domenica 10 febbraio 2019

Omicidio o suicidio? (1)

Come è ormai ben noto, dopo la scoperta, nel 1982, che la pistola usata a Borgo San Lorenzo, Scandicci, Calenzano e Baccaiano era la medesima che aveva sparato a Signa nel 1968, gli inquirenti si convinsero che il Mostro di Firenze era da ricercarsi tra gli indagati di quel lontano delitto. Chi aveva aiutato Stefano Mele a uccidere la moglie e il suo amante doveva aver tenuto l’arma per usarla anni dopo contro altre coppie appartate. Per questo andarono a interrogare l’ometto, da qualche anno tornato in libertà, che li accontentò fornendo dei nomi. Ma dopo l’uccisione dei ragazzi tedeschi nel 1983 a Giogoli furono costretti a escludere il primo, Francesco Vinci, in carcere da mesi, e poi il secondo, Giovanni Mele, anch’egli in carcere al momento di un nuovo delitto, a Vicchio. Per il responsabile dell’inchiesta, il giudice istruttore Mario Rotella, lo smacco fu enorme, ma non sufficiente ad abbandonare la cosiddetta “pista sarda”, nonostante le critiche e il “fuoco amico” della procura. Sicuro della colpevolezza di Mele e sorretto dalla convinzione quasi incrollabile che la pistola non fosse uscita dalla cerchia di chi lo aveva aiutato, mise gli occhi addosso all’unico tra i possibili assassini del 1968 rimasto ancora fuori dalle nuove indagini: Salvatore Vinci.
Stefano Mele aveva indicato Vinci come complice-istigatore nella sua prima confessione, il 23 agosto 1968. Aveva anche detto di aver ricevuto da lui una confidenza riguardante la morte della prima moglie, la diciannovenne Barbarina Steri, avvenuta a Villacidro in Sardegna il 14 gennaio 1960, all’epoca archiviata come suicidio. Si legge nella sentenza Rotella: “Per avvalorare la credibilità delle sue accuse, aggiunge che il Vinci gli aveva anche raccontato di aver ucciso in Sardegna la sua stessa moglie, lasciando aperta una bombola del gas, e salvando suo figlio”.
Gli inquirenti del 1968 non avevano preso sul serio le parole di Mele sulla morte della donna, anche perché le sue accuse contro Salvatore Vinci erano presto rientrate per indirizzarsi verso il fratello Francesco. Dal verbale però quel fugace accenno risultava, e già pochi mesi dopo la ripartenza delle indagini, il 29 novembre 1982, il giudice istruttore Vincenzo Tricomi aveva chiesto ai carabinieri l’acquisizione del rapporto giudiziario sulla vicenda, datato 19 gennaio 1960, anche se poi non ne aveva fatto nulla, poiché, seguendo le indicazioni di Mele, la sua attenzione si era subito concentrata su Francesco Vinci. Quando Rotella si ritrovò con in mano l’ultima carta da giocare, quella di Salvatore Vinci, la questione del possibile omicidio di Barbarina Steri divenne di grande rilevanza, andando a costituire uno dei filoni d’indagine del suo principale investigatore sul campo, il colonnello dei carabinieri Nunziato Torrisi. In ipotesi quel lontano fatto di sangue non sarebbe stato nient’altro che il prodromo della successiva catena di delitti compiuta dallo stesso Vinci a danno sia di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, sia delle sette coppie degli anni ’80.
Il presente articolo si occuperà di questo caso, con la speranza di poter fornire delle risposte soddisfacenti a tutti coloro che cercano la verità e non intendono limitarsi a sterili posizioni preconcette. Per fortuna la documentazione, seppur qua e là mancante di alcune pagine, risulta comunque abbondante, sia quella nota da tempo – il rapporto giudiziario Torrisi (vedi) e la sentenza Rotella (vedi) – sia quella inedita, che in questa sede verrà messa a disposizione di tutti gli appassionati.

Un’archiviazione frettolosa. Rotella e Torrisi procedettero per prima cosa a una rilettura critica della documentazione dell’epoca, trovando molti motivi di perplessità. Vediamo come Torrisi riassunse la vicenda della scoperta del cadavere, sulla base del verbale di sopralluogo (vedi) e del rapporto giudiziario dei carabinieri di Villacidro (vedi):

La donna viene rinvenuta bocconi sul pavimento della camera da letto; la chiave della porta posta sotto la mano; la porta a due ante priva dei due passanti in ferro che avrebbero dovuto assicurarla al telaio ed al pavimento; il bambino della STERI, di 11 mesi, a nome Antonio, adagiato nella culla posta nella stanza attigua adibita a cucina; la porta di ingresso dell'abitazione, in legno ad un battente, munita sul quadrante superiore sinistro di un largo sportello con serratura non inserita e di un piccolo chiavistello in legno che serve per chiudere la porta dall'interno; una bombola vuota di gas liquido da kg. 10, marca "Liquigas", munita di regolatore di pressione, con relativo tubo di gomma, appoggiata al guanciale destro del letto; un biglietto scritto, dal contenuto non molto chiaro, che i familiari della donna attribuiscono concordemente a lei.

Il biglietto venne trovato su un comodino dal padre della ragazza, che se lo mise in tasca e più tardi lo consegnò al pretore. Si trattava di un foglio manoscritto, il cui contenuto venne riportato tutto in maiuscolo nel rapporto giudiziario dei carabinieri, firmato dal brigadiere Delio Pisano:

AVEVO UN GRANDE CUORE MA NELL’ANSIA TUTTO ME SVANITO ED ECCO CHE NON RESISTO PIU’; TUTTO IL RESTO MI E’ INSOPPORTABILE SOTO DEGLI OSCURI. ANSIOSAMENTE PENSO E RIPENSO D’ESSERE AMATA DO CHI INVIDIATA EPURE NELLO SPASIMO PREGO AL BAMBINO. E BUONA FORTUNA

Come si vede, il testo risulta pieno di errori d’ortografia e forse mancante di qualche parola. Purtroppo la copia originale non è nella disponibilità di chi scrive; più avanti prenderemo in esame la diversa versione riportata in sentenza. In ogni caso, pur con delle frasi un po’ “criptiche”, il biglietto contribuì a delineare un quadro generale in cui l’ipotesi del suicidio parve senz’altro la più plausibile. Scrisse Pisano quasi a conclusione del rapporto: “A parere dello scrivente il cadavere non presentava segni di violenza visibili esteriormente per cui si ritiene non vi siano malefizi da parte di terze persone salvo che contrariamente non si pronunci colui che ha proceduto ad effettuare l’autopsia”. Anche i rilievi successivi non riscontrarono particolari segni di violenza, almeno non tali da consigliare ulteriori approfondimenti, quindi il caso venne archiviato come suicidio.
Ma per Rotella e Torrisi c’erano molti elementi che non quadravano.

L’agguato. Nell’autunno del 1984 Torrisi, accompagnato dal maresciallo Salvatore Congiu, si recò a Villacidro, dove acquisì ulteriori informazioni su quel lontano tragico episodio, cercando prima di tutto di chiarirne un altro, accaduto poco più di un mese prima, quando Barbarina Steri era stata sorpresa e fotografata in atteggiamento intimo con un ragazzo poco più grande di lei, Antonio Pili. Secondo Torrisi sarebbe stato Vinci, a conoscenza della relazione come del resto tutto il paese, a organizzatore l’agguato avvalendosi dell’aiuto di due complici, il sordomuto Mario Aresti e il fotografo dilettante Gesuino Pilleri, con lo scopo di “suscitare, da un lato la considerazione e la benevola comprensione della gente nei suoi confronti, e dall'altro la dura condanna ed il disprezzo morale verso la donna”.

Infatti, il 3 dicembre 1959, la donna, con la solita scusa di recarsi a lavare i panni nella contrada anzidetta, previo appuntamento verbale della sera precedente, si dà convegno nella predetta località. I due si soffermano seduti sotto un albero di ulivo e mentre si apprestano a preparare un giaciglio ove sdraiarsi, vengono sorpresi e redarguiti da due contadini proprietari di due appezzamenti di terreno limitrofi, SPADA Francesco e SPADA Ignazio, che li costringono ad allontanarsi. La STERI ed il PILI vanno a sistemarsi dietro una vasca irrigua, sita nel terreno di quest'ultimo, ove fanno l'amore. A questo punto è il PILLERI Gesuino, con la macchina fotografica in mano, che balza dal suo nascondiglio – verosimilmente ha scattato delle foto – per rimproverare la STERI perché, pur essendo sposata, si concede ad altri, e questa, dopo una crisi di pianto, si allontana.

In un primo momento la donna aveva parlato di un tentativo di stupro, sia con il marito, sia con i carabinieri, ma poi aveva dovuto ammettere la verità, rimediando una denuncia per simulazione di reato e atti osceni, questa condivisa con Pili. Lui era stato denunciato anche per porto abusivo d’arma, una pistola.
Il 26 novembre 1984 Antonio Pili fu sentito da Torrisi e Congiu, ai quali raccontò la propria versione dei fatti, molto probabilmente assai adattata, come vedremo più avanti:

Il predetto, quasi come a liberarsi di un grave peso morale che lo affligge da anni per non aver trovato il modo, il tempo, la persona giusta a cui poter raccontare la verità circa determinati avvenimenti che hanno segnato la sua vita ed i suoi ricordi, descrive minuziosamente i suoi travagliati rapporti con la STERI Barbarina, a causa dei familiari di lei e di un secondo pretendente, VINCI Salvatore.
I due, secondo il racconto del PILI, hanno modo di conoscersi in Villacidro, sin dall'età di 15 anni lui, e 13 lei, e da quel momento i loro incontri sono sempre più frequenti, però vengono subito avversati dai familiari di lei. In una circostanza in cui il PILI osa manifestare le sue serie intenzioni al padre della giovane, non solo riceve un categorico rifiuto ed un ammonimento a smetterla, ma anche un colpo di frusta.
Le liti subentrano anche con il fratello a nome Salvatore, e lui ed il padre fanno di tutto, ricorrendo anche alle maniere forti, per allontanargli la figlia. Le ragioni di questa ostilità diventano palesi allorché la Barbarina gli confida che i genitori vogliono darla in fidanzamento ad un intimo amico del fratello Salvatore, VINCI Salvatore, assiduo frequentatore della loro abitazione. Anche tra il PILI ed il VINCI si verificano delle liti con reciproco scambio di insulti e pugni, sempre per le medesime ragioni, sino a quando il giovane e la sua famiglia si trasferiscono altrove ed i due interrompono i rapporti. Dopo due anni circa, rientrato con la famiglia a Villacidro, egli riprende i rapporti con la Barbarina e viene da lei a conoscenza di essere sposata con il VINCI Salvatore, di aver avuto un figlio al quale, nel suo ricordo, ha dato il nome di Antonio. I loro incontri, che diventano sempre più frequenti, avvengono nei pressi di un casello ferroviario ed in altri luoghi, di volta in volta fissati.
La STERI racconta al PILI di essere stata obbligata e costretta a sposare il VINCI Salvatore per una serie di motivi, tra cui quello di essere rimasta incinta, di subire maltrattamenti continui anche con pugni al viso, da parte del suo marito, che è sua intenzione lasciare. Nonostante la relazione sia ormai di dominio pubblico, e gli inviti del PILI ad allentare gli incontri, la STERI, senza darsi per vinta, perché innamorata del giovane, continua a coltivarla senza preoccuparsi delle botte e minacce ricevute.

La descrizione fatta da Pili del comportamento sia del padre sia del fratello della Steri contribuirono a convincere Torrisi che entrambi avevano, se non aiutato, certamente “coperto” Salvatore Vinci, che avrebbe avuto nel desiderio di vendicarsi – lavando così l’onta dell’umiliazione subita di fronte a tutto il paese – la motivazione del delitto.

Rilettura degli atti. A una rilettura della documentazione dell’epoca, a Torrisi molti elementi parvero non quadrare affatto nello scenario di un suicidio, a partire dal racconto del marito riguardo il suo rientro in casa, di ritorno da una serata trascorsa in compagnia del fratello di lei, Salvatore Steri.

Notai che il finestrino della porta era semi-aperto ed assicurato internamente con un semplice chiavistello in legno girevole, per cui con una leggera spinta lo aprii e varcai l'ingresso. Accesi la luce e notai, insolitamente, la culla contenente il mio bambino vicino al caminetto privo di fuoco, mentre intravedevo dalla fessura della porta, che accede alla camera da letto, sulla parte inferiore la luce della lampadina. Rimasi completamente sconvolto precipitandomi alla porta della camera da letto per chiamare mia moglie. Bussai una sola volta e chiamai Barbarina, ma non ebbi nessuna risposta; pensai immediatamente che mia moglie fosse in compagnia dell'amante e così mi precipitai all'esterno della casa, temendo di essere aggredito. Nel raggiungere il cortile mi sembra di aver sentito una voce sconosciuta e, maggiormente convinto che mia moglie fosse con la compagnia anzidetta allungai il passo fuggendo per raggiungere quanto prima la casa di mio cognato.

Dunque, a suo dire, Vinci non si sarebbe accorto subito che la camera in cui si trovava la moglie era satura di gas – eppure la porta non era a tenuta ermetica, notò Torrisi, e l’odore sarebbe dovuto filtrare –, ma, immaginando la presenza anche dell’amante, per paura di un’aggressione sarebbe corso a chiamare il cognato (vedi), tornando poi indietro con lui e il suocero (vedi). Ma ancora i tre, pur avvertendo odore di gas e immaginando il peggio, non erano entrati subito nella camera, preferendo il padre della ragazza cercare prima l’assistenza di un vicino di casa, Francesco Usula (vedi).
Il comportamento di Vinci che va a chiedere aiuto impaurito dalla possibile presenza dell’amante della moglie parve a Torrisi poco plausibile:

Ora, secondo tale versione pare possibile un comportamento del genere, che vede un tipo particolarmente aggressivo come il VINCI, addirittura darsela a gambe per paura che l'amante, oltre che a "trombare" la propria moglie quasi sotto i suoi occhi, possa pure aggredirlo, proprio come secondo il noto proverbio "cornuto e bastonato", senza almeno verificare personalmente, guardando attraverso la fessura della porta, dato che la luce è accesa?

Ma anche il successivo svolgimento dei fatti raccontato dai tre congiunti della vittima non tornava molto, per il militare.

Il comportamento tenuto nella circostanza da VINCI Salvatore, STERI Salvatore e STERI Francesco, rispettivamente marito, fratello e padre della vittima, secondo le dichiarazioni a suo tempo da loro rese è atipico, impacciato, intempestivo, denota nel modo di muoversi incostanza, insicurezza, incertezza, già ancor prima che venga scoperta la morte della congiunta.
Essi, infatti, più che adoperarsi con slancio istintivo a soccorrere la Barbarina, si preoccupano solamente di farsi assistere nelle varie operazioni dal vicino di casa USULA Francesco, perché sia buon testimone della loro viva sorpresa, allontanando così i sospetti nei loro confronti.

Bisogna dire che la tesi di Torrisi che vede addirittura la complicità del padre appare fin troppo forzata, come del resto tutta la sua impostazione iper colpevolista, ma non è questo il momento di discuterne. In ogni caso elementi di sospetto il militare né trovò molti altri, che qui non possiamo esaminare tutti; vediamo i principali, a cominciare da un indizio che tenderebbe a far escludere una volontà suicida della donna.

[…] dal comportamento della donna antecedente alla sua morte non si rileva alcuna volontà o proposito suicida, anzi tutto il contrario, in quanto essa manifesta la volontà di separarsi dal marito ed allontanarsi da casa per essere assunta come donna di fatica – portandosi anche il bambino – presso un brefotrofio di Cagliari, come si rileva da una lettera rinvenuta in casa, a lei indirizzata, in cui le si comunica che proprio il 15 gennaio, cioè il giorno dopo, essa può presentarsi presso il predetto Istituto, per iniziare il suo rapporto di lavoro.

E poi il bambino, collocato sì nella stanza attigua dentro la propria culla, ma comunque a rischio di fare la stessa fine della madre.

I rischi che avrebbe potuto correre il bambino per la propagazione del gas, sono così evidenti che, appunto per le precauzioni con il trasferimento nella stanza attigua, acquistano il significato della preordinazione ad opera di terze persone e non istinto materno di protezione di chi prima di togliersi la vita si assicura che la sua creatura non corra pericoli di sorta, come il gesto vuol far credere.
Non vi è dubbio che, qualora il gas fosse effettivamente fuoruscito dalla bombola, posta nella camera da letto, oltre a rendere saturo l'ambiente stesso, si sarebbe certamente propagato, attraverso le ampie fessure della porta – come si rileva nella descrizione di detta porta nel verbale di sopralluogo – nella stanza ove trovavasi la culla con il bambino.

Ulteriori perplessità derivavano dalla questione della bombola di gas, che pareva essere stata vuota quando la Steri era rimasta sola, dopo l’uscita del marito (qui il verbale del vicino di casa Raimondo Steri, dal quale la donna si era recata due volte a scaldare il latte per il figlioletto).

Quanto alla bombola posta nella cucina dell'abitazione, come si rileva delle dichiarazioni del marito, essa è esaurita, tanto che lo stesso, non appena rientrato in casa, verso le ore 17,00 del giorno prima, consuma una merenda di ravanelli, cardi e pane che scalda accendendo il fuoco a legna, mentre la moglie si reca nell'abitazione del padrone e vicino di casa STERI Raimondo, a scaldare il latte per il bambino.
In effetti, come riferisce lo stesso STERI Raimondo, che è al corrente dei continui litigi tra i due coniugi, la donna è venuta ben due volte nella sua abitazione a riscaldare il latte per il bambino la sera precedente, la prima volta verso le ore 18,00 e la seconda volta verso le ore 21,00. In questa seconda circostanza la donna ha avuto un po' di fave ed un piatto di minestrone di pasta e fagioli che ha consumato sul posto, ivi intrattenendosi per circa mezz'ora.

Insomma, Rotella e Torrisi sospettavano che Vinci avesse ucciso la moglie, o infilandole la canna del gas in gola, oppure soffocandola con un cuscino o anche stringendola al collo – nella descrizione del cadavere rilasciata dal medico legale in effetti comparivano dei leggeri segni sul collo – per inscenare poi un finto suicidio. Le porte, in apparenza chiuse dall’interno, con qualche accortezza potevano essere state chiuse anche dall’esterno: quella della camera da letto accostando i due battenti dopo aver fatto uscire la serratura, quella della casa armeggiando attraverso lo spioncino.

L’alibi.  Secondo Torrisi, se Vinci aveva ucciso la moglie, il fratello di lei era stato come minimo connivente fornendogli un alibi. Dal verbale di Salvatore Steri del 19 gennaio 1960 (vedi):

Alle ore 11,30 del 14 andante mi portai a casa di mia sorella Steri Barbarina assieme a mio cognato Vinci Salvatore ed un parente di Pabillonis. Giunti a casa mio cognato ordinò alla moglie di preparare il pranzo però costei rispose che doveva recarsi a casa dei genitori e così fece. Alle ore 14 circa raggiungemmo la mia abitazione dove trovammo mia sorella e consumammo un po’ di cibo. Mio cognato uscì di casa mentre io mi misi a letto fino alle ore 17 circa allorquando si ripresentò il Vinci. Ci trattenemmo così circa un'ora andando assieme a casa di mio cognato dove ci raggiunse subito mia sorella.
Mia sorella si portò subito in casa di Steri Raimondo per scaldare il latte al bambino ed allo stesso tempo tutti e tre consumammo una merenda basata su pane, cardi e ravanelli. Verso le ore 20 io e mio e cognata uscimmo di casa quando mia sorella pronunciò la seguente frase: "DELINQUENTE. CHE GIUDIZIO DI UOMO DA SPOSATO AI A RITORNARTENE FUORI DOPO AVER TRASCORSO L'INTERA SERATA A DIPORTO", e così dicendo noi ci allontanammo. Rimanemmo a diporto in paese fino alle ore 22,30 circa andando a finire nel bar di Cadoni Amerigo dove ci trattenemmo fino alle ore 23,45 circa consumando un bicchierino e giocando a dama.
Nelle vicinanze di detto bar salutai mio cognato ed ognuno se ne andò a casa. Quand'ero già a letto, e dopo 15 minuti circa, sono stato chiamato da mio cognato il quale mi riferiva che sua moglie non lo faceva entrare a casa sollecitando così il mio intervento e quello di mio padre.

C’è da dire che l’alibi di Vinci dalle 22:30 in poi era stato confermato con grande sicurezza dal proprietario del bar, Amerigo Cadoni. Dal relativo verbale del 15 gennaio 1960 (vedi):

Effettivamente alle ore 22,30 circa del giorno 14 andante si presentavano nel mio esercizio di bevande alcoliche, posto in questa via S. Antonio n. 45, i nominati Vinci Salvatore e suo cognato STERI Salvatore, i quali si misero a giocare a dama fino alle ore 23,30-23,45 circa. Dopo di che i due consumavano due bicchierini di anice e uscivano dal mio esercizio. Ricordo perfettamente l’ora di cui sopra, se anche approssimativa, poiché mi riporto alle trasmissioni televisive; infatti i due entravano nell'esercizio subito dopo che ha avuto termine "Campanile Sera" ed uscivano al termine del "Telegiornale della notte" che proprio quella sera terminò verso le 23,30.

Anche considerando padre e fratello della donna suoi complici, quindi mendaci su termini e orari del loro intervento, sarebbe stato materialmente impossibile per Vinci compiere un delitto così articolato dopo l’uscita dal bar, poiché il vicino di casa Francesco Usula era intervenuto troppo presto, a mezzanotte e 20. Rimaneva quindi la sola possibilità che l’individuo avesse potuto uccidere la moglie tra le 21:30, momento in cui lei era uscita dalla casa del vicino, e le 22:30, quando lui era entrato nel bar Cadoni. Si trattava di una finestra temporale ristrettissima, alla quale però Torrisi e Rotella si attaccarono cercando di far cadere l’alibi che per essa Vinci aveva ricevuto dal cognato.
Il 10 ottobre 1985 Salvatore Steri venne interrogato a Villacidro dal pubblico ministero Adolfo Izzo con l’assistenza di Torrisi e Congiu. L’individuo fornì un particolare inedito sulla prima parte della serata trascorsa con Vinci, affermando che questi si era separato da lui per una decina di minuti recandosi a ordinare una bombola di gas, come gli aveva raccomandato la moglie. Dopo aver ricevuto, come anche Vinci, una comunicazione giudiziaria, il 9 novembre fu Steri stesso a farsi interrogare – questa volta da Rotella – in presenza del proprio avvocato, introducendo una novità ulteriore: prima di entrare nel bar Cadoni, i due si erano fermati nella sala biliardi di Pasqualino Collu, dove comunque non si sarebbero persi di vista se non per pochi minuti. Infine il 22 novembre Steri cambiò versione, affermando
  • di non essere in grado di precisare se il VINCI era entrato con lui nella sala dei biliardi ed in ogni caso di non essere in grado assolutamente di dire che cosa abbia fatto il VINCI durante tutto il periodo in cui si è intrattenuto nella sala, perché concentrato a seguire il giuoco;
  • di non poter escludere che per tale periodo, o per una parte di esso, il VINCI si sia allontanato dal locale o addirittura non ci sia neanche entrato;
  • di non ricordarsi se dalla sala biliardo siano usciti insieme, né quando, né come si siano incontrati.

Lo stralcio. Il sospetto cambio di versione dell’impaurito Salvatore Steri fu probabilmente il maggior risultato conseguito dagli inquirenti fiorentini nelle loro indagini volte a dimostrare l’omicidio di Barbarina Steri. In effetti poco altro uscì fuori, come ci si poteva attendere per fatti avvenuti a distanza ormai di un quarto di secolo. L’interrogatorio di Francesco Usula fornì, oltre a inediti particolari sulla scena del crimine – in alcuni casi però palesemente inverosimili –, la conferma che in paese si mormorava di un omicidio compiuto dal marito, al quale non sarebbe stato estraneo il fratello, e di rapporti omosessuali tra i due. Le sorelle affermarono che anche in famiglia si sospettava di Vinci, marito violento e manesco, mentre Barbarina non aveva mai manifestato l’intenzione di uccidersi, ma piuttosto quella di separarsi. Le intercettazioni telefoniche disposte sulle utenze di due sorelle e della madre evidenziarono la paura di quest’ultima per i guai che avrebbe potuto passare il figlio Salvatore, della cui innocenza non pareva poi così sicura.
Nell’intento di capire qualcosa in più sulle circostanze del decesso, il 7 gennaio 1986 fu commissionata una perizia a un esperto di Bologna, Maurizio Fallani, che però non riesumò il cadavere, operazione inutile dopo tanto tempo, limitandosi a esaminare gli atti. Naturalmente non ci si potevano attendere grandi risultati, in ogni modo “la perizia dimostrava quanto pareva evidente, e cioè l'incongruità degli accertamenti medico-legali”. In altre parole: non si riuscì a dimostrare l’omicidio, come del resto ci si poteva aspettare, ma soltanto a mettere in evidenza l’inaffidabilità degli accertamenti che all’epoca avevano portato alla sua esclusione.
Intanto su Salvatore Vinci andavano avanti anche le altre indagini, quelle che lo vedevano sospettato per il delitto del 1968 e per i successivi attribuiti al Mostro di Firenze, ma senza risultati, se non una ennesima versione di Stefano Mele che, stimolato da un nuovo soggiorno in galera, lo aveva aggregato al piccolo commando composto da sé stesso, il fratello e i due cognati.
Alla fine dei conti di tutto il materiale raccolto da Rotella e Torrisi il più valido parve senz’altro quello sulla sospetta morte di Barbarina Steri, l’unico con il quale si poteva sperare di condurre Vinci in giudizio. Venne deciso quindi uno stralcio dei relativi atti, che, con sentenza di Rotella del 4 giugno 1986, vennero trasmessi ai magistrati di Cagliari, competenti per territorio.
A prendere in mano il caso furono il giudice istruttore Luigi Lombardini e il pubblico ministero Enrico Altieri, che dimostrarono totale sintonia con i colleghi di Firenze, e anche una soprendente celerità nel prendere una decisione importantissima: infatti, con un documento (vedi) nel quale veniva accolto in pieno il punto di vista di Rotella e Torrisi, il 10 giugno Lombardini spiccò mandato di cattura contro Salvatore Vinci, che il giorno dopo venne condotto nel carcere di Tempio Pausania (appena in tempo, secondo alcuni, per scongiurare un nuovo duplice omicidio del Mostro, che in effetti quell’estate non colpì).
Alla chiusura dell’inchiesta formale, procrastinata fino al massimo dei due anni consentiti, il 24 novembre 1987 la procura chiese all’ufficio istruzione il rinvio a giudizio di Salvatore Vinci e il non luogo a procedere per Salvatore Steri (vedi) – al quale evidentemente la presa di distanza dal destino del vecchio amico aveva portato assai bene – entrambi accolti dalla sentenza di Lombardini del successivo 10 dicembre (vedi). Per gli inquirenti fiorentini si trattò di una grande vittoria, un passo necessario nella dimostrazione del teorema in base al quale l’origine di tutto andava ricercata in quel lontano fatto di sangue; un risultato negativo avrebbe compromesso il teorema stesso, mentre invece una condanna li avrebbe senz’altro favoriti nel portare avanti le accuse sui delitti delle coppie.
Ma da un rinvio a giudizio a una condanna la strada era tutt’altro che semplice da percorrere.

Il processo. In un aula del tribunale di Cagliari, il 12 aprile 1988 prese il via l’atteso processo: Carlo Piana presidente, Mario Biddau giudice a latere, quattro donne e due uomini giudici non togati, Enrico Altieri pubblico ministero, Giuseppe Madia (foro di Roma) e Aldo Marongiu (foro di Cagliari) avvocati difensori. I due principali quotidiani di Firenze, “La Nazione” e “La Città” dedicarono molti servizi all’evento, dai quali è agevole ricostruirne la cronistoria (le due raccolte sono scaricabili in formato pdf qui e qui; è il caso di dare un'occhiata anche ai servizi della “Stampa”, qui, e dell' “Unità”, qui).
Fin dalla vigilia il clima si preannunciò bollente. Aldo Marongiu aveva il dente avvelenato contro “un certo modo di fare giustizia” e in particolare proprio contro Altieri, che alla fine del 1981 lo aveva fatto arrestare e tenuto in carcere per quasi due anni con gravissime accuse – associazione per delinquere, spaccio di stupefacenti e omicidio di un collega – nell’ambito di un’indagine clamorosa e sgangherata, un vero e proprio precedente del “caso Tortora”. In un’intervista uscita su “La Città” dello stesso 12 aprile 1988 così Marongiu si scaldava i muscoli:

Quello su Salvatore Vinci è un processo indegno, basato su congetture e illazioni. Non è degno neppure di essere chiamato un processo indiziario. […] siamo di fronte ad una clamorosa montatura, ad uno scempio giudiziario che grida vendetta.
Inserire il rapporto firmato dal colonnello dei carabinieri Nunziato Torrisi nel fascicolo sulla morte di Barbarina Steri è un espediente processuale scorretto. Si tratta di un rapporto basato su suggestioni e non su prove. E come tale mira a suggestionare i giudici popolari, indicando Salvatore Vinci come un pericolosissimo criminale: il mostro di Firenze che nel Sessanta gettò proprio a Villacidro i germi della sua futura follia.
[…] non esistono prove contro Salvatore Vinci. Leggendo gli atti del processo sulla morte di Barbarina Steri e il rapporto dei carabinieri sui duplici delitti attribuiti al mostro di Firenze si intravede l’esigenza di trovare un colpevole qualsiasi esso sia, per acquietare la coscienza di molti.

Marongiu sapeva bene come il punto debole dell’intero impianto accusatorio fosse proprio il collegamento con la vicenda del Mostro, per un’imputazione nascosta verso la quale conveniva dirigere il tiro attaccandola frontalmente. Nel medesimo giorno su “La Nazione”:

È vero, è un processo su cui gravano davvero delle ombre, ma non con i significati che i mezzi d’informazione hanno voluto dargli. Io non lo so, e per ora non mi interessa saperlo, se Vinci ha qualcosa a che fare con i delitti di Firenze. Io sono solo convinto che non è un omicida ma che è stato arrestato e accusato di aver ucciso la moglie per ottenere il risultato di un’altra indagine.
Ritengo che lo abbiano messo in carcere con la segreta speranza di scoprire un qualche suo coinvolgimento nella orribile catena dei delitti del mostro. Insomma, si è cercato di dare corpo alle ombre e allora è stato preconfezionato questo processo… Vedremo però con quali risultati.

Con le manette ai polsi per una condanna in corso, comparve in aula anche Antonio Vinci, il figlio di Salvatore e Barbarina, l’allora bambino di undici mesi piangente nella culla mentre la madre moriva nella stanza accanto. Pare che fosse stato su sua richiesta, anche se poi, avendone facoltà come congiunto, evitò di deporre.
Durante le cinque udienze del breve processo sia Salvatore Vinci sia i suoi difensori non sbagliarono nulla. Alla prima Marongiu e Madia misero subito le mani avanti, dichiarando con piglio severo che non avrebbero accettato alcuna intrusione delle vicende fiorentine nel procedimento in atto. Dal punto di vista formale una precisazione inutile, visto che nei capi d’imputazione non si parlava affatto di quelle vicende, nei fatti un modo per stigmatizzare “le ombre” che gravavano sul processo. Nel frattempo l’imputato faceva la propria parte accettando di rispondere ai giornalisti che attorniavano la sua gabbia, piacevolmente sorpresi di come il presunto Mostro non si fosse tirato indietro di fronte a nessuna domanda, arrivando a chiedere addirittura la loro collaborazione. Poi rispose con arguzia e sicurezza alle contestazioni del pubblico ministero, affermando di non aver avuto motivi per uccidere Barbarina, moglie fedele e madre affettuosa, ed esprimendo la convinzione che Antonio Pili avesse cercato di ricattarla con la vicenda delle foto scabrose. L’imputato uscì di gran lunga vincitore dai confronti sia con il presidente sia con il pubblico ministero, dimostrando un carisma che piacque ai cronisti in aula. Nulla poterono contro di lui i successivi racconti delle tre cognate sui maltrattamenti subiti dalla sorella e sui sospetti di omicidio sussurrati in famiglia.
Nella seconda udienza, il 13 aprile, il testimone più significativo fu Antonio Pili, il grande amore giovanile e poi amante, la cui deposizione suscitò molti dubbi. Dalle pur stringate cronache giornalistiche si desume che la relazione non era stata per nulla idilliaca come aveva voluto far credere Pili a Torrisi (dalla “Nazione” del 14 aprile: “Poi vengono ricordati squallidi contorni di questa misera relazione, rimproveri che Barbarina muove all'amante il quale pare le chieda rapporti tali da suscitare non solo delusione ma anche sdegno nella giovane innamorata”).
Si venne anche a sapere dell’esistenza di un biglietto di rimprovero scritto dalla poveretta all’amante; dalla “Città”:

Si è parlato di una lettera scritta dalla Barbarina e persa in un campo proprio quella sera di novembre. Una missiva in cui Barbara lo accusava di aver tenuto un atteggiamento scorretto «appartenente alla sfera sessuale».
«Non ricordo quella lettera» ha detto subito Pili; poi ha quasi ammesso, quando si è accorto che il foglio a quadretti era allegato agli atti del processo. Come non ricordare la lettera di una innamorata morta suicida? Ancora ombre, reticenze, omissioni gravano sul processo.

La notizia intaccò non poco l’immagine di ragazzino innamorato che risultava dal rapporto Torrisi; Pili parve piuttosto un piccolo playboy di paese, che per di più se ne andava in giro con una pistola in tasca. E non era una pistola qualsiasi, ma una Beretta analoga a quella del Mostro; senz’altro una semplice coincidenza, però il fatto impressionò non poco. Riguardo le voci di un rapporto particolare tra Salvatore Vinci e il cognato Salvatore Steri, Pili smentì decisamente di averle riferite in sede d’interrogatorio, attribuendone la presenza nei verbali alle suggestioni ricevute dall’autorità giudiziaria.
E infine non lasciò una buona impressione neppure Gesuino Pilleri, il fotografo dilettante che aveva sorpreso Barbarina con Antonio Pili; dalla “Nazione”:

È la volta poi di un altro personaggio da prendere con le molle. Gesuino Pilleri, l‘appassionato di fotografia che nel dicembre ’59, non si sa su mandato di chi, avrebbe fotografato i due amanti, Barbarina e Antonello, colti in flagrante atteggiamento intimo nella campagna di Villacidro.
«Ma di questa fotografia io non ricordo assolutamente niente», inizia il testimone.
È troppo facile dire di non ricordare, lo ammonisce il presidente. Quella fotografia ha un'importanza determinante perché è ad essa, la prova dello scandalo, che si deve collegare la morte violenta di Barbarina Steri, sia che si sia suicidata per la vergogna, sia che sia stata uccisa dal marito per vendicare l’onore.
«Sì, signor presidente – dice allora Pilleri – sono d'accordo con quello che dice, ma io di questo non ricordo più niente. Mi sono fatto il lavaggio del cervello».

In chiusura di udienza si cercò di ottenere la testimonianza di Salvatore Steri. Essendo stato prosciolto in istruttoria nell’ambito del medesimo procedimento giudiziario, a rigore l’uomo non avrebbe potuto deporre, ma con un espediente tecnico fu fatto accomodare lo stesso sul banco dei testimoni; inutilmente, però, poiché rifiutò di rispondere, com’era suo diritto. E dunque anche la seconda udienza si concluse nettamente a favore dell’imputato, che, sicuro di sé come non mai, fin dalla mattina aveva platealmente sollecitato il confronto con Stefano Mele, rilanciando sulla precedente richiesta del pubblico ministero e trovando favorevole il presidente.

Un disastro per l’accusa. Il terzo giorno, 14 aprile, tutti aspettavano Mele, ma al suo posto arrivò un telegramma nel quale l’ometto annunciava l’impossibilità a comparire per problemi di salute. Non mancarono comunque le emozioni, con l’ombra del Mostro entrata prepotentemente in aula assieme al segugio che più l’aveva inseguita – o si era illuso d’inseguirla – braccando l’imputato: il colonnello dei carabinieri Nunziato Torrisi. Ecco come presentò l’inizio della sua deposizione “La Città” del 15 aprile:

Baldanzoso, impettito, riposato, ben vestito, il colonnello Nunziato Torrisi è entrato in aula alle 10 precise. L’udienza è iniziata dunque con un forte ritardo. Dov’era l’ufficiale? “Si è intrattenuto con il giudice istruttore Lombardini, forse per esigenze istruttorie”, ha suggerito furbescamente Marongiu in aula, per stigmatizzare un comportamento che, a suo dire, non era un esempio di limpidezza.
Con voce stentorea, il colonnello ha iniziato a recitare un brano di deposizione che con cura aveva preparato precedentemente. “Ci parli della personalità di Salvatore Vinci – ha chiesto il presidente – che cosa avete accertato?”. “Dai nostri accertamenti posso dire che la personalità di Vinci è molto complessa”. “Si limiti ai dati, colonnello, non dia giudizi” è stato l’ammonimento.

Incalzato sul contenuto del suo rapporto giudiziario, non soltanto dalla difesa, ma anche dal presidente, Torrisi tentennò più volte, e alla fine non convinse nessuno. L’elenco delle perversioni sessuali dell’imputato e il racconto di episodi scabrosi osservati durante i controlli non parvero attinenti al processo, come è logico; tantomeno il sequestro di vibratori e ortaggi custoditi sopra l’armadio della camera da letto, per i quali Vinci commentò arguto con i giornalisti: “Se a uno gli piace fare l’amore sull’armadio, questo significa che è il mostro? Ci sono infinite sfumature nell’amore, mille persone fanno l’amore in mille modi diversi”.
Per Torrisi non andò bene neppure con gli argomenti più legati alla vicenda in corso di giudizio. Come quando Marongiu gli chiese se era stata controllata l’autenticità della lettera con la quale un brefotrofio di Cagliari confermava ospitalità e lavoro a Barbarina Steri. No, non era stata controllata, e quell’istituto non si trovava più, quindi quella lettera piena d’errori di grammatica poteva essere stata scritta da qualcuno che voleva incastrare l’imputato. Altro clamoroso inciampo su una presunta telefonata di Salvatore Steri del 14 agosto 1985, attraverso la quale si voleva dimostrare come i presunti complici si tenessero ancora in contatto dopo tanti anni. Era sicuro il colonnello si fosse trattato proprio di Salvatore Steri? No, non era sicuro, la parola “cognato” intesa tra le altre glielo aveva fatto credere, e Vinci prese la palla al balzo, dichiarando di avere un altro cognato, Antonio Steri, che lo chiamava spesso e lo andava anche a trovare.
Con la disastrosa deposizione di Torrisi il pubblico ministero assisté attonito al naufragio completo della parte più importante del proprio impianto accusatorio, e nulla trovò di meglio che cercare la sospensione del processo richiedendo una perizia psichiatrica, allo scopo di chiarire le presunte devianze sessuali dell’imputato. Il presidente si riservò di decidere.
Dopo Torrisi fu la volta di Maria Luigia Tibet, la madre della Steri, che si era costituita parte civile ma non aveva voluto presenziare al processo, lasciandosi infine convincere per almeno una breve deposizione. Tutti si commossero al disperato balbettare della fragile vecchina, mentre inframezzava parole in italiano ad altre in dialetto stretto, dicendo che sì, in casa avevano sempre avuto dei sospetti riguardo la morte della figlia, lui la maltrattava, e Barbarina soffriva molto.
Intanto il presidente aveva richiesto un controllo sulle condizioni di salute di Stefano Mele, risultate idonee. Ne fu quindi disposto l’accompagnamento coatto per il lunedì successivo, 18 aprile, giorno al quale fu rimandata la ripresa del processo.
Già duramente provato dalle precedenti, in un crescendo di clamorose sorprese nella quarta udienza l’impianto accusatorio ricevette il colpo di grazia. All’inizio la scena fu tutta di Stefano Mele, dal quale si attendevano chiarimenti sulle famose confidenze ricevute da Vinci, a ben vedere il vero punto d’origine di tutto il procedimento giudiziario. “Quando ha sentito dell’omicidio di Barbarina Steri?”, chiese il presidente. Senza raccogliere, rispose Mele: “Me l’ha raccontato lui. Abitava da sei mesi con me. Mi disse che era successa la disgrazia della moglie. Era morta con il gas”. E ancora: “Lei disse di aver scoperto che Salvatore aveva ucciso sua moglie”, “Me lo disse lui che era morta con il gas”. Insomma, che facesse il finto tonto, o che lo fosse davvero, Stefano Mele non confermò per nulla le velate accuse di un tempo, nonostante il presidente avesse cercato di stimolarlo in tutti i modi. D’altra parte le voci che Vinci avesse ucciso la moglie avevano sempre girato a Villacidro, e ci sarebbe da stupirsi molto se non avessero varcato il mar Tirreno assieme a lui. Alla fine, sotto lo sguardo perplesso degli astanti, Stefano Mele se ne andò portandosi dietro vent’anni di misteri.
Uscito Mele, Altieri formalizzò la sua richiesta di perizia psichiatrica, ma dopo un’ora di camera di consiglio la corte gli rispose picche: non c’era nessun elemento per sottoporre Vinci a perizia. A quel punto si assistette alla seconda sconcertante sorpresa: l’unico avvocato di parte civile, Vittorio Figari, chiese la parola e annunciò il proprio ritiro dal processo: “Dopo amara riflessione con la mia cliente, Maria Luigia Tibet, non presento le mie conclusioni, rinuncio alla parte civile”. Come in una valanga dalle proporzioni sempre più catastrofiche, subito dopo arrivò il terzo colpo di scena, con anche il pubblico ministero Altieri che rinunciò alle proprie conclusioni: “Se dovessi svolgere la requisitoria, se dovessi concludere ribadirei la mia convinzione sulla colpevolezza dell’imputato per l’omicidio della moglie, ma non concludo e insisto per la tesi subordinata della perizia psichiatrica”. Probabilmente mai era accaduto che un rappresentante dell’accusa non pronunciasse la propria requisitoria, evitando così di esercitare un’azione penale cui invece sarebbe stato obbligato. “I nostri nemici fuggono. Queste sono le conseguenze di un processo montato su un’impalcatura pretestuosa e miope, anche da parte degli inquirenti fiorentini, che hanno tentato di capovolgere le indagini di 28 anni fa”, tuonò Giuseppe Madia durante la propria arringa, con la quale si chiuse quell’incredibile quarta udienza.
Il giorno dopo, 19 aprile, fu il momento di Aldo Marongiu. Nel suo breve discorso, meno di un’ora, fu particolarmente severo con il rapporto Torrisi, definito “un capolavoro d’insipienza”, e con l’autore, un uomo “compiaciuto dei particolari scabrosi”. Con intelligenza utilizzò i risultati della perizia Fallani volgendoli a favore dell’imputato, poiché il professore non aveva affatto escluso la possibilità di un suicidio, posto in via ipotetica sullo stesso piano di un omicidio: infilandosi la canna del gas in bocca Barbarina Steri sarebbe potuta riuscire a darsi la morte da sola. In più quella stessa perizia aveva collocato l’ora della morte a dopo le 24, in un orario in cui il marito non avrebbe fatto in tempo a portare a termine la complessa operazione. Ma il piccolo grande avvocato sapeva bene che per l’omicidio della moglie ormai nessuno avrebbe più condannato Salvatore Vinci, mentre il vero pericolo erano i sospetti per la vicenda del Mostro, e contro quelli diresse i suoi strali:

Voi giudici e noi avvocati della difesa abbiamo fatto il possibile per evitare che questo processo a Salvatore Vinci diventasse un processo al mostro di Firenze. Ma altri con trucchetti e inghippi vari hanno introdotto in questo dibattimento circostanze estranee alla morte di Barbarina e di fatto si è avuta la sensazione che si volesse addirittura anticipare un processo sommario contro Vinci visto nella prospettiva del maniaco omicida delle coppiette. Ma il grimaldello processuale non ha funzionato anche dando corpo alle ombre non si è riusciti a raggiungere l’obiettivo recondito dell’accusa: dimostrare che Salvatore Vinci ha una capacità a delinquere, è un assassino. Il che avrebbe fatto da trampolino da cui spiccare il salto per arrivare ad altre conclusioni.

Al termine dell’arringa la corte entrò in camera di consiglio, dove, in due ore e mezza, prese la decisione che tutti si aspettavano: “Assolto perché il fatto non sussiste”. Quindi non soltanto niente condanna, che sarebbe stato davvero difficile pretendere vista l'assoluta mancanza di qualsiasi prova in tal senso, ma neppure assoluzione per insufficienza di prove, che avrebbe almeno lasciato la porta aperta a ulteriori possibili sviluppi; per i giudici di Cagliari la povera Barbarina Steri si era uccisa.
Con incredibile prontezza, quello stesso giorno Enrico Altieri presentò richiesta d’appello, che il 16 dicembre successivo la Corte d’Assise respinse in modo irrevocabile, rendendo definitiva l’assoluzione di Salvatore Vinci per la morte della moglie.

Segue

22 commenti:

  1. La mancanza di commenti non significa mancanza di interesse. Siamo tutti con il fiato sospeso, go on...

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    1. Probabilmente andremo al fine settimana, ho dei giorni pesanti sul lavoro. Grazie per lo stimolo, comunque...

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  2. Io non conoscevo proprio questa storia, grazie Antonio!

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    1. Prego. La storia più o meno finisce qui, a parte la coda di Vinci che poi badò bene di cambiare aria, ma non le sorprese...

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  3. Bravissimo, articolo interessante come o forse più del solito. Solo una domanda, per ora: Antonio Vinci era in buoni rapporti col padre? Mi spiego, lei scrive "Pare che fosse stato su sua richiesta, anche se poi, avendone facoltà come congiunto, evitò di deporre".
    Avendo solo 11 mesi ai tempi del suicidio, immagino avrebbe deposto per parlare del padre, per descriverlo, essendo lui il parente più prossimo. È lecito supporre che forse avrebbe voluto testimoniare per astio nei confronti del padre ma che abbia desistito a causa di un'accusa che faceva acqua da tutte le parti? In fondo considerando come Salvatore aveva instaurato un rapporto quasi "domestico" con la Locci quando Antonio era piccolo, non lo avrà reso certo il padre perfetto agli occhi del figlio.
    Considerando poi gli eventi del '68, e qui sia io che lei siamo d'accordo sulla matrice sardista, mi risulta difficile comprendere fino in fondo il rapporto di un figlio col padre accostato a tre morti.

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    1. "Non voglio essere interrogato, sono venuto solo per conoscere la verità". Questo disse in aula Antonio Vinci, come riporta "La Nazione" del 13 aprile 1988. Che cos'altro avrebbe potuto dire davvero non saprei, forse riportare le voci raccolte tra i propri familiari di parte di madre.
      Sui suoi rapporti con il padre abbiamo qualche cenno quà e là nelle cronache giornalistiche, e soprattutto ne trattò Spezi nel suo "Dolci colline di sangue", dove però il sospetto di un accordo tra lui e l'autore non può trascurarsi.
      In definitiva devo dirle che non ne so quasi nulla, però non credo di aver perso granché nel quadro generale della vicenda.

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  4. Neanche io conoscevo nei dettagli questa vicenda, mi unisco ai ringraziamenti, in particolare per la condivisione dei numerosi documenti. Attendo con ansia il seguito...
    Vorrei ricordare che l'ipotesi (a mio avviso assolutamente improponibile) di Spezi partiva proprio dal presupposto che il piccolo "Carlo" avesse assistito all'omicidio della madre.
    Tutto lascia pensare che si trattasse di un suicidio, non mi pare ci siano appigli dal momento che Altieri rinunciò a pronunciare la requisitoria e non riuscì neppure ad appellare la sentenza.
    Mi sembra illuminante la testimonianza resa il 15 gennaio dal proprietario del bar, Amerigo Cadoni: oltre a dichiararsi certo che Vinci fosse rimasto nel suo locale fin oltre le 23:30, ricordava di aver incontrato la povera Steri verso mezzogiorno, e gli era sembrata "molto triste e depressa".
    Non so se Antonio è d'accordo, ma ho l'impressione che la posizione colpevolista di Torrisi e Rotella nei confronti di Salvatore Vinci abbia portato a delle forzature anche nel valutare a posteriori il presunto alibi del '68 (la famosa partita a biliardo). Ma questa è un'altra storia.

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    1. Mi dispiace per la schiera di sinceri appassionati, tra i quali ricordo il buon Fausto Mazzetti, autore di "L'assassino della falce di luna", ma dovranno rinunciare a questo pezzo della storia. Se poi il resto si manterrà comunque in piedi starà alla loro onestà intellettuale stabilirlo.

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  5. curioso che nessun "sardista" abbia mai fatto accenno alla Beretta calibro 22 del Pili, nemmeno Spezi...

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  6. Mi sono avvicinato a questo caso da poco ma in modo approfondito. Intanto complimenti per lo splendido lavoro sui documenti che rischiano col tempo di spaeie. Devo dire che questo articolo è quello che mi mancava per finire il mio puzzle personale. Non sono partito da ipotesi preconfezionate ma dall'omicidio di Vargiu-Vinci e della Malatesta ovviamente collegati al mostro. Poi quel caso di Lucca ed in Calabria del 2005, le prostitute uccise a firenze ed il caso di quella collegata ai Vinci uccisa e bruciata. Il passaggio di pistola, da subito convinto che non fosse possibile, mi serviva qualcuno giovane legato ai Vinci e che avesse avuto un trauma da piccolo. Natalino era troppo piccolo ora con quest'articolo ho trovato il pezzo mancante. Poi vado a vedere e scopro essere la teoria del tanto bistrattato Spezi che secondo me a questo punto aveva nettamente ragione. E nel 2018 un'altra coppia colpita in calabria, si parla di ndrangheta ma anche li un fiume, un fucile (come negli omicidi recenti non collocati) una coppia amoreggiante.

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  7. Buonasera.
    Il passaggio di mano della pistola tramite ritrovamento ci può stare,ma il passaggio di mano del munizionamento?
    Nel 1974 il duplice omicidio viene commesso a Vicchio
    il sospettato se non ricordo male si patentò ne l 1976.

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    1. Non è dimostrato né è dimostrabile alcun passaggio di mano di munizionamento. Legga qui:

      https://quattrocosesulmostro.blogspot.com/2016/02/la-scatola-di-cartucce-1.html

      Un tragitto di 60 km ad andare e 60 km a tornare era fattibile senza alcun problema con un motorino a marce dell'epoca, sia per velocità (andavano sui 70-80) sia per autonomia (serbatoi da 7-10 litri, come minimo 200 km).
      In più la posizione della borsetta dimostra che fu lanciata a lato della strada da un mezzo a due ruote, legga qui in fondo ("La borsetta"):

      https://quattrocosesulmostro.blogspot.com/2016/10/la-dinamica-di-borgo_10.html

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  8. “Si limiti ai dati, colonnello, non dia giudizi”; c'è da chiedersi come sarebbero andati certi processi se i giudici avessero sempre mostrato questo rigore encomiabile.
    Il divertente episodio è stato raccontato da Marongiu anche in un'intervista televisiva.

    https://youtu.be/uzmLlXAon5U

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    1. Video molto interessante, grazie della segnalazione. Tra l'altro c'è un'immagine di Vinci accostato alla gabbia, dalla quale si vede bene la sua estrema bassezza. Una volta di più mi chiedo come si possa averlo ritenuto il Mostro. A Giogoli per guardare dalla striscia trasparente dei due finestrini opachi doveva alzarsi in punta di piedi. Non parliamo poi dell'accoltellamento alle spalle del ragazzo di Scopeti, che era 10 cm più alto di lui.

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    2. Prego 😉
      Come sai meglio di me' in questa vicenda la logica ed i dati di fatto più incontestabili sono andati spesso a farsi benedire.
      Pure la questione dell'altezza è uno degli aspetti più farseschi della vicenda, divertenti le osservazioni del vecchio volpone Marazzita (dal minuto 1:34:00)

      https://youtu.be/E2e68-Q3xYE

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    3. Vero. In effetti i finestrini opachi di Giogoli escludono sia Vinci che Pacciani, non ci sono cristi. Se poi ci mettiamo le impronte di ginocchia sulla Panda di Vicchio siamo a posto. Su Pacciani ormai è come sparare sul pianista, su Vinci invece i fan sono agguerritissimi. Un giorno mi deciderò a completare il mio lavoro dimostrando, per i non schierati, quanto difficile sia che Salvatore Vinci potesse essere stato il Mostro, al di là della bassezza che è soltanto una delle motivazioni.

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    4. Hai ragione, in effetti i vinciani apparivano molto agguerriti quando bazzicavo sui gruppi Facebook.
      Pure un approfondimento sul mitico quadro però non sarebbe male, secondo me, ad ennesima dimostrazione del livello ahinoi inadeguato delle indagini.
      Al di là dei soliti eccessi da querela rimane molto interessante la disamina di Sgarbi, il rapporto fra arte e violenza è molto interessante, al di là del processo farsa a Pacciani

      https://youtu.be/Jweug8cpStI

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  9. Antonio ma omicidi a parte, secondo te è possibile che Natalino sia effettivamente figlio di Salvatore? Sai che per molti sardisti questo è un punto importante, in quanto, secondo alcuni, lui avrebbe risparmiato il bambino proprio perché era suo figlio. Io non ci credo però effettivamente se guardiamo le loro foto da adulti si somigliano parecchio... In più la data di nascita di Natalino corrisponde al periodo in cui Salvatore andava con la Locci.

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