martedì 12 aprile 2016

La sentenza CdM e Scopeti (2)


Terzo, quarto e quinto riscontro

Presenza di un taglio nella tela della tenda, nella parte posteriore.
Rinvenimento di n. 8 “bossoli” calibro 22 nello spazio antistante l’apertura principale della tenda nonché di un altro bossolo all’interno della tenda sul materasso.
Modalità di fuga e modalità di ferimento del giovane francese a colpi di coltello.
La sentenza dedica ben tre dei riscontri esterni alla presenza di Giancarlo Lotti sulla scena del crimine dimostrata dalle informazioni da lui stesso fornite agli inquirenti e in qualche modo ripetute in dibattimento (vedi). Secondo i giudici “certi particolari e certe modalità dell’azione omicida […] potevano essere colti e riferiti soltanto da chi aveva avuto modo di assistere alla materiale esecuzione degli omicidi”. Nonostante l’immane confusione di mezze frasi, dichiarazioni contraddittorie e spiegazioni che nulla spiegavano, non si può negare che Lotti fosse molto ben informato sulla scena del crimine e sulla dinamica del delitto. Tutte notizie reperibili sui giornali, le sue, ma certo riesce difficile vedere un personaggio quasi analfabeta come lui che si era documentato per bene. E poi, perché? Vedremo, in una prossima occasione, che al processo d’appello il procuratore generale Daniele Propato non avrebbe nascosto i propri dubbi e le proprie perplessità. Il magistrato non credeva alle parole di Lotti, però così disse nella propria requisitoria (vedi): “tanti particolari che lui racconta in qualche modo s’incastrano con gli avvenimenti… e questo rimane per me il mistero Lotti”. In ogni caso, accanto a descrizioni di massima ragionevoli, i racconti del presunto pentito contenevano anche grosse incertezze e abbagli, in una mistura per la quale riesce difficile trovare una plausibile spiegazione. Ma i giudici di primo grado non si posero troppe domande, e ritennero di poter così giustificare le parti meno convincenti dei suoi racconti:

Va tuttavia precisato che il Lotti, dal punto in cui è venuto a trovarsi all’atto dell’inizio della materiale esecuzione dei delitti, non ha potuto oggettivamente vedere e “cogliere” tutto, un po’ per la distanza, un po’ per l’ora notturna, un po’ per la rapidità dell’azione e un po’ per impedimento della visuale da parte dell’omicida, come appunto è accaduto in occasione del ferimento e dell’uccisione del giovane a coltellate durante la fase di tentativo di fuga verso il bosco. Si spiegano così alcune sue “incertezze” o “imprecisioni”, come quella in ordine al tipo di arma bianca usata dal Pacciani in occasione dell’inseguimento del giovane.

Riguardo le condizione di luce, è senz’altro vero che non erano ottimali, ma è bene precisarle un po’ meglio, prima di proseguire. Lotti affermò di essere arrivato sul posto alle 23, e che l’aggressione sarebbe avvenuta quasi subito, il tempo di salire fino alla tenda a prendersi i rimproveri di Pacciani, quindi entro cinque, dieci minuti. In quei momenti la piazzola era avvolta nella più profonda oscurità, poiché la luna, all'ultimo quarto e quindi neppure troppo luminosa, sorgeva alle 0.14 ora legale (in vigore fino al 29 settembre). Secondo Lotti gli assassini non si erano avvalsi di alcuna fonte luminosa (a parte la non ritrovata luce da campeggio delle vittime, la quale, a suo dire, avrebbe illuminato l’interno della tenda), quindi sia l’azione omicidaria sia le sue osservazioni si sarebbero svolte in un buio pesto, il che va tenuto ben presente quando se ne valutano i racconti. Peraltro, sulla presenza della luna, sia lui che Pucci mentirono, anche in dibattimento: per Lotti “c'era un po' di luna”, per Pucci addirittura “c'era la luna, si vedeva proprio bene”.
Torniamo però ai tre “riscontri esterni”, partendo dal taglio nella tenda. I giudici ritennero di grande rilevanza probatoria il fatto che sia Pucci che Lotti avessero dimostrato di essere al corrente della sua esistenza, descrivendo Vanni mentre lo produceva con un coltello. Dimenticarono però di domandarsi il perché, in istruttoria, da quel taglio lo avessero anche fatto entrare, cosa del tutto impossibile, sia per la dimensione insufficiente sia per la presenza del telo interno rimasto intatto. Nel serrato controinterrogatorio di Filastò, dovendo far fronte a quelle sue prime dichiarazioni assurde, Lotti incespicò più volte, dicendo e poi negando ciò che aveva appena detto, e sostenne che forse si era sbagliato: “Sarà stato uno sbaglio che... lì per lì non ho visto bene se gli era entrato”. Aveva visto bene però il movimento del coltello, nonostante il buio profondo, quindi doveva trovarsi vicinissimo a Vanni. Naturalmente in sentenza non c’è alcuna traccia di queste inquietanti discrepanze.
Per il secondo riscontro, la posizione dei bossoli, possono farsi considerazioni del tutto analoghe. Per i giudici quei bossoli a terra sarebbero stati una conferma al racconto di Lotti sulle modalità della sparatoria, dall’ingresso della tenda verso l’interno. Con il solito lavoro di taglia e cuci la sentenza mette in bocca al presunto pentito queste parole: “"Pacciani… quando gli è sortito questo francese gli è andato dietro, li unn'ha sparato, gli ha sparato innanzi, prima di sortire... gli spari li sentii... prima che sortisse dalla tenda, questo ragazzo”. Peccato però che in fase d’incidente probatorio (19 febbraio 1997, vedi) Lotti avesse escluso spari verso la tenda, parlando invece di spari verso il ragazzo in fuga:

Lotti: Vidi che l'aveva preso qui dal collo, poi scappa e si lascia. Insomma andò via, e poi cominciò a sparare.
PM: Lei vide che lo prese per il collo mentre il ragazzo era in piedi?
Lotti: Poi sarà stato disivincolato per andare via, e a quel punto ho sentito che gli sparava.
PM: Ma ha sentito sparare?
Lotti: Si, s'è svincolato, s'è liberato e ho sentito che sparava.
PM: Aveva sentito spari anche in precedenza?
Lotti: No no. Senti' quando andò via... dietro dalla tenda e andò fuori.
PM: Cioè gli spari li sentì quando questo usciva dalla tenda?
Lotti: Si... dopo che l'aveva preso ho sentito degli spari e che andava via.

Avvocato S. Franchetti: Pacciani gli sparò, al ragazzo, sulla porta?
Lotti: No... gli dette dietro e poi lo prese per il braccio e cominciò a sparare.
Avvocato S. Franchetti: Sparava correndo?
Lotti: Sì.
Avvocato S.Franchetti: Lei non ha visto o sentito spari verso la tenda?
Lotti: Io ho sentito gli spari quando è fuori... quando c'era quell'altro, il ragazzo che scappava.

Sappiamo già qual’era la chiave interpretativa dei giudici per gli aggiustamenti di Lotti, visti come dei tentativi di ridimensionare le proprie responsabilità poi via via abbandonati, ma in questo caso quella chiave non è applicabile, poiché, rispetto a essa, le modalità della sparatoria erano del tutto neutre. Viene piuttosto da pensare che all’epoca dell’incidente probatorio ancora Lotti collocava Vanni nella tenda, quindi Pacciani non poteva spararvi dentro. In dibattimento aveva invece messo in forse questa versione, e con essa aveva anche cambiato la dinamica degli spari. Di questo “travaglio”, per il quale sarebbe stata necessaria una plausibile spiegazione, nella sentenza non c’è traccia. Eppure i giudici dovevano esserne informati, poiché le dichiarazioni rilasciate durante un incidente probatorio hanno il medesimo valore di quelle del dibattimento, e vengono sempre e comunque allegate agli atti.
Anche sul terzo riscontro, le modalità di fuga e ferimento del ragazzo, le perplessità non mancano. C’è da dire che la descrizione dell’accoltellamento risultava assai compatibile con la dinamica ricostruita dai periti, e questo era senz’altro un grosso punto a favore della presenza di Lotti sulla scena del crimine. Ma per aver visto così bene i movimenti delle braccia dell’aggressore, l’individuo doveva essersi trovato molto vicino. Michel era stato ucciso dentro una specie di corridoio, una parte di piazzola separata dalla principale da una fitta fila di cespugli alti quasi quanto una persona. L’assassino lo aveva colpito al culmine di un inseguimento, quindi Lotti, per poter cogliere l’azione nel buio completo, a sua volta avrebbe dovuto inseguire i due, il che pare francamente improbabile e grottesco. E poi, come in molti altri casi, a un particolare veritiero Lotti ne affiancò uno sbagliato, affermando che Michel sarebbe stato nudo soltanto dalla cintola in su, mentre in realtà lo era del tutto. Ma i giudici gli concessero ampie giustificazioni:

[…] il particolare della completa nudità non è stato colto in quegli attimi dal Lotti, essendo l’azione di fuga del giovane avvenuta in pochi attimi ed essendo stata poi l’attenzione dello stesso Lotti attratta dalla condotta dell’omicida che cercava di raggiungere e colpire il giovane nella parte superiore del tronco della persona, che non è quindi sfuggita all’attenzione dell’imputato, a differenza di quella inferiore sulla quale non ha invece avuto il tempo di soffermarsi con lo sguardo.

Pare evidente che qualsiasi castronata avesse raccontato Lotti, i giudici avrebbero comunque escogitato il modo di neutralizzarne gli effetti negativi sulla sua credibilità, o ignorandola o trovandole una spiegazione. Dopo un esempio del secondo caso, possiamo fornirne subito uno del primo. Lotti disse che quando Pacciani si era riavvicinato alla tenda dopo l’inseguimento, lì accanto c’era Vanni. A quel punto i due sarebbero entrati per mutilare la donna. “Ci vuol raccontare come li ha visti entrare dentro la tenda, in che modo?”, chiese Filastò. “Camminando. Come una persona che cammina normale, un so io”, rispose Lotti. Sull’altezza della tenda c’è una certa confusione, si va da un minimo di 110 cm a un massimo di 140, ma anche prendendo per buona la misura massima, avremmo una cerniera di apertura alta non più di 120 cm, dalla quale quindi non si poteva passare neppure chinandosi: si doveva entrare carponi. Dopo l’inevitabile e veemente contestazione di Filastò, intervenne il Presidente a cercare un punto d’incontro: “L'avvocato voleva dire questo: la tenda non consente di stare in piedi, la persona non può entrare in piedi”, ma Lotti rigido: “Se sono entrati abbassando, no. Io l'ho visti in piedi così”. Naturalmente niente di tutto questo compare in sentenza.

Sesto riscontro

Ora del duplice omicidio, accertata con perizia, “prima della mezzanotte”, tra domenica 8 e lunedì 9 settembre 1985, a due ore circa dal termine dell’ultimo pasto.
Secondo la sentenza, costituirebbe un riscontro esterno alle dichiarazioni di Lotti l’affermazione, contenuta nella perizia autoptica di Mauro Maurri, secondo la quale i due francesi sarebbero stati uccisi “nettamente prima della mezzanotte” di domenica 8 settembre. È vero che anche Lotti aveva collocato il duplice omicidio in quel giorno e in quell’orario, si deve però osservare che si tratta di un “riscontro esterno” tirato per i capelli. La data ufficiale dell’omicidio era un’informazione macroscopica, accessibile a tutti in mille modi, quindi che anche Lotti la conoscesse non vuol dire proprio niente. Riguardo invece l’ora, l’averla collocata a mezza sera sembra un fatto del tutto normale. Del resto era stato lo stesso Vigna a fornire al presunto pentito le due informazioni, proprio all’inizio dell’interrogatorio durante il quale egli avrebbe ammesso la sua presenza a Scopeti: “Signor Lotti, la sua auto, la Fiat 128 coupé, quella domenica è stata vista in via degli Scopeti dopo le undici di sera”.
Prima di chiudere vale la pena fare una considerazione sulla data. Lasciamo perdere le successive risultanze delle valutazioni entomologiche sulle fotografie, delle quali i giudici non erano a conoscenza, che la collocano uno o due giorni prima della domenica. Però già allora si sarebbe dovuto ragionare di più sulla questione della rigidità cadaverica, invocata per dimostrare l’ora della morte e con la quale invece la sentenza si dà la zappa sui piedi. La perizia Maurri, scaricabile qui, è contraddittoria sull’argomento, e in altra occasione si avrà modo di discuterne, tuttavia in questa sede interessa quanto ne avevano recepito i giudici. Ebbene, in sentenza si afferma che nelle due salme la rigidità cadaverica si era “risolta del tutto” alla mezzanotte di lunedì, quindi a distanza di circa 25 ore dal momento in cui sarebbero avvenuti gli omicidi. I manuali di medicina legale affermano però che di norma il fenomeno scompare tra le 48 e le 72 ore dopo la morte, e se sotto certe condizioni tale risoluzione può anche anticiparsi, ciò non avviene mai prima di 36 ore, un limite peraltro raggiungibile soltanto in presenza di temperature molto alte (non era il caso di quei giorni di fine estate, dove la temperatura media nella zona non superava di molto i 20 gradi). Possiamo quindi concludere che l’osservazione dei giudici sull’argomento, lungi dal costituire un riscontro al racconto di Lotti, al contrario lo contraddice, poiché, anche nell’ipotesi teorica più favorevole, il delitto non avrebbe potuto collocarsi dopo le  ore 12 della mattina di domenica!
 
Settimo riscontro

Presenza dell’auto Ford Fiesta del Pacciani, nella notte del delitto, sulla stradina accanto al cancello che porta ad una villa, nella zona dirimpetto alla strada sterrata che, dalla strada asfaltata per San Casciano, porta alla piazzola del delitto.
Cominciamo con l’osservare che nessuna perplessità ebbero i giudici nell’accettare il fatto che gli assassini avessero parcheggiato la propria auto in quella posizione così a rischio di avvistamenti, per di più proprio nella zona dove risiedevano. Eppure almeno qualche parola avrebbero dovuto spenderla, tanto più che i loro colleghi del processo Pacciani avevano ragionato in modo del tutto opposto:

Esiste poi un'altissima probabilità se non addirittura l'assoluta certezza che l'assassino, o gli assassini, quella sera abbiano percorso proprio quei sentieri attraverso il bosco per giungere, non visti, fin sotto la piazzola ove erano attendati i francesi. Il motivo di ciò è abbastanza intuitivo: posto che chi aveva intenzione di commettere il crimine non poteva che usufruire di un mezzo motorizzato, per raggiungere e per allontanarsi più facilmente dalla zona operativa, ben difficilmente egli avrebbe percorso quella sera la via degli Scopeti. Questa infatti, pur avendo un accesso diretto alla piazzola, era strada di notevole traffico di giorno e di notte, in quanto unica arteria di collegamento, in alternativa alla Autopalio, tra la via Cassia e S.Casciano, come dire quindi tra quest'ultima importante località ed il comprensorio fiorentino, per di più poi la domenica sera quando vi era il rientro dalle gite in città. In tali condizioni sarebbe stato quanto mai arrischiato transitare con un mezzo motorizzato, meno che mai con un'auto, che avrebbe dovuto poi essere posteggiata in qualche punto lungo la strada, ed avrebbe potuto facilmente essere avvistata o comunque dare nell'occhio a più di una persona. Molto più sicuro sarebbe stato invece lasciare il mezzo, e dunque anche l'eventuale auto, a congrua distanza lungo la via di Faltignano, in una zona solo apparentemente distante dall'obbiettivo e di lì scendere agevolmente a piedi verso il vasto bosco.

L’opinione di quei giudici certamente non sorprende, poiché loro intento era quello di avvalorare l’avvistamento dell’auto di Pacciani da parte di Lorenzo Nesi all’incrocio tra via Scopeti e via Faltignano; in ogni modo la loro ipotesi pare del tutto ragionevole. D’altra parte la testimonianza Nesi non s’incastrava affatto nello scenario descritto da Lotti, almeno così com’era stata interpretata dai giudici del processo Pacciani. Allora, infatti, si era ipotizzato che la Ford Fiesta stesse tornando verso San Casciano dopo l’omicidio, che quindi doveva essere stato compiuto tra le 20 e le 21, considerando l’orario dell’avvistamento (21.30-22.30) e l’ora e più necessaria per attraversare il bosco fino al punto dove sarebbe stata parcheggiata l’auto. Ma per Lotti le cose erano andate in modo del tutto differente; e allora, perché Vanni e Pacciani, tra un’ora e mezza e mezz’ora prima dell’omicidio, avrebbero percorso via Faltignano per poi dirigersi verso il paese? Naturalmente la sentenza non rinuncia affatto alla testimonianza Nesi, senza la quale la nuova inchiesta neppure sarebbe partita, ma con estrema disinvoltura la reinterpreta:

Tale presenza del Pacciani all’incrocio con via Faltignano, in un’ora prossima al delitto, è quindi quanto mai significativa, rivelando che lo stesso si stava aggirando con un complice “in zona” in attesa dell’ora dell’appuntamento sul posto fissato con il Lotti per le ore 23.
Né può trarre in inganno il fatto che in quel momento il Pacciani si stesse dirigendo con l’auto verso San Casciano e non verso la piazzola, come ha ancora riferito il Nesi, perché la cosa può ragionevolmente spiegarsi o con la necessità di far passare in qualche modo il tempo che ancora lo separava all’ora del delitto (senza tuttavia farsi vedere troppo vicino al luogo della piazzola) o con la necessità di andare effettivamente verso San Casciano per prendere la pistola e quant’altro, operazione che poteva essere chiaramente compiuta solo all’ultimo momento, onde evitare qualunque rischio connesso alla circolazione con l’arma in ore lontane dal delitto.

Secondo i giudici, dunque, invece di partire poco prima dell’ora stabilita, per passare il tempo Vanni e Pacciani si sarebbero aggirati inutilmente e pericolosamente nella zona del delitto, tanto da finire per essere avvistati dal Nesi; però, almeno, avrebbero avuto l’accortezza di non portarsi appresso la pistola, casomai fossero stati fermati dalla polizia e perquisiti! La logica perversa di tale ragionamento si commenta da sola, e confrontata con quella della sentenza Pacciani fa riflettere una volta di più su quanto mutevole possa diventare la verità processuale piegata dalle convinzioni (e convenienze) dei giudici.
Oltre a quella del Nesi opportunamente riciclata, per dimostrare la presenza dell’auto di Pacciani sotto la piazzola di Scopeti la sentenza fa appello alla testimonianza della signora americana Sharon Stepman, della quale abbiamo già visto qui. La rilettura dell’articolo convincerà facilmente che si tratta di un riscontro del tutto fasullo.
Sull’argomento ci sono poi le enormi contraddizioni nei racconti di Lotti e Pucci. Intervenendo durante la deposizione di Pucci, Lotti aveva affermato che quando lui e l’amico erano giunti sotto la piazzola, Vanni e Pacciani si trovavano ancora nella loro auto, parcheggiata dentro lo slargo d’ingresso alla proprietà Rufo, tantoché li aveva visti scendere, attraversare la strada e salire fino alla tenda. Ma quando fu lui a sedere sul banco dei testimoni, Mazzeo gli ricordò che all’incidente probatorio aveva detto che i due si trovavano già su (“Poi ci si ferma…e vidi loro che erano lassù, vicino alla macchina”), ottenendo una conferma. Al Presidente non sfuggì l’evidente e grave contraddizione, e poco dopo gliene chiese conto; al che Lotti si giustificò affermando d’essersi espresso male al tempo, e che valeva quanto aveva appena detto (“ un mi sono espresso bene io… gl'è... questo preciso... che dico ora. Li ho visti lassù, gl'erano arrivati da allora, però gl'eran di già nella piazza”). Ebbene, la sentenza ignora del tutto sia l’incidente probatorio, sia lo scambio con il Presidente, e prende per buone le parole di Lotti pronunciate al momento della deposizione di Pucci!

prima di scendere dalla propria auto aveva visto Pacciani e Vanni attraversare la strada asfaltata, dal punto dove era parcheggiata la Ford Fiesta, e dirigersi verso la tenda: “… loro scesero prima di noi… Vanni e Pacciani… andettero su verso la tenda… noi s’era sempre dentro la macchina, si scese dopo, dopo un pochino…”

Già un appuntamento dato dai due assassini al loro “palo” direttamente sul luogo e all’ora del delitto era una circostanza davvero poco credibile, e infatti, più logicamente, nei racconti sui precedenti delitti i tre si erano sempre mossi assieme (Mazzeo chiese spiegazioni sul perché della differenza, ma Lotti non fornì alcuna risposta sensata: “Mah, a quello, ritornavan sempre innanzi anche come... anche come quegli altri. Cioè si scese, l'è sempre la solita cosa”). Se in più si fosse aggiunto che Vanni e Pacciani erano già saliti alla piazzola ancor prima dell’arrivo di chi avrebbe dovuto fare da “palo”, il racconto da poco sarebbe diventato per nulla credibile. Come in molti altri casi, la sentenza non si pone alcuna domanda sul perché Lotti si fosse contraddetto, ignorandone del tutto l’ultima dichiarazione, anche se era stato lo stesso Presidente a raccoglierla.

domenica 10 aprile 2016

La sentenza CdM e Scopeti (1)

La parte di gran lunga più corposa della sentenza di primo grado che condannò Mario Vanni all’ergastolo e Giancarlo Lotti a trent’anni è quella che prende in esame, uno per uno e in ordine temporale inverso, i cinque duplici omicidi per i quali i due risultavano imputati (il lettore già lo saprà, ma è bene rammentare che dei primi tre, Signa, Borgo e Scandicci, nulla si disse, poiché nulla Lotti aveva detto di saperne). Si tratta di cinque veri e propri capitoli, ognuno dei quali viene suddiviso in quattro paragrafi (nel caso di Calenzano il quarto paragrafo è assente):

[…] per ciascun episodio di duplice omicidio […] l’esposizione avverrà riportando prima il “fatto storico” con l’esito dei primi accertamenti, poi le “dichiarazioni” del Lotti, quindi i “riscontri” che possono essere colti negli atti del processo e da ultimo la “valutazione dei riscontri”, sia in relazione agli omicidi in sé ed alla posizione del Lotti […], sia in relazione alla posizione delle persone accusate dallo stesso Lotti.

Cercheremo di evidenziare le principali incoerenze di ogni capitolo, cercando soprattutto di ragionare sui “riscontri esterni” che, agli occhi dei giudici, avrebbero confermato le traballanti ricostruzioni di Giancarlo Lotti. La sentenza ne sistematizza ben 22: 7 per Scopeti, 6 per Vicchio, 4 per Giogoli, 3 per Baccaiano e 2 per Calenzano. In questo articolo vengono esaminati i 7 per Scopeti.

Primo riscontro

Presenza agli Scopeti, nella notte del delitto, della FIAT 128 coupè rossa, all’altezza dell’imbocco della stradina sterrata che porta alla piazzola del delitto.
Il primo dei sette “riscontri esterni” è l’avvistamento dell’auto di Lotti da parte della Ghiribelli, vero punto d’inizio dell’intera indagine. In questo blog se ne è già trattato in modo approfondito (vedi), giungendo alla conclusione che, con ragionevole certezza, quella domenica davvero Lotti e Pucci si erano aggirati sotto la piazzola con la Fiat 128 rossa del primo. La sentenza però ignora completamente la testimonianza dei coniugi De Faveri-Chiarappa, per una sosta al pomeriggio i cui contorni avrebbero meritato un necessario chiarimento. Peraltro Pucci e Lotti l’avevano ammessa, ma tra le dichiarazioni dei due c’erano delle discrepanze, poiché il primo aveva detto d’essersi avvicinato con l’amico alla tenda per spiare la coppia che faceva all’amore, mentre il secondo aveva raccontato di una semplice sosta accanto alla strada asfaltata, dove i due si sarebbero limitati a parlare tra di loro (a domanda del suo avvocato: “Si fermò alla piazzola dove c'era la tenda?”, Lotti aveva risposto: “No, mica lassù, lì sulla strada”). Non era una differenza da poco, e di sicuro andava approfondita. In ogni caso entrambe le versioni erano inconciliabili con la testimonianza dei coniugi, della quale non c’era alcun motivo di dubitare. Perché Lotti si sarebbe collocato in bella evidenza davanti al luogo dove, a suo dire, sapeva che la sera sarebbe stato compiuto un omicidio al quale anche lui stesso avrebbe dovuto partecipare? Per di più per un tempo lunghissimo, ore e ore, che però non aveva ammesso. Infatti, a domanda di Curandai, “quanto tempo vi siete intrattenuti?”, aveva risposto: “insomma, a parlare lì, il tempo passava. Un so il preciso quanto. Un'ora o più... un è che abbi guardato per bene l'orologio”.
Evidentemente su quella domenica pomeriggio Giancarlo Lotti aveva qualcosa da nascondere. Secondo le istruzioni ricevute, a suo dire, da Vanni e Pacciani avrebbe dovuto farsi trovare sul posto alla sera, mentre per la visita del pomeriggio aveva dato l’improbabile spiegazione che voleva far vedere le prossime vittime all’incredulo Pucci. Se si stava accusando di una partecipazione inesistente forse la sua presenza sotto la piazzola era stata causata da semplice, anche se insana, curiosità. Sappiamo che i due francesi erano già morti: Lotti e Pucci avevano visto i corpi e volevano assistere al loro ritrovamento? O  forse non erano loro i due personaggi descritti dai coniugi (ma questo a chi scrive pare da escludere, dati i troppi elementi coincidenti). Oppure Lotti qualcosa con il delitto aveva avuto a che fare, ma con modalità differenti da quelle confessate? In ogni caso appare di una gravità estrema il fatto che i giudici avessero evitato di affrontare la questione. Ai coniugi in aula non era stato neppure chiesto se nei due individui visti accanto all’auto rossa avessero ravvisato la fisionomia di Lotti e Pucci. Un argomento che del resto non aveva interessato neppure la difesa di Vanni, che più tardi si sarebbe impegnata allo spasimo nella perdente battaglia per dimostrare che Lotti non guidava più la 128 rossa al momento del delitto.
Sulle attività di Giancarlo Lotti attorno alla piazzola prima della domenica sera c’era un altro inquietante elemento da valutare, ma anch’esso fu del tutto ignorato dai giudici. La sentenza sostiene che l’individuo aveva dato il proprio volontario contributo al delitto “indicando la presenza della tenda in quella zona e quindi la “coppia” di giovani da colpire (come da sue stesse ammissioni)”. Ma nulla dice delle incredibili modalità con le quali sarebbe venuto a saperlo. Questo risulta dal verbale del suo interrogatorio dell’11 marzo 1996 (vedi):

Tre o quattro giorni prima di questo delitto, mi trovavo al bar Centrale di San Casciano e sentii gli avventori che parlavano di una tenda e di una macchina che si trovavano nella piazzola degli Scopeti. La gente si meravigliava e diceva che era pericoloso stare lì e ricordo anche che i carabinieri di pattuglia dicevano agli avventori che avevano fatto presente a quella coppia di andare via perché era pericoloso. Si diceva anche che quella coppia voleva trovare una pensione per stare e non trovando posto si erano accampati lì.

Scontrini per consumazioni alla mano, da molto tempo ormai è già stato dimostrato da Vieri Adriani che i due francesi erano arrivati a San Casciano soltanto il venerdì pomeriggio, quindi, anche nell’ipotesi che il delitto fosse avvenuto di domenica, i conti con i “tre o quattro giorni prima” di Lotti non tornano. Ma se anche i giudici di scontrini non sapevano o non volevano sapere nulla, pare comunque incredibile che non avessero approfondito la questione dei carabinieri che avrebbero avvertito la coppia del pericolo. Se l’episodio fosse accaduto davvero, i militari certamente non avrebbero mancato di raccontarlo agli investigatori una volta uscita la notizia del duplice omicidio. Ma nulla risulta dagli atti emersi, ed è ragionevole immaginare anche da quelli non ancora emersi, considerata l’importanza del fatto, e neppure dai resoconti dei giornali. Quindi il racconto di Lotti era falso, e i giudici, ignorandolo, evitarono di chiedersi il perché di una frottola della quale, a badar bene, il presunto pentito neppure avrebbe avuto bisogno per la propria strategia difensiva. E allora, perché l’aveva raccontata? E che cosa c’era dietro quella sua strana ammissione non richiesta (“La sera prima dell'omicidio sono passato agli Scopeti da me”) pronunciata di fronte a Vigna l’11 febbraio 1996?

Secondo riscontro

Presenza dello stesso Lotti, in quella notte, lungo la stessa stradina sterrata che porta alla piazzola del delitto.
In base a quali prove la sentenza dà per dimostrata la presenza di Lotti lungo la via d’accesso alla piazzola la domenica sera del delitto? “Lo ha riferito il teste Pucci Fernando”, scrissero i giudici. Nient’altro. Il lettore è invitato a scorrere la deposizione di Pucci (6 ottobre 1997, vedi) per rendersi conto dell’assoluta inaffidabilità del testimone, del tutto dimentico delle dichiarazioni a lui attribuite in istruttoria ma pronto a confermare ogni verbale che gli veniva contestato (approfondiremo in un prossimo futuro l’importante argomento). In conseguenza di ciò, con un imbarazzato intervento a denti stretti il PM si era detto pronto a riconsiderarne la posizione, dando a intendere che i suoi vuoti di memoria potessero nascondere responsabilità maggiori. Naturalmente non era accaduto nulla, poiché all’accusa Pucci faceva comodo come testimone, non certo come imputato, e in quanto testimone la sentenza poté sfruttare appieno ciò che aveva detto e soprattutto ciò che essa stessa gli fece dire, valutando le sue parole come il più importante dei riscontri esterni a quelle di Lotti.

L’auto era quella del Lotti ed a dirlo è stato invece Pucci Fernando, che quella sera era insieme a lui e che si era lasciato convincere ad andare agli Scopeti per via del fatto che non credeva che ci sarebbero stati quella notte due omicidi nella piazzola dove c’era la tenda. Pucci Fernando costituisce quindi un “teste oculare” di rilevante importanza, per essersi trovato lì in quella situazione senza alcuna implicazione o partecipazione al delitto e per essere stato ivi presente soltanto per verificare, una volta per tutte, se il Lotti diceva la verità in ordine agli omicidi ai quali diceva di assistere per curiosità. Infatti, la totale “buona fede” del Pucci trova conferma nel fatto che costui, una volta risalito in macchina col Lotti per far ritorno a San Casciano, voleva andare immediatamente dai Carabinieri per riferire l’accaduto, venendone però dissuaso subito dal Lotti […]

La faziosità della sentenza raggiunge qui uno dei suoi massimi. Dato per buono lo scenario da loro ricostruito, come potevano esser sicuri i giudici che Pucci fosse andato assieme a Lotti soltanto per una bambinesca verifica e che non gli fosse stato assegnato invece un ruolo attivo, magari dallo stesso Lotti? A escludere questa eventualità c’erano soltanto i loro racconti, peraltro disallineati per alcuni aspetti non secondari, e i due potevano aver avuto tutto l’interesse a costruire una verità di comodo, attenuando l’uno le eventuali responsabilità dell’altro. Rimane comunque il fatto che Pucci avrebbe svolto davvero un ruolo attivo quando, a suo dire, era rimasto di fianco all’auto di Lotti mentre questi si trovava sulla piazzola a curiosare e quindi rimpiazzandolo come “palo” (nell’accezione, intesa dai giudici, di deterrente per l’arrivo di altre coppie). Per la sentenza si sarebbe trattato di un ruolo inconsapevole per lui ma non per Lotti, il quale lo avrebbe portato con sé proprio per quel motivo (“per accrescere la forza dissuasiva nei confronti di possibili coppiette”). È evidente l’interesse dei giudici nel mantenere a tutti i costi Pucci nella posizione di puro testimone, e poter così sfruttare appieno le sue parole per dar valore a quelle di Lotti, mentre da imputato ciò non sarebbe stato possibile. Vale la pena notare che anche Lotti era parso avere tutto l’interesse a scagionare il vecchio amico quando era intervenuto, con sospetta solerzia, a dargli manforte in uno dei momenti di difficoltà durante la sua traballante deposizione. Parte Lotti: “No, per le cose che... le ho dette io a Fernando”; raccoglie Pucci: “Me l'ha dette tutte lui queste cose”; ribadisce Lotti: “Quelle cose che successero, le ho dette io a Fernando”. Insomma, pareva proprio un bel duetto tra lestofanti.
Allo stesso modo non c’era alcun motivo per credere che davvero Pucci avesse voluto andare dai Carabinieri a denunciare il fatto, dimostrando in questo modo addirittura una “totale buona fede”, poiché ad asserirlo erano stati ancora e soltanto lui e Lotti. Piuttosto rimaneva gravissima la sua mancata denuncia, durata dieci lunghi anni durante i quali avrebbero potuto verificarsi nuovi delitti. In più, interrogato dalla Polizia, non aveva vuotato il sacco immediatamente, ma come Lotti aveva cercato di far apparire del tutto casuale la sosta a Scopeti. Quindi, sempre dando per buono lo scenario sposato dalla sentenza, era lecito sospettare che in quel frangente Pucci non dovesse aver avuto una coscienza troppo pulita, e con la sua reticente deposizione in aula aveva dato adito a più di un dubbio che non se la fosse lavata neppure dopo. Ma i giudici chiusero occhi e orecchie e fecero finta di nulla, raggiungendo questa sorprendente convinzione:

Pucci Fernando è quindi un soggetto pienamente credibile, per non aver avuto alcuna cosciente partecipazione al delitto, per aver saputo ribadire l’accaduto anche in dibattimento, con un linguaggio semplice e comunque tale da farsi ben capire (pur trattandosi di persona che ha fatto appena la 5 elementare) e per aver infine mostrato un “profondo rammarico” per il fatto di avere in tanti anni taciuto per paura e per aver quindi coperto, con tale suo comportamento, l’operato del Lotti e dei suoi complici per gli omicidi di Scopeti […]

Dunque Pucci avrebbe mostrato un “profondo rammarico” per aver taciuto, questo scrissero i giudici mettendo addirittura la locuzione tra virgolette a sottolinearne il peso, ma non si comprende da quali sue parole lo avrebbero desunto. Scorrendone la deposizione non si riesce a rintracciare alcuna traccia di rammarico, anzi, della sorte dei due francesi a Pucci non era importato nulla, si era soltanto preoccupato di possibili conseguenze per sé stesso. E infatti, a domanda di Filastò: “E il fatto che qualcuno poteva essere rimasto ferito e c'era bisogno di aiuto, non le passò nemmeno per la testa?”, aveva risposto secco: “No”. Del resto sono molti i casi in cui la sentenza attribuisce all’individuo concetti non espressi e frasi non pronunciate, come del resto, e su scala ben maggiore, lo fa anche per Lotti. Con Pucci l’estensore si trovava di fronte a un’operazione più difficoltosa, poiché l’individuo non aveva detto quasi nulla, ma non si perse d’animo per questo, e pescò anche nelle frasi pronunciate da altri. Ad esempio, per quanto riguarda la mancata denuncia ne sarebbero state causa le minacce ricevute dagli assassini, e la sentenza così lo fa spiegare a Pucci: “… io volevo andare dai Carabinieri per questo fatto… feci lo sbaglio … a non andare da solo… avevo paura perché (mi) avevano minacciato…”. Ma non era stato Pucci a parlare di paura per le minacce, era stato il PM, come dimostra lo spezzone di dibattimento a partire dal quale era stata costruita la frase:

Pucci: Io volevo andare dai Carabinieri per questo fatto. Dice lui: 'no, io non vengo', e allora un andai.
PM: Perché non ci andò da solo, lei?
Pucci: Mah... Feci lo sbaglio lì, ecco, a non andare da solo. Glielo dico proprio... Ecco.
PM: Aveva paura di loro perché lo avevano minacciato?
Pucci: Sì, eh, se l'era la paura, chi lo sa? Sa...
PM: Aveva paura che non la credessero, non lo so.
Pucci: Ecco. Può essere stato anche quello lì, perché io dissi: 'se ho a andar solo, mi sembra una cosa...' non so, capito?

Come si vede Pucci neppure aveva raccolto il suggerimento del PM, per il quale, a dire il vero, quello era stato soltanto uno dei numerosi tentativi di portarlo sulla strada della paura per le minacce ricevute da Vanni e Pacciani. In ogni caso il perché non andò dai Carabinieri a raccontare quello che sapeva lo avrebbe poi spiegato al difensore di Alberto corsi, l'avvocato Zanobini, e senza alcun suggerimento: “perché avevo paura di qualcosa che mi dicessino”. Dunque la paura c’era, ma delle conseguenze penali per una coscienza evidentemente sporca. Tra l’altro quel riconoscere che era stato uno sbaglio a non andare è l’unica timida manifestazione del presunto “profondo rammarico” virgolettato dalla sentenza: giudichi il lettore se pare sufficiente.
Sul medesimo tema delle frasi costruite, ecco un esempio ancora più clamoroso, rintracciabile proprio nel paragrafo di cui si sta trattando. Dopo aver affermato che il riscontro della presenza di Lotti sulla piazzola è dovuto alla testimonianza di Pucci, la sentenza riporta un insieme di voci virgolettate e in grassetto contenenti quelle che dovrebbero essere le sue dichiarazioni sull'argomento. Naturalmente si tratta sempre di frasi costruite mettendo assieme vari pezzi, ma addirittura in questo fazioso lavoro vengono utilizzate anche le parole pronunciate da Lotti quando era intervenuto in aiuto dell’amico! Si arrivò insomma all’assurdo di usare le parole di Lotti come riscontro a sé stesso facendole passare per pronunciate da Pucci! Un primo caso:

S’andette da questa Gabriella dopo mangiato… si rimase laggiù, poi si tornò in su la sera… non so che ore sarà stato… l’era l’undici o più… (siamo) stati sempre dalla donna…

Ma a dire ciò era stato Lotti correggendo Pucci, per il quale invece quel pomeriggio i due erano andati al cinema! Non soltanto la sentenza non fa cenno a questa clamorosa contraddizione, ma attribuisce le parole del primo al secondo, costruendo un falso aberrante in un contesto nel quale si stava condannando a vita un uomo.
Ancora una frase fatta dire a Pucci, ma in realtà detta da Lotti:

Quando ci si fermò agli Scopeti, loro scesero prima di noi, Vanni Mario e Pietro Pacciani… andettero su verso la tenda… noi s’era sempre dentro la macchina… si scese dopo un pochino…

Fin dalle dichiarazioni rese in istruttoria Pucci aveva dimostrato di non avere le idee molto chiare sull’auto dalla quale erano discesi gli assassini, che dapprima sarebbe stata addirittura quella delle vittime, poi un’altra parcheggiata a metà della strada d’accesso alla piazzola. Sottoposto al pressing di Filastò, in dibattimento la confusione era stata grande, e i suoi mezzi assensi non avevano fatto alcuna chiarezza. Con il proprio intervento Lotti voleva dissipare i dubbi (ma vedremo che, quando sarebbe toccato a lui sedere sul banco dei testimoni, avrebbe cambiato versione...). In ogni modo, interrogato in seguito dal Presidente, con la solita faccia di bronzo Pucci aveva confermato le parole del vecchio amico (Presidente: “E perché non l'ha detto prima lei?”; Pucci: “Perché non me lo ricordavo per bene io, ecco”). Non avendo però pronunciato frasi dalle quali se ne potesse ricostruire una adeguata allo scopo, senza dichiararlo l’estensore pensò bene di avvalersi di quelle di Lotti!
Si potrebbero scrivere ancora pagine e pagine per illustrare gli orrori della sentenza riguardo la valutazione del testimone Pucci, ma il lettore si annoierebbe, quindi conviene fermarsi qui e passare ai riscontri successivi.

sabato 2 aprile 2016

La sentenza di primo grado contro i CdM

In questi ultimi mesi il reportage di Paolo Cochi sulla retrodatazione del delitto degli Scopeti e le discussioni che intorno a esso si sono accese hanno riportato all’attenzione di tutti la fragilità dell’unica verità giudiziaria a oggi disponibile nella vicenda del Mostro di Firenze: la colpevolezza dei cosiddetti “Compagni di merende”. Altre speranze per una nuova valutazione del caso sono riposte nel libro, d’imminente pubblicazione, “Mostro di Firenze – Al di là di ogni ragionevole dubbio”, scritto dallo stesso Cochi, da Francesco Cappelletti e da Michele Bruno. Nella presentazione ufficiale sul sito della casa editrice (vedi) si leggono parole grosse, con le quali si promettono “valutazioni scientifiche inequivocabili ma anche e soprattutto testimonianze dell’epoca che mandano in aria le dichiarazioni del testimone reo confesso Giancarlo Lotti”. In attesa di questi nuovi elementi, nella speranza  che contribuiscano a superare i ridicoli esiti dei processi ai “Compagni di merende”, questo blog cercherà di fare la sua parte pubblicando, a partire da oggi, alcuni articoli critici nei confronti della sentenza  di primo grado. Depositato il 30 luglio 1998, il documento circola da tempo in rete (è scaricabile anche da qui), tutti quindi possono esaminarlo e verificarne la pochezza, nascosta dietro circa 250 pagine di caratteri enormi e righe molto distanziate le une dalle altre (il che fa venire in mente quei temi scritti una riga sì e una riga no nell’inutile tentativo di apparire più corposi). È però soltanto a un’attenta lettura, incrociata con quella delle deposizioni in aula, che se ne possono valutare appieno le incredibili pecche. Si può così comprendere come le valutazioni dei giudici si fossero basate soltanto sulle plateali menzogne di Giancarlo Lotti, che il documento adatta con (malevola?) disinvoltura a uno scenario in ogni caso irreale, assurdo, grottesco. A sostegno delle tesi espresse vengono riportate molte frasi prese dalla deposizione del presunto pentito (e dell'amico Pucci), ma si tratta sempre di collage costruiti con vari spezzoni, per di più inserendovi spesso parole neppure pronunciate, o pronunciate da chi stava conducendo l’interrogatorio. In questo modo viene fatto dire a Lotti anche ciò che non disse, vedremo diversi esempi.
Alla fine si può ben affermare, senza tema di smentita, che il documento si colloca al livello più basso della nostra civiltà giuridica recente.

Oltre il processo Pacciani. Preoccupazione preventiva dei giudici fu quella di puntualizzare il rapporto tra il loro procedimento e quello contro Pacciani, confrontandosi di conseguenza con la precedente ipotesi del serial killer unico:

I cinque duplici omicidi di cui all’imputazione […] hanno già formato oggetto […] di un diverso procedimento ed esattamente di quello a carico di Pietro Pacciani, che fu rinviato a giudizio davanti alla Corte di Assise di primo grado di Firenze e giudicato nell’anno 1994 […] nell’ambito di una fase delle indagini impostata sulla prospettiva che l’autore di tanti delitti potesse essere uno solo, come aveva peraltro ritenuto anche una “equipe” di studiosi, che aveva parlato di “serial killer”[…].
Allora nessuno capì o prese in seria considerazione che chi aveva commesso tanti efferati omicidi, qualunque potesse essere la sua motivazione, non poteva aver agito da solo, ma aveva dovuto necessariamente operare almeno con un complice che lo salvaguardasse, durante l’azione omicida e durante la successiva fase del prelievo di organi dal cadavere delle donne, dall’improvviso arrivo sul posto di qualche altra coppietta in auto, che avrebbe potuto sorprenderlo sul fatto, atteso che le aree teatro degli omicidi erano frequentate da coppiette desiderose di appartarsi in intimità e che l’arrivo di un’altra coppietta sul posto costituiva un’ipotesi altamente probabile.

La superficialità del lavoro si evidenzia fin da queste prime frasi. Un fatto clamoroso e di enorme rilevanza criminologica come quello della partecipazione di più individui a delitti del tipo lust murder (mai verificatasi nel mondo intero con le modalità dei “Compagni di merende”) viene giustificato con la semplice necessità di un palo per il possibile arrivo di un’altra coppietta! Per giunta un pericolo che nei fatti, più che “altamente probabile”, era stato inesistente, poiché il Mostro non aveva mai lasciato a metà una delle sue scellerate imprese, né qualcuno aveva mai raccontato di attività sospette viste sui luoghi degli omicidi. Piuttosto la sorprendente affermazione dei giudici ha tutta l’apparenza di un mettere le mani avanti per quella che sarebbe stata la loro opinabile opinione sul ruolo ricoperto da Giancarlo Lotti, assai difficile da inquadrare.
Dopo aver riassunto in breve lo svolgimento delle indagini preliminari, a partire dagli avvistamenti della macchina rossa sotto Scopeti fino alle progressive ammissioni di Lotti, più avanti la sentenza torna a confrontarsi con l’ipotesi “sbagliata” del serial killer unico e con il processo Pacciani, trovando nella “confessione” del presunto pentito il fondamentale valore distintivo del nuovo procedimento:

Il presente procedimento è indubbiamente collegato a quello già celebrato in primo grado a carico di Pacciani Pietro, costituendone una continuazione e, in certo qual modo, anche un superamento: continuazione, perché si tratta degli stessi fatti di omicidio, ma con un’indagine a più vasto raggio; superamento, perché è stata abbandonata quella visione a senso unico, fondata sulla convinzione che l’autore di tanti omicidi potesse essere uno solo, ed è stata invece seguita quella per così dire “pluralistica”, fondata sulla convinzione che gli autori di tanti misfatti potessero essere più persone, che avessero agito in combutta tra loro e con ruoli diversi, integrandosi a vicenda ed apportando ciascuno un contributo essenziale alla riuscita del piano criminoso; e ciò ha portato necessariamente a risultati ben diversi anche in punto di prove, perché ad un procedimento meramente indiziario, come era appunto quello a carico del Pacciani, è subentrato invece un procedimento con tutto un ventaglio di prove, ivi compresa la confessione piena e totale di un imputato.
Il presente procedimento è dunque caratterizzato, per la parte che attiene agli ultimi quattro episodi di duplice omicidio, da una doppia situazione, costituita dalla confessione di un imputato (il Lotti) e dalla chiamata di correo, fatta dallo stesso Lotti, nei confronti dei suoi complici Pacciani Pietro e Vanni Mario, quali esecutori materiali dei delitti.

Rispetto a quello dell’assassino e relativo “palo” ipotizzato poco prima lo scenario si arricchisce, estendendosi a un gruppetto di persone “in combutta tra loro e con ruoli diversi”. Tutto questo grazie alla confessione di Giancarlo Lotti, la quale si inserirebbe entro “tutto un ventaglio di prove”. Vedremo che in realtà altre prove non esistono, al massimo qualche indizio, perlopiù contro lo stesso Lotti, e dunque si può tranquillamente affermare che senza quella confessione e, soprattutto, senza le conseguenti accuse contro Vanni e Pacciani (“chiamata di correo”), l’intero procedimento sarebbe caduto.

La chiamata in correità. Nel nuovo codice di procedura penale la materia riguardante le accuse formulate da un imputato contro altri imputati (generalmente suoi complici) viene regolata dal terzo e quarto comma dell’articolo 192. In particolare il terzo comma così stabilisce: “Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato […] sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”. Con la locuzione “altri elementi di prova”, in modo implicito il codice assegna dunque valore di prova, e non di semplice indizio, anche alla stessa chiamata in correità, richiedendo però il sostegno di adeguati riscontri. Il legislatore intese così scongiurare il pericolo che il coimputato accusasse falsamente altri per alleggerire la propria posizione, senza per questo neppure commettere reati, riconoscendogli il codice il diritto di difendersi anche a suon di bugie (il semplice testimone, invece, può venire incriminato per falsa testimonianza).
Naturalmente i giudici del processo ai “Compagni di merende”, almeno nelle intenzioni, vollero rispettare appieno il dettato del terzo comma dell’articolo 192, il quale viene richiamato espressamente all’inizio della sentenza:

le dichiarazioni accusatorie di un imputato, per quanto credibile possa apparire e per quanto precise e dettagliate possano essere le sue affermazioni, non sono di per sé sufficienti a portare ad alcuna affermazione di responsabilità, né nei confronti dello stesso soggetto che le ha rese né nei confronti di altri, se non sono accompagnate da “riscontri esterni” ben precisi, che confermino l’attendibilità del soggetto […]. I riscontri costituiscono, quindi, un punto molto importante in un processo fondato su dichiarazioni di un imputato che, oltre ad accusare sé stesso, accusa anche altri. Va peraltro precisato che i “riscontri” possono essere di qualsiasi tipo e natura e devono essere comunque tali da confermare, nel loro insieme, “la complessiva dichiarazione concernente un determinato episodio criminoso, nelle sue componenti oggettive e soggettive, e non ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante”, come ha più volte ribadito sul punto anche la Corte di Cassazione con numerose decisioni.
Sicché l’iter da seguire, nella presente motivazione, è quello obbligato di cui all’art. 192 comma 3° CPP, che appunto stabilisce che, quando si verte in “dichiarazioni rese da coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso”, la loro valutazione deve avvenire “unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”.

Il terzo comma dell’art. 192 CPP è particolarmente importante e delicato, poiché importante e delicato è il tema che affronta, che poi, nella pratica, è quasi sempre quello di un reo confesso che trascina con sé i propri complici, esattamente come nel caso di Lotti. Essendo affidata al giudizio umano, la valutazione dei riscontri richiesti dal codice è sempre il punto debole dell’eventuale verdetto di colpevolezza. Naturalmente il problema non si pone quando tali riscontri sono evidenti per loro natura, ma molto più frequente è il caso in cui evidenti non lo sono affatto ma si reggono soltanto assieme alle dichiarazioni del reo confesso, senza le quali rimangono di modesta rilevanza. Non a caso la Corte di Cassazione, anche nella sua forma più autorevole delle Sezioni Unite, è stata chiamata più volte a pronunciarsi sul tema.
Nel frammento precedente la sentenza richiama un pronunciamento della Sezione 1 (sentenza 6784 del 1992), nel quale si discute della natura variegata dei riscontri, cui si richiede la conferma del quadro complessivo del reato, e non soltanto di alcuni particolari di esso. In conseguenza di questa raccomandazione, i giudici si ripromisero di seguire una metodologia che ponesse detti riscontri al centro del loro lavoro; ignorarono però un altro fondamentale pronunciamento della Cassazione, questa volta a Sezioni Unite, contenuto nella sentenza 1653 del 1993 riguardante l’assai noto e controverso caso Sofri-Marino, richiamato peraltro da Antonio Mazzeo nella propria arringa (vedi), nel quale si affronta il tema della credibilità del dichiarante:

[…] in tema di prova, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a mente del disposto dell'art. 192 comma terzo c.p.p. il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (confidente e accusatore) in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici; in secondo luogo deve verificare l'intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni.
L'esame del giudice deve esser compiuto seguendo l'indicato ordine logico perché non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli "altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità" se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa.

L’ammonimento dei giudici intendeva mettere in guardia contro il pericolo che l’analisi dei riscontri esterni fosse influenzata da eventuali menzogne del dichiarante, le quali, in un circolo vizioso, avrebbero potuto dar loro valore per poi riceverlo ancora indietro. Nel guardare a un evento avendo già in mente una sua interpretazione (i racconti del dichiarante) è infatti ineliminabile il rischio di sopravvalutare gli elementi favorevoli all’interpretazione stessa, la quale quindi deve essere ben analizzata prima di procedere. Per questo motivo i giudici della Cassazione richiesero che in primis venisse valutata sia la credibilità del dichiarante di per sé, sia la credibilità del suo racconto (“intanto vediamo la persona, poi vediamo cosa ci dice”, sintetizzò efficacemente Mazzeo), per passare infine ai riscontri esterni. Ma la sentenza contro i “Compagni di merende” non segue affatto quest’ordine logico, e non affronta in modo organico né il tema della credibilità di Lotti né quello della credibilità del suo racconto. Al contrario, dedica tutti i propri sforzi ad approfondire i riscontri, traendone poi profitto nella parte finale per dimostrare che Lotti avrebbe detto la verità: “L’imputato Lotti Giancarlo, per i quattro duplici omicidi ai quali ha partecipato ed ha assistito come complice e come “palo”, ha indubbiamente detto la verità sugli episodi, perché le sue dichiarazioni hanno trovato precisi riscontri probatori”. In sostanza i giudici che condannarono Vanni commisero proprio l’errore che i loro più autorevoli colleghi della Cassazione avevano raccomandato di evitare.

Intrinseca credibilità di Lotti. Che cosa si sarebbe potuto concludere analizzando preventivamente la credibilità di Giancarlo Lotti, e quindi senza tener conto di eventuali riscontri esterni? Parlare di “precisione”, “coerenza”, “costanza” e “spontaneità” riguardo le sue dichiarazioni non è proprio possibile, e neppure i giudici, che pure in base a esse condannarono Vanni, si sentirono di farlo. E allora, una volta preso atto dell’imprecisione, dell’incoerenza, dell’incostanza e della non spontaneità delle dichiarazioni di Lotti, perché la sentenza le ritiene valide?

Prima di entrare in “argomento”, giova comunque premettere, ad inquadramento dell’intera vicenda, quanto ha dichiarato il Lotti nella parte finale della istruttoria dibattimentale, quando, rispondendo alle domande che gli sono state fatte in sede di esame e di contro esame, ha finalmente chiarito la sua posizione, indicando il suo vero ruolo di “palo” e il contributo che aveva dato così agli altri in occasione della materiale esecuzione dei duplici omicidi […]
Con tali ultime dichiarazioni il Lotti ha dunque abbandonato la linea difensiva del tutto assurda ed inverosimile seguita fino ad allora, linea che mirava a far credere, in un primo momento, che era stato soltanto un occasionale spettatore dell’accaduto (prime dichiarazioni) e, successivamente, che aveva invece partecipato ai vari episodi di omicidio però soltanto per costrizione del Pacciani (intermedie dichiarazioni).
Tale premessa appare dunque doverosa, non solo ai fini di meglio “capire” la successione dei fatti, ma anche e soprattutto al fine di meglio valutare la “credibilità” del Lotti, posto che le sue “prime” ed “intermedie” dichiarazioni non sono sempre in linea con le “ultime” perché allora il Lotti aveva avuto tutto l’interesse a dare una versione di comodo, dalla quale risultasse la sua presenza sul posto ma non il ruolo realmente ricoperto: si spiegano così alcune inesattezze o contraddizioni rispetto alle dichiarazioni finali.

I giudici affermarono quindi che nessun pentimento, nessun travaglio interiore aveva portato Giancarlo Lotti a una confessione completa, ma il suo era stato un continuo tentativo di sminuire le proprie responsabilità a suon di bugie, naufragato poco alla volta di fronte alle contestazioni degli inquirenti. A una prima fase nella quale l’individuo aveva cercato di accreditarsi come “un occasionale spettatore dell’accaduto”, ne sarebbe subentrata una seconda di ammissioni giustificate da falsa “costrizione del Pacciani”, e infine una terza, sviluppatasi durante lo stesso dibattimento, dove Lotti avrebbe “finalmente chiarito la sua posizione, indicando il suo vero ruolo di palo”. Viene quindi disegnato un tortuoso percorso in fondo al quale, proprio in corrispondenza del dibattimento, si sarebbe comunque giunti a poter contare su una piena affidabilità dell’individuo.
La ricostruzione dei giudici è del tutto arbitraria e per nulla condivisibile. Si deve innanzitutto riconoscere l’evidenza di un imputato che in dibattimento non aveva mai abbandonato il tentativo di cercare attenuanti nelle minacce e nei ricatti a suo dire subiti da Pacciani, tanto è vero che, durante le battute finali con Mazzeo (vedi), a domanda: “mi scusi, lei aveva tanta paura di essere sputtanato che è diventato complice di quattro duplici omicidi?”, con una grande faccia di bronzo ancora rispondeva: “Mah, se mi costringeva a anda' insieme, i' che facevo io?”. Quindi, a confutazione di quanto dichiarato dai giudici, si può senz’altro affermare che Giancarlo Lotti aveva mantenuto fino all’ultimo una tenace tendenza a minimizzare le proprie responsabilità, seguendo una strategia della quale, peraltro, la sentenza stessa si dichiara consapevole trattando della fase istruttoria:

Sarà questo l’atteggiamento tipico del Lotti, che non si arrende mai di fronte a qualsiasi situazione e che, anche quando ammette un suo coinvolgimento nella vicenda, cerca sempre di trovare una giustificazione alla propria condotta, nella speranza di poter essere poi dichiarato esente da censure almeno sotto il profilo psicologico.

E allora, con quale grado di certezza si poteva sostenere che in aula Giancarlo Lotti si sarebbe deciso a vuotare il sacco fino in fondo abbandonando il precedente tenace atteggiamento contrario? Soltanto una deposizione chiara e coerente avrebbe potuto annullare le perplessità dovute alle tormentate dichiarazioni rese in istruttoria, mentre invece le risposte del presunto pentito erano sempre state confuse e contraddittorie, tantoché la sentenza, che se ne riempie, deve quasi sempre cucirne assieme degli spezzoni per ottenere qualche frase di senso compiuto. In effetti l’estensore del documento fece un gran lavoro nello smontare e rimontare con sfacciata disinvoltura l’immane guazzabuglio, ignorando le parti meno convincenti e tenendo sempre la barra ben dritta verso l’obiettivo reale: dimostrare la colpevolezza di Vanni e Pacciani.

Il ruolo di Lotti. Per Giancarlo Lotti l’accusa aveva chiesto 18 anni di carcere, i giudici gliene diedero ben 12 in più. Ma quale ruolo avrebbe ricoperto secondo loro l’individuo all’interno della scalcagnata banda per meritarsi una pena tanto severa, in pratica l’ergastolo, considerati i suoi quasi sessant’anni d’età? Si ha la netta impressione che le responsabilità del presunto pentito fossero state massimizzate allo scopo di renderne ancora più incisive le accuse contro Vanni e Pacciani. Il discorso, insomma, pare questo: se Lotti si è addossato reati tanto gravi da prendersi trent’anni di carcere, perché avrebbe dovuto raccontar fandonie? Ma non pare che i reati ammessi da Lotti fossero poi così gravi, anche perché a quello più grave di tutti, l’aver anche lui sparato a Giogoli, i giudici non credettero, lo vedremo. Quindi alla fine rimangono le due segnalazioni delle vittime di Scopeti e Vicchio e soprattutto il ruolo di “palo” che a tutti i costi la sentenza vuole assegnargli.

In sede di esame o di contro esame, dichiarava dunque il Lotti: […]
f) che, in occasione della materiale esecuzione dei quattro duplici omicidi, il suo ruolo era stato quello di “palo”, nel senso di stare semplicemente fermo fuori dalla propria auto, ad una certa distanza dal luogo di esecuzione dei delitti, senza fare alcun’altra attività, in modo da scoraggiare con la propria presenza che eventuali altre coppiette, che fossero sopraggiunte in auto, si fermassero lì o addirittura si avvicinassero al punto dove stavano operando il Pacciani e il Vanni […].

Generalmente per “palo” s’intende un malvivente che sta di vedetta per avvertire i complici dell’arrivo di qualcuno. Ma il compito di Lotti sarebbe stato un po’ diverso: rimanere bene in vista vicino alla propria auto per scoraggiare la fermata di altre coppiette. Lui però non lo disse mai in modo chiaro e diretto, è la sentenza che lo asserisce, affannandosi a trovarne conferma, delitto per delitto e con forzature evidenti, in alcune sue frasi smozzicate. Ma è credibile che Vanni e Pacciani avessero chiesto all’individuo di mettersi in evidenza sulle scene dei crimini con il rischio di venire riconosciuto, e quindi costituendo un pericolo anche per loro stessi? Insomma, secondo i giudici l’imprendibile assassino del quale non era mai stata trovata una traccia sarebbe stato in realtà una coppia di deficienti che a Scopeti, ad esempio, avrebbe parcheggiato la propria auto davanti al luogo del delitto e avrebbe chiesto a un complice più deficiente di loro di mettersi sulla strada a fingere di far pipì. È inevitabile domandarsi come dei giudici di un tribunale italiano, alle soglie del 2000, possano aver preso per buono uno scenario del genere. Alla fine, quindi, si arriva alla conclusione che l’aver assegnato a Lotti quello strano ruolo di “palo” è soltanto un espediente per giustificare la sua presenza sulle scene dei crimini, la quale appare sempre artificiosa e inutile.
Vale infine una semplice considerazione, con la quale però si taglia la testa al toro: se si danno per buoni i suoi racconti delle varie dinamiche, prodighi di particolari sulle modalità degli attacchi, si deve per forza collocare l’individuo a pochi metri dalle vittime e con gli occhi puntati su di loro (non va dimenticato che era sempre buio). Pertanto, quale ruolo di palo avrebbe mai potuto svolgere Giancarlo Lotti in quelle condizioni?