all’una e venti della notte tra il 23 e il 24 agosto, giunto purtroppo in mio possesso in ritardo (grazie Francesca!). Si tratta di una copia disastrata, con delle parti illeggibili, però si riesce a recuperarne alcune frasi molto significative [Edit: una copia migliore è poi giunta in mio possesso, ancora grazie Francesca]:

Oltre a Silvano Vargiu e Nicola un mio dipendente, mi ha visto nel Bar Sport il gestore che si chiama Cecchino ed altri clienti che al momento non sono in grado di indicare con esattezza. [...]
Presso il predetto circolo oltre al gestore vi era un prete che faceva una partita a scacchi con altra persona che non conosco.


Quindi, chiamando in causa vari personaggi che pare difficile sia riuscito a corrompere, i due gestori e addirittura un prete, è lo stesso Vinci a fornire ai carabinieri gli elementi per smentire il suo alibi! Strano, no, per un assassino che voleva salvarsi?
Ma adesso andiamo alla seconda parte.

La vergogna di Stefano Mele. Torniamo sugli interrogatori di Mele del 1985, quando Salvatore venne tirato di nuovo in ballo. Cominciamo col fare piazza pulita della leggenda della vergogna, nata dalle considerazioni di Rotella e Torrisi e ben rappresentata nel libro Dolci colline di sangue di Mario Spezi, principale responsabile della sua propalazione.

I nuovi interrogatori cui fu sottoposto Stefano Mele, che rimase in carcere solo cinque mesi, diedero altri clamorosi risultati. Finalmente, il piccolo sardo che dal primo momento aveva puntato l'indice contro Salvatore Vinci, e che non aveva mai avuto la forza di confermare l'accusa, lo indicò decisamente come l'uomo che nel 1968 aveva la pistola.
Ma soprattutto consegnò a Rotella la chiave del mistero del '68: la sua vergogna. La vergogna che si sapesse che aveva avuto rapporti omosessuali con Salvatore Vinci. Di fronte ai tradimenti della moglie non si era limitato a sopportare e a chiudere tutti e due gli occhi. Aveva partecipato. Salvatore Vinci aveva coinvolto anche lui nei loro affollati giochi erotici anche omosessuali. Stefano Mele confessò di avere avuto rapporti a tre, anche con Salvatore Vinci e sua moglie, di essere stato con loro due, portandosi addirittura appresso il figlio Natalino, alle Cascine, o sulle piazzole di sosta dell'autostrada, per raccogliere amanti occasionali per Barbara perché loro potessero guardare.
Questa era la ragione, più forte dell'odio, della paura, della prigione e anche del sacrificio degli affetti famigliari, per cui Stefano non aveva potuto accusare Salvatore Vinci.


Dunque Mele avrebbe taciuto sulla partecipazione al delitto di Salvatore per paura di dover confessare i loro rapporti omosessuali (Torrisi: “Nel mutismo ostinato di MELE Stefano, in tutti questi anni, è la profonda vergogna che possano venire fuori i risvolti della sua depravazione sessuale e di VINCI Salvatore”). Ma allora perché lo aveva accusato per primo? Quel 23 agosto 1968 si sarebbe dunque assistito, assieme a quello singolo di Mucciarini, al doppio masochismo di Stefano Mele, che oltre a prenotarsi una condanna per omicidio avrebbe creato i presupposti per la messa in luce delle sue terribili vergogne! Tutto questo dimenticandosi del piano che aveva preparato la sera prima, dove le accuse a Francesco Vinci gli avrebbero risparmiato entrambi gli spiacevoli inconvenienti. Come si vede, questo scenario di Salvatore Vinci diabolico assassino è un continuo far tornare dei conti che non tornano.
Che Mele si fosse vergognato dei suoi rapporti omosessuali con Vinci è senz’altro verosimile. Non per niente attese fino alla prospettiva di dover tornare in galera per confessarli. Ma rivediamo le condizioni in cui si svolsero quegli interrogatori. Il 30 maggio 1985 l’ometto, ormai stremato da un’indagine infinita che da tre anni gravava tutta sulle sue spalle, si trovò di fronte gli agguerritissimi Rotella, Torrisi e Izzo che volevano Salvatore a tutti i costi – soprattutto i primi due, il terzo ci credeva meno – e che per convincerlo gli sventolavano davanti un mandato di cattura per calunnia contro Francesco. Mele era libero da 4 anni, dopo averne trascorsi 13 in gattabuia, si può immaginare quanto felice fosse di fronte alla prospettiva di doverci tornare. Quindi grattò nel fondo del barile, cercando di tirar su più o meno tutto quello che ancora nascondeva, tra cui gli inverecondi giochini con la moglie e Salvatore. Ebbene, a quel punto aveva vuotato il sacco, il tremendo segreto che gli avrebbe impedito di denunciare il suo antico rivale e amante era uscito alla luce del sole, quindi avrebbe potuto denunciarlo. E il motivo ce l’aveva, grosso come un condominio di Sesto San Giovanni: evitare la galera. E invece nisba! Ecco un altro conto che non torna, ecco un’altra stampella da inventarsi per tenere su la baracca.
Niente da fare, dunque, per convincere Mele ci voleva l’arresto; che infatti scattò immantinente. Rotella e colleghi sperarono che cinque giorni di cella potessero bastare, ma s’illudevano: nel nuovo incontro del 4 giugno il caparbio ometto continuò a tener fuori Salvatore. Per quale motivo non voleva ancora decidersi? Quale altro inverecondo segreto si celava nel rapporto tra i due? Forse il fatto che nel delitto Salvatore non c’incastrava nulla e l’ometto esitava a inventarsi nuove bugie? Ma la pazienza è la virtù dei forti, e ai suoi interlocutori non mancava, anche perché la sera se ne tornavano a casa mentre per lui c’erano le quattro pareti della cella. Così il 12 successivo finalmente Stefano Mele si decise e consegnò Salvatore Vinci. Servirebbe un’altra pezza per spiegare il ritardo di due settimane rispetto alla confessione del terribile segreto. In ogni caso Mele non ebbe subito il suo compenso, poiché dovette attendere ancora a lungo prima di ottenere gli arresti domiciliari.

Movente. Tra gli sforzi dei vinciani per tenere in piedi il loro traballante scenario uno dei più grossi è senz’altro quello di proporre un valido movente (sforzo che poi diviene enorme nel caso dei delitti successivi, ma questa è un’altra storia). Le parole magiche sono gelosia e vendetta. Si fa presto a dire gelosia e si fa presto a dire vendetta, ma a fronte di quali elementi? Da quanto si può arguire dalle numerose testimonianze, nel mondo erotico – sentimentale di Salvatore Vinci non c’era posto per la gelosia, almeno intesa nel senso classico. Come si fa ad attribuire tale sentimento a uno che faceva congiungere la moglie, madre dei suoi figli, con degli sconosciuti alle Cascine?
A quanto se ne sa, il rapporto di Salvatore con Barbara Locci era iniziato attorno al 1960 – quando l’uomo, rimasto vedovo in Sardegna, aveva raggiunto il fratello Giovanni a Lastra a Signa – e la sua evoluzione nel tempo non è ben chiara. Ma quel che si può sostenere con certezza è che non fu per nulla esclusivo, né da una parte né dall’altra. Antonio Lo Bianco non era certo il primo amante diverso da Salvatore che la donna aveva frequentato. Bisogna piuttosto riconoscere che il sentimento di gelosia attribuito all’individuo proviene esclusivamente dalle parole di Stefano Mele. Non si conoscono altri indizi. Francesco sì che lo aveva dimostrato di tenerci alla donna, era anche finito in carcere per questo, Salvatore mai.
La prima dichiarazione in tal senso è nell’interrogatorio della mattina del 23 agosto 1968. Il verbale delle 11:35 registra una versione in cui Mele cercava di attribuire il delitto al solo Vinci, e non a caso così riporta:

Il Vinci Salvatore faceva l’amante geloso di mia moglie. Più di una volta ha minacciato mia moglie di morte perché non voleva che andasse con altri. La minaccia è stata fatta in mia presenza e più di una volta era stata fatta anche a mia moglie da sola e mia moglie mi aveva riferito le minacce del Vinci e mi aveva espresso la paura che il Vinci le aveva prodotta talché questa più di una volta mi disse anche che un giorno o l’altro la avrebbero ammazzata.

In quel momento, accusandolo di essere l'assassino, Mele aveva tutto l’interesse ad assegnare un movente di gelosia a Vinci, lo stesso che il giorno prima aveva attribuito al fratello e a Carmelo Cutrona. Ebbene, considerato il contesto, quale credito si può concedere alle sue affermazioni? Nello stesso verbale si legge che Salvatore avrebbe cercato di ucciderlo lasciando il gas aperto – è credibile? – come avrebbe fatto con la giovane moglie in Sardegna e che nel febbraio, mentre lui era in ospedale, si sarebbe installato in casa sua. Ebbene, a installarsi in casa sua, lo vedremo tra poco, era stato Francesco!
Nel verbale della sera, redatto dopo la confessione e il sopralluogo, non c’è invece traccia della gelosia di Vinci, che però torna in quello della mattina del 24: “In realtà il Salvatore era nei confronti di mia moglie più geloso di me. Questo l’ho già dichiarato ieri mattina ai carabinieri”. Di lì a poco arrivò la ritrattazione e il trasferimento delle accuse su Francesco, e di quella gelosia non si parlò più. Fino al 12 giugno 1985, quando l’ometto voleva uscire di galera. Purtroppo chi scrive non ha disponibilità del verbale, quindi bisogna accontentarsi del cenno che ne fece Torrisi:

Il MELE conclude affermando, ancora, che Salvatore ha partecipato al delitto perché “era più marito lui di me”, e che parecchie volte gli è capitato di andare a dormire fuori casa e lui ha dormito con sua moglie.

Alla fine va preso atto dell’evidenza che un movente di per sé poco compatibile con un personaggio come Salvatore Vinci è supportato soltanto dalle parole di Stefano Mele, pronunciate in due circostanze altamente sospette. Nient’altro porta a ritenere l’individuo geloso di Barbara Locci. Anzi, no, forse qualcosa c’è: l’anello di fidanzamento esibito al processo del 1970. Dal rapporto Torrisi:

Successivamente il VINCI, richiamato in aula a richiesta dell'avvocato RICCI, difensore del MELE, a specifica domanda risponde che l'anello che porta al dito gli è stato dato dal MELE nel primo giorno della sua relazione, allorquando, uscendo con la LOCCI, il MELE gli ha detto di mancargli solo l'anello per far coppia. Lo stesso prosegue affermando che l'oggetto è rimasto in suo possesso per qualche tempo, poi lo ha restituito ed infine gli è stato reso nel secondo periodo della sua relazione e cioè nei primi del 1968, su consenso della LOCCI, in cambio di una somma di denaro riscossa per lavori effettuati insieme e non consegnatagli dal MELE.
Il MELE, a questo punto, dichiara rivolto al teste:
“Dì la verità Salvatore, tu sei venuto sul posto di lavoro e mostrando l'anello mi hai detto che te lo aveva dato mia moglie”, ed il VINCI così risponde:
“Sì, adesso mi ricordo, le cose sono andate così, però insisto nel dire che non è stata una ricompensa per denaro che dovevo avere”.


Su questo grottesco episodio Torrisi costruisce la solita montagna di congetture.

L'episodio dell'anello che il VINCI Salvatore, durante il processo porta al dito, particolare evidenziato dall'avvocato RICCI verosimilmente su suggerimento del MELE, è alquanto singolare e la spiegazione data nella circostanza dai due stessi interessati non è plausibile, né risulta sia stata attribuita alcuna importanza o data interpretazione di sorta. L'anello, a nostro avviso, deve assumere un ben preciso significato, che prescinde dal valore reale, così come vorrebbe far credere lo stesso interessato.
L'anello nella mano del VINCI Salvatore non può che condensare tre volontà perfettamente convergenti, e cioè quella di chi lo accetta, e l'altra di chi lo dona, ed a donare l'anello nella circostanza è la LOCCI con il consenso espresso o tacito del marito, il vero possessore; l'anello è suo, se è vero che questi, rivolto alla moglie ed al VINCI Salvatore – sono sue affermazioni al dibattimento – dice loro, accompagnando la frase con un gesto di approvazione, che gli manca l'anello per far coppia. La verità è – ci sembra questo il momento per anticipare delle risultanze di grande peso processuale, acquisite nel decorso anno – che fra la LOCCI Barbara, il MELE Stefano ed il VINCI Salvatore intercorre, sin dall'inizio della loro conoscenza, risalente all'estate del 1960, un rapporto sessuale a tre, in cui i due uomini interpretano reciprocamente anche il ruolo della donna e dell'uomo. Ecco i veri motivi per cui la LOCCI nell'ultimo periodo nega i rapporti al marito ed automaticamente all’alter ego VINCI Salvatore, per rivolgere le sue attenzioni ai più giovani Francesco VINCI e Antonino LO BIANCO, i quali cercano proprio lei e non anche il marito, e questo affronto non può essere ulteriormente tollerato. Ecco quindi l'abituale giustiziere: è il solito VINCI Salvatore a decretare la condanna della donna.


Qui si inizia a comprende quale gelosia intendesse Torrisi: non la classica conseguente alla profanazione di intimità femminili, che nel caso di Salvatore non aveva senso, ma quella dovuta al tentativo della donna di liberarsi dal giogo dello stesso. Un giogo spudoratamente ostentato tramite l’esibizione dell’anello. È indubbio che la fantasia iper colpevolista del militare fosse senza freni, d’altra parte doveva arrangiarsi con quel che passava il convento. È un fuori tema, ma come non pensare ai 17 fichi d’india inviati da Ada Pierini ai coniugi Biancalani, dove Torrisi volle veder rappresentato l’intero campionario dei presunti omicidi di Salvatore, otto coppie più la moglie! Il bello è che i vinciani di oggi sull’anello gli danno credito, come il lettore Phoenix, che lo assurge a prova di colpevolezza, pur minore.
Ma torniamo al movente, che Torrisi spiega meglio più avanti.

Se la MASSA Rosina, moglie del VINCI Salvatore, ha compiutamente illustrato le abitudini del marito, fra cui quella di essere stata condotta con frequenza alle Cascine per farle fare quello che il VINCI aveva già praticato con la Barbara, ciò significa che la circostanza è certa e la si deve considerare come un vero caposaldo processuale. A chi non può tornare gradito quel tipo di rapporto è sicuramente alla LOCCI, la quale, potendo disporre di amanti più giovani e meno complessati dal punto di vista sessuale, preferisce ribellarsi a quella vita, andando a coltivare i piaceri del sesso con gli altri, fuori di casa.
Ecco, quindi, il vero movente del delitto del 1968: la gelosia del VINCI, il quale non può ancora permettere che la donna si sottragga ai suoi voleri, e lo dice lo stesso MELE che la moglie da circa due mesi gli nega i rapporti, ed ora possiamo comprendere come negandoli al marito, li nega contestualmente al vero “proprietario” della famiglia, così definito da Stefano.


Si tratta di illazioni supportate dal nulla, tutte partenti dalle sole parole di Stefano Mele e sviluppate secondo una grossolana convenienza accusatoria. Nella stessa sentenza Rotella viene descritta una situazione nei mesi precedenti il delitto in cui il protagonista era Francesco, e non certo Salvatore:

Nel novembre dell'anno precedente, uno degli amanti, Francesco Vinci, è stato tratto in arresto, per denuncia di concubinato con lei, e dopo pubblica sorpresa e relativa scenata, dalla moglie Vitalia Muscas (poi divenuta Melis). Mele non ha battuto ciglio. Anzi si è fatto custode di una motoretta (Lambretta) dell'altro durante la sua detenzione.
Uscito dal carcere, Vinci ha ripreso, senza darsi problemi, la relazione. Successivamente Mele, subito un incidente, in febbraio è stato in ospedale e, durante questo periodo, l'altro (Mele dirà che si tratta di Salvatore, fratello di Francesco, ma poi, e anche in questa istruttoria, s'intende che si tratta di Francesco) si è installato in casa sua. La storia è durata sino a fine primavera e forse durava ancora. La Locci, intanto, incurante della gelosia manifesta dell'amante, men che di quella, se vi è, occulta del marito, è passata ad altri uomini, ultimo colui che è stato ucciso insieme a lei, Antonio Lo Bianco.


In questo frammento Rotella descrive un gustoso episodio che da una parte esclude Salvatore dallo scenario, e dall’altra rafforza il movente della famiglia Mele:

Mucciarini dice che si era recato, mesi prima del delitto, a saldare, a L. a Signa, debiti del Mele, per conto del suocero. Il negoziante gli aveva chiesto anche il saldo del conto di 'quell'altro' e cioè dell'uomo che viveva, in quel periodo, in casa Mele, e cioè Francesco Vinci. Tale ultima cosa era nota già durante la degenza ospedaliera di Stefano, nel febbraio 1968, a Palmerio e Maria Mele, che avevano incontrato F. Vinci in ospedale. Gli amanti della Locci erano perciò considerati in guisa di sfruttatori.

Dov’era dunque Salvatore in quei mesi del pre-delitto, nei quali la Locci gli avrebbe suscitato un sentimento di così travolgente gelosia da fargli nascere il desiderio di ucciderla? Quello stesso Salvatore che il giorno prima prendeva in giro il fratello dicendogli: “Che per caso vai dalla Locci?”. Qualcosa l’uomo ammise, al processo, come ci riporta Torrisi:

Egli, infatti, afferma di aver ripreso a frequentare la casa ed anche la relazione con la donna, di aver dormito una sera in casa sua, mentre il marito è in ospedale, di aver avuto in quel periodo, nonostante le minacce alla donna da parte di Francesco, qualche rapporto con lei, subito troncato dopo l'uscita dal carcere del fratello.

Naturalmente Salvatore potrebbe aver mentito o quanto meno minimizzato, ma non ne esiste prova. Lo scenario pare quello di un individuo che approfitta fin che può della situazione per soddisfare i propri bisogni sessuali, senza nulla di sentimentale, in linea del resto con i comportamenti attestati negli anni successivi dalle indagini dello stesso Torrisi. Peraltro, quand’anche avesse portata la Locci alle Cascine per farla congiungere con altri uomini, dove sta scritto che a lei sarebbe dispiaciuto? E il fatto che nell’agosto la donna si fosse interessata al gruppo dei siciliani che lavoravano assieme al marito, è sufficiente a dimostrare una rottura traumatica dei suoi rapporti con Salvatore? Peraltro pare fuori luogo ipotizzare che si aspettasse qualcosa in più di qualche rapporto sessuale da un padre di tre figli! E neppure da un Cutrona o da un Barranca.
La lettura dell’articolo Omicidio o suicidio? rende bene l’idea dei pericoli insiti nel lasciarsi trasportare dai luoghi comuni. Nel caso della moglie, un movente di gelosia e vendetta Salvatore l’avrebbe anche avuto, ma nonostante ciò non la uccise, e neppure si ha notizia di scenate, anzi, lasciò che portasse avanti la sua relazione mentre lui probabilmente si divertiva col fratello, coltivando magari la speranza d’infilarsi in mezzo ai due amanti, prima o poi, chi lo sa? Il personaggio era interessato al sesso e basta, pertanto, che motivo avrebbe avuto per uccidere Barbara Locci rischiando l’ergastolo e privandosi di una donna che la dava via senza problemi e che un domani poteva sempre tornargli comoda?

Una pistola scomparsa. Cerchiamo adesso di guardare dentro il più grande mistero che accomuna tutti gli otto duplici omicidi. Si legge nel verbale di Stefano Mele della sera del 23 agosto 1968, quello in cui viene riportata la sua confessione con Salvatore complice:

A questo punto Salvatore evidentemente a conoscenza della relazione esistente tra mia moglie Barbara ed Enrico mi disse: – PERCHÉ NON LA FAI FINITA?
Io risposi: – COME FACCIO SENZA NULLA IN MANO? SAPENDO CHE ENRICO AVEVA PRATICATO LA BOXE.
Salvatore a questo punto replicò: – IO HO UNA PICCOLA ARMA. [...]
Una volta fermata la macchina Salvatore aprì una borsa e mi diede una pistola dicendomi: – GUARDA CHE CI SONO OTTO COLPI. [...]
Non appena salii in macchina dissi a Salvatore le seguenti parole: – SONO BELLI E SISTEMATI. Salvatore mi chiese del bambino e io risposi che era salvo. In relazione alla pistola preciso che non appena ebbi sparato la buttai via. Non posso precisare il posto preciso però sicuramente nei pressi della macchina. Preciso che buttai via l’arma di iniziativa. Vinci Salvatore mi chiese della pistola e quando gli dissi che la avevo buttata via ebbe a rispondermi: – PAZIENZA.


Inutile ribadire che la versione del delitto a due con incontro fortuito la sera stessa non stava in piedi. Ed è difficile pensare che fosse farina del sacco di Mele, o comunque del solo Mele, che, è sempre bene tenerlo a mente, la sera prima aveva preparato il figlio ad accusare Francesco. In qualche modo ci doveva essere lo zampino dei veri complici, i parenti, lo abbiamo già visto. Ma quel dettaglio della pistola lasciata sul posto che cosa nascondeva? Perché specificarlo, quando l’azione di gran lunga più sensata sarebbe stata quella di restituire l’arma al proprietario? Era stato un capriccio? I vinciani, che al contrario dei negazionisti non credono a un Mele deficiente che parla a vanvera, dovrebbero fornire adeguata spiegazione a questo imbarazzante dettaglio. Che interesse aveva l’ometto a introdurlo sapendo bene quanto facilmente sarebbe stato smentito? Tra l’altro, nel momento in cui lo raccontò si deve immaginare che i suoi interlocutori fossero rimasti molto sorpresi, visto che di quella pistola non avevano trovato traccia. La qual cosa, tra parentesi, la dice lunga su quanto assurda sia la pretesa di chi, come Filastò e discepoli, considera le confessioni di Mele frutto di schiaffoni!
La mattina dopo, il 24, si procedette a una ricerca approfondita, con anche l’intervento di Vigili del Fuoco e militari del Genio. Senza risultati, lo sappiamo bene.



Alle 9:50 Caponnetto interrogò Mele, che guarda caso proprio sulla pistola cambiò versione, affermando di averla restituita al proprietario. Il buonsenso dice che tale cambiamento fu conseguenza della comunicazione del mancato recupero. Ma i vinciani lo contestano, affermando che alle 9:50 la ricerca non era ancora finita. In verità di tale operazione non sono noti gli orari. Si può presumere che, per evitare il caldo di agosto, fosse partita a ridosso del sorgere del sole (5:30) – l’abbigliamento che si vede in foto lo testimonia – ma non si sa quando ebbe fine. Può anche darsi che alle 9:50 ancora no, ma è impensabile che Caponnetto non si fosse informato dello stato delle ricerche – via telefono, via radio o alle brutte con un piccione viaggiatore – prima di interrogare Mele, il dato era troppo importante.
Ma leggiamo il verbale, che dopo alcuni preliminari entra nel vivo: “Non ho nessuna difficoltà a dichiarare subito che confermo in ogni sua parte la dettagliata confessione da me resa ieri sera presso la stazione dei CC. di Lastra a Signa”. Dunque Mele in prima battuta non ha alcuna modifica da proporre alla confessione della sera precedente. Allora Caponnetto inizia a leggergliela. Intanto il verbalizzante fa una pausa, come si evince dal testo ma anche dal differente incolonnamento della scrittura a mano quando riprende:

Ricevo a questo punto lettura integrale di dette dichiarazioni. C'è un solo particolare che non risponde a verità in quelle mie dichiarazioni, e precisamente quello in cui riferivo ad essi il modo con cui mi ero disfatto della pistola. In verità io non buttai via l'arma, ma la riconsegnai a Salvatore Vinci, appena raggiunsi la sua macchina in sosta, dopo aver compiuto il duplice omicidio.

La lettura del verbale della sera prima con grande probabilità si era interrotta proprio nel punto in cui Mele diceva di aver buttato via l’arma, a circa 2/3. Lo si deduce dal fatto che quello presente riporta verso la fine: “Si dà atto che a questo punto viene ripresa ed ultimata la lettura del verbale dell’interrogatorio Mele delle ore 11:35 del 23 agosto 1968”. Era stato lo stesso Mele, di sua iniziativa, a bloccare la lettura per il cambio di versione sul destino della pistola? Per un nuovo capriccio, oppure per rimediare a quello della sera precedente? Veramente difficile crederlo. Anche perché il verbale così prosegue:

Mi si chiede perché io abbia dichiarato diversamente ai CC; avevo la testa un po’ confusa ed ero stanco. Prendo atto che mi si contesta che nel riferire ai CC le circostanze in cui mi sono liberato dell’arma, io sarei stato molto preciso e circostanziato, e tutt’altro che confuso, tanto da riferire perfino testualmente le parole con cui il Salvatore avrebbe commentato la notizia da me datagli del getto dell’arma. Capisco che l’obiezione che mi viene mossa è giusta; non so cosa rispondere. Certo è che l’arma la riconsegnai a lui. Può darsi che la parola “pazienza” che io attribuii a Salvatore come commento alla notizia del rigetto dell’arma, egli l’abbia invece pronunciata come commento alla notizia del duplice omicidio.

Nessuna funambolica arrampicata sui vetri dei vinciani o di qualsiasi altro potrà mai eliminare l’evidenza: la sera prima Mele aveva sostenuto con sicurezza di aver gettato l’arma sul posto, e la mattina dopo, di fronte alla notizia che quell’arma non si era trovata, aveva raccontato un’altra storia, peraltro molto più plausibile. Perché?
Ad aprire uno spiraglio sull’interpretazione di questa sorprendente circostanza è il verbale dell’interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969:

Chiestogli chi c’era con il padre il bambino insistentemente dice che con il padre c’era lo “Zio Piero” da Scandicci;
Chiestogli chi abbia sparato il bambino [dice] “Piero”.
Il bambino dice altresì che lo zio Piero era venuto con una bicicletta celeste ed il padre con una bicicletta marrone.
Il bambino dice ancora che la rivoltella fu gettata nel fosso vicino e che lui andò via con il padre che lo portò in braccio.


Secondo Natalino la pistola venne dunque “gettata nel fosso vicino”. Due giorni dopo il fanciullo venne interrogato di nuovo. Va tenuto presente che nel frattempo aveva ricevuto la visita di un parente, con grande probabilità la zia Maria, la quale, per togliere Mucciarini dai suoi racconti, aveva cercato di fargli cambiare “Piero” in “Pietro”. Ed ecco ancora la pistola:

Mostrandosi più disinvolto il bambino ricorda sempre a domande degli inquirenti che la rivoltella fu buttata dallo zio Pietro in un fosso vicino alla macchina.
Riconosce nella foto nr. tre allegata al rapporto dei C.C. il punto ove era la macchina e indica il fosso sulla destra della macchina poco più avanti di essa.


Stavolta Natalino precisò che a gettare la pistola fu Piero Mucciarini. Si tratta di un clamoroso incastro con la confessione del padre del 23 agosto dell’anno prima, di fronte al quale la persona cui non piace far tornare i solitari deve riflettere a lungo, prima di passar oltre, come invece fanno quasi tutti crogiolandosi nei luoghi comuni, che hanno l’indubbio vantaggio di risultare sempre tanto rassicuranti… Ma aggiungiamo qualche altro tassello.

Una pistola comprata? Si legge nel verbale dell’interrogatorio di Mele del 12 giugno 1985 (vedi):

Egli sostiene di aver dato 400.000 lire (a Vinci) per comprare la pistola, di non sapere se ce l’avesse da prima o se l’abbia comprata; che suo fratello (Giovanni) non è a conoscenza che lui ha dato quattrini a Salvatore per comprare la pistola e che l’idea dell’arma, come anche quella di uccidere è venuta a Salvatore.

Secondo l’ipotesi proposta in questo articolo, quel giorno Mele aveva accusato Salvatore Vinci soltanto perché era l’unico modo per uscire dal carcere. Che bisogno aveva di precisare due dettagli così ininfluenti, quello di aver consegnato al presunto complice 400 mila lire per l’acquisto della pistola, e che il fratello ne era all’oscuro? Siamo un po’ nelle stesse condizioni di 17 anni prima, quando, ancora accusando Salvatore, aveva raccontato della pistola lasciata sul posto. È credibile che l’ometto fosse tipo da introdurre nelle sue narrazioni degli elementi inutili ma specifici senza che ce ne fosse bisogno?
Oppure mettiamoci nell’ottica del vinciano che crede alla partecipazione di Salvatore. Visto che da non negazionista non liquida le dichiarazioni di Mele come deliri, dovrebbe spiegare questo passaggio della sua confessione. Si tenga conto che una Beretta della serie 70 costava nel 1968 sulle 25 mila lire. Dovremmo quindi immaginare che il gelosissimo e vendicativo Salvatore, mentre stava architettando un duplice omicidio che avrebbe potuto mandarlo all’ergastolo, coglieva l’occasione per ciulare dei soldi all’ingenuo Stefano, raccomandandogli di non dir nulla al fratello, che altrimenti avrebbe potuto risentirsi! Una situazione davvero grottesca…
In realtà si deve pensare che si trattasse degli ultimi segreti custoditi dall'ometto, inseriti nello scenario che volevano i suoi interlocutori. Vediamo di approfondire, cominciando dall’osservazione che la cifra non è casuale. Dal rapporto Matassino:

Viena accertato comunque che il Mele Stefano in data 21 giugno 1968 ha riscosso la somma di lire 480.000 dalla Società Assicuratrice Tirrenia sede di Firenze, quale rimborso spese per sinistro stradale.
Immediatamente dopo i fatti in narrativa l'unica somma rinvenuta è quella di lire 24.625 nel borsellino della donna, reperito a bordo dell'autovettura, somma che viene consegnata al Mele Stefano. Questi non fornisce chiare giustificazioni circa il modo in cui è stato speso il danaro; si limita a dire che i soldi venivano spesi dalla moglie.
Si accerta, comunque, che le uniche spese da lui sostenute consistono in lire cinquantamila pagate a tale LISI Lionello per un debito relativo ad acquisti di generi alimentari.


Se la matematica non è un’opinione, le 400 mila lire che Mele avrebbe consegnato a Salvatore corrispondevano più o meno ai soldi scomparsi: 480.000 – 50.000 – 24.625 = 405.375. Soldi che avrebbero costituito il movente primario dello stesso Mele, secondo l’ipotesi di Gerardo Matassino, il quale, dopo aver descritto la perenne ed estrema povertà dell’individuo, scrive:

Immaginiamocelo però adesso con una disponibilità piena della somma di circa mezzo milione. Anche se per molti questa cifra ai tempi attuali rappresenta ben poco, per il Mele è invece l’inverosimile. È il raggiungimento di un sogno che aveva accarezzato per tutta una vita.
Riprendiamolo ora in esame mentre impotente assiste allo svanire di questa tanto agognata e dolce realtà. Egli stesso ci dice che la moglie quando esce con gli amanti è sempre lei a pagare. Questo particolare viene anche confermato da altri testimoni. La moglie stessa, donna abituata ad una vita di stenti, perché oltretutto non si è mai concessa per danaro, fa presto ad abituarsi ad una vita facile e nuova ed in breve tempo dilapida il capitale del marito.
Che le sfortune del Mele inizino con la riscossione della famosa somma sembra non vi siano dubbi. Di giorno in giorno, ogni qualvolta la moglie spende una parte dei soldi, nel Mele si fa sempre più viva la volontà di agire. Egli comunque riesce sempre a frenarsi fino a quando la fatidica sera del 21 agosto ‘68 non si accorge che la moglie, per uscire con l’amante di turno, ha prelevato l‘ultima parte dei soldi. È questa la goccia che fa traboccare il vaso. L’uomo perde il lume della ragione. Ha sopportato per tanti anni la moglie infedele, ma non riesce a passare sopra al fatto che è stata la causa prima che ha distrutto il suo sogno finalmente realizzato e si vendica uccidendola unitamente al suo ultimo amante.


La reazione che Matassino attribuisce a Stefano Mele è traslabile sui suoi parenti. Non a caso c’era Mucciarini con lui, mentre aveva raggiunto Prato per incassare la cifra, evidentemente a garanzia della sua buona conservazione fino a Lastra a Signa. Mele ne avrebbe dovuto utilizzare parte per le riparazioni della casa, che ne aveva bisogno, dopo i danni dell’alluvione del 1966, soprattutto al tetto. Il padre gliel’aveva comprata a buon prezzo proprio per questo. Pare ragionevole ritenere che la sparizione di quelle 400 mila lire fosse stata la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Ma probabilmente la Locci non ne era responsabile, e il fatto che si fosse portata dietro ben 25 mila lire (250 euro di oggi) è perché aveva paura che sparissero anche quelle!
Le 480 mila lire erano il rimborso per l’incidente in cui Mele si era rotto una gamba, nel febbraio, mentre faceva il passeggero sulla Lambretta condotta da Francesco Vinci. Una Fiat 500 li aveva investiti, e il guidatore – per fortuna assicurato, in tempi di RCA non ancora obbligatoria – si era preso la colpa. Per il rimborso c’era però un problema: Francesco non aveva la patente. Per questo era subentrato Salvatore che aveva preso il suo posto nella denuncia. Quindi entrambi i Vinci erano a conoscenza del futuro rimborso, un piccolo tesoro sul quale volentieri avrebbero messo le mani.
A questo punto il lettore non inquadrato e che non si accontenta dei luoghi comuni ha tutti gli elementi per completare il giallo di Signa, tutto sommato piuttosto semplice, non fosse per quella pistola ricomparsa sei anni dopo. Ed è proprio qui che vanno abbandonati i luoghi comuni, cui del resto pare davvero stupido ricorrere in una vicenda che non ha eguali al mondo.
Chi non riesce può sempre mettere nel salvadanaio qualche euro per comprare il mio futuro libro… se mai uscirà.

NB: Per i commenti vale quanto riportato in fondo alla prima parte. Infine. I vinciani fanatici (e ho il sospetto che siano tanti, forse la maggioranza) di sicuro mi detesteranno, dopo questo articolo. Per farmi perdonare almeno un po’ rendo disponibile una sentenza credo inedita in rete, una piccola chicca per comprendere ancor meglio il personaggio che così tanto ottenebra la loro mente.

sabato 21 novembre 2020

Salvatore Vinci a Signa - Approfondimenti (1)

Sul recente articolo Salvatore Vinci a Signa sono stati numerosi gli interventi degli agguerritissimi “Vinciani”, in particolare due di essi, Phoenix e Hazet, la cui competenza risulta di ottimo livello. Purtroppo in entrambi pare inarrestabile la tendenza ad annegare le loro argomentazioni in ragionamenti chilometrici, il che tra l’altro non è un buon segno riguardo il contenuto, e rende comunque difficili sia la lettura sia la risposta. Sono poi evidenti i molti tentativi di forzare i dati, attraverso espedienti dialettici.
In questo articolo esamineremo le loro argomentazioni più significative, e approfondiremo alcuni temi importanti. È bene ricordare l'ipotesi in cui chi scrive si sta muovendo. Il delitto di Signa fu architettato ed eseguito in completa autonomia dalla famiglia Mele, come ammise Stefano. Poi l’ometto aggiunse Salvatore Vinci, a parere di chi scrive soltanto per uscire di galera, dove Rotella lo aveva mandato con il pretesto della calunnia contro Francesco Vinci. In ogni caso è opportuna una rilettura dell’articolo citato.

Marcello Chiaramonti. Cominciamo con il chiarire la questione del presunto alibi di Marcello Chiaramonti, marito di Teresa Mele. Ripassiamo in breve il contesto. Dopo il ritrovamento nel suo portafoglio del noto biglietto dello “zio Pieto”, il 24 gennaio 1984 Stefano Mele si decise a tirare in ballo i propri parenti, dopo averli protetti per 16 anni pagando anche per loro. Raccontò che quella sera erano lui, suo fratello Giovanni e Piero Mucciarini, marito della sorella Antonietta. C’era però il problema della macchina, che cercò di risolvere attribuendola al fratello (Mucciarini era senza patente). Quando i controlli portarono alla scoperta che Giovanni la macchina non l’aveva – comprò la prima negli anni ’70 – venne fuori che l’unico della famiglia a disporne era Marcello Chiaramonti. A quel punto Mele ammise che c’era anche lui.
Dalla sentenza Rotella:

Il primo a porre il problema è stato Mucciarini. Il 27 gennaio 1984 dichiara:
“In questi giorni mi sono posto il problema del veicolo. Stefano dice che si andò a commettere il delitto con la vettura, ma nessuno di noi tre aveva la vettura e la patente. Perciò due sono le cose: ragioniamo o vi era uno al mio posto o vi era una persona che guidava la macchina”.
D.R.: “Non saprei dire se amici o parenti. L'altro mio cognato che allora aveva 25 anni all'incirca, era un giovane molto serio, che aveva lavorato con Giovanni alla segnaletica del Giuntini, aveva macchina e patente e precisamente una Prinz N.S.U.” […]
Sulla scorta di questa indicazione di Mucciarini, l'inquisizione ritorna su Stefano ed egli dichiara, ancora nei limiti astratti di credibilità, senza indicazioni o sollecitazioni, che in effetti era stata adoperata l'autovettura di Marcello Chiaramonti, l'altro cognato, marito di Teresa Mele. Spiegava anzi che era presente anche lui e che non ne aveva voluto parlare prima per tenerlo fuori.
Marcello Chiaramonti, intanto già udito quale teste, si è difeso con tutta l'onestà e la limpidezza che gli ha concesso l'essere inquisito per un delitto gravissimo, libero e con la paura di perdere la libertà.



Che all’inizio Mele avesse tentato di tener fuori l’allora giovane Chiaramonti, il quale con grande probabilità si era limitato a guidare, è plausibile, tenuto conto di quanto forte fosse stata su di lui l’influenza dei legami di sangue. Si trattava del marito di sua sorella, padre di suoi nipoti, che da tempo si era costruito una vita a Piombino rimanendo ai margini delle questioni di famiglia: perché mandare in carcere anche lui? In effetti Rotella in carcere non ce lo mandò, evidentemente due Mostri erano già fin troppi. Poi, dopo il delitto di Vicchio, di sicuro avrebbe fatto volentieri a meno della sua presenza nel gruppo degli assassini, visto che rendeva non indispensabile la Fiat 600 del nuovo sospetto Mostro, Salvatore Vinci. Non è certo un caso se in sentenza non ne approfondì la posizione. Torrisi invece si dimostrò meno scaltro – lui all’assurda carovana di due auto ci credeva – e il suo rapporto fornisce qualche interessante notizia.

Il quinto elemento si deve identificare in CHIARAMONTI Marcello, rimasto a guardare le autovetture – una di esse è la sua – come si evince dalle dichiarazioni del MELE Stefano del 12 giugno 1985. Lo stesso CHIARAMONTI Marcello sentito dal magistrato subito dopo l'omicidio di Vicchio, è stato sull'orlo di essere tratto in arresto su mandato di cattura per reticenza – e lo stesso interessato manifesta le sue preoccupazioni in tal senso se è vero che aveva dato incarico al suo capo reparto di giustificarlo, almeno per un mese, se non avesse preso servizio –, in quanto la sua deposizione e quella della moglie (sono i primi ad andare a trovare Stefano a casa il primissimo mattino, il giorno dopo il delitto, non appena leggono i giornali) è tutt'altro che convincente.

I vinciani di oggi hanno lo stesso problema di Rotella, e si sentirebbero molto meglio senza Chiaramonti. Ecco allora il tentativo di accreditargli un alibi. Scrive Hazet: “Chiaramonti risultò con un alibi”. Poi, credendosi smentito dal compagno Phoenix, in un chiaro lapsus freudiano: “Quale documento / dichiarazione / deposizione smentirebbe l'alibi del Chiaramonti? A me non ne risulta nessuno nemmeno che ne metta dubbio. Se ne hai info diverse, potresti indicarmene i link”. Al che Phoenix risponde: “Non mi risulta io abbia mai smentito (né citato documenti in tal senso), né abbia mai messo in dubbio, l’alibi di Chiaramonti”.
Si tratta di un tentativo di truccare le carte, che lo stesso Phoenix asseconda forse in modo involontario, forse no. In alcun documento noto si parla di alibi di Chiaramonti, né smentito né verificato. Vista la mancanza di notizie si deve presumere che – nel 1984, a distanza di 16 anni – al massimo l’uomo potesse averne fornito uno banale, come l’essere rimasto a casa con la moglie, quindi inutile. La qual cosa non lo mette in automatico sulla scena del crimine, però neppure lo toglie, come invece lasciano intendere le sibilline argomentazioni dei due vinciani. Pertanto, in una ricostruzione storica, la Fiat 600 di Salvatore Vinci risulta non indispensabile al compimento del delitto.

La zappa sui piedi. La pillola più indigesta che i vinciani si sono trovati a dover ingoiare leggendo il mio articolo è stata senz’altro quella di Piero Mucciarini il quale, favorendo la confessione di Stefano Mele del 23 agosto 1968 con Salvatore Vinci complice, si sarebbe dato la zappa sui piedi. Una considerazione semplice, addirittura banale, che però rischia di far crollare tutto il loro castello di argomentazioni (succede spesso che il Diavolo si nasconda nei dettagli…). Vediamo in questo caso qual è il rimedio, partendo da Phoenix, che si lancia in un’incredibile serie di considerazioni al contorno in fondo alle quali finalmente arriva al sodo:

Questi sono i fatti. I comportamenti di Mucciarini sono i classici comportamenti illogici (e non precostituiti, dal momento che non s’aspettava d’esser visto da Natalino) di chi, non essendo un delinquente incallito, è preso dal panico.
E poi... sicuri sicuri che Mucciarini c’entri qualcosa con le accuse di Stefano Mele a Salvatore Vinci? Potrebbe anche esser che vedendo Stefano Mele crollare, abbia presenziato per dare un po’ di sostegno ed assicurarsi che non faccia il SUO di nome


Vediamo invece il sodo di Hazet, che prima cita la mia considerazione “Indicare il proprio complice come autore del delitto è un'azione priva di senso”, poi la contesta:

SOLO SE:
- sei un criminale incallito
- sei uno a cui non manca la fantasia e la velocità di reazione intellettiva
- non sei appena passato dallo stato “la scampo e me ne torno a casa perché ho un alibi” a quello di “m'hanno sgamato e mi tocca andare in galera”.
È infatti di solito proprio al momento di un tracollo che si commettono 'cavolate' con la bocca e si inguaiano i complici.
È proprio per quello che gli investigatori chiedono alibi, fanno verifiche, investigano, fanno eseguire ricostruzioni, sentono testimoni, ed INTERROGANO ed insistono sugli elementi dubbi che non li convincono.


La tremenda arrampicata sui vetri di entrambi è palese. Nella sostanza viene descritto un Mucciarini così terrorizzato per non si sa quale imminente catastrofe, da cercare di salvarsi consegnando ai carabinieri la chiave per la scoperta di tutti gli altarini: uno dei componenti della banda! Il quale, si badi bene, fino a quel momento nessuno aveva tirato in ballo, tantomeno i carabinieri che invece erano andati a prendere il fratello. Phoenix prova anche a crearsi una seconda via di fuga, lanciando l’ipotesi che Mucciarini avesse affiancato Mele soltanto per assicurarsi che non facesse il suo nome. Peccato che quello di Salvatore lo avrebbe inguaiato comunque!
Ma vediamo di ricostruire un po’ meglio gli eventi, facendo anche delle ipotesi, però logiche. Il giorno dopo il delitto, 22 agosto, Stefano Mele si dichiarò estraneo, tacendo su Salvatore Vinci e lanciando qualche velata allusione su Francesco e su Carmelo Cutrona. Entrambi erano presenti in caserma, con la differenza però che Cutrona lo aveva fatto convocare lui, mentre Vinci i carabinieri erano andati a prenderlo di loro iniziativa. Da notare che il dichiararsi estraneo di Mele rientra perfettamente nel solco del suo desiderio di scamparla alla galera, affiancandosi all’ingenuo alibi della malattia e alle istruzioni date a Natalino sul viaggio da solo.
La sera padre e figlio si ritrovarono e tornarono a casa, dove avrebbero trascorso un’ultima notte assieme (Mele doveva ripresentarsi in caserma alla mattina dopo). E lì accadde qualcosa di molto importante, ai fini della comprensione del giallo. Si legge nel verbale dell’interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969:

Chiestogli se c’era anche Vinci Francesco dice di sì.
Chiestogli allora di ricordare chi abbia visto quella sera, ricorda oltre il papà, la mamma, l’uomo che era in macchina che lui chiama anche “Zio”, lo zio Piero e non menziona il Vinci Francesco.
Chiestogli perché non lo abbia ricordato risponde “Me lo disse il babbo di dire di averlo visto”.


L’unico momento in cui Mele poteva aver detto quella frase al figlio era proprio la sera del 22 agosto, poiché dalla mattina successiva sarebbe rimasto sempre sotto custodia. Non si sa se l’idea l’avesse avuta già in testa come seconda fase dell’ammaestramento, o se gli fosse venuta il giorno stesso accorgendosi dell’interesse dei carabinieri verso Francesco Vinci, fatto sta che preparò il figlio ad accusarlo. In sostanza Francesco avrebbe compiuto il delitto da solo, per poi accompagnare Natalino e minacciarlo affinché stesse zitto. Ma una volta a casa il fanciullo si sarebbe confidato con il padre, il quale era pronto per riferire il tutto ai carabinieri alla mattina dopo. Tale piano non è una semplice ipotesi, è una certezza, come dimostrano numerosi elementi emersi in seguito, tra i quali la versione adattata del 24, alla quale non a caso si accompagnò la richiesta di chiederne conferma allo stesso Natalino.
La mattina dopo, 23, Piero Mucciarini, Marcello Chiaramonti e Teresa Mele andarono a casa di Stefano. Non si sa a quale ora, sappiamo però che l’interrogatorio del congiunto risale alla tarda mattinata, il verbale riporta le ore 11:35. Non si sa neppure se Chiaramonti se ne fosse andato a portare la moglie e il bambino a Scandicci, e se poi fosse tornato subito indietro (erano appena 10 minuti di macchina), oppure fosse rimasto con loro. In ogni caso almeno Mele e Mucciarini ebbero tutto il tempo di discutere prima di recarsi insieme in caserma, forse a piedi, visto che si trovava a poche centinaia di metri. Ebbene, quali potevano essere stati i motivi per i quali Mucciarini si sarebbe così allarmato da compiere il passo falso di convincere il cognato a confessare coinvolgendo Salvatore? Mele era pronto ad accusare Francesco, e non sembra avesse alcuna intenzione di mandare tutto a monte, anzi, era ben convinto di continuare a dichiararsi innocente, il suo piano lo dimostrava. Non a caso, pur virando su Salvatore, in una prima fase aveva cercato di accreditarlo come assassino unico, lo dimostra il verbale delle 11:35, suscitando però i sospetti dei carabinieri che lo avevano incalzato costringendolo alfine a dichiararsi colpevole e ad assegnare all’altro il ruolo di complice istigatore.
In realtà si può solo pensare che il piano di Stefano non fosse quello dei suoi familiari, rappresentati in quel momento da Mucciarini. In effetti la pretesa di affidarsi all’appoggio di Natalino, che avrebbe dovuto raccontare una nuova storia, era davvero eccessiva e non avrebbe funzionato. È chiaro che a quel punto gli inquirenti avrebbero interrogato il fanciullo più a fondo, e il rischio che venisse fuori quello che non doveva venir fuori – l’aver visto lo zio Piero – era troppo grosso. Ecco il motivo del cambio di versione, dove per Natalino niente sarebbe dovuto cambiare. Cambiava tutto invece per Stefano, che avrebbe dovuto accollarsi l’omicidio, per la soddisfazione dei carabinieri e la tranquillità dei Mele. Con un paio di inconvenienti, però: la macchina e la pistola. Mele da solo non era un assassino credibile, ci voleva un complice.
Perché i Mele preferirono Salvatore a Francesco? Innanzitutto l’automobile a quattro ruote del primo era senz’altro da preferire al Gabbiano 50 tre marce a manopola del secondo, che invece di ruote ne aveva soltanto due. L’immagine di Stefano e Francesco stretti sulla sella del motorino – che in prima, sulla salita in uscita dalla piazza del cinema, smarmitta cercando di non farsi seminare dalla Giulietta di Lo Bianco – avrebbe scoraggiato chiunque. In verità Francesco possedeva anche una Lambretta, che già sarebbe stata meglio, ma in quel periodo era ferma dal meccanico.
Poi c’era la pistola, sulla quale più avanti dovremo tornare.
È comunque evidente che anche il piano dei Mele aveva molti punti deboli. Un possibile alibi di Salvatore, in primis. Poi Natalino. Con Mele reo confesso sarebbe stato difficile mantenere l’esatta versione del risveglio a cose fatte senza aver visto nessuno. Tra l’altro c’era il corpo della Locci che era stato aggiustato. La povertà della documentazione non ci consente di ricostruire il confronto di Mele con gli inquirenti, che però proprio cretini non dovevano essere, quindi è probabile che si debba alle loro perplessità se Mele raccontò di essere stato visto dal figlio dopo aver spostato i corpi, e di essere fuggito lasciandolo sul posto. Il che poteva costituire motivo di sospetto sull’attendibilità del racconto dello stesso, che del padre non aveva parlato. Di punti deboli il piano ne aveva altri, ma probabilmente la speranza dei Mele era riposta nell’aiuto che avrebbe fornito il ritrovamento della pistola…
Le cronache ci raccontano di un Mucciarini attivo nel favorire la confessione di Stefano con dentro Salvatore (il maresciallo Ferrero al processo del 1970: “Alla confessione si giunse attraverso l’opera di persuasione fatta da un cognato del Mele, Mucciarini Piero. Il Mucciarini si presentò spontaneamente in caserma”). E non c’è motivo di non crederlo, dato che quello stesso giorno l’uomo intervenne anche su Natalino. Ancora dalla deposizione di Ferrero, che andò più volte a trovare il fanciullo in istituto prima degli interrogatori della primavera 1969:

Il bambino aggiunse di essere sceso dall'auto e di aver visto fra le canne “Salvatore”. Ho interrogato altre volte il bambino e il bambino fece il nome di uno “zio Pierino” come autore del delitto, abbandonando la versione sul Salvatore e dicendo che questo “zio Pierino” aveva una figlia a nome Daniela.

Si legge nel verbale dell’interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969: “Prima di allontanarsi rinnovata la domanda se lo zio Piero gli abbia detto di non dire qualcosa il bambino dice «Mi disse di avere visto Salvatore fra le canne»”. Quando Mucciarini lasciò la caserma di Lastra a Signa tornò a Scandicci – con grande probabilità assieme a Chiaramonti che era andato a prenderlo – dove, assieme agli altri, cercò di annullare in Natalino la versione con Francesco inserendone una con Salvatore. Si può solo pensare che lo avesse fatto quel giorno stesso, poiché all’indomani Stefano avrebbe abbandonato la versione con Salvatore, quindi non avrebbe avuto più senso.
Tra l’altro è probabile che i primi giorni Natalino fosse stato ospite di Chiaramonti. In ogni caso i due cognati erano vicini di casa, quindi ritenerli l’uno all’oscuro delle iniziative dell’altro è improponibile. Dove fosse Giovanni non si sa bene, forse era tornato al suo lavoro a Mantova, ma è molto più probabile che fosse invece ospite della sorella Maria. A questo punto la domanda sorge spontanea: erano tutti scemi i Mele, come evidentemente ritengono i vinciani, Phoenix e Hazet in testa?

L’alibi. Tra gli indizi che collocherebbero Salvatore Vinci sulla scena del crimine c’è l’assenza di un alibi, aggravata dalla presentazione di uno fasullo (però non precostituito). Ho già scritto che di per sé né la mancanza di un alibi né un alibi fasullo non precostituito possono considerarsi prova di colpevolezza. Ma vediamo di approfondire, cominciando dalla lettura del rapporto Torrisi.

Il 24 agosto 1968, alle ore 01:20, VINCI Salvatore, sentito in merito alle accuse mossegli poco prima dal MELE, nel negare ogni addebito sostiene che la sera di quel mercoledì 21.8.68, uscito di casa, sita in località “La Briglia” di Vaiano, verso le ore 20,30, si è intrattenuto presso il locale bar Sport, sino alle ore 22:15, in compagnia di VARGIU Silvano e di un certo Nicola (ANTENUCCI), suo dipendente, di essersi recati successivamente con i due amici a Prato, presso il Circolo dei preti, ove sarebbero rimasti a giocare fino alle ore 24, facendo rientro a casa. Egli conclude affermando di aver saputo dell'omicidio il mattino del giorno successivo, perché un suo operaio aveva il giornale e lo stava leggendo.

Purtroppo il verbale dell’interrogatorio non è nella disponibilità di chi scrive, ma si deve presumere che per “mattino successivo” s’intendesse quello del 23, quando i giornali pubblicarono la notizia. Così prosegue il rapporto Torrisi:

Il 24 agosto 1968, alle ore 02:00, a meno di un'ora dall'interrogatorio del suddetto, ANTENUCCI Nicola, sentito in merito, conferma la circostanza richiamata dall'altro, precisando che dalle ore 22:15 alle ore 00:30, ora in cui si erano divisi, prima di dirigersi a casa, il VINCI Salvatore non si è allontanato da lui.

Quindi l’amico Nicola Antenucci confermò l’alibi di una serata a tre trascorsa per locali. Ma, risentito dal PM Antonino Caponnetto attorno alle 16:50 di quello stesso giorno, si contraddisse, collocando la serata al martedì mentre il delitto era avvenuto di mercoledì. Il magistrato però aveva già preso atto del cambio di versione di Mele – passato dalle accuse contro Salvatore a quelle contro Francesco – pertanto non la fece troppo lunga: ritenendo che il ragazzo stesse confondendosi, lo aiutò a far tornare i conti nella serata del delitto. L’altro amico, Silvano Vargiu, venne interrogato soltanto il 27 maggio 1969, e nella circostanza confermò la serata a tre collocandola nel giorno del delitto. Entrambe le testimonianze vennero confermate al processo del 1970.
Alla ripresa delle indagini tutto venne rimesso in discussione, con nuovi interrogatori sia ad Antenucci che a Vargiu. Entrambi confermarono la serata, ma il primo rifece i conti e la collocò al martedì, mentre il secondo ammise di averla posta al mercoledì soltanto perché era stato Salvatore a chiederglielo, un mese dopo il delitto. In realtà i suoi ricordi non gli avevano consentito allora e non gli consentivano neppure adesso una collocazione sicura.
Dunque Salvatore Vinci non aveva un alibi – anzi, diciamo che non lo fornì, il che non è proprio la stessa cosa, lo vedremo – ma ne dette uno fasullo, che vale la pena analizzare. Innanzitutto balza agli occhi il fatto che il diabolico personaggio non si fosse preoccupato di precostituirsene uno, cosa che invece aveva cercato di fare il meno furbo Stefano Mele con la storia della malattia. A ben vedere già la mancata preparazione di almeno un abbozzo di alibi in un delitto premeditato costituisce più indizio d’innocenza che di colpevolezza. Ma soprattutto sconcerta il tipo di alibi scelto, che più raffazzonato di così non poteva essere.
Partiamo dalla constatazione che i due amici non erano stati istruiti come necessario, con Antenucci confuso tra il martedì e il mercoledì e Vargiu addirittura istruito un mese dopo (se Salvatore fosse rimasto agli arresti, come se la sarebbe cavata?). Ma supponiamo pure che i due amici avessero retto la parte, con Vargiu avvertito dallo stesso Antenucci. Ebbene, una serata trascorsa in luoghi pubblici come un bar e un circolo dei preti – in questo caso fino alla chiusura del locale, da cui i tre sarebbero stati buttati fuori, secondo Vargiu – avrebbero prodotto mille testimoni da interrogare, con cinquecento di loro che si sarebbero ricordati del martedì ma non del mercoledì. Questo nel caso in cui le accuse contro Salvatore fossero continuate. Gli inquirenti, infatti, si erano accontentati della conferma di Antenucci, addirittura favorendola, soltanto perché le accuse di Mele avevano cambiato bersaglio, e loro si erano convinti dell’estraneità di Salvatore. Ma se quelle accuse fossero continuate, col cavolo che si sarebbero fermati ad Antenucci! Come minimo avrebbero interrogato i proprietari dei locali e vari clienti.
Poi si deve notare che Salvatore disse di essere rientrato a casa, una volta lasciati gli amici a mezzanotte. Quindi la moglie Rosina avrebbe dovuto confermare il suo rientro per mezzanotte e mezzo circa, si deve pensare previo accordo. La qual cosa sarebbe stata sufficiente a escluderlo dal delitto – che proprio a quell’ora andava collocato – considerando la mezz’ora necessaria a raggiungere casa sua, a Vaiano. In sostanza bastava l’accordo con la moglie – un alibi debole, certo, però a basso rischio di smentita – magari anticipando di poco l’orario per maggior sicurezza. Invece no, Vinci il diabolico si va a impelagare nell’inutile e fragile posticipo di una serata pubblica, smentibile in quattro e quattr’otto!
In realtà si può solo pensare che l’individuo fosse stato preso alla sprovvista, senza certezze sull’orario del delitto, e avesse arrangiato un alibi alla meglio. E quell’alibi con grande probabilità era provvisorio. Si potrebbe anche ritenere che non ne avesse avuto uno, ad esempio perché era stato alle Cascine in cerca di avventure erotiche, ma la testimonianza della moglie al processo Pacciani ( vedi) fa supporre altro:

Avvocato Santoni Franchetti: È stata sentita lei dai carabinieri in quel periodo signora? O dalle forze dell'ordine? Sentita, interrogata?
Rosina Massa: Sì, nell'85.
Franchetti: Ecco, perché lei ha detto sicuramente, stavo cercando ma non lo trovo, però, mi vuol confermare se nel '68, il giorno in cui c'è stato l'omicidio a Lastra a Signa...
Massa: Mio marito non era a casa. Quello voleva sapere?
Franchetti: Non era a casa. E quando è rientrato suo marito a casa?
Massa: Io di preciso l'orario non me lo ricordo, però non era rientrato.
Franchetti: Ma rientrava sempre a casa suo marito?
Massa: È rientrato il giorno dopo, succedeva spesso, spariva due, tre giorni e poi...


Dunque Salvatore Vinci aveva trascorso tutta la notte fuori, come del resto faceva spesso. Difficile dunque si fosse intrattenuto in giro per cespugli o bagni pubblici con ignoti. Molto più facile che avesse dormito assieme a qualcuno, una coppia probabilmente, per dei fantastici trenini con la locomotiva che poteva girarsi o stare in mezzo. Il tutto alla faccia della Locci che era soltanto una piccola parte del suo multiforme universo erotico. Quella coppia – o quell’uomo, o quella donna – non sarebbe certo stata contenta di essere tirata in ballo, e Salvatore in ballo non la tirò, almeno per il momento, inventandosi un alibi provvisorio. Certo, se le cose si fossero messe male la faccenda sarebbe cambiata. Si tratta di un’ipotesi inverificabile – che provocherà le accese proteste dei vinciani, così contenti di pascersi in mezzo alle loro – ma sappiamo bene che il personaggio era aduso a tale tipo di rapporti, dunque risulta molto plausibile.
Del resto, se davvero Vinci avesse partecipato al delitto, dove sarebbe rimasto per il resto della notte, a contare le lucciole dall’abitacolo della sua 600? E perché non era tornato a casa, tenuto conto del rischio di vedersi arrivare i carabinieri alla mattina presto, come era accaduto al fratello? Ecco il patetico rimedio di Hazet:

Come 'autista' fino almeno alle 02:00 c'aveva da fare (ripescare Stefano Mele e avvicinarlo a casa; e prima aveva dovuto riavvicinare a casa Piero Mucciarini). E una volta riaccompagnato verso casa Mele, aveva ancora da fare un cosa assai importante come gli anni successivi dimostreranno: non distruggere l'arma, ma imboscarla.
Ed un'arma sporca di duplice omicidio non te la nascondi nel giardino di casa.


Lasciamo perdere che Hazet faccia le sue considerazioni ignorando l’auto di Chiaramonti, concediamoglielo pure. Dunque Vinci si sarebbe accollato l’onere di prelevare Mele alle 2 di notte da vicino casa De Felice per portarlo a Lastra a Signa. In quanto tempo? 15 minuti, a meno di sollazzi che si presume in quel momento non fossero prioritari. Poi si sarebbe occupato di nascondere la pistola. Dove? Forse vicino Milano, considerato che gli ci sarebbe voluta tutta la notte!

Nicola Antenucci. Molto interessante risulta l’esame del racconto di Nicola Antenucci sui giorni precedenti il delitto, nei quali Salvatore avrebbe dovuto trovarsi quanto meno in uno stato di nervosismo, visto cosa bolliva in pentola, ma che invece pare fossero scorsi nella più assoluta normalità dei suoi non convenzionali standard. Antenucci venne interrogato più volte, alla ripresa delle indagini, manifestando alcune incertezze, fino a quando non riuscì a ricostruire gli eventi. Forse le incertezze passate erano sincere, forse no, in ogni caso non c’è motivo di non credere al suo racconto finale, che scorre via liscio. Dal rapporto Torrisi:

Il 18 ottobre 1985, l'ANTENUCCI, dopo aver avvertito telefonicamente questo comando, chiede ed ottiene di essere sentito dal Giudice Istruttore e spontaneamente dichiara di essere in grado, finalmente, dopo aver attentamente meditato, di poter ricostruire tutta quella settimana, partendo dalla domenica mattina del 18 agosto 1968, proprio ad iniziare dall'incontro casuale di Salvatore VINCI al bar-circolo della Briglia. Ivi, infatti, mentre l'ANTENUCCI gioca con gli altri ha modo di conoscere il VINCI Salvatore, il quale, chiestogli della sua posizione di lavoro ed appreso che egli è momentaneamente in malattia, gli offre di lavorare per qualche giorno con lui. La sera, ritornando nello stesso locale, avuto modo di conoscere anche l'operaio di Salvatore, il BIANCALANI Saverio, fissano e prendono accordi per l'inizio del lavoro al mattino del giorno successivo.
Lunedì 19 agosto, eseguita la prima giornata di lavoro, i tre si rivedono la sera ed assieme vanno a fare una partita a biliardo a Prato, al circolo ACLI, trasferendosi con l'autovettura del VINCI Salvatore. L'ANTENUCCI prosegue affermando che anche il martedì sono stati al lavoro sino alle ore 20:30-21:00, e dopo, mentre il BIANCALANI è andato a casa dei suoi genitori, lui è invitato a cena, per la prima volta, in casa del VINCI. Quasi alla fine della cena, arriva Francesco e poco dopo tutti e tre si portano al solito circolo, ove incontrano il VARGIU Silvano ed il BIANCALANI. Dopo aver consumato il caffè, Francesco si allontana e proprio in quel momento si sente Salvatore dire al fratello “…che per caso vai dalla LOCCI?…” senza ottenere risposta. Poco dopo, mentre il BIANCALANI dice di non sentirsi bene e rimane alla Briglia, loro tre, e precisamente Salvatore, Silvano e lui, si portano al circolo di Prato, ove si intrattengono a tarda sera, sino a quando, come lui stesso afferma, non li buttano fuori, per la chiusura del locale.
Il giorno dopo, mercoledì 21, prosegue l'ANTENUCCI, egli si reca al lavoro direttamente con il suo motorino, ove rimane con gli altri due ad operare sino alle ore 20:30 - 21:00. La sera, tutti e tre, VINCI, BIANCALANI e lui, si allontanano con i rispettivi mezzi, e lui si reca a Prato a visitare una sua cugina, IPPOLITO Giovanna, rimanendo ospite a cena. Lo stesso, al termine, si allontana, recandosi presso la “casa del popolo”, ove si intrattiene sino a tarda sera.


Nicola Antenucci era un diciottenne sbandato che viveva per strada dormendo nelle case abbandonate della zona di Vaiano. Vinci lo avrebbe ospitato per due anni con tanto di moglie apparecchiata, naturalmente alle sue condizioni. Ma rimaniamo ai giorni precedenti il delitto. E dunque il diabolico Salvatore, per nulla angosciato dal programma a rischio ergastolo di tre giorni dopo, la domenica mattina vede una giovane preda e, seduta stante, la ghermisce. Dopo il primo approccio con il pretesto del lavoro, due sere dopo – e siamo a martedì – Antenucci assaggia le pietanze preparate da Rosina. Alla fine della cena arriva Francesco, assieme al quale i due novelli amici vanno al bar.
Vale la pena notare quanto improbabile sia la favola secondo la quale i rapporti tra i due fratelli si sarebbero guastati causa il comune interesse per Barbara Locci. Semmai si sarebbero guastati poi, a causa della sua morte e di una pistola che poteva inguaiare entrambi, ma questa è un’altra storia. Il lettore non inquadrato è il caso che rifletta sulla suggestiva immagine di Salvatore mentre prende in giro il fratello che se ne sta andando – “Che per caso vai dalla Locci?” – il quale non raccoglie… Quella stessa Locci della quale Salvatore sarebbe stato gelosissimo e che il giorno dopo avrebbe dovuto uccidere? Un gran bravo attore, dunque, oltre che diabolico assassino!
La serata prosegue fino a tardi, e il giorno dopo, quello dell’omicidio, Salvatore lavora come se niente fosse fino alle 20:30 - 21:00. Sembra dunque che non avesse avuto alcun bisogno d’incontrarsi con i complici per definire gli ultimi accordi – come minimo verificare se l’occasione fosse quella buona, con Barbara che effettivamente sarebbe uscita in compagnia del nuovo amante – ma forse si sentono per telefono. Di sicuro non sembra davvero che in pentola stia bollendo qualcosa di così grave come un duplice omicidio…
Dunque Nicola trascorse la serata del delitto per conto suo, mentre Salvatore non si sa dove fosse andato. Leggiamo ancora il rapporto Torrisi, dove il ragazzo narra del dopo delitto:

Egli, continuando nel suo racconto, chiarisce che il giorno dopo, e cioè giovedì, è andato nuovamente al lavoro, trovando sul posto il BIANCALANI, mentre il VINCI, che giunge più tardi, si allontana con una scusa prima di mezzogiorno, senza fare più ritorno.
Ultimata la giornata lavorativa, fanno rientro alla Briglia, ed il giorno dopo, venerdì 23 si ripresenta al suo posto di lavoro, ove già trovasi il BIANCALANI Saverio. Poco dopo, non vedendo arrivare Salvatore, l'ANTENUCCI chiede notizie a Saverio, e questi gli dice “…non lo sai che è successo?…” ed alla sua risposta negativa, replica che c'è anche nel giornale, facendo riferimento al duplice omicidio di Signa, ed affermando che Salvatore è implicato nell'omicidio, aggiungendo testualmente: “Vedrai che chiameranno anche te… ma mi raccomando, non fare il mio nome, perché io non voglio essere messo in mezzo”.
Egli precisa che i Carabinieri gli hanno chiesto solo se la sera del 21 è stato a giocare a biliardo con Salvatore e Silvano, e che lui, non sapendo collocare esattamente la sera del delitto in rapporto a quella del biliardo, fa confusione perché convinto che il 21 è martedì.


Dunque, il giorno dopo la mattanza Salvatore – forse di ritorno da un lunghissimo viaggio per imboscare la pistola, forse reduce da un’estenuante conta delle lucciole, oppure, più probabilmente, da una bella cavalcata in mezzo a delle fresche lenzuola – si presenta al lavoro al mattino tardi, senza neppure passare da casa, ma rimane poco e se ne va con una scusa senza più farsi vedere. Anche in questo caso il comportamento di un diabolico assassino a rischio di ricevere la visita dei carabinieri avrebbe dovuto improntarsi alla massima normalità, e invece Salvatore va non si sa dove. È legittimo ritenere che quella mattina fosse stato messo al corrente dell’accaduto, compresa la convocazione del fratello in caserma, magari con una telefonata sul luogo di lavoro. Non sappiamo se prima di andarsene chiese ad Antenucci di posticipare la serata del martedì, si dovrebbe ritenere di sì, o forse anche no, oppure glielo chiese la sera quando e se si rividero, o la mattina successiva. Quel che pare certo è la stranezza di uno scaltro assassino che si costruisce un alibi tanto assurdo in un modo così assurdo.
Tiriamo le conclusioni sulla narrazione di Antenucci, che non può scagionare Vinci, però contribuisce a descrivere un individuo che non stava certo preparando un delitto, e che da quel delitto venne preso alla sprovvista. Dopo aver trascorso una notte di fuoco e aver appreso la notizia, Salvatore aveva cercato di saperne di più, ecco il motivo della sua assenza dal lavoro nel pomeriggio. Come minimo sarà andato a chiedere a casa del fratello.
Ma perché Salvatore Vinci era così preoccupato se non c’entrava nulla con il delitto? Come ex amante di Barbara Locci preoccupato poteva esserlo, senz’altro, ma si è già osservato che in quel caso gli sarebbe convenuto andare avanti con dei comportamenti normali. Quindi forse proprio nulla non c’entrava.

Segue

NB: I commenti che rimangono nel solco di una normale educazione saranno tutti pubblicati. Ci si scordi però che il sottoscritto si faccia venire il mal di testa per decifrare sproloqui di mille righe pieni di sigle. Se si pretende una risposta si deve scrivere in modo semplice e sintetico.

sabato 7 novembre 2020

Ancora Giogoli

Oggi mi trovo costretto ad annoiare i miei lettori con un articoletto del quale avrei fatto volentieri a meno. Riguarda la mia critica alla ricostruzione del delitto di Giogoli pubblicata su Youtube da Luca Scuffio di Prato. L’autore ha pubblicato una piccata replica (qui una copia di sicurezza) che, invece di rispondere alle mie critiche, glissa e ne fa di sue alla mia proposta di tre anni fa. Ma va bene lo stesso, colgo l’occasione per ribadire che la sua dinamica non regge, per il semplice motivo che non riesce a giustificare le ferite sul povero Horst Meyer. E poi confuterò le sue critiche, ritenendo la mia ricostruzione ancora valida. Nello stesso tempo cercherò di astenermi dal fomentare polemiche, che non servono a nessuno.
Il problema è sempre quello: qual era la posizione del ragazzo al momento in cui venne ucciso con un colpo al cuore? Secondo la mia opinione, nata dall’esame dei dati disponibili, era in posizione trasversale-obliqua, con la testa verso la guida e le gambe verso la coda. In questo modo i due proiettili che vennero sparati dai finestrini della fiancata destra rispettano i tramiti convergenti delle due ferite al tronco, una al fianco destro (destra-sinistra), una al gluteo sinistro (sinistra-destra). Proprio queste due traiettorie convergenti impediscono alla ricostruzione di Scuffio di funzionare, poiché lui immagina che i due colpi fossero stati sparati in sequenza da un unico punto, il pertugio del finestrino posteriore destro, quindi per forza di cose le due traiettorie avrebbero dovuto divergere. Consapevole di questo inconveniente, Scuffio lo risolve immaginando che il colpo al gluteo fosse un altro, di rimbalzo, mentre il secondo dei due dal fondo avrebbe colpito la nuca. Nella mia critica ho già spiegato perché così non funziona.
Riguardo il colpo al gluteo, mi pare che un’alternativa al rimbalzo fosse quella del proiettile che aveva attraversato la lamiera. Non sono sicuro ma in ogni caso è meglio chiarire che si tratterebbe di una toppa peggiore del buco, poiché la traiettoria nel corpo di Horst sarebbe stata contraria e comunque l’inclinazione della lamiera avrebbe fatto scivolare via il proiettile. D’altra parte la foto del foro dimostra che la canna era perpendicolare, e il gluteo di Horst non era lì dietro neppure nella posizione immaginata da Scuffio (se l’ho capita bene).


Ci stava, non ci stava. La parte principale della sua replica Scuffio la dedica alla dimostrazione che il povero Horst, al momento dello sparo che gli attraversò il cuore, non avrebbe potuto trovarsi nella posizione da me ipotizzata, per mancanza di spazio. Per questo si affida a una versione speciale del suo modello 3D.


Come si vede i piedi sporgono non poco. Ma è chiaro che Scuffio ha ritoccato i dati un po’ al rialzo, favorendo il suo punto di vista. Partiamo dalla statura di Horst, impostata su un valore medio di 170 cm. Non conoscendola e volendo dimostrare l’impossibilità della posizione, si doveva prendere non un valore medio, ma un valore minimo, o meglio, ragionevolmente minimo, come 165 cm, o magari 160, poiché i ragazzi potevano essere anche bassi. Dalla foto di Uwe sul tavolo anatomico si intuisce una bassa statura, valutata da chi scrive sotto il metro e 65, facendo le debite proporzioni con la testa. L’immagine è di cattiva qualità, ma comunque non pubblicabile – chi dispone del fascicolo fotografico può verificare – e non è di Horst, quindi vale quel che vale. In ogni caso una dimostrazione di questo tipo deve sempre prendere in esame il caso (ragionevolmente) meno favorevole.

Addendum: Dopo aver fatto ordine nelle mie immagini ho reperito anche la foto di Horst sul tavolo anatomico, e le misure sono più o meno le stesse.

Addendum 12 marzo 2022: Preparando il video su questo delitto, ho chiesto a chi dispone della perizia autoptica quale fosse la statura dei due ragazzi. Ebbene, Uwe era altro 182 cm e Horst 185, la qual cosa smentisce in modo clamoroso la valutazione di neppure 165 che avevo fatto sulla base delle foto dei corpi. In ogni caso l'alta statura di Horst non può cambiare la sua posizione al momento degli spari. Le traiettorie convergenti delle due ferite al fianco destro e al gluteo sinistro sono compatibili soltanto con i due spari dai finestrini di destra, e con una posizione del corpo obliqua, testa a destra e piedi a sinistra. Quindi, visto che in una larghezza di 150 cm una persona alta 185 non potrebbe starci neppure inclinata, evidentemente Horst aveva le gambe raccolte per quanto bastava, in una posizione leggermente sul fianco sinistro, come mostrerà il video di imminente pubblicazione.

Poi la testa, che rispetto alla simulazione doveva essere posizionata più verso il vertice del materasso, come sembra di poter arguire dalle foto. E le gambe, che dovevano essere un po’ piegate. A questo proposito la valutazione di Maurri fu quella di una posizione leggermente sul fianco sinistro, non a caso tipica di chi raccoglie le gambe, di più la destra, quella che aveva meno spazio. Dalla perizia Arcese-Iadevito: “Doveva trovarsi in posizione prona, con lieve maggiore appoggio sul fianco sinistro e con il volto poggiante, con la guancia sinistra, sul cuscino”. L’immagine sottostante impressiona ma non è veritiera.


Infine il materasso, che Scuffio fa arrivare appena all’inizio del finestrino centrale. Pur con la difficoltà di valutare la prospettiva, le foto ci dicono invece che toccava almeno la metà se non oltre. Il lettore può giudicare dall’immagine sottostante. Tra l’altro si può notare la testa quasi all’angolo. Vedremo che in realtà il corpo fu mosso, ma semmai la testa fu spinta indietro, non in avanti.


Alla fine, tira di qua e spingi di là, si arriva alla conclusione dell’immagine sottostante, dove i due colpi dai finestrini della fiancata destra diventano quasi impossibili. Scuffio spero mi perdoni, ma devo dire che mi viene in mente chi si gongola per aver fatto tornare un solitario.


Come si vede la testa di Horst è sotto il finestrino opaco, l’ultimo in coda. Ancora una foto per mostrare dov’era davvero (al momento del ritrovamento, ma quando fu colpito molto probabilmente era ancora più verso l’osservatore, vedremo perché).


Posizione di ritrovamento. Scuffio rileva che nel mio articolo di tre anni fa sostenevo che il corpo di Horst fosse rimasto nella stessa posizione in cui era stato colpito, e a riprova cita questa frase: “Il primo sparo, esploso dal penultimo finestrino, fu quello che colpì Horst al fianco, uccidendolo sul colpo e congelandone il corpo nella posizione in cui si trovava al momento”. Trova poi un commento in cui sostengo: “Quindi di sicuro è da escludere qualsiasi macro spostamento: Horst era lì e lì è rimasto”. A questo punto crede di poter concludere che avrei cambiato idea:

L'autore dell'articolo suppongo sappia bene che la posizione finale del cadavere del Meyer smentisce la sua ricostruzione. Penso sia questo il motivo per cui egli si trova di punto in bianco a sostenere oggi quella stessa ipotesi da lui combattuta fino a ieri. Infatti, l'idea di una posizione iniziale diversa da quella finale, viene di solito proposta da chi suggerisce una sostanziale indeterminatezza circa il punto di arrivo dei proiettili nello spazio

Congelandone il corpo nella posizione in cui si trovava al momento” non vuol dire che la posizione fosse quella del ritrovamento, ma quella in cui stava dormendo o si stava rilassando. Se poi, a un lettore che mi pose il tema specifico di uno spostamento a opera del Mostro (da me non trattato) risposi che non ci fu alcun macro spostamento, confermo anche questo. Il corpo rimase più o meno dov’era, fu soltanto spostato di bacino. Si tratta di un macro spostamento? Giocando sulle parole anche sì, ma quale vantaggio porta giocare con le parole? Quello di Stefano Baldi come dovremmo chiamarlo, giga spostamento? Posso soltanto riconoscere che, non avendo all’epoca disponibilità del fascicolo fotografico ed essendo quella con sopra il piumone l’unica foto per me reperibile, non avevo valutato importante affrontare il tema dello spostamento post mortem. Che invece ci fu e che Scuffio nega, costruendo la sua dinamica sulla base della posizione del ritrovamento:

Nella mia ricostruzione mi sono attenuto alla tesi più largamente condivisa, ovvero che il povero Meyer è rimasto sostanzialmente nel punto e nella posizione di massima nella quale si trovava quando venne colto dal colpo al torace e quella è proprio la posizione che ho cercato di replicare meglio che ho potuto con i dati a mia disposizione.

Quindi, essendo il corpo stato trovato in posizione longitudinale, i colpi dovevano per forza essere partiti dal fondo del furgone, quindi dal pertugio del finestrino (anche se quello al gluteo comunque non torna). In ogni caso Scuffio si sbaglia. Il corpo di Horst fu spostato, anche se non di molto. Osserviamo queste due foto:



La nuca di Horst aveva sanguinato sul cuscino, per almeno qualche decina di secondi, magari un minuto o due. Poi scivolò indietro, con il ragazzo già morto per il colpo al fianco. E non pare proprio uno spostamento trascurabile. Si potrebbe anche pensare al Mostro che frugò all’interno, magari per prendere la rivista gay, ma appare molto più probabile uno spostamento a opera di Uwe, che cercò di proteggersi alla disperata dopo essersi accorto che il Mostro stava entrando. Ma Scuffio ha una diversa opinione:

L'azione ipotizzata avrebbe richiesto non soltanto uno sforzo non indifferente, vista anche la posizione sfavorevole di Rush, seduto o sdraiato sul medesimo materasso, ma soprattutto un tempo relativamente lungo per l'operazione, durante il quale il ragazzo sarebbe stato inevitabilmente esposto al fuoco dell'aggressore. E a quale scopo poi? Proteggersi dai colpi di pistola che gli vengono diretti contro a brevi intervalli l'uno dall'altro, da distanza ravvicinata, tentando di coprirsi sotto un cadavere? Suvvia, non scherziamo.

Opinione rispettabile, pare soltanto un po’ pretenzioso mettersi nei panni di una persona che sta per essere uccisa, e non ha nient’altro che il piumone con sotto l’amico per tentare di ripararsi. Vagli a spiegare che non servirà a niente! Con il corpo di Horst avvolto nel piumone, è chiaro che tirando l’uno si sposta anche l’altro. Del resto proprio il gesto di tirare verso Uwe spiega bene sia lo scivolamento della testa dietro il cuscino, sia la piega del bacino con le gambe rivolte verso il centro, sia l’allineamento longitudinale del tronco con l’allontanamento del braccio destro dal fianco.

L’altezza. L’ultima parte dell’intervento riguarda la mia valutazione dell’altezza dello sparatore. E purtroppo sono rimasto molto deluso. Invece di fare le pulci ai relativi conteggi, Scuffio ne trasla le condizioni allo sparo del finestrino accanto, quello opaco, supponendo che lo sparatore avesse mantenuto analogo sistema di puntamento a braccio teso! Se ho capito bene, come nella foto sottostante.


Ci si deve chiedere quale sparatore avrebbe guardato da lontano attraverso il pertugio trasparente in alto, come se avesse temuto di rimanere scottato dal vetro. È chiaro che in questo modo Scuffio può dare libero sfogo ai propri calcoli, lasciandosi trasportare nel mondo dell’impossibile.
Uno sparatore normale avrebbe fatto invece come quello della foto sottostante, avvicinando gli occhi per vedere meglio e adducendo il braccio, con il che tutti i problemi vanno a posto.



Addendum 15/11/2020. Per informare i miei lettori sulla conclusione del confronto riporto la risposta alla mia richiesta di intervenire sui punti di questo articolo. Come si vede Scuffio ha preferito soprassedere. La qual cosa mi conforta sulla bontà delle mie osservazioni – che sono precise: erronea disposizione del corpo di Horst, spostamento di Horst post-mortem e posizione di sparo dal finestrino opaco – che assieme a quelle del precedente articolo non avevano lo scopo di verificare chi riuscisse a pisciare più lontano, come ho letto in altra sede, ma a eliminare un tentativo di intorbidare ancor più una vicenda che è già fin troppo intorbidata.

domenica 1 novembre 2020

Salvatore Vinci a Signa

Salvatore Vinci vendicatore per i torti subiti da parte delle proprie donne, che inizia inscenando il suicidio della prima moglie fedifraga, passa poi all’amante stanca e al suo uomo del momento, infine, ferito da seconda moglie e nuove compagne, si mette a uccidere coppie innocenti che neppure conosceva, ben sette. Questo il bizzarro crescendo rossiniano ipotizzato dal colonnello Nunziato Torrisi per trovare un movente da assassino a chi invece – fino a prova contraria esente da qualsiasi sentimento di gelosia e desiderio di vendetta – si sollazzava beato tra peni e vagine ben vivi.
Su Salvatore Vinci presunto uxoricida è già comparso un approfondito articolo su questo blog (Omicidio o suicidio?), nel quale è stato illustrato, sulla base della sentenza di assoluzione, come la sfortunata moglie Barbarina Steri si fosse uccisa per la delusione subita dal suo amante, il poco di buono Antonio Pili. Affrontiamo adesso il presunto coinvolgimento di Vinci nel duplice omicidio di Signa. C’entrava qualcosa? Forse sì, ma di sicuro non perché vi avesse partecipato.
Cominciamo col premettere che Vinci non aveva un alibi. Chissà dov’era quella notte del 21 agosto 1968 quando qualcuno uccise Barbara Locci e Antonio Lo Bianco… probabilmente indaffarato in memorabili avventure sessuali con sconosciuti, i quali mai avrebbero trovato il coraggio di testimoniare. Il fatto che quell’alibi mancante Vinci avesse cercato poi di costruirselo ha un ben misero significato sul piano probatorio. Un falso alibi è sospetto soltanto se precostituito; se successivo evidenzia la paura di trovarsi coinvolto. E Salvatore Vinci aveva tutti i motivi per temere di essere coinvolto, considerando i suoi pregressi rapporti con Barbara Locci e forse anche con la pistola servita a ucciderla.
Allora, com’è possibile dimostrare senza un alibi che Vinci con il delitto nulla c’entrava? Si può chiedere assistenza alla cara e vecchia logica, arma spuntata in un procedimento giudiziario ma strumento di fondamentale importanza per una ricostruzione storica, l’unica oggi perseguibile.


Da solo no, ma con chi? A quanto è dato sapere, nessuno ha mai ipotizzato che il delitto fosse stato opera del solo Vinci. Come minimo assieme a lui ci doveva essere Stefano Mele. Lo scrissero sia il colonnello dei carabinieri Nunziato Torrisi nel suo noto rapporto, sia il giudice Mario Rotella nella sua altrettanto nota sentenza-ordinanza. Gli autori dei vari libri che hanno messo al centro la pista sarda – uno per tutti: Dolci colline di sangue di Mario Spezi – hanno percorso la stessa strada, e gli appassionati di oggi che credono Vinci colpevole si allineano.
Seppur da angolazione differente, sul coinvolgimento di Stefano Mele anche chi scrive non ha dubbi. Chiudendo gli occhi di fronte all’evidenza, a negarlo sono i teorici del delitto di Signa come primo di un Mostro estraneo ai sardi. Addirittura fanno compiere a Natalino un viaggio solitario che se anche sulla carta si volesse ritenere possibile, basta recarsi sul posto per cambiare idea. Mai un bambino di neppure sette anni sarebbe riuscito a percorrere quei due e più chilometri di strada sterrata al buio, per di più senza ferirsi i piedi ai quali portava i soli calzini. E che lo avesse accompagnato a cavalluccio il fantomatico Mostro ignoto senza che lui ne avesse fatto il minimo cenno è come invocare un incontro ravvicinato del terzo tipo con successiva riprogrammazione della memoria!
Evidentemente, come diceva Don Abbondio a proposito del coraggio, uno la logica non se la può dare. Per i più fortunati potrebbe trattarsi soltanto di ignoranza della documentazione – gioverebbe leggere in modo approfondito la sentenza Rotella, lavoro però non agevole – quindi, a loro beneficio, è il caso di riassumere almeno le due principali prove che coinvolgono Mele. La prima è l’ingenuo alibi che l’ometto aveva cercato di precostituirsi la mattina del giorno del delitto, lamentando una inesistente malattia e facendosi accompagnare a casa dal lavoro (vedi). Una malattia dietro la quale aveva cercato di nascondersi durante i primi interrogatori. Si tratta di una prova schiacciante, essendo un evento molto inusuale accaduto proprio il giorno del delitto. Altrettanto schiacciante è la seconda prova, il racconto di Natalino. Dopo aver seguito le sue istruzioni per un paio di giorni – dicendo della malattia e di aver camminato da solo – durante il noto viaggio assieme al maresciallo Gaetano Ferrero il fanciullo vuotò il sacco, confessando di aver visto il padre sulla scena del crimine e di essene stato accompagnato. Secondo i negazionisti la minaccia di fargli ripetere il percorso di notte da solo lo avrebbe indotto a raccontare il falso. E avrebbe continuato a mentire fino al processo, scavando la fossa al padre innocente e condannando sé stesso all’orfanotrofio! Ma allora dev’esser proprio vero che uno la logica non se la può dare…
Da investigatore intelligente, Rotella si sarebbe limitato volentieri alla coppia suddetta, ma quando dopo il delitto di Vicchio fu costretto a prendere in mano la carta Salvatore Vinci, l’ultima a potergli dare il Mostro, ormai erano dentro anche i parenti di Stefano Mele, e con quelli dovette fare i conti. A dire il vero già dalla documentazione dell’epoca risultava sicuro il coinvolgimento di almeno uno di loro, Piero Mucciarini. A chiamarlo in causa era stato Natale bambino – nella primavera 1969 di fronte a Spremolla (vedi) – che lo aveva visto sulla scena del crimine e lo aveva anche indicato come sparatore (questa una sua probabile deduzione, senza corrispondenza certa alla realtà). Quindici anni dopo sarebbe venuto il noto biglietto dello “zio Pieto” e la conseguente “confessione” del padre, dalla quale emergeva uno scenario lineare e ben articolato, senz’altro di gran lunga più credibile di tutte le sciocchezze che l’ometto aveva raccontato prima. A uccidere Barbara Locci e Antonio Lo Bianco erano andati in quattro: lui, il fratello Giovanni e i cognati Piero Mucciarini e Marcello Chiaramonti, tutti sull’auto del giovane Chiaramonti che si era limitato al ruolo di autista. Movente? Mettere a tacere una donna che svergognava tutta la “famiglia” e dilapidava i pochi soldi del marito, ai cui debiti doveva provvedere il vecchio padre Palmerio.
Purtroppo l’illusione di Rotella di aver messo le mani anche sul Mostro – secondo lui Giovanni Mele – durò poco, e dopo la morte di Pia Rontini e Claudio Stefanacci si trovò appunto a dover girare la carta Salvatore Vinci. Dopo un po’ di indagini condotte da Torrisi, il 30 maggio 1985 tornò da Stefano Mele. A fargli compagnia lo stesso Torrisi, il PM Adolfo Izzo e soprattutto un’accusa di calunnia associata alla minaccia della galera – calunniato: Francesco Vinci – che evidentemente si riteneva utile a stimolare l’uscita di una nuova verità. La speranza era quella di un recupero dello scenario disegnato dall’ometto il 23 agosto 1968, dove Salvatore lo aveva condotto sul posto e gli aveva fornito la pistola (magari in una versione più coinvolgente, nella quale aveva anche sparato).
Mele il sacco lo vuotò davvero, per quel poco che ancora conteneva, confessando dei suoi rapporti omosessuali con Salvatore dei quali doveva vergognarsi tantissimo, se li aveva tenuti nascosti per quasi vent'anni. Aggiunse altri dettagli, sempre con Salvatore protagonista, ma nell’insieme non era certo quello che i suoi interlocutori si aspettavano. Non a caso, seduta stante, gli si aprirono le porte della camera di sicurezza della caserma dei carabinieri di Palazzo Pitti, anticamera della galera.
Il 4 giugno Rotella andò a verificare se Mele si fosse ammorbidito, senza fortuna, ricevendo e accettando la proposta di almeno otto giorni di riflessione. E finalmente, il 12 giugno, l’ometto badò bene di soddisfare le aspettative dei suoi interlocutori, tirando dentro Salvatore Vinci. Ecco il nuovo scenario, come viene raccontato dalla seconda edizione del libro Al di là di ogni ragionevole dubbio, nella preziosa prima parte curata da Francesco Cappelletti e purtroppo scomparsa nella terza, dove ha lasciato il posto alle opinabili teorie del negazionista Paolo Cochi.

Alla presenza del Giudice Istruttore e del P.M. chiarì che l’omicidio di Signa gli era stato proposto da Salvatore Vinci “era più marito lui di me” e di aver fornito 400.000 lire per l’acquisto della pistola. Dopo che sua moglie e suo figlio erano usciti di casa, egli aveva trovato due auto ad attenderlo: quella di Marcello Chiaramonti e quella di Salvatore Vinci, erano presenti anche Piero Mucciarini e Giovanni Mele. Avevano atteso che Barbara Locci, il figlio e l’amante uscissero dal cinema per poi seguirli fino al luogo del delitto. Lasciate le vetture nei pressi del cimitero di Signa, uno era rimasto a guardia delle auto, un altro si era fermato vicino al ponte sul torrente Vingone, gli altri si erano avvicinati alla Giulietta di Antonio Lo Bianco dove, in rapida successione, Salvatore e Giovanni avevano sparato ai due amanti per poi passargli la pistola. Egli aveva sparato in aria per evitare di colpire il bambino e mentre stava risistemando il cadavere del Lo Bianco era giunto Piero Mucciarini che, scorto dal bambino, se ne era andato assieme agli altri mentre lui aveva accompagnato Natale sulle spalle fino a Sant’Angelo a Lecore.

Il 19 giugno Mele venne portato sul luogo del delitto e invitato a ripetere il percorso. Molte furono le sue incertezze, a fronte delle quali negò infine di essere stato lui ad accompagnare il figlio, dicendo a Torrisi: “La verità è che io in quel posto, la prima volta che ci sono andato è proprio quella sera che mi avete portato voi!”. Dunque Mele aveva tirato di nuovo in ballo Salvatore Vinci, anche se non proprio nel modo in cui Rotella si attendeva. Dalla sentenza:

Ma non cessava d’accusare coloro che aveva incolpati in precedenza (ad eccezione di Vinci Francesco e Cutrona Carmelo, che ammetteva d’aver falsamente incolpati), come a prevenire future contestazioni.
[…] in seguito non si è spostato dalla posizione assunta, che non è di chiara, decisa ed esclusiva accusa contro Salvatore Vinci (a differenza che in passato), sembrando piuttosto preoccupato dell’inquisizione.


Il lettore noti come anche il giudice avesse rilevato la paura di Mele per la galera, senza però chiedersi se le accuse a Vinci avessero avuto qualcosa a che farvi! Dalla lettura della sentenza si comprende che cosa gli sarebbe piaciuto:

Rileggendo le dichiarazioni del 1968, ponendo mente alla successiva evoluzione di Mele (che poi confessa il delitto e chiama direttamente in correità Salvatore), e alla presenza di Mucciarini all'interrogatorio, si profila un'altra ipotesi di lavoro. […] Mucciarini potrebbe aver appreso la verità da Mele, la mattina in cui si recava in casa sua con i cognati Teresa e Marcello Chiaramonti. Convintosene, avrebbe indotto Mele a dirla (almeno in parte […]). Di qui vuoi l'indirizzo dato a Natalino (che dopo il delitto aveva taciuto il nome di chi aveva visto), di chiamare in causa suo padre, già il 24 agosto successivo, vuoi quello che il bambino esplicitamente gli attribuiva, di dire “di aver visto Salvatore tra le canne”.
Da ultimo Mele fa cenno, con palese ironia (si rilegga la frase) alla vettura posseduta dal Vinci, la qual cosa riporta immediatamente alla sostanziale rispondenza, sotto questo ed altri aspetti, del suo primo racconto confessorio.


Purtroppo per il giudice Natalino aveva visto Piero Mucciarini sulla scena del crimine, e soprattutto Stefano Mele insistette sulla versione con dentro tutti, della quale, dopo un soggiorno di quattro mesi e mezzo nelle patrie galere, si adattò a limare soltanto alcune asprezze. Leggiamo dal rapporto Torrisi (in questa e nelle altre citazioni verranno tolte diverse inutili e fastidiose virgole, un segno di punteggiatura con il quale il colonnello doveva avere un rapporto difficile):

Il 18 settembre 1985, dinanzi al G.I. ed al P.M., il MELE Stefano, nel confermare le precedenti dichiarazioni del 12 giugno 1985, ribadisce le accuse contro il fratello Giovanni e VINCI Salvatore, ma non fa più menzione dei due cognati, MUCCIARINI Piero e CHIARAMONTI Marcello. Egli precisa di non aver mai avuto il coraggio di ammazzare la moglie perché tuttora le vuole bene, e che il secondo amante della moglie è stato VINCI Salvatore. È stato costui a prospettargli di voler ammazzare sua moglie e che anche Giovanni è stato d'accordo, perché la sua famiglia odiava sua moglie ed adesso mentre lui è dentro, sottolinea lo Stefano, il VINCI e suo fratello sono fuori tranquilli. Egli poi aggiunge che è stato Salvatore ad accompagnarli con la sua autovettura, il quale è in possesso della pistola, quella che ha sparato e che gli hanno messo in mano.
Il MELE infine conclude dicendo che Salvatore ha accompagnato Natalino con l'autovettura, forse anche un po' a piedi e per la strada, e questi gli ha detto: “Se dici qualche cosa ti ammazzo, a te e tuo padre”, mentre suo fratello, a suo avviso, si è allontanato per conto proprio.


Quindi niente più due auto, ma soltanto quella di Salvatore. In più sarebbe stato quest’ultimo ad accompagnare Natalino. Non si ha notizia di ulteriori cambi di versione, pertanto questa va considerata l’ultima di Stefano Mele con dentro Salvatore Vinci.

Lo scenario di Torrisi. Che idea si fecero Rotella e Torrisi degli eventi di Signa, dopo il coinvolgimento via via aggiustato di Salvatore Vinci nelle dichiarazioni di Stefano Mele? Cerchiamo di scoprirlo attraverso l’esame del rapporto Torrisi.

MELE Stefano, a nostro avviso, ha detto la verità, ma disseminandola nei suoi numerosi interrogatori, mescolandola per vari motivi di opportunismo calcolato, insieme alle menzogne, che smentiscono chi pensa di considerare questo individuo non perfettamente sano di mente. Basti esaminare nei dettagli con quale grinta e cipiglio [non] abbia affrontato i confronti sostenuti contro CUTRONA Carmelo e VINCI Francesco, per dimostrare credibilità ai magistrati.
Da un esame accurato si ritiene [di] poter affermare che le verità pronunciate dal MELE sono rilevabili dai seguenti interrogatori:

# 23 agosto 1968; in cui accusa per la prima volta VINCI Salvatore;

# 24 gennaio 1984; in cui, sentito in merito al rinvenimento del noto biglietto, accusa il fratello Giovanni ed il cognato MUCCIARINI Piero;

# 12 giugno 1985; ove accusa VINCI Salvatore, MELE Giovanni ed i cognati MUCCIARINI Piero e CHIARAMONTI Marcello;

# 18 settembre 1985; in cui dichiara che ad accompagnare il bambino è stato VINCI Salvatore.


Dunque per Torrisi quella sera sarebbero andati in cinque a uccidere Barbara Locci e Antonio Lo Bianco: Salvatore Vinci e i quattro Mele, con due auto. La mente di tutto, l’organizzatore, il fornitore della pistola sarebbe stato – e come poteva essere altrimenti? – Salvatore.

La presenza del VINCI Salvatore in questo gruppo di sardi è essenziale, determinante, è lui la mente ed il trascinatore. Ma ciò che di veramente importante […] è la definizione che MELE Stefano fa del suo amico di avventure, dandogli l'appellativo di “depravato”. Infatti, è dall'interrogatorio del 30 maggio 1985 che viene fuori anche un particolare del tutto nuovo sino ad ora, e cioè che fra Salvatore VINCI, Stefano MELE e la Barbara LOCCI, i quali dormono nello stesso letto, sono intercorsi rapporti particolari e quel che è più sconcertante è il fatto che i due uomini invertono reciprocamente fra loro due le parti dell'uomo e della donna, avendo rapporto di coito anale anche in presenza della donna. Va a finire che la persona che sinora è stata considerata la peggiore del gruppo, dimostra invece una certa coerenza, andando a coltivare i suoi rapporti fuori da quello stucchevole ambiente. […]
Salvatore Vinci, però, non è che limiti i suoi particolari rapporti in casa, perché sin da allora è un abituale frequentatore delle Cascine, ove molto spesso conduce Stefano con il bambino e la Barbara, per farla congiungere con altri uomini in sua presenza, e dare sfogo alla sua innata tendenza sessuale deviante. […] A chi non può tornare gradito quel tipo di rapporto è sicuramente alla LOCCI, la quale, potendo disporre di amanti più giovani e meno complessati dal punto di vista sessuale, preferisce ribellarsi a quella vita, andando a coltivare i piaceri del sesso con gli altri, fuori di casa.
Ecco, quindi, il vero movente del delitto del 1968: la gelosia del VINCI, il quale non può ancora permettere che la donna si sottragga ai suoi voleri […].
Pertanto, come si è già sostenuto, il movente apparente del delitto è su misura per MELE Stefano, ma quello reale, appartiene al VINCI Salvatore ed ai familiari del MELE, i quali anche loro vogliono liberarsi della donna.


Quindi, secondo Torrisi, sotto la diabolica regia di Salvatore Vinci si sarebbero incontrati due moventi: il suo, di amante geloso al quale Barbara Locci stava preferendo uomini più giovani e dalle tendenze più naturali, e quello dei Mele.

Per realizzare il suo piano diabolico il VINCI Salvatore deve ottenere non solo il silenzio totale ed incondizionato dei familiari del marito, quali MELE Giovanni e MUCCIARINI Piero, rispettivamente fratello e cognato, ma anche conseguire il loro coinvolgimento materiale nel delitto. Del resto, anche loro sono giunti al limite della sopportazione per il comportamento della cognata, che si prende beffa di loro, mettendo in ridicolo il marito imbelle e nel contempo, buttando discredito sulla famiglia.

Sarebbe stato deciso anche un soggetto sul quale far convergere i sospetti: Francesco Vinci.

L'esame parallelo delle testimonianze del binomio MELE Stefano – VINCI Salvatore non può lasciare spazio ad interpretazioni difformi, perché i due dimostrano di percorrere dal 1968 ad oggi lo stesso binario processuale, per aver assunto nella vicenda il medesimo ruolo di accusatori nei confronti di VINCI Francesco, facendo entrambi leva su due testimoni, la LOCCI Barbara, un teste che evidentemente non può più diventarlo, e la MUSCAS Vitalia. […]
Che i due sono perfettamente d'accordo a far convergere le accuse contro VINCI Francesco, ancor prima che il delitto sia commesso, lo dimostra il piccolo Natalino, quando il 21 aprile 1969, mentre si trova all'Istituto, afferma al magistrato che è stato il padre a suggerirgli di accusare Francesco, mentre poi Stefano MELE vanamente si adopererà per affermare il contrario, lasciando perplessi ed increduli chi pensa che egli sia del tutto incapace di ragionare. È lo stesso MELE che, nell'attribuire a VINCI Francesco la volontà di uccidere la moglie – in quanto glielo avrebbe riferito lei – ed il possesso di una pistola, dichiara al magistrato che ciò può essere confermato da Salvatore, se non si crede a lui. Entrambi, poi, attribuiscono a Francesco VINCI anche il medesimo posto dove egli abitualmente custodisce l'arma e cioè nel bauletto della Lambretta.


Questo dunque lo scenario immaginato da Torrisi, intorno al quale il militare cercò di far quadrare gli eventi del post delitto. Ma è tutto un gran pastrocchio, nel quale niente torna.

Niente torna. Cominciamo con l’osservare che suona già stonato l’aver messo insieme il diavolo e l’acqua santa, facendo alleare il maggior responsabile del degrado morale della Locci con chi per quel degrado intendeva punirla. Intercorrevano buoni rapporti tra Salvatore Vinci da una parte e Giovanni Mele, Piero Mucciarini e Marcello Chiaramonti dall’altra, tanto da potersi accordare per un’operazione così impegnativa come un duplice omicidio? I documenti dell’epoca non forniscono alcun elemento in tal senso. Ma quel che sorprende di più è il fatto di come si sia potuto attribuire a Salvatore Vinci – personaggio ritenuto da Torrisi furbo e diabolico – la messa in piedi di una tale banda di assassini improvvisati per un delitto che avrebbe potuto commettere da solo con infiniti meno rischi, sia di intoppi nel durante sia di spiacevoli conseguenze giudiziarie nel dopo.
Poi l’accompagnamento di Natalino. Secondo Torrisi sarebbe toccato a Salvatore causa la codardia di Mele, che non ne avrebbe avuto il coraggio. Il conto parrebbe anche tornare, poiché è molto probabile che Salvatore fosse il vero padre, ma è credibile che il fanciullo non ne avrebbe mai fatto il nome? Possibile che di fronte a Ferrero sarebbe crollato, ammettendo l’accompagnamento, ma nello stesso tempo avrebbe avuto la malizia di sostituire la figura di Salvatore Vinci con quello che lui riteneva fosse suo padre? A sei anni e otto mesi?
Esaminiamo adesso il comportamento di Stefano Mele nel dopo delitto. Il primo giorno parve voler accusare Francesco Vinci, anche se in modo molto soft, la qual cosa sembra rispettare l’ipotesi Torrisi. Anzi, in seguito si sarebbe capito che la sera cercò di preparare il figlio per accusarlo davvero, e con un piano ben articolato, nel quale il fanciullo gli confidava di essere stato accompagnato da Francesco e minacciato affinché stesse zitto. A quel punto Mele non doveva far altro che riferire il tutto ai carabinieri nell’interrogatorio programmato per la mattina dopo, contando sulla conferma del bambino. Ma non andò così.
Si tenga presente che quando Mele si presentò davanti ai carabinieri, nella tarda mattinata del 23 agosto, assieme a lui c’erano i due cognati complici, Piero Mucciarini e Marcello Chiaramonti, con il primo che si offrì di stargli accanto per aiutarlo a dire la verità. Una verità che, secondo logica, sarebbe dovuta essere quella per la quale lo stesso Mele aveva preparato il figlio. E cosa succede? Invece di accusare Francesco accusa Salvatore! Ora ci si deve chiedere quale mente contorta potrebbe tirare in ballo il proprio complice. E il riferimento non è tanto a Stefano Mele, che potrebbe anche essere stato convinto dai cognati a prendersi la colpa per farli stare tranquilli, ma ai cognati stessi, che non avrebbero certo potuto cavarsela se Salvatore Vinci fosse stato accusato del delitto. Perché è chiaro che questi avrebbe a sua volta cercato di scaricare parte della colpa su di loro, o comunque si sarebbe vendicato.
Vediamo come Torrisi affrontò il problema:

È il caso della prima confessione del 23 agosto 1968, ove la parte predominante in pratica è assunta dal MUCCIARINI Piero, che assiste all'interrogatorio in veste ufficiale di coadiutore della giustizia, mentre funge, invece, da vero consigliere del MELE Stefano in difficoltà palese, visto che gli inquirenti non danno particolare peso al nome di VINCI Francesco, buttato lì quasi disinteressatamente dal medesimo nel suo primo interrogatorio.
Quindi la prima confessione del MELE relativa al VINCI Salvatore nasce da una volontà comune ai due di rendersi credibili verso gli inquirenti, al fine di allontanare sospetti immediati anche a carico dei loro familiari, che se coltivati e perseguiti in quel frangente avrebbero potuto creargli difficoltà notevoli. Del resto a questo punto è logico pensare che anche la ritrattazione dell'accusa di Stefano contro Salvatore faccia parte di un piano prestabilito, e la visita del MUCCIARINI e del MELE Giovanni al congiunto in carcere non può che assumere il significato del sostegno morale e della verifica che Stefano ha fatto esattamente quello che ha avuto suggerito.


Come al solito Torrisi cerca di truccare un po’ le carte, perché non è affatto vero che i carabinieri davano poco peso al nome di Francesco Vinci, anzi, era il loro maggior sospettato, visti i suoi precedenti di violenza e gelosia nei confronti di Barbara Locci. Non a caso la mattina del 22 erano andati a prenderlo ancor prima di Mele. Ma supponiamo pure che, per qualche motivo recondito, nel confronto casalingo dell’ometto con i due cognati si fosse deciso di rinunciare al piano Francesco Vinci. Secondo Torrisi, invece di farlo continuare sulla linea del giorno precedente – quella dell’io non so nulla perché ero a letto ammalato – Mucciarini e Chiaramonti avrebbero suggerito a Stefano di accusare Salvatore Vinci per allontanare i sospetti da loro! E Mucciarini avrebbe fatto anche di più, suggerendo a Natalino di dire di aver visto Salvatore tra le canne. A questo punto la domanda sorge spontanea: organizzavano qualche corso all’epoca per diventare investigatore?
Ma non è finita qui, perché, sempre secondo Torrisi, anche la ritrattazione e le successive accuse a Francesco – 24 agosto – sarebbero state frutto di un accordo con i parenti, ma preventivo, poiché l’incontro in carcere tra Stefano, il fratello e Mucciarini risale al giorno dopo, il 25. Ma allora ci si deve chiedere il perché di questo percorso contorto Francesco – Salvatore – Francesco, quando le accuse a Francesco sarebbero state molto più credibili se partite subito, e soprattutto non si sarebbe rischiato di indurre Salvatore a fare come Sansone.

Riflessioni. Nello scenario immaginato da Torrisi sono molte altre le interpretazioni illogiche, ma quelle evidenziate bastano e avanzano per squalificarlo. Potrebbe essercene uno diverso nel quale comunque Salvatore Vinci avrebbe rivestito un ruolo nel duplice omicidio? Proviamo a immaginarlo con maggior logica di quella del colonnello, assegnando poco valore alle contrastate dichiarazioni di Mele, che potremmo attribuire alle sue troppo carenti doti intellettuali. Ma senza rinunciare alla testimonianza del piccolo Natale, come invece fanno i negazionisti, anzi, valorizzandola e interpretandone nel modo corretto i tentativi di forzatura.
Innanzitutto va eliminata la pretesa di far accompagnare Natalino da Salvatore. Giova ripetere che non c’è traccia dell’individuo nelle dichiarazioni del fanciullo, il quale invece, dopo l’iniziale tentativo di tenerlo fuori – come da sue istruzioni – raccontò di essere stato accompagnato dal padre. Salvatore potrebbe quindi essere stato presente sulla scena del crimine, aver anche sparato, ma senza farsi vedere da Natalino.
Si può anche eliminare la presenza di Marcello Chiaramonti e della sua auto, nonché quella di Giovanni Mele. Entrambi i personaggi furono tirati in ballo da Stefano, alle cui dichiarazioni si è detto di non voler attribuire valore, e nient’altro li coinvolse in modo sicuro. Il vantaggio è tangibile: si toglie di mezzo l’irragionevole carovana delle due auto e parte dell'inutile banda.
Non si può invece eliminare la presenza di Piero Mucciarini, l’unico che Natalino vide sulla scena del crimine oltre al padre. E se anche si è detto di non voler attribuire valore alle parole di Stefano, le sue allusioni a rapporti intimi tra il cognato e la moglie potrebbero essere motivate, vista la facilità con la quale la donna si concedeva e viste le possibilità di incontri tra di loro, magari con l’intervento dell’esuberante Salvatore ad aggiungere il peperoncino. A questo punto si potrebbe anche immaginare un’alleanza tra due amanti traditi – che intendevano dare la colpa a un terzo, Francesco, coinvolgendo comunque Stefano per farsene scudo alla bisogna – tutti e tre a bordo della 600 di Salvatore. Un’alleanza certo più credibile di quella tra una famiglia offesa e un offensore. In questo scenario si potrebbe persino giustificare la pistola lasciata da Mucciarini sul posto, come raccontò Natalino. Quella pistola poteva essere appartenuta a Francesco Vinci, e a lui riportare.
Ma i conti non tornano comunque, perché Mucciarini si sarebbe dato la zappa sui piedi inducendo Stefano e Natalino ad accusare Salvatore. Alla fine è evidente che i due assieme non possono stare. E poiché il coinvolgimento di Mucciarini è sicuro in virtù della testimonianza di Natalino, mentre quello di Salvatore Vinci è soltanto ipotetico, è a quest'ultimo che la logica impone di rinunciare.
Se qualche lettore ha scenari differenti da proporre, ben lieto di discuterne.

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