domenica 17 febbraio 2019

Omicidio o suicidio? (2)

Segue dalla prima parte

Quasi sei anni fa – i file sono datati 25 agosto 2013 – iniziò a circolare in rete la trascrizione PDF quasi completa dei due rapporti investigativi del colonnello Nunziato Torrisi, summa delle indagini condotte su Salvatore Vinci negli anni 1984-86. Da quel momento schiere di appassionati si lasciarono rapire dalla vena iper colpevolista dell’autore, con il conseguente ampliamento della platea di chi identificava il Mostro nell’intrigante fantasista del sesso a 360 gradi che il militare aveva descritto. Si ricordano dei “Quaderni di approfondimento”, circolati sul mai troppo rimpianto forum di Ale, tanto pieni di entusiasmo quanto ostici da leggere. Sia in questi, sia nelle discussioni in rete, la clamorosa assoluzione di Vinci per la morte della moglie veniva considerata nient’altro che un piccolo neo del quadro generale da respingere senza troppi rimorsi.
L’improbabile ipotesi di Torrisi sul presunto omicidio di Barbarina Steri come origine della futura attività di serial killer di Salvatore Vinci è oggi più viva che mai. In chi scrive la tentazione di confutare questa ennesima “leggenda” è sempre stata forte, ma il rischio di trovarsi invischiato in infinite e sterili polemiche dovute a interpretazioni critiche – e quindi soggette a contestazione – degli schieratissimi rapporti Torrisi, ancora più forte. Sul processo del 1988, che nella loro parte riguardante l’omicidio della Steri quei rapporti aveva respinto, c’erano soltanto le cronache giornalistiche, dalle quali appariva evidente la pessima figura rimediata dal colonnello dei carabinieri in aula, ma che comunque costituivano materiale insufficiente. Serviva nuova documentazione.
Una visita dello scorso anno nell’archivio dell’avvocato Vieri Adriani ha procurato diversi verbali delle testimonianze raccolte nel 1960, e soprattutto il prezioso rapporto giudiziario dei carabinieri. In più, nella medesima occasione, sono stati rinvenuti il mandato di cattura del 1986 e il successivo rinvio a giudizio. Mancava però la sentenza, unico documento dal quale si sarebbe potuto capire quali erano stati i ragionamenti dei giudici nell’escludere l’omicidio, che quindi si è deciso di richiedere al tribunale di Cagliari. Le sentenze sono atti pubblici, e in linea teorica è sempre possibile ottenerne copia dagli appositi uffici, ai quali bisogna inoltrare una richiesta motivata, che però non è detto venga soddisfatta, sia per ragioni pratiche, tipo documenti che non si trovano o insufficienza di risorse umane del tribunale, sia per insindacabili ragioni di opportunità (non a caso è il presidente che deve dare l’autorizzazione finale). Lo scrivente, dopo alcune telefonate esplorative, il 19 novembre dello scorso anno tale richiesta l’ha inoltrata via email. E finalmente il 23 gennaio il PDF della sentenza è arrivato. Un grazie doveroso quindi alla gentilezza della dirigente preposta all’archivio, la dottoressa Luisa Porra, e soprattutto al lavoro della sua collaboratrice, la signora Efisietta Orrù. Il prezioso documento è scaricabile qui.
In questa seconda parte di articolo utilizzeremo sia le informazioni sia i ragionamenti contenuti in sentenza per dimostrare che la decisione dei giudici di assolvere Salvatore Vinci per il presunto omicidio della moglie fu ben motivata, con la conseguenza che lo storico deve considerare l’individuo innocente per quel delitto – che poi delitto non fu –, indipendentemente dagli eventi successivi.

Le risultanze medico-legali. Attraverso quali elementi la morte di Barbarina Steri poteva essere attribuita a un omicidio e non a un suicidio? Abbiamo già visto che i carabinieri intervenuti nelle ore successive al decesso non avevano rilevato macroscopici segni di violenza sul corpo, potendo così ipotizzare nel loro rapporto giudiziario che la donna si fosse tolta la vita lasciandosi soffocare dal gas. Lasciarono però la porta aperta alla possibilità di una differente valutazione sulla base del parere di chi aveva effettuato l’autopsia. Tale parere fu rilasciato in apposita perizia dal prof. Raffaele Camba (deceduto alla riapertura del caso), che la sentenza così riassume:

Dava atto il medico legale nella descrizione esterna del cadavere che lo stesso presentava rigidità in tutti i distretti di elezione, con macchie ipostatiche piuttosto abbondanti, di colore rosso bluastro, alle regioni declivi del dorso.
All’attenta disamina dei distretti corporei il perito rilevava piccole escoriazioni, a tipo di unghiatura, con concavità rivolta verso il labbro superiore, situate sullo zigomo destro. Nella regione mastoidea destra una piccola soffusione da pressione, foggiata a virgola. Null’altro di rilevante osservava il perito.
Nella relazione peritale si affermava che la morte era stata determinata da “sincope respiratoria” conseguente ad inalazione di gas liquido per azione suicidaria.
A tale conclusione il perito giungeva sulla base del dato anatomo-istologico che evidenziava elementi caratteristici della morte asfittica anossiemica senza alterazioni tossiche particolari e di dati storici desunti dagli atti e da un riferito accertamento di P.G. circa l’acquisto della bombola di gas effettuato da pochi giorni, con la conseguenza appunto che la bombola stessa dovesse ritenersi al momento del fatto praticamente colma.
In particolare il perito, rammentato che la miscela di gas propano e butano, utilizzata per le bombole di gas liquido in commercio, non è tossica ma produce in ambiente chiuso una progressiva sostituzione di ossigeno presente nell’aria con il gas stesso e che ciò comporta dapprima effetti narcotici e poi anossemia, riteneva di potere spiegare i graffi al volto della Steri, la lesività riscontrata in regione mastoidea destra e la presenza di frammenti di epidermide rilevati sotto la cavità ungueale di due dita della mano sinistra della donna con l’irrequietezza motoria di costei, allorché s’era manifestato il primo effetto della marcata presenza nell’ambiente del gas, ed agli stessi fenomeni motori disordinati riportava anche il presunto tentativo della donna di raggiungere, chiavi in mano, la porta della stanza. Tentativo non riuscito per l’instaurarsi di fenomeni di atassia, o, comunque, per perdita di coscienza o per caduta al suolo.

Gli inquirenti fiorentini fecero esaminare la perizia Camba e tutti gli atti a essa connessi da un loro perito di fiducia, Maurizio Fallani, il cui parere non si discostò poi molto da quello del suo collega di allora. Anche per Fallani, infatti, la causa della morte doveva identificarsi nell’asfissia dovuta a inalazione di gas, ma non respirato attraverso l’ambiente – data la bassa concentrazione che esso avrebbe potuto raggiungere, calcolati i volumi e le quantità in gioco – ma inalato direttamente tramite la canna della bombola introdotta in bocca. Per Fallani, una simile meccanica risultava compatibile sia con un suicidio sia con un omicidio, ritenendo quest’ultimo maggiormente probabile. Il motivo stava nella presenza delle “unghiature” riscontrate sul volto, certamente prodottesi durante il soffocamento – poiché chi aveva vista la donna in precedenza non le aveva notate, sia i genitori nel pomeriggio, sia il vicino Raimondo Steri dove era andata a scaldare il latte per il bambino e a consumare un piatto di minestra quella stessa sera – e attribuite all’azione violenta di chi aveva tenuto in mano la canna.
Cominciamo col notare un fatto importante: in base ai dati rilevati dalla documentazione autoptica e come già aveva fatto all’epoca il suo collega Camba, anche Maurizio Fallani escluse modalità della morte differenti da quella dell’inalazione di gas, liberando in questo modo il campo dalle illazioni di Torrisi su una possibile asfissia meccanica causata dall’azione violenta del marito (“[…] è d'obbligo ipotizzare che le escoriazioni al volto siano state prodotte dalla stessa donna nel vano tentativo di liberarsi da una mano che le tappa la bocca ed il naso, mentre l'ematoma al collo può verosimilmente essere stato prodotto dallo stesso aggressore durante l'azione di pressione al volto e di immobilizzazione della vittima”).
Dalla sentenza:

Ciò significa l’esclusione di un meccanismo asfittico differente da quello del soffocamento o dello strozzamento (ipotesi formulate dal P.M. di Firenze – vol. 11 – nelle sue richieste allorché parla di “compromissione violenta delle prime vie respiratorie in modo da impedire la respirazione”) e non già sulla scorta dei dati storici (il rinvenimento della bombola di gas) tenuti presenti dal primo perito, ma sulla base dell’osservazione medico-legale e delle risultanze autoptiche. Infatti l’asfissia da strozzamento lascia dei segni caratteristici nelle regioni interessate dall’azione facilmente riscontrabili in sede autoptica (quali emorragie dei fasci muscolari del collo, nella tiroide, nelle ghiandole sottomascellari, nel laringe e talvolta fratture della cartilagine tiroide) ed allo stesso esame esterno del cadavere, segni che non possono in alcun modo essere identificati nella “piccola” soffusione da pressione, foggiata a virgola, rilevata in regione mastoidea destra sul corpo della Steri. Se così fosse stato il perito avrebbe preso in considerazione una tale ipotesi (uno dei quesiti postigli era quello di accertare se la morte fosse dovuta ad omicidio) ed anche il prof. Fallani, che ha svolto un esame critico della prima perizia, non avrebbe mancato di sottolineare una tale eventualità che invece non è stata adombrata. Né pare ragionevole, alla stregua sempre di dati medico-legali, ipotizzare una asfissia da soffocamento (c.d. soffocazione esterna) giacché tale azione omicida, secondo i più diffusi insegnamenti medico-legali nei confronti di vittima adulta e valida non dà quasi possibilità pratica di attuazione a meno che la vittima stessa non sia prima stata stordita o legata, in altri termini salvo il caso in cui non vi sia stata possibilità di difesa. Ed allorché tale possibilità vi sia stata, non mancano mai vistosi segni di colluttazione sulla vittima e sull’autore dell’azione criminale, come si vedrà del tutto assenti in misura significativa nel fatto in esame.

Nell’ambito di una obbligata causa di morte per inalazione di gas, Fallani cercò di soddisfare come meglio poteva le esigenze dei propri committenti, escludendo la possibilità che la Steri fosse deceduta per aver respirato l’ambiente saturo e ipotizzando invece che le fosse stata infilata a forza la canna della bombola in bocca. È evidente, infatti, che soltanto se la poveretta fosse stata prima stordita oppure colta in un sonno profondo sarebbe stato possibile ucciderla con la semplice diffusione di gas nella stanza. Ma entrambe le eventualità erano da escludersi, poiché tangibili segni di violenza sul corpo non ce n’erano, e i tempi ristretti disponibili al marito per l’azione – dalle 21:30 alle 22:30 – rendevano impossibile immaginare la donna che si era già addormentata in modo talmente profondo da non svegliarsi durante le necessarie attività di preparazione dell’omicidio.

Ciò su cui pare incentrata la perizia in questione è l’esclusione della possibilità che la morte sia conseguita a saturazione col gas liquido dell’ambiente ove si trovava la Steri, sulla scorta di calcoli che la Corte ritiene validi. Per il resto, da un canto, il perito afferma di convenire con il prof. Camba sulla causa della morte identificata in una sindrome anossica a rapida evoluzione, dall’altro sostiene che “è possibile che la morte sia stata dovuta alla inalazione del GPL direttamente dal tubo erogatore e che in tal caso un simile meccanismo avrebbe potuto essere realizzato sia dalla donna stessa sia da terzi restando tale ultima ipotesi più plausibile per la presenza di segni di unghiatura”. Quanto a questi ultimi, sottolineandosi come l’ipotesi di autoproduzione da parte della Steri non potesse ritenersi confermata dalla riscontrata presenza di lembetti di pelle sotto il letto ungueale della mano sinistra della donna giacché non erano state eseguite le ricerche per dimostrare la provenienza umana dei lembi cutanei ed il gruppo di appartenenza.

Non sono noti i calcoli di Fallani sulla valutazione della percentuale di gas che poteva aver impregnato l’aria della stanza – secondo lui non sufficiente a uccidere la poveretta –, in ogni caso è chiaro dove loro tramite il perito voleva arrivare: al collegamento tra l’ipotesi di introduzione forzata della canna in bocca e i segni di unghiatura sul volto della vittima, ipotizzando quindi un tentativo della stessa di resistere all’azione violenta del marito. Secondo Camba era stata invece la stessa donna a graffiarsi, per un fenomeno di irrequietezza motoria conseguente ai primi sintomi della mancanza d’aria. E francamente tale spiegazione è di gran lunga la più logica delle due.
Le unghiature erano sullo zigomo destro, con concavità rivolta verso il labbro superiore, quindi perfettamente compatibili con l’azione della mano sinistra della donna che si era graffiata facendola scorrere dall’alto verso il basso; non a caso, sotto le unghie dell’indice e del medio proprio della mano sinistra erano stati trovati frammenti di epidermide. Vero è che all’epoca non erano stati fatti esami per controllare, per quanto possibile attraverso il gruppo sanguigno, l’appartenenza di quei frammenti alla pelle della vittima, ma sembra davvero difficile che così non fosse stato. Leggiamo la sentenza:

Sicuramente, appare ben strano, se si parte dalla ipotesi accusatoria che il Vinci sia il solo autore del fatto, che, se la donna si fosse difesa sino al punto di graffiarlo, asportandogli frammenti di epidermide, su costui, poi, non siano state riscontrate lesività conseguenti a una tale azione. Si era d’inverno, di notte, in una casa fredda, il Vinci ragionevolmente doveva avere scoperte solo le mani ed il volto ed i Carabinieri, che il sospetto di reato avevano formulato, tanto da richiedergli un alibi e da verificarlo, se avessero riscontrato segni di unghiatura sul viso o sulle mani del Vinci ne avrebbero sicuramente dato atto.

Pensiamo poi a che cosa avrebbe comportato per l’aggressore tenere la donna ferma con la canna in bocca fino al momento in cui avrebbe perso le forze, con una mano impegnata a tenere la canna e l’altra a bloccare la testa. Anche nell’ipotesi di una posizione a cavalcioni sul corpo la lotta sarebbe stata comunque strenua, e i segni sul corpo di entrambi consistenti. Questo ritennero anche i giudici.

Altrettanto strana appare poi un’ipotesi omicida in cui l’azione venga realizzata utilizzando una bombola di gas ed introducendo violentemente il tubo erogatore nella bocca della vittima. Ciò per le difficoltà che un’azione del genere avrebbe comportato, per le reazioni della vittima che avrebbero dovuto determinare consistenti segni di una lotta nell’ambiente e lesioni da difesa (non certo solo due piccoli frammenti di epidermide sotto l’unghia del dito indice e del medio della mano sinistra e le piccole lesività riscontrate).

Infine, anche se la sentenza non ne fa cenno, bisogna considerare la presenza dei vicini di casa. Nell’appartamento attiguo viveva Raimondo Steri. A dividere le sue stanze dalla camera in cui morì la povera Barbarina c’era una porta di legno, non certo a tenuta acustica, come si desume dalla relativa descrizione riportata nel verbale di sopralluogo:

Nella parete di destra, per chi accede alla camera da letto, si nota un'apertura di porta larga m.0,65 x 2; la stessa si affonda nel muro ed a circa 60 cm. si trova una porta in legno fissata al telaio con chiodo ed un chiavistello in ferro dalla parte di altro vano di proprietà di Steri Raimondo. Detto spazio è adibito ad armadio che attraverso due sostegni in legno conservano valigie, scarpe cassette ed oggetti vari. Per non essere posto in vista tale materiale, vi è stata applicata una tenda in nylon; la porta predetta presenta ampie fessure da cui potrebbero facilmente disperdersi eventuali gas.

L’uomo dichiarò che la sua camera da letto era dall’altro lato dello stabile, separata dall’appartamento di Vinci da quattro vani, quindi forse fuori portata acustica, però il presunto delitto sarebbe avvenuto tra le 21:30 e le 22:30, appena dopo che la Steri aveva consumato in casa sua un piatto di minestra, quindi mentre di sicuro era ancora sveglio. L’altro vicino di cui si ha notizia, Francesco Usula, alle 20 aveva notato Salvatore Vinci uscire di casa, quindi abitava anche lui nei pressi (tra l’altro l’indirizzo suo e di Raimondo Steri, e anche di Vinci, era il medesimo: via Iglesias 91). Ora, pare davvero improbabile che, nel silenzio della sera, né l’uno né l’altro avessero udito i rumori della lotta ipotizzata dall’accusa.
Leggiamo ancora la sentenza:

A tal punto, escluso che dalla perizia Fallani sia lecito inferire con un ragionevole grado di certezza l’esistenza di un fatto omicida, ed escluso, dunque, che la c.d. prova della “generica” sia desumibile dai dati medico-legali (chiaramente i primi da esaminarsi in un omicidio), occorrerà procedere all’esame degli altri elementi di fatto sulla scorta dei quali è stata formulata la contestazione.

I giudici quindi, dopo aver escluso che la perizia Fallani avesse fatto emergere la sussistenza di prove medico-legali di un omicidio, passarono a valutare tutti gli altri elementi che l’accusa aveva addotto a sostegno della propria tesi, nella quale, accanto al supposto ma non dimostrato omicidio, si collocavano indizi di una messa in scena che voleva simulare un suicidio.

Comportamento di Vinci. Abbiamo visto che Torrisi considerò non plausibile la reazione dell’imputato di fronte alla porta chiusa della camera da letto, dalla quale filtrava la luce, e al silenzio della moglie al suo bussare e al suo richiamo. Secondo il racconto da lui stesso reso ai carabinieri, Vinci sarebbe corso a chiamare cognato e suocero, lasciando che fosse quest’ultimo ad aprire la porta con uno spintone, adducendo come motivo il sospetto della presenza all’interno dell’amante Antonio Pili e del timore di essere da lui aggredito.
La sentenza non si addentra né in una valutazione critica della spiegazione di Vinci, né nella ricerca di eventuali altre motivazioni da lui taciute. Dopo aver fatto notare che anche il padre della donna, di fronte alla porta chiusa, aveva preferito chiamare qualcuno – il vicino di casa Francesco Usula –, e aver respinto ogni sospetto di possibile complicità dell’uomo nel presunto delitto, i giudici scrissero:

Se ne deve concludere che la massima di esperienza sulla scorta della quale si vorrebbe risalire al fatto ignoto dal comportamento dell’imputato è talmente poco codificata, almeno sul piano della valutazione probatoria, da costituire più un’intuizione che un veicolo di interpretazione rigoroso del dato noto e di dimostrazione di quello ignoto.

Proviamo in questa sede a cercare quella spiegazione alla quale i giudici rinunciarono. Abbiamo visto che poco più di un mese prima Barbarina Steri era stata sorpresa in compagnia di Antonio Pili. Il ragazzo si era scontrato più volte con Vinci, tantoché, a suo dire per difendersi, si era procurato illegalmente una pistola, motivo per il quale era stato poi arrestato e condannato a sei mesi di carcere (Addendum: in realtà venne arrestato per rapina, il 18 novembre 1960; la pistola l'aveva comprata il 10 ottobre 1959). Si aggiunga che la dimora di Vinci era composta di due sole stanze, con l’unica fonte di calore costituita dal caminetto in cucina, quindi in inverno la porta della camera doveva essere di norma sempre aperta. Vinci la trovò chiusa con la luce che filtrava e la moglie che non rispondeva ai suoi richiami, per una situazione ragionevolmente sospetta, considerando il recente episodio di infedeltà. Appare anche plausibile l’asserita paura per uno scontro con il rivale, vista la disponibilità che questi aveva di una pistola.
Ma probabilmente il vero motivo per cui Vinci era andato a chiamare il fratello e soprattutto il padre della moglie era un altro. Si legge nel verbale d’interrogatorio di quest’ultimo (19 gennaio 1960, vedi):

Sono padre di Steri Barbarina, già moglie di Vinci Salvatore. Ricordo che recentemente sono intervenuto per sedare i discrezi sorti fra mia figlia e mio genero poiché, la condotta che questi due mantenevano lasciava alquanto a desiderare in considerazione, che gli stessi, non andavano d'accordo. Infatti recentemente mio genero Vinci mi informava di essere ricorso verso la locale caserma per denunciare mia figlia siccome era stata trovata col presunto amante certo Pili e pertanto, ho cercato di far luce sul fatto in modo da riunirli e pacificarli, questa volta, definitivamente.
Ho appreso dalla povera mia figlia che costei soffriva la fame ed era poco benvoluta da parte del marito, però per dire la verità che io non andavo d'accordo con quest'ultimo e pertanto non ero troppo a conoscenza di quello che giornalmente accadeva nella loro abitazione.

Una volta tolto di mezzo l’assurdo sospetto di Torrisi che Francesco Steri avesse partecipato al presunto delitto della figlia – con quali motivazioni? per intransigenza e condanna del tradimento? siamo davvero alla faziosità più gretta – si deve pensare che l’uomo invece ne avesse preso le parti negli scontri con il marito. Quindi dietro l’immediata corsa di Vinci che era andato a chiamarlo – per un percorso di circa 600 metri, con l’uomo che giunse trafelato – è ragionevole intravederne la volontà di dimostrare al suocero le proprie ragioni, facendogli cogliere la figlia mentre ancora una volta s’intratteneva con l’amante, dopo quanto era già accaduto in precedenza. Lo Steri affermò nella propria testimonianza di essere stato chiamato “babbo”, termine evidentemente non usuale, se meritevole di tale precisazione, la qual cosa è indicativa di quale fosse in quel momento l’obiettivo di Salvatore Vinci: portare il suocero dalla propria parte.
Infine l’odore di gas, che avrebbe dovuto filtrare attraverso la porta non a chiusura ermetica, e che Vinci avrebbe dovuto avvertire. In effetti lo avvertì Francesco Steri, però era probabilmente trascorsa un’altra mezz’ora, e in ogni caso è possibile che Vinci fosse stato talmente agitato dalla situazione da non farci caso. In fin dei conti, con le cucine a bombola di una volta, piccole fughe di gas e relativi odori in cucina non erano affatto inusuali.

La scena del presunto crimine. Si legge nel rapporto Torrisi:

La donna, secondo la versione concorde dei tre, stringe in mano la chiave della porta della stanza, come a farle indicare che essa, prima di mettere in atto l'insano gesto, ha avuto cura di chiudere la serratura della porta stessa.
Tale operazione avrebbe potuto essere considerata credibile qualora la porta fosse stata chiusa dall'interno, senza possibilità di entrare se non forzando la serratura o abbattendo la porta medesima. Invece, come già evidenziato, i due battenti della porta che avrebbero dovuto assicurarla al pavimento ed al telaio sono disinseriti ed il chiavistello, con due mandate, è avanzato nella serratura. Alla luce di queste considerazioni, qualsiasi persona, evidentemente interessata, avrebbe potuto dare due mandate alla serratura, facendo avanzare a vuoto il chiavistello, lasciare la chiave nella mano della donna, richiudersi la porta dietro, priva dei saliscendi, accostando le due ante in modo da far entrare il chiavistello nell'apposito alloggiamento, e poi con una leggera trazione riportare la porta nella posizione di chiusura.

Per Torrisi, quindi, il mancato inserimento dei fermi che assicuravano uno dei due battenti della porta al pavimento sarebbe indicativo di una messa in scena, poiché la Steri, per impedire l’accesso ad altri, vi avrebbe invece provveduto. Ma, se è senz’altro vero che la manovra di chiusura dall’esterno descritta dal militare sarebbe stata possibile soltanto senza il battente bloccato, è anche vero che il bloccarlo non pare dovesse essere per forza nelle preoccupazioni della Steri. Questo il parere del tutto condivisibile dei giudici:

La chiusura della porta da parte della Steri intenzionata al suicidio non ha infatti necessariamente il significato di impedire ad altri l’ingresso nella stanza, ma può assai più ragionevolmente, essere stata dettata unicamente dall’intento di rendere assai ridotta l’emissione di gas nella adiacente camera ove aveva riposto il figlioletto. Tale scopo, infatti, non richiedeva, anche, l’inserimento dei passanti negli appositi alloggiamenti.

Come si è già detto, l’unica fonte di calore del piccolo appartamento era il camino posto in cucina, quindi in inverno la porta di accesso alla camera doveva essere sempre spalancata, compreso il battente in questione. Quando la povera donna aveva chiuso la porta, a tutto stava pensando fuorché a mettere in opera i fermi del battente.
Per l’accusa, tornavano poco anche la posizione del tubo erogatore del gas, trovato sul cuscino, la Steri bocconi sul pavimento con la testa rivolta verso l’uscita e infine la chiave o stretta in una mano o raccolta da terra nelle vicinanze, tutti elementi ritenuti parte di una studiata messa in scena. Osservarono però i giudici:

Altrettanto poco dimostrativo è il fatto che sia stato trovato il tubo erogatore del gas poggiato sul cuscino. Non si vede per quale ragione un simile dato debba essere incompatibile o solo poco ragionevolmente compatibile con l’ipotesi del suicidio. Nessuna massima d’esperienza può dirci che quel tubo poteva essere poggiato in quel modo solo da chi avesse realizzato una messa in scena del suicidio. Neanche se si accetti la prospettazione accusatoria del prof. Camba di una fase di agitazione motoria nella asfissia prodotta da inalazione di GPL, può dirsi significativamente certo che quella agitazione dovesse comportare la caduta dal cuscino del tubo erogatore. A ciò si aggiunga come non sia oggi possibile accertarsi della esatta lunghezza di tale tubo (che il Pretore descrisse genericamente come corto), della consistenza del materiale con cui era realizzato e come tutto ciò renda le inferenze argomentative che si vorrebbero trarre sfornite anche di un minimo possibile riscontro.

Possiamo aggiungere alle argomentazioni dei giudici un elemento da loro non preso in esame: la presenza in cima al tubo di gomma del regolatore di pressione metallico, che con la propria massa rendeva la posizione del tubo stesso molto meno sensibile a possibili urti.
Continua la sentenza:

Non pare ugualmente che possa attribuirsi un significato indiziante al fatto che il cadavere della Steri sia stato rinvenuto bocconi sul pavimento, col capo rivolto verso la porta e con accanto alla mano la chiave della stanza. […] appare quantomeno arbitrario pretendere di sapere quali possano essere, in una persona che ponga in atto il suo intento suicida, le reazioni allorché sta per raggiungerlo: se tenti di alzarsi dal letto, se voglia raggiungere la porta, se abbia perdita di coscienza in condizioni che la portino a sollevarsi e poi a cadere a terra. E quanto alla chiave che il Pretore nel verbale di sopralluogo attestò trovarsi accanto al cadavere, deve ritenersi vicino alla mano, come affermato dal padre di costei che ebbe a toccarle il polso per vedere se fosse morta allorché entrò nella stanza, e che Vinci Salvatore disse invece essere in quella circostanza scivolata dalla mano della moglie e Steri Salvatore essersi trovata sotto la mano della sorella, ancora una volta il dato, di per sé incerto e dunque di scarsa utilizzabilità nella prova indiziaria, è privo di capacità dimostrativa del fatto ignoto e non può in via univoca dare prova della messa in scena del suicidio. La donna può benissimo aver avuto con sé la chiave poggiata, magari, sul comodino ed averla presa con l’intento di salvarsi; può essere la chiave caduta dalla toppa della porta allorché Steri Francesco con uno spintone l’aprì andando a finire accanto alla mano della figlia riversa al suolo. Non necessariamente può dirsi in altri termini che colà l’abbia riposta il Vinci dopo avere ucciso la moglie, prima di tirare dietro di sé le ante della porta avendo cura che il passante della serratura cui aveva fatto fare due mandate si inserisse nel suo alloggiamento.

Secondo chi scrive, il colpo di grazia all’ipotesi della messa in scena di un suicidio viene da questa ovvia considerazione dei giudici:

Certo è che appare su un piano di verosimiglianza scarsamente plausibile che un omicida che insceni un suicidio per asfissia da gas faccia ritrovare il cadavere non accanto al tubo erogatore, riverso sul letto, ma per terra rivolto verso l’uscita.

La bombola. Grande importanza venne assegnata dall’accusa agli indizi che avrebbero fatto ritenere vuota la bombola di gas presente la sera del fatto in casa Vinci, in particolare le dichiarazioni dello stesso Vinci e il fatto che la Steri fosse andata due volte dal vicino di casa a scaldare il latte per il bambino. Ecco le conseguenti deduzioni di Torrisi:

È necessario, quindi, chiedersi da dove possa provenire la bombola "Liquigas" rinvenuta nella camera da letto, circostanza che non risulta sia stata verificata all'epoca presso i distributori del paese. Quindi, non si ritiene possibile che dopo le 21:30, questa è pressappoco l'ora di rientro in casa della donna proveniente dall'abitazione dello STERI Raimondo, questa abbia potuto procurarsi un'altra bombola piena, dal momento che in quell'orario tutti gli esercizi pubblici erano chiusi. […]
Alla stregua delle risultanze acquisite e delle considerazioni su espresse si può affermare senza pericolo di essere smentiti, che la bombola rinvenuta nella camera da letto non può essere che quella asportata dalla cucina e la presenza del tubo di gomma e del regolatore non sono dovuti a mera casualità, ma fanno parte di un ben preciso piano criminoso che prevede la collocazione del tubo con il regolatore proprio sul guanciale del letto, per rafforzare la credibilità del suicidio della donna.

La logica del militare è ancora una volta difficile da comprendere, se non alla luce della sua infinita convinzione della colpevolezza di Salvatore Vinci. Si può innanzitutto osservare che sarebbe stato davvero stupido da parte dell’individuo affermare di fronte ai carabinieri che, per quanto ne sapeva lui, quando era uscito di casa la bombola di gas doveva essere vuota, se proprio suo tramite aveva organizzato l’omicidio. Poi, se davvero la bombola fosse stata vuota, in che modo Vinci avrebbe potuto procurarsene una piena?
Nell’appartamento venne rinvenuta una sola bombola, quella in camera da letto, evidentemente la medesima che prima stava in cucina; e vuota non era, visto che aveva saturato la stanza di gas e ancora ne stava erogando al momento dell’apertura della porta. Se poche ore prima quella bombola fosse stata vuota, quando Vinci, attorno alle 20 (testimonianza Usula), era uscito di casa sarebbe dovuto andare a procurarsene una piena portandosi dietro quella vuota, che però né Usula né altri avevano visto. In effetti Barbarina Steri, secondo le testimonianze rilasciate dal fratello Salvatore nel 1985, aveva chiesto al marito di passare a ordinare una bombola di gas; però il negozio era chiuso, come pare logico vista l’ora.
In realtà quella bombola non era affatto vuota. Anche se – come Torrisi scrive nel proprio rapporto – la relativa documentazione era assente, le indagini del tempo avevano stabilito che l’ultima fornitura era avvenuta pochi giorni prima, la qual cosa era stata tenuta presente e anche citata da Raffaele Camba a conferma della ipotizzata causa di morte da inalazione di gas attraverso l’aria satura della stanza. Si può a ragion veduta immaginare che Barbarina Steri, covando già propositi suicidi, l’avesse smontata e spostata dalla sua collocazione naturale fin dalla mattina, non trovando subito l’occasione o il coraggio di usarla, e quindi nascondendola da qualche parte, probabilmente sotto il letto. Forse non a caso a pranzo aveva mangiato con il marito a casa dei propri genitori, dove di bombola vuota si era parlato, come da testimonianza delle sorelle. Quando poi Salvatore Steri il pomeriggio era entrato in casa Vinci aveva notato la mancanza della bombola in cucina, attribuita dalla sorella al fatto che il fornitore era passato a prendere quella vuota senza portarne una piena, il che appare poco comprensibile. L’aver chiesto al marito, a orario ormai troppo tardo, di recarsi da detto fornitore a richiederla può spiegarsi con la volontà di non destare sospetti riguardo ai propri propositi.

Stefano Mele. È quasi inutile specificare che i giudici non dettero alcun valore alle accuse di Stefano Mele, la cui deposizione le rese ancor più nebulose di quanto già non fossero state nel 1968 e dopo. La sentenza così le riassume e le liquida:

Mele Stefano, autore del duplice omicidio della moglie Locci e di Lo Bianco Antonino, allorché venne tratto in arresto per tale delitto, oltre ad accusare il Vinci Salvatore di averlo istigato a commetterlo, consegnandogli anche l’arma usata in quella circostanza, affermò altresì d’aver ricevuto da costui la confidenza d’avere ucciso la moglie, lasciando di proposito la bombola del gas aperta, riuscendo a salvare il figlio. Il Mele stesso modificò il contenuto di tale confidenza quando venne sentito dal P.M., il giorno successivo, affermando che il Vinci si era limitato a dirgli che aveva lasciato in quella circostanza la bombola del gas aperta, senza precisargli altro, “cosicché potrebbe anche essersi trattato di una disgrazia”.[…]
Il Mele poi, udito il 16 gennaio 1984 dal G.I. di Firenze riaffermò che la moglie del Vinci era morta in Sardegna “con il gas”, ma che con ciò non voleva dire niente contro il Vinci stesso e che in tale sua affermazione non vi era alcuna “allusione”. Venne infine sentito il Mele in modo informale dal Ten. Col. Torrisi il 12.9.1986 e il relativo colloquio venne registrato. Dalla relativa trascrizione risulta che il Mele spontaneamente rinnovò le accuse di correità nel duplice omicidio Locci-Lo Bianco al Vinci Salvatore, affermando poi, per quanto interessa in questa sede, che egli all’epoca di tale duplice omicidio “aveva già scoperto che lui in Sardegna aveva ammazzato la sua signora… con il gas e però salvato il bambino” e “allora lui era già abituato a fare questo, questi omicidi” […]
Al dibattimento il Mele ha dapprima riferito che la moglie del Vinci era morta per una disgrazia, con il gas, ed a specifica contestazione ha precisato  che nella sostanza è una disgrazia anche una morte cagionata da terzi con il gas e che così aveva detto Vinci.
La corte ritiene che le dichiarazioni del Mele posseggano un ben scarso valore in primo luogo per la mancanza di linearità che evidenziano per le ripetute modifiche ed imprecisioni, in secondo luogo perché non rispondenti alle risultanze sulla morte asfittica desumibili dalla perizia Fallani, infine perché provenienti da un soggetto di ben scarsa affidabilità intrinseca.

L’alibi caduto. Abbiamo visto che, dopo il ricevimento di una comunicazione giudiziaria relativa alle indagini per la morte della sorella, Salvatore Steri aveva preso le distanze dal vecchio amico di una volta, dicendosi non più tanto sicuro di averlo sempre tenuto sott’occhio prima di entrare nel bar Cadoni, alle 22:30. Il fatto lasciava aperta una finestra di un’ora per una possibile azione omicidaria di Vinci. In più Steri aveva raccontato di una strana insistenza dell’amico di essere accompagnato a casa in fine di serata, dando in questo modo corpo al sospetto che questi volesse utilizzarlo come testimone della messa in scena del suicidio. Gli inquirenti di Cagliari lo avevano per questo premiato, concedendogli un ruolo di complice inconsapevole, ingannato dalla scaltrezza di Vinci, e quindi prosciogliendolo in istruttoria. Vediamo quello che ne scrissero i giudici:

Non può del pari annettersi un serio valore indiziario alle dichiarazioni rese da Steri Salvatore, coimputato prosciolto in istruttoria, a notevole distanza di tempo dal fatto ed in palese contrasto con quanto asserito pochi giorni dopo lo stesso, in aggiunta interessato a fornirle di un certo contenuto per svalutare quelli che gli inquirenti ritenevano gli elementi a suo carico.
È stato posto in evidenza dal G.I. (pag. 2 mandato di cattura) come lo Steri abbia fatto venire meno l’alibi del Vinci riguardo l’ora della morte della moglie e come, inoltre, abbia reso conto adeguato del perché avesse reso iniziali diverse dichiarazioni col rammentare come fosse stato lo stesso Vinci a raccomandargli di dire di essere stato tutta la sera insieme con lui mentre si recavano dai Carabinieri per essere sentiti in merito alla morte di Barbarina.
Parlare di fallimento di alibi presuppone che si conosca con adeguato grado di certezza l’ora della morte della Steri, ciò che al contrario non è provato.
Valga solo por mente al fatto che il dott. Vacca la fece risalire a circa due ore e mezza prima della sua constatazione del decesso avvenuta alle ore 01,20 del 15 gennaio e dunque intorno alle ore 22,40 del giorno prima. Ora per la quale, sia detto per inciso, il Vinci non gode solo dell’alibi dello Steri ma anche di quello, preciso ed ancorato a specifici ricordi, del teste Cadoni.
Il prof. Camba, a sua volta, afferma che la morte della Steri, sulla scorta delle osservazioni fatte in sede autoptica, doveva risalire all’incirca alle ore 24 del 14 gennaio.
Il prof. Fallani, infine, premesse delle considerazioni critiche sulle valutazioni fatte dal dott. Vacca e dal prof. Camba per non avere costoro tenuto presente alcuni dati quali la temperatura ambientale e dello stesso cadavere, riporta l’ora della morte tra le 24 del 14 gennaio ed il momento del rinvenimento del cadavere. […]
A ciò si aggiunga come lo Steri si sia limitato ad affermare di non aver notato se durante la sosta alla sala biliardi il Vinci si fosse anch’egli trattenuto nel locale e non l’abbia quindi escluso e come, dunque, non già di venir meno dell’alibi si tratti, ma di una mera mancanza di esso per un certo lasso di tempo.

È chiaro che i giudici erano interessati a valutare i possibili indizi di un omicidio, quindi la finestra temporale resasi disponibile dopo le nuove dichiarazioni di Salvatore Steri non li interessò troppo, essendo incerta l’ora della morte, anzi, collocandosi semmai al di fuori nei pareri dei tre professionisti che l’avevano ipotizzata. Chi invece ritiene Vinci con grande probabilità colpevole trova grande giovamento dal cambio di versione di Steri. Però dovrebbe tener conto di queste ulteriori considerazioni dei giudici.

Tali argomenti dovrebbero di per sé già rendere inconferenti le dichiarazioni dello Steri, ma a esse se ne aggiungono altri che le rendono, comunque, prive di credibilità.
In via del tutto generale può già sottolinearsi come essendo stata l’imputazione a carico dello Steri di concorso nell’omicidio formulata proprio riguardo all’affermazione da costui fatta di essere stato tutta la sera col Vinci, non potesse che avere lo Steri un consistente interesse a rendere una dichiarazione che lo “distaccasse” dal Vinci per un certo periodo di tempo. Ciò che sul piano della valutazione probatoria – anche a non voler considerare quanto da dottrina e più recente giurisprudenza sottolineato riguardo alla ridotta efficacia probatoria delle dichiarazioni del coimputato (che infatti non può testimoniare) – non può che avere il significato di scarsa affidabilità delle sue dichiarazioni sul punto. Dato questo ancor più convalidato dal fatto che allorché lo Steri venne sentito come testimone non fece cenno a questa possibile separazione dal Vinci nel corso della sera del 14 gennaio e come una tale affermazione giunga solo allorché nei suoi confronti viene elevata una imputazione. E di tale atteggiamento interessato danno adeguato conto anche le intercettazioni telefoniche. In data 19.11.1985 lo Steri parlando con la sorella Emilia dice “a me mi vogliono arrestare, io cerco di salvarmi… a me non importa nulla”.

Il biglietto d’addio. Abbiamo già visto che Francesco Steri aveva trovato un biglietto autografo della figlia su un comodino, consegnato poi al pretore. La sentenza ne riporta una trascrizione leggermente differente da quella del rapporto giudiziario dell’epoca, riportata nella prima parte dell’articolo:

Avevo un grande cuore ma nell’ansia tutto me svanito ed ecco che non resisto più, tutto mi è insopportabile nel vivere sotto degli occhi oscuri. Ansiosamente penso e ripenso di essere amata ed che invidiata epure nello spasimo pregho al bambino. E buona fortuna.

Anche se contiene delle espressioni non del tutto chiare, lo scritto poteva ben sembrare, e all’epoca sembrò, un addio compatibile con la volontà di uccidersi (“tutto mi è insopportabile nel vivere”), ma l’accusa non la pensava affatto così; nel rinvio a giudizio si sottolinea infatti

l’estrema equivocità del biglietto fatto trovare quale “prova” di suicidio, il cui contenuto (verosimilmente redatto dalla donna per altro motivo e tanto abilmente quanto cinicamente utilizzato e sfruttato dal marito per quanto sopra) non si addice a quello che dovrebbe essere l’ultimo messaggio lasciato da una persona che ha deciso di togliersi la vita.

Per l’accusa, quindi, il biglietto era stato scritto sì dalla donna, ma in altra occasione, e sfruttato poi dal marito per la messa in scena del suicidio. Si tratta però di uno scenario poco plausibile, per giunta contraddetto da alcuni elementi desumibili dalla documentazione rimasta. Sul medesimo comodino dove era stato rinvenuto il foglio c’erano un quaderno e una penna, tanto che i carabinieri avevano scritto nel loro rapporto: “Detto biglietto è stato ricavato da un foglio di quaderno avente la copertina color nero trovato sul piano dello stesso comodino scritto con penna “biro” rinvenuta accanto al quaderno”. Tale quaderno conteneva altri scritti della donna, come si legge nel verbale di sopralluogo: “Un quaderno con fogli scritti contenente diarii e racconti vari avente la copertina di color nero”. Per completare il quadro si aggiunga quanto scritto in sentenza:

È un foglio a righe doppio, scritto su una sola facciata con penna biro ed appare staccato dal centro di un quaderno, non può sapersi se quello rinvenuto sul comodino della camera da letto e se scritto con la penna che ivi si trovava perché tali oggetti furono restituiti dopo l’originaria archiviazione del G.I.

Non si può che essere d’accordo con i giudici sull’impossibilità di poter stabilire con certezza se il foglio fosse stato staccato dal quaderno e scritto con la penna ritrovati sul comodino, quindi poco prima della messa in atto del gesto suicida, ma la logica dice di sì. Del resto questo avevano stabilito i carabinieri, che il foglio, il quaderno e la penna avevano potuto esaminare. Anche il fatto che detto foglio fosse composto delle due pagine centrali di un quaderno contenente altri scritti depone per la sua redazione al momento.
Del resto, che in quel periodo lo stato d’animo di Barbarina Steri potesse essere gravemente depresso appare comprensibile, data l’infelicità del rapporto con il marito e il brutto episodio di poco tempo prima che le era costato, oltre alla vergogna di fronte a tutto il paese, una denuncia per atti osceni. Questa era stata l’impressione ricevuta da Amerigo Cadoni, come risulta dalla sua testimonianza del giorno successivo al tragico fatto: “Ricordo infine che verso le ore 12 dello stesso giorno 14 vidi la Steri Barbarina mentre si recava dalla sua casa a quella dei genitori ed aveva il bambino in braccio. Infatti la donna nella circostanza mi è sembrata molto triste e depressa”.

La lettera dal brefotrofio. L’accusa riteneva di avere in mano una grossa arma con la quale poter dimostrare che Barbarina Steri non aveva alcuna intenzione di uccidersi: una lettera che le offriva l’opportunità di trasferirsi a Cagliari con il proprio bambino. Di tale lettera, allegata agli atti ma non disponibile a chi scrive, così si legge nel rapporto giudiziario del 19 gennaio 1960:

Dai suddetti militari è stata rinvenuta una lettera proveniente da Suor Maria Gabriella – Borfatrofio Cagliari –, datata 24.12.1959, con la quale la Steri Barbarina veniva invitata a recarsi presso detto istituto in qualità di donna di fatica per la somma di L. 120.000 annue ed era attesa colà entro il 15 gennaio 1960.

Dal rapporto Torrisi:

[…] dal comportamento della donna antecedente alla sua morte non si rileva alcuna volontà o proposito suicida, anzi tutto il contrario, in quanto essa manifesta la volontà di separarsi dal marito ed allontanarsi da casa per essere assunta come donna di fatica – portandosi anche il bambino – presso un befatrofio di Cagliari, come si rileva da una lettera rinvenuta in casa, a lei indirizzata, in cui le si comunica che proprio il 15 gennaio, cioè il giorno dopo, essa può presentarsi presso il predetto Istituto, per iniziare il suo rapporto di lavoro.

La lettera viene descritta anche dalla sentenza, con un’importante precisazione: si trattava di una risposta a una richiesta della stessa Steri.

Veniva altresì allegata una lettera datata 24.12.1959 indirizzata alla Steri da tale suor Maria Gabriella del Brefotrofio di Cagliari nella quale in risposta a richiesta precedente della donna si precisavano le condizioni di una retribuita ospitalità per lei e per il bambino e che si concludeva con la frase “quindi l’attendiamo il 15 di gennaio con ansia”.

Ma quella lettera era autentica? Nemmeno un po'. Dalla sentenza:

Che la Steri non avesse motivo per essere depressa e potere giungere ad un gravissimo passo quale quello di porre fine ai suoi giorni è circostanza che non pare così certa come si vorrebbe. Il G.I. richiama a sostegno di tale convincimento il fatto che la donna l’indomani avrebbe dovuto iniziare, in sostanza, una nuova vita, trasferendosi col bambino nel brefotrofio di Cagliari ove avrebbe ricevuto ospitalità retribuita dietro la prestazione di servizi collaborativi. Tale, infatti, è il tenore di una lettera dattiloscritta indirizzata alla Steri trovata sul comodino della sua camera da letto. Ma tale lettera, sulla cui autenticità non vennero né all’epoca del fatto né in istruttoria compiuti accertamenti, riporta – secondo quanto dalla P.G. accertato su incarico della Corte e su richiesta del P.M. – un indirizzo ed un numero telefonico del mittente inesistente, non è firmata ed il dattiloscritto nome del mittente (suor Maria Gabriella, Brefotrofio di Cagliari) non corrisponde a quello di persona che prestasse servizio all’epoca del fatto al Brefotrofio di Cagliari.

Non c’era alcuna suor Maria Gabriella che lavorava nel Brefotrofio di Cagliari all’epoca dei fatti, questo scoprirono gli agenti di polizia incaricati dai giudici. Nella loro tronfia convinzione della colpevolezza di Vinci, gli inquirenti non si erano preoccupati di condurre alcuna verifica; eppure ne avrebbero avuto tutti i motivi. Prosegue la sentenza:

La lettera, inoltre, evidenzia errori di ortografia e grammaticali così macroscopici da fare, comunque, ragionevolmente sospettare che non possa provenire da una suora che non sia neanche in grado di conoscere l’esatta ortografia del termine brefotrofio (berfettroffio è la grafia del testo), di quell’ente cioè da cui dipendeva.
Cercare oggi di scoprire quale origine abbia questa lettera appare pressoché impossibile e per certo può dirsi che chi la fece avere alla Steri (escluso che costei se la sia scritta) dovette avere l’intenzione di farle del male o forse di illuderla, forse di prendersi gioco di lei.

Di sicuro quella lettera apocrifa non era stata scritta da Salvatore Vinci, nota giustamente la sentenza, il quale non avrebbe avuto alcun interesse a squalificare la propria messa in scena di un suicidio dando alla moglie la speranza di una vita nuova.

La lettera ad Antonio Pili. Chi aveva scritto quella lettera che aveva dato false speranze alla poveretta? Probabilmente lei lo sapeva, o lo aveva sospettato, come si desume da un suo scritto del 10 dicembre 1959, esattamente una settimana dopo essere stata sorpresa e fotografata in intima compagnia di Antonio Pili. Si legge in sentenza.

E che taluno, il Pili, fosse sospettato di non avere serie intenzioni nei suoi riguardi, di profittare di lei, che pure l’amava, lo si ricava dal tenore dell’altra lettera di costei allegata agli atti e non di molto precedente il fatto.
La donna scrive di scherzi da lei subiti, del sospetto che il sordomuto (tale Aresti, utilizzato come tramite per i contatti epistolari e gli appuntamenti con l’amante, e che afferma di aver avuto con la Steri un rapporto sessuale a pagamento) fosse d’accordo col Pili, dell’intenzione di sapere la verità.
Una lettera anche questa angosciata che lascia ragionevolmente supporre l’accadimento di fatti offensivi per la donna, dell’intento di taluno di prendersi gioco di lei.
Una possibile origine della lettera apocrifa trovata sul comodino della camera da letto può essere dunque questa.
Ed il tenore di quella scritta da Barbarina e trovata dal padre sul comodino della camera da letto, può ben adattarsi alla vicenda che traspare da quella indirizzata al Pili ed a quanto era accaduto allorché la donna venne col Pili sorpresa durante un rapporto sessuale dal sordomuto e da tale Pilleri armato di una macchina fotografica e che viene descritto in una nota del 20.11.1984 del Col. Torrisi come un individuo che all’epoca del fatto “amava scattare delle fotografie compromettenti e servendosi di queste ricattare le donne per indurle a prostituirsi”.

A questo punto appare ragionevole immaginare che l’equivoco personaggio Gesuino Pilleri si fosse trovato sì non a caso dove la Steri e Pili stavano intrattenendosi, ma non per un accordo con Vinci, bensì per uno con lo stesso Pili, che teneva in pugno la donna innamorata pretendendo da lei non si sa bene che cosa, forse di accontentare anche altri, e forse a pagamento. Cade così in modo clamoroso la figura di Antonio Pili innamorato adolescente accreditata da alcuni libri, in primis Dolci colline di sangue di Spezi. Eppure già nelle cronache giornalistiche del processo erano comparsi giudizi piuttosto severi sul personaggio, definito ad esempio da “L’Unità” del 20 aprile 1988 “amante cinico e spregiudicato”.
Anche se non lo scrissero in modo diretto in sentenza, certamente i giudici ritennero che l’origine della decisione di Barbarina Steri di togliersi la vita fosse da ricercarsi nella delusione seguita alla scoperta della vera natura dell’interesse di Antonio Pili verso di lei. E probabilmente la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata nella falsa lettera del brefotrofio, scritta cinicamente da qualcuno a conoscenza della precedente richiesta della Steri, quindi a lei vicino. Dalla sentenza:

L’essere apocrifa la lettera potrebbe anche essere stato scoperto dalla donna (il numero di telefono posto in calce alla stessa potrebbe infatti averla spinta in prossimità della data indicata in cui avrebbe dovuto prendere servizio a telefonare, scoprendo l’inganno) e ciò non potrebbe che essere stata un’ulteriore gravissima delusione per lei.

Conseguenze. Il presente articolo si proponeva di approfondire e se possibile chiarire la vicenda dell’assoluzione di Salvatore Vinci per la morte della moglie. Lo scrivente ritiene di aver dimostrato che quell’assoluzione era stata giusta, anche nella sua forma di non sussistenza del fatto. Barbarina Steri si era uccisa, e neppure a causa dell’infelice rapporto con il marito, o almeno non principalmente per quello. Ci si potrebbe fermare qui, però la tentazione di dare una brevissima occhiata alle vicende future, alla luce di questa certezza, è troppo forte.
È indubbio che l’estraneità di Vinci alla morte della moglie tolga un tassello importantissimo alla bizzarra ipotesi di Torrisi sulle motivazioni che avrebbero indotto lo stesso prima a uccidere la Locci con l’amante, poi altre sette coppie appartate. Per il militare alla base ci sarebbero state infatti la gelosia e il desiderio di vendetta, che però nelle vicende di contorno alla morte di Barbarina Steri paiono stati d’animo del tutto assenti nell’individuo. Dopo il clamoroso tradimento della moglie con addirittura la sua denuncia per atti osceni, Vinci rimase con lei a condurre la propria vita di giovane sfaticato, andandosene in giro per bar senza provare alcuna vergogna, almeno questo si deduce dalle testimonianze dell’epoca. E quando poi aveva creduto di averla sorpresa di nuovo in atteggiamento intimo, non si era affatto lasciato prendere da propositi aggressivi, ma aveva cercato di sfruttare la situazione per portare dalla sua parte il suocero, che non a caso nell’occasione aveva chiamato “babbo”.
In realtà, come dimostreranno anche le vicende successive, Salvatore Vinci era un erotomane a forte componente omosessuale; andava anche con le donne ma più che altro le sfruttava per raggiungere altri uomini da coinvolgere in entusiasmanti rapporti multipli. Personaggi di tal genere sono immuni da sentimenti quali la gelosia, e quando covano desideri di vendetta non è certamente come conseguenza di un tradimento sessuale, che, anzi, quasi sempre costituisce esso stesso motivo di eccitazione.
E allora, caduta la già irragionevole ipotesi della vendetta contro le donne ipotizzata da Torrisi, per quale motivo l’individuo si sarebbe reso protagonista prima dell’uccisione di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, poi addirittura dei feroci delitti attribuiti al Mostro di Firenze?

33 commenti:

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    1. Mano sinistra. In ogni caso la mano può graffiare sia l'una che l'altra parte della faccia. Credo che la coincidenza dei graffi con le tracce di epidermide sotto le unghie sia di per sè sufficiente a far immaginare un'azione autonoma della poveretta.

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    2. Ma lei voleva segnalarmi un mio errore, la ringrazio, ho corretto.

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    3. Era talmente estraneo che ovunque sia andato sono morte delle donne (Villacidro, Signa, Firenze città, provincia di Firenze. Probabilmente anche in Spagna). Che sfortunato quest'uomo.

      Voler sostenere teorie stravaganti basate solo su congetture fantasiose e non vedere ciò che (in ragione della letteratura criminologia) è evidente e grosso come una casa lascia una strana sensazione.

      Di fatto la sentenza, poi, è semplicemente una sentenza di assoluzione perché non ci sono prove verificabili, ovvero non è stato possibile produrle a distanza di tanto tempo. Il procedimento in verità non smentisce la possibilità che il reato sia stato commesso (semplicemente non ci sono i mezzi per dimostrarlo) né tantomeno l'interpretazione stravagante della stesso.

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    4. Lei dev'essere uno di quelli a cui piace far tornare i solitari. La prossima volta però metta almeno uno pseudonimo per farsi riconoscere, e cerchi di essere più concreto nelle sue critiche.

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    5. Credevo comparisse il mio nome dall'account Google. Mi chiamo Massimo Bosco, non uso pseudonimi.

      Credo che sia piuttosto evidente la critica. In un altro commento che non vedo pubblicato lodavo il lavoro di ricerca, ma sottolineavo allo stesso tempo che il tentativo di analisi è un'arrampicata sugli specchi perché non confuta assolutamente nulla, ed è imbarazzante pensare che l'intenzione volesse essere quella (presumo) o addirittura di essere riusciti nello scopo.

      Facevo ovviamente il paragone tra le molte di informazioni disponibili sul Vinci Salvatore (tutt'altro che discutibili e sopravvalutate, se si osserva e si studia la casistica mondiale invece che affidarsi agli "esperti" italiani che vanno in giro cercando legami con stelle e pianeti) e la pochezza di materiale concreto rispetto ad altre ipotesi che, di fatto, non sono altro che trame cinematografiche. Il che non vuol dire che non possano essere vere, sia ben inteso.

      Stimo il suo lavoro di ricerca e lo seguo attentamente (spero). Mi permetto di evidenziare quanto appena espresso. Personalmente la sua analisi (e lo dico con sincerità) invece che spegnerlo ravviva, per me e in me, quel fuoco.

      Saluti, e grazie per la preziosa documentazione prodotta e condivisa.

      M.B.

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    6. Signor Bosco, io capisco che ognuno può vedere le cose dal proprio punto di vista, ma lo scenario della morte di Barbarina Steri mi pare talmente limpido, sulla base non dei miei ragionamenti, ma della pura documentazione fornita, che mi stupisco davvero che si possa pensarla in modo differente. Comunque lei è padrone di farlo.
      Non ho ricevuto l'altro suo commento. A quanto ne so con gli account Google ci sono problemi, dovrebbero chiuderli.

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  2. Da chimico vorrei fare una piccola aggiunta al suo splendido lavoro. Il gpl è di per sè completamente inodore ed incolore. L'odore caratteristico è dovuto all'etantiolo, un gas nauseabondo aggiunto proprio allo scopo di individuare fughe di gpl. Ora, son troppo giovane per sapere se il gpl dei primi anni 60 avesse la stessa persistenza di odore di oggi, tuttavia le concentrazioni e l'obbligo di aggiunta di etantiolo sono entrati in vigore con la norma EN 589; Legge 6 dicembre 1971 n. 1083. Quindi se la concentrazione di etantiolo nel gpl fosse stata più bassa (o non fosse stato aggiunto), non è affatto detto che Salvatore Vinci avrebbe potuto accorgersi di una fuga di gas all'interno della camera da letto, cosa che certamente lo avrebbe allarmato vista anche la presenza del figlio.
    Complimemti ancora.

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  3. È sconcertante riflettere sul fatto che ci siano voluti quasi 60 anni per scoprire che non c'era nessun lavoro a Cagliari per la povera ragazza. Cade così oggettivamente uno dei pilastri dei sostenitori dell'omicidio. L'assoluzione era giusta vista la mancanza di prove. Io personalmente ho letto diverse volte sia Torrisi sia Rotella. Sono arrivato alla conclusione che il lavoro svolto da Torrisi su Salvatore Vinci sia molto simile a quello svolto da Perugini su Pacciani. Entrambi puntavano sulla sessualità deviata, se così si può dire, dei rispettivi colpevoli. Entrambi muovevano da un evento passato. Ed entrambi si solo lasciati andare a plateali forzature. Entrambi hanno costruito un teorema basato su illazioni e congetture. Altro particolare curioso è la simile vicenda dello straccio e della cartuccia. Perugini ebbe più fortuna con la vergognosa sentenza Ognibene finché non arrivò Ferri a fare giustizia. Inveve Vinci venne giustamente prosciolto da Rotella data la mancanza totale di prove. Secondo me un confronto fra le vicende dei due personaggi è molto interessante. Si potrebbe perfino azzardare a supporre che la teoria di Perugini fosse una nuova edizione, riveduta e corretta alla meno peggio, del teorema Torrisi. Le similitudini sono molte e plateali. Ciò che, infine, unisce i due personaggi, è il fatto che indagini approfonditissime non siano riuscite a trovare elementi veramente apprezzabili che dimostrino un loro coinvolgimento nei delitti. Vinci avrebbe rischiato tanto a usare la pistola già usata a Signa. E Pacciani si sarebbe fermato per paura delle perquisizioni subite ma è così sbadato da dimenticarsi cartuccia e blocco dentro casa...per quanto riguarda lo straccio i gruppi sanguigni compatibili col Vinci e lla sua amante, accusata anche di calunnia nei suoi confronti se non ricordo male, è un'altra picconata ai suoi accusatori. Ricorda un po la questione della lettera anonima contro Pacciani, spedita dal vicino di casa che dei delitti del mostro ovviamente nulla sapeva. Via via il quadro diventa un po' più chiaro. Grazie per l'impegno Antonio. Tutti gli appassionati, di ogni fazione, dovrebbero apprezzare la condivisione dei documenti che non manchi mai di fare, e l'evidente buona fede del tuo lavoro.

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    2. I personaggi sono senz'altro diversi. L'ipotesi di Perugini per me è semplicemente ridicola, per il fatto che il delitto della Tassinaia, come ben ipotizzava l'accusa, era tutto tranne che un delitto sessuale. Non si spiega la spartizione del bottino con la Bugli condannata, giustamente, come complice del delitto. Ricci fu abile a farlo passare come delitto d'onore e Pacciani fu fortunato a prendersi una condanna tutto sommato mite, visto il reato commesso. I trascorsi di Pacciani avrebbero dovuto allontanare i sospetti da lui, visto che erano reati totalmente diversi da quelli commessi dal mostro. Perugini e Torrisi condividono l'ostinazione e l'ipercolpevolismo. Torrisi però aveva come appiglio il fatto che la Locci fosse stata amante del suo colpevole. Perugini come appiglio, almeno inizialmente, aveva solo delle illazioni,le dicerie popolari e le coincidenze geografiche. Per questo, fra i due, senza dubbio è il secondo che deve essere criticato maggiormente.

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    4. Che il movente fosse la rapina è dimostrato dal fatto che la rapina è avvenuta, con tanto di spartizione del bottino. Vistosi scoperti hanno cercato entrambi di difendersi e alleggerire la propria posizione, Pacciani con la storia del tradimento, sicuramente indirizzato dal suo famoso avvocato, la Bugli, che pure era minorenne, con la storia del rapporto preteso da Pacciani a cadavere ancora caldo. Particolare ovviamente mai dimostrato, e a mio avviso falso, sul quale molto i persecutori di Pacciani hanno favoleggiato. L'omicidio non ho scritto che era premeditato. L'ipotesi di gran lunga più probabile è la rapina finita male. Le indagini di Perugini non hanno portato nessun riscontro. Anche perchè quelle che per lei erano prove o indizi per me sono volgari frodi processuali. Pacciani ne venne fuori con una assoluzione sacrosanta e giusta. Il parere dei giudici conta. Ma i magistrati non sono tutti uguali. E nemmeno le sentenze lo sono. Ci sono sentenze che hanno dignità, e altre che gridano vendetta. La sua giustizia temo che non sia la mia, Marletti. Per me la discussione finisce qui. Non saprei che altro dirle, visto che mi costringere a ripetere sempre le stesse cose. Non è possibile che ogni volta che scrivo un commento sul Blog di Antonio io debba trovarmi di fronte alle sue provocazioni, d'ora in poi se vuole divertirsi a scrivere requisitorie contro Pacciani o appassionate difese di sentenze vergognose, se la prenda con qualcun'altro.

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    5. Dalla sentenza del 18 dicembre 1952: "E per escludere in modo assoluto la rapina vi sono altre circostanze. L'arma: il Pacciani era in possesso di un semplice coltello a serramanico; appare ovvio che qualora egli avesse avuto l'intenzione di uccidere il Bonini, si sarebbe munito di uno di quei coltellacci in uso presso i contadini, arma che pur potendo essere egualmente tenuta nascosta sotto gli abiti, gli avrebbe reso possibile di uccidere il Bonini con sicurezza e con pochi colpi, e senza esporsi al pericolo di una possibile resistenza valida. Non vi è poi alcuna prova che gli imputati sapessero che il Bonini il giorno 11 sarebbe tornato a Casa Nuova; tale prova se mai avrebbe dovuta darsi dall'accusa e non dalla difesa come afferma la sentenza impugnata. E infine a dimostrare l'infondatezza della tesi della rapina vi è il comportamento del Pacciani il giorno 11. Egli andò a Villore, si fece vedere da tutti, parlò e si trattenne con il Brazzini, dal quale si fece indicare il sentiero per andare a Tassinaia; quivi giunto in tutta prossimità del luogo dove avrebbe dovuto aggredire il Bonini, si trattenne a parlare con due donne, che sarebbero state le sue prime e più temibili accusatrici. L'aggressione poi si sarebbe dovuta compiere su di uno stradello percorso dalla gente, nelle ore di passaggio".
      Sulle possibili analogie tra il delitto di Tassinaia e quelli del mostro, non credo che Perugini e Vigna ritenessero i secondi una riproduzione in fotocopia del primo. Sarebbe stato un ragionamento grossolano, le differenze sono evidenti e la distanza temporale è notevole. L'ipotesi era un'altra: nell'omicidio compiuto per gelosia nel 1951 sarebbe possibile ravvisare il germe della nascita di un futuro serial killer, che avrebbe rivissuto la scena originaria uccidendo coppiette nelle campagne fiorentine (due delle quali proprio nella zona del primo omicidio). È una teoria molto suggestiva e ardita, ma anche a me non appare inverosimile.

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    6. Ho dato una rapida scorsa anch'io alla sentenza d'appello, purtroppo non sempre ben leggibile. Mi pare che se da una parte i giudici argomentarono con buona sicurezza contro l'ipotesi della rapina, dall'altra ridimensionarono quella dell' "orrendo spettacolo", che avrebbe tanto impressionato Pacciani da farlo diventare un serial killer. In più si descrive un comportamento d'impeto, che tanto ben si attaglia a quanto si sa di Pacciani, quanto male si attaglia ai delitti del Mostro, nei quali non c'è alcuna traccia di impeto.
      Voler vedere delle analogie tra il delitto del 51 e quelli delle coppiette a mio parere è una forzatura evidente da tutti i punti di vista.

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    7. Pacciani agì d'impeto, ma dimostrò anche sangue freddo e disciplina, tornando di notte a occultare il cadavere.
      Vedere delle analogie è possibile, a mio avviso, se non si pensa ai delitti maniacali come a una ripetizione del delitto del '51. Quello di Tassinaia ebbe come movente la gelosia, gli altri sono delitti maniacali.
      Non cercando somiglianze a tutti i costi, qualche elemento di richiamo però è innegabile: anzitutto la situazione di coppia che viene "interrotta" prima della consumazione dell'atto sessuale; il coltello usato per uccidere (e dal mostro anche per mutilare le donne); il luogo dell'omicidio, che corrisponde a una delle zone di attività del mostro.
      La ferita alla tempia del Bonini associata a quella della Pettini, la campagna come sfondo dei delitti e soprattutto i due strumenti d'offesa utilizzati da Pacciani nel '51 e dal killer delle coppiette negli anni Settanta e Ottanta sono anche per me delle evidenti forzature.

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    8. Volevo far notare che, curiosamente, anche i famigliari del Bonini ritenevano probabile che l'omicidio del congiunto fosse avvenuto a scopo di rapina. A Mixer, nel 1995, il fratello stesso del Bonini è sicurissimo di questo. Per chi vuole ascoltarlo questo è il link della puntata dove viene intervistato il fratello della vittima. https://www.youtube.com/watch?v=IbftYCt-7NA

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    9. Possiamo capire come i familiari del Bonini non fossero molto soddisfatti della condanna inflitta a Pacciani. Scontò 13 anni e, data la brutalità dell'omicidio, poteva andargli molto peggio.
      Il fratello ipotizzava la presenza di un altro uomo che avrebbe aiutato Pacciani a trasportare il cadavere per centinaia di metri e addirittura ad aggredire la vittima. Cosa che ritengo del tutto improbabile: nessuno vide questo fantomatico complice.
      Aggiungerei che i familiari del cenciaiolo volevano anche difendere l'onorabilità del fratello, che risultava un po' "sporcata" dalle insidie e dalle offerte di denaro alla ragazza. Di qui, a mio avviso, l'insistenza sul movente della rapina, del tutto marginale rispetto a quello di gelosia/onore.

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  4. Tornando all'argomento del post, quello che mi è sembrato interessante è stato rileggere l'ennesima ritrattazione di Mele Stefano - che poi, nel 1989, ci informa Rotella, era tornato ad accusare Francesco Vinci.
    Il che dovrebbe a mio parere mettere in guardia tutti dal costruire ardite ipotesi sulle sue parole, dette, dette a metà, fatte dire, smentite, ridette ecc.

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    1. Come ben sai, su questo non siamo affatto d'accordo. Ogni parole di Mele ha la sua motivazione, si tratta soltanto di trovarla. In particolare, mi sembra evidente che quando aggregò Salvatore Vinci al gruppetto disegnato in precedenza (lui, il fratello e i due cognati) lo fece per accontentare Rotella, che lo aveva messo in galera. Prima aveva provato a raschiare il fondo del barile con le cose vere (i rapporti omosessuali con Salvatore, per vergogna mai svelati prima), poi, visto che non era bastato, passò alle invenzioni.

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  5. Caro Antonio,

    Ho scoperto da poco il suo blog, ed ho già letto quasi tutti i suoi post tutti in un fiato. Complimenti per l'ottimo lavoro! Nonostante non sono d'accordo con le sue conclusioni, come spiegherò in seguito, ritengo le sue ricostruzioni eccellenti e precise, e soprattutto prive di retorica, al contrario di molto altre ricostruzioni.

    Come ho detto, non sono d'accordo con le sue conclusioni, ed avrei alcune domande e commenti da porle, non come polemica, ma perchè la considero un vero esperto del caso. Mi scuso per il lungo commento come flusso di coscienza, ma ho molte cose che mi frullano per la testa e non sono di certo il migliore ad esprimermi :)

    Se ho capito bene, il suo sospetto primario è il Lotti, mentre considera il Pacciani innocente. Inoltre, in alcuni suoi post dimostra come il Pacciani sia pressochè preso in modo casuale dagli inquirenti (con il famoso screening o la lettera anonima, che non aveva niente di speciale rispetto alle altre decine di lettere anonime) come capro espiatorio.
    Quello che non capisco, è il fatto che le investigazioni sono arrivate al Lotti partendo dal Pacciani. Non so se mi spiego: gli investigatori hanno preso "a caso" una persona, il Pacciani, che per puro caso ha relazioni con il vero mostro, il Lotti. Hanno trovato l'ago nel pagliaio, pur cercando nel pagliaio sbagliato! Le coincidenze succedono, ma mi sembra che questa sia una distorsione della realtà.

    A distanza di anni ovviamente non posso avere prove a carico di nessuno, ma ho ho cercato la narrativa più semplice con le mie conoscenze dei fatti. Questo non vuol dire che sia la narrativa giusta, ma perlomeno la più probabile, a mio parere.

    Ci sono due punti che assumo per trovare un sospetto:

    1) Tutti gli omicidi dal '68 sono stati eseguiti con la stessa pistola, e le modalità sono simili (commento più avanti su quest'ultimo controverso inciso)

    2) Gli omicidi, perlomeno dal '74, sono stati compiuti da una singola persona (assumo questo soprattutto visti la stragrande maggioranza degli altri casi di lust murderers)

    Ho detto che le modalità degli omicidi sono simili, ed intendo anche quello del '68. So bene che l'omicidio del '68 ha motivi personali, e quelli seguenti maniacali, ma dal punto di vista delle modalità di esecuzione tutti gli omicidi sono molto simili: l'obiettivo è sempre una coppia appartata in automobile, uccisa dall'esterno con una pistola e raffiche di proiettili in successione, senza alcun dialogo e senza alcun tentativo di occultare i cadaveri (a parte nell'ultimo omicidio, a causa probabilmente di una lenta evoluzione del MO del mostro). So che non sto citando l'elefante nella stanza, la asportazione del pube e le pugnalate post-mortem presenti solo nei delitti dal '74, ma questo può essere spiegato come una naturale evoluzione del MO di un serial killer, che poco a poco capisce le sue perversioni e si spinge sempre più in là. Relativo a questo ho anche altre spiegazioni nei prossimi paragrafi.

    Sembra banale, ma per un serial killer la modalità di uccisione è cruciale e dipende dalle sue perversioni personali. Ad esempio, alcuni serial killer vogliono spaventare le loro vittime, quindi dialogano con le vittime e non uccidono immediatamente. Ci sono un sacco di sfumature possibili, eppure le modalità sono pressochè le stesse nel '68 cosi come negli omicidi "canonici" e credo che questo sia molto trascurato.

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  6. Legato a questo c'è la mia seconda critica all'accusa al Lotti. Lei assume che il Lotti abbia visto l'omicidio e abbia raccolto la pistola, e abbia iniziato gli omicidi seriali. Quello che non capisco è perchè il suo MO sia così simile all'omicidio del '68. Sembra che le sue perversioni si adattino perfettamente a quel primo omicidio, per pura coincidenza. Se le cose fossero andate come lei assume, il MO sarebbe molto diverso a partire dal '74, o perlomeno evolverebbe velocemente a mano che il Lotti sperimenta le sue perversioni, ma questo non succede. Questa è un'altra coincidenza non banale.

    Infine, l'ultima coincidenza relativa al Lotti, è il fatto che impara immediatamente ad uccidere. Ha trovato una pistola nel '68 e al primo colpo uccide degli estranei con una capacità quasi da militare. Ogni serial killer evolve con il tempo, e le prime volte sono sempre più artigianali, ma questo non accade con il Lotti. Un'altra coincidenza tutt'altro che trascurabile.

    Ritornando ancora al mio punto 1, come ho spiegato credo che le modalità nel '68 e negli omicidi seguenti sono molto simili, e la narrativa più semplice mi fa pensare che siano stati pianificati dalla stessa persona. Questa persona inoltre deve avere un influsso molto significativo sul Mele, per convincerlo a partecipare (non credo il Mele potesse proporre di uccidere sua moglie di sua volontà) ed a tacere per anni a seguire. Credo che il killer, spinto anche dalla sua perversione oltre che da motivi personali, abbia convinto il Mele a uccidere sua moglie. In questo modo aveva una scusa anche con se stesso per uccidere. Due piccioni con una fava per un serial killer: soddisfare le proprie pulsioni, e avere una "scusa" e una persona disposta a farsi carico della colpa. Inoltre, a causa della presenza del Mele (e di qualcun altro?) non è stato possibile effettuare l'asportazione del pube e l'accanimento con il coltello come nei successivi omicidi.

    La narrativa che mi sembra più credibile è che il mostro ha pianificato l'omicidio del '68, e poi si è evoluto e raffinato già a partire dal '74. Tra i sardi, l'unico che non era in carcere durante un omicidio del mostro è Salvatore Vinci, . Lo so che è un sospetto “noioso”, ma a mio parere solo con lui non c'è nessun pezzo del puzzle con forti forzature. Mi sembra che tutti gli occhi sono puntati sul processo/disastro sul suicidio di sua moglie, che non deve avere nulla a che fare sulla sua posizione di sospetto come mostro (così come la sua posizione di sospetto come mostro non deve avere nulla a che fare sul processo sul suicidio di sua moglie). Il processo è quasi usato come prova della sua innocenza come mostro, ma non ci ha niente a che fare!

    E dopo tutto questo sproloquio, ecco alcune tra le decine di domande che avrei per lei:

    1) Quali sono le prove a sfavore di Salvatore Vinci? (lo so che si dovrebbe provare la colpevolezza e non l'innocenza, ma si fa quello che si può dopo trent'anni...) A parte il già menzionato processo, non trovo niente che lo possa escludere, anzi...
    2) Si sa per quale motivo è andato in Spagna, scomparendo completamente dai radar? Ci è andato da solo o con dei familiari?
    3) Ci sono molte informazioni cruciali che non riesco a trovare, come la sua educazione, l'occupazione e i luoghi di residenza negli anni '70 e '80. Sono sicuro che sono su internet e sono solo io che non sono in grado di trovarli :)

    Infine, quasi tutti i serial killer hanno una escalation prima di arrivare agli omicidi, mentre il mostro sembra già un esperto fin dall'inizio. Qualcuno ha mai cercato per informazioni su possibili aggressioni seriali a Villacidro o dintorni nei tardi anni '50?

    Mi scusi il lungo testo, la grammatica e la confusione dietro i miei ragionamenti, ma ho scritto di getto e non ho mai scritto qualcosa del genere. Solo, ho letto quasi tutto il suo blog (che, ripeto, è interessantissimo e di qualità eccelsa) e tutte queste domande e pensieri mi assillano.

    Saluti,

    E.

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    1. Il fatto che Lotti possa essere il mostro di Firenze è pura fantasia. A parte le sciocchezze che lui stesso dice non c'è nessun elemento a favore di questa ipotesi.

      Eludere la pista sarda è solo un nascondiglio per scampare dal confronto con una trama complessa e ben congegnata dal o dai responsabili.

      Trovo che sia piuttosto ridicolo, dopotutto, prodigarsi a smontare indizi sulla pista sarda senza fornirne sulla propria teoria.

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    2. La prossima volta metta almeno una sigla per farsi riconoscere, altrimenti non pubblico.
      A me pare ridicola la sua pretesa di confronto tra l'ipotesi Vinci e quella Lotti, chiamiamole così solo per semplicità: Vinci sarebbe innocente soltanto se fosse colpeviole Lotti? Le pare un discorso logico?

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  7. Non posso affrontare in modo esaustivo i temi che mi propone in questa sede. Magari qualche altro lettore potrebbe intessere uno scambio di opinioni con lei, e io fare qualche intervento.
    Solo un paio di puntualizzazioni.
    Tutto fa pensare che l'omicida del '74 fosse una persona assai meno esperta nell'uso della pistola di quello del '68.
    Che Lotti frequentasse Pacciani potrebbe essere molto meno coincidenza di quel che lei ritiene. A mio parere sia lui che la procura vennero attirati dalle medesime caratteristiche del soggetto, che aveva assassinato un uomo anni prima. L'unica coincidenza fu quella che Pacciani andò ad abitare a Montefiridolfi poco dopo l'omicidio compiuto da Lotti nel '74. Da quel momento in poi che i due fossero destinati a incontrarsi era soltanto questione di tempo. La figura di Vanni, il portalettera che conosceva entrambi, fece da catalizzatore.
    Perché Lotti volle conoscere Pacciani? Secondo me per vivere intimamente il confronto con un assassino come lui.
    Riguardo Salvatore Vinci, ci sono molti elementi che tendono a farlo escludere dai sospettati, sia per i delitti del Mostro ma anche per quello del '68. Prima o poi scriverò un paio di articoli. Intanto con questo sul presunto omicidio della moglie mi pare di aver dimostrato che molte volte dietro le convinzioni a prescindere c'è una realtà assai diversa.

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    1. Addendum: legga bene l'articolo sulle dichiarazioni di Natalino, a meno di non buttare all'aria il tavolo vedrà che sarà costretto anche lei a escludere Salvatore Vinci dal delitto del '68. Che c'incastrava Vinci con Mucciarini? E perché la pistola venne da questi abbandonata sul posto?

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    2. Cari Antonio, Enrico,

      Grazie mille delle risposte e di aver preso seriamente le mie considerazioni.

      Riguardo al commento di Enrico, voglio prima di tutto chiarificare che non considero il trasferimento in Spagna di Salvatore Vinci in nessun modo come una prova. Leggendo il materiale sul mostro, sono venuto a conoscenza di molti dettagli della vita di quasi tutti gli indagati, mentre riguardo la vita di Salvatore Vinci non trovo gran che. E' molto probabile che questa sia solo una mia lacuna, e per questo mi sono rivolto al signor Segnini. La domanda sul trasferimento in Spagna è solo un'estensione di questo.

      Inoltre, ha ragione di rimproverarmi che non ho alcuna prova sull'innocenza di Pacciani, Lotti e Vanni. Il mio discorso però è solo basato sul cercare una narrativa senza grosse forzature, almeno a mio parere. Salvatore Vinci era nella ristretta cerchia di persone che ha un legame con le persone interessate nel delitto del '68, dove è stata usata la stessa pistola usata nei delitti successivi. Riguardo Pacciani, Lotti e Vanni non vedo alcun legame forte con nessun omicidio, né a livello probatorio, né a livello di compatibilità tra la loro personalità e le modalità degli omicidi. Non ho le conoscenze adatte e la capacità di provare l'innocenza di tutti gli indiziati, e le mie domande al signor Segnini sono legate all'analizzare i miei dubbi verso il sospetto che mi sembra più verosimile, non ad eliminare altri sospetti.

      Rispondendo ad Antonio, sarei molto contento se esponesse i motivi per cui l'omicida del '74 sia meno esperto con una pistola che quello del '68. Leggendo le varie ricostruzioni non ho mai notato tale differenza, anche se nessuno ha mai fatto un vero e proprio confronto.

      Non ritengo che sia una coincidenza che Lotti frequentasse Pacciani, ritengo che se il Pacciani non fosse il mostro, sia una troppo grossa coincidenza che gli investigatori arrivino al Lotti tramite lui. Non è su questo che voglio concentrarmi, però, visto che questa conversazione potrebbe diventare molto lunga.

      Riguardo Natalino, credo che le sue parole abbiano un fondo di verità, ma è molto facile essere presi da una visione ad “imbuto”. Non so cosa centrasse Vinci con Mucciarini, ma non capisco perchè non siano compatibili sullo stesso luogo del delitto (Vinci ha vissuto per anni da Stefano Mele, quindi almeno una conoscenza con Mucciarini deve averla).
      Anche se Natalino avesse visto la pistola gettata a terra, non è detto che non sia stata ripresa in un secondo momento. Lasciare l'arma del delitto sul posto sarebbe stata un'idea poco saggia in ogni caso. Ad un certo punto Natalino si è allontanato con il padre e non abbiamo alcuna indicazione di cosa sia successo nella zona del delitto in quei momenti.

      Inoltre, Salvatore Vinci è stato nominato almeno una volta da Natalino. Anche se fosse stato imbeccato dal padre, comunque il Vinci è nella ristretta lista di persone che hanno un legame provato con il delitto del '68.

      Voglio finire questo mio commento con una chiarificazione ulteriore della mia posizione. Assumendo le analogie a livello di modus operandi che a mia personale opinione esistono tra tutti gli omicidi, incluso quello del '68, e visto che nella maggior parte delle ricostruzioni i possibili personaggi coinvolti nel '68 non sono molti, ritengo che il mostro sia uno di essi. Ho fatto il nome del Salvatore Vinci solo per esclusione, visto che tutti gli altri nomi noti legati al delitto del '68 erano in carcere durante uno o l'altro omocidio del mostro. Detto questo, qualunque persona con un influsso su Stefano Mele sufficiente a farlo partecipare all'omicidio della moglie sarebbe un sospetto allo stesso livello di Salvatore Vinci nella mia visione. Potrebbero esserci altri nomi che corrispondono a questa descrizione che mi siano sfuggiti però, vista la mia conoscenza limitata del caso.

      Saluti,

      E.R.

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    3. Sulla figura di Salvatore Vinci nell'ambito dei delitti del '68 e successivi scriverò qualcosa più avanti, ripeto.
      Riguardo il confronto tra lo sparatore del '68 e quello del '74 basta leggere le mie dinamiche per capire la differenza. Ripeto in breve.
      Lo sparatore del '68 colpì per sei volte le due vittime con molta precisione sfruttando il piccolo pertugio lasciato dal vetro del finestrino anteriore sinistro. Nessun colpo venne sbagliato.
      Lo sparatore del '74 partì subito male sbagliando i primi due colpi, e dei restanti sette soltanto cinque andarono a segno.
      Quindi, al di là delle rispettive capacità di mira, è proprio lo stato d'animo dei due a fare la differenza: estrema freddezza nel primo caso, estremo nervosismo nell'altro.
      Naturalmente lei potrà contestare le mie ricostruzione, ma in in questo caso mi aspetto che fornisca delle spiegazioni alternative ai vari elementi che tali ricostruzioni riescono a spiegare.

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    4. Caro Antonio,

      Grazie mille della risposta. Non vedo già l'ora di leggere il suo futuro scritto sulla figura di Salvatore Vinci.

      Riguardo all'imprecisione dello sparatore del '74, mi limito a dare una possibile spiegazione per i primi due colpi e gli ultimi due, visto che i rimanenti cinque sono andati a segno e non credo ci sia una sostanziale differenza di accuratezza rispetto ai colpi a Signa per essi.

      Riguardo i primi due spari, lei stesso nella sua ricostruzione dice che sono possono essere stati mancati a causa di un movimento repentino del ragazzo. A questo voglio aggiungere che questo è il primo caso in cui il mostro spara attraverso un finestrino, con annessi possibili riflessi che possono limitare fortemente l'accuratezza. Inoltre, nella sua ricostruzione del delitto di Signa, un complice illuminava la scena con una torcia, mentre questo sarebbe il primo caso in cui il mostro deve colpire pressochè al buio (a parte la possibile luce interna dell'automobile, che comunque non è luminosa quanto una torcia).

      Da notare anche che il mostro si riprende immediatamente da questi primi due colpi mancati con altri tre colpi in rapida successione messi a segno con mano ferma (i colpi sono molto vicini tra loro). Ritengo questo un indice non banale di freddezza.

      Riguardo gli ultimi due colpi, non sono daccordo sul fatto che non siano andati a segno: entrambi hanno colpito le gambe della ragazza. E' molto bassa la probabilità che un assassino con poca esperienza nell'uso di una pistola (cioè, mano non fermissina) manchi con due colpi il ragazzo, ma comunque colpisca con essi le gambe della ragazza. Capirei succeda con un proiettile, ma due sono altamente improbabili. Assumendo che il mostro mirasse alle gambe della ragazza, questi ultimi due spari sono in realtà molto accurati.

      A questo punto, devo spiegare perchè il mostro abbia voluto sparare alle gambe della ragazza, cosa non successa in altri omicidi. Quello che scriverò sono solo congetture, ma credo sia una spiegazione verosimile.

      Credo che il mostro non volesse uccidere la ragazza immediatamente, così come evidenziato anche da lei nella sua ricostruzione, e i colpi alle gambe siano stati sparati per limitare i suoi movimenti e incapacitarla parzialmente. In tutti gli spari verso il ragazzo si potrebbe leggere una attenzione del mostro nell'evitare che per uno sparo sbagliato o un movimento repentino un proiettile colpisca la ragazza in un punto vitale. Questo ulteriore scrupolo potrebbe anche essere un'ulteriore motivo per cui i primi due spari sono stati mancati: il mostro dava particolarmente attenzione a non avere la linea la ragazza, ma il sedile, sulla linea di tiro. Voglio comunque rimarcare che non ritengo questa una spiegazione significativa per la mancata accuratezza di questi spari, ma le principali spiegazioni sono quelle che ho scritto sopra.

      Comunque, il motivo per cui non vuole uccidere la ragazza è quello strano rito di metterle la mano sopra la bocca. Molto probabilmente il mostro, al primo omicidio in totale libertà, stava esplorando le sue pulsioni ed aveva in mente di fare qualcosa con la ragazza (stupro?). Si è reso conto quasi immediatamente che però la cosa non gli provava alcun piacere, e per questo non l'ha ripetuto nei successivi omicidi.

      Saluti,

      E.R.

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  8. Sig. Segnini, una domanda: ma se la Steri si suicido' inserendosi il tubo del gpl in bocca, non avrebbero dovuto trovarle delle ustioni in bocca? Ho lavorato in una pompa di gpl per 6 anni ed il GPL, anche a bassa pressione, che entra in contatto con la pelle, la ustiona in pochissimi secondi. Distinti saluti

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    1. Dovrei rimettermi a guardare i documenti, lo farò, ma mi deve dare un po' di tempo. Siamo sicuri che avessero controllato la gola? Magari la canna se l'era infilata molto in fondo. Se ha lei qualche punto dove se ne parla mi facilita il compito.

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    2. Purtroppo non dispongo del referto autoptico del dott.Camba, ma che io sappia, no, non vennero trovate ustioni nella cavità orale della ragazza, non so nemmeno se vennero cercate. La mia riflessione nasce dal fatto che conosco benissimo il GPL e quindi, se come si dice la ragazza morì infilandosi il tubo in bocca, avrebbe dovuto presentare anche delle ustioni. Oltre che fare i conti col fortissimo dolore istantaneo che esse provocano

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    3. Maurizio Fallani, il perito di Rotella che aveva esaminato la relazione autoptica dell'epoca (Raffaele Camba), escluse la possibilità di uno strangolamento o strozzamento, confermando la morte per asfissia da inalazione di gas. Escluse però, facendo dei calcoli che non sono noti, che la concentrazione di gas nella stanza fosse stata sufficiente. Per questo ipotizzò l'introduzione della canna in bocca, e questo lasciava la porta aperta sia al suicidio sia all'omicidio.
      Se è vero che tale operazione avrebbe comportato delle importanti ustioni nel cavo orale (e supponendo che Fallani ne fosse cosciente), vuol dire che di quelle ustioni nella relazione Camba non si parlava, né se c'erano (altrimenti già Camba ne avrebbe tenuto conto) né se non c'erano (altrimenti Fallani non avrebbe ipotizzato la canna in bocca).
      A questo punto possiamo pensare o che il cavo orale della donna non fosse stato controllato a dovere, la qual cosa la ritengo abbastanza improbabile, oppure che i calcoli di Fallani sulla insufficiente concentrazione di gas fossero errati, della qual cosa non mi meraviglierei. Tutto questo al di là di suicidio oppure omicidio.
      Forse Fallani non aveva tenuto conto abbastanza che la Steri era rimasta a lungo stordita sul pavimento, dove la concentrazione era maggiore, non lo so.

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