sabato 20 febbraio 2016

La scatola di cartucce (2)

Segue dalla prima parte

Individuare l’origine delle munizioni usate dal Mostro, armeria, poligono o mercato clandestino che fosse, risultava impresa impossibile, poiché la stragrande maggioranza delle cartucce calibro 22 LR vendute all’epoca erano delle Winchester, come quelle che usava lui. C’era però un elemento dal quale si poteva sperare di estrarre qualche informazione significativa: la lettera “H” stampata sul fondo del bossolo, che poteva essere soggetta a piccoli cambiamenti da un esemplare all’altro, per vari motivi.
Nella prima parte di questo articolo si è visto che nella sentenza Rotella si parla di “accertamenti peritali esperiti nel 1983 e 1984”. Quasi di sicuro il giudice si riferiva alle indagini condotte da Antonio Arcese e Giovanni Iadevito e raccolte in due perizie, una redatta dopo il delitto di Baccaiano, l’altra dopo il delitto di Giogoli. Chi scrive è in possesso soltanto della seconda, dove, riguardo allo studio della lettera “H”, si può leggere: “Null’altro può aggiungersi se non quanto già esposto, in merito, nel precedente elaborato peritale”. Altre indagini sull’argomento furono effettuate da Ignazio Spampinato e Pietro Benedetti una decina d’anni dopo, in occasione del processo Pacciani, quando si cercò di dimostrare, oltre all’incameramento nella Beretta del Mostro, anche l’eventuale compatibilità “merceologica” della nota cartuccia ritrovata nell’orto con quelle usate nei duplici delitti. Anche questa perizia non è nelle disponibilità di chi scrive, in ogni caso la sentenza Ognibene ne riporta un esaustivo riassunto. In più Giovanni Iadevito accennò all’argomento nella sua deposizione del 29 aprile 1994 (vedi). Proviamo pertanto, sulla base di queste fonti sparse e frammentarie, a tentare un chiarimento, azzardando anche qualche ragionevole ipotesi per superare i vuoti informativi.
Con un metodo simile a quello impiegato nel conio delle monete, l’impronta a forma di “H” veniva impressa da una macchina che spingeva i suoi 20 punzoni affiancati, dotati ognuno di una “H” a rilievo, contro altrettanti bossoli (comuni sia alle munizioni ramate che a quelle in piombo nudo). I punzoni erano soggetti a usura, e dopo qualche centinaio di migliaia di impronte (cinque o sei giorni di produzione) venivano sostituiti con altri nuovi. Tutti i punzoni erano prodotti per fusione da una matrice avente la lettera “H” incavata, che a sua volta si consumava e ogni tanto, forse mesi, forse anni, le fonti non lo specificano, doveva essere cambiata. Essendo prodotte a partire da un’incisione manuale, e comunque rifinite a mano, le matrici avevano delle piccole differenze tra di loro, che si trasmettevano ai relativi punzoni e da questi alle impronte finali. Ecco quindi come lo studio dell'impronta poteva consentire di individuare la matrice di origine, e quindi il periodo di produzione.
I principali elementi che rendevano riconoscibile la lettera "H" impressa sui bossoli del Mostro erano due: il segmento orizzontale che univa i due verticali (le gambe) risultava leggermente inclinato, e uno dei quattro segmenti orizzontali in cima e in fondo alle gambe era di spessore minore nella sua parte esterna. Lo si può vedere chiaramente in questa immagine, dove a sinistra c’è un bossolo espulso dalla Beretta del Mostro.


Al momento della sua prima perizia del 1983, Giovanni Iadevito riuscì a rintracciare nei magazzini della Criminalpol una scatola di munizioni “Winchester.22 LR” la cui “H” risultava di forma identica a quella impressa su tutti i bossoli espulsi dalla pistola del Mostro fino a quel momento. E anche negli ultimi tre delitti quella forma non cambiò. La presenza del numero della macchina impacchettatrice impresso sulla scatola consentì di risalire all’anno di produzione, il 1966. Queste informazioni sono desumibili dalla deposizione di Iadevito, (vedi), dove sembra di poter intuire che quella matrice con quei difetti fu presto sostituita. Quindi tutte le munizioni sparate dalla Beretta del Mostro, sia ramate che a piombo nudo, farebbero parte di una produzione collocabile attorno al 1966.
Prendiamo per buone le conclusioni di Iadevito e ragioniamoci su un momento. Se la pistola fosse passata di mano dopo il 1968, il nuovo detentore avrebbe dovuto acquistare una scatola di cartucce ramate di produzione 1966 o giù di lì (quelle utilizzate nel 1974 a Borgo). Il che però non sembra per nulla irrealistico, poiché un negozio poteva benissimo tenere a magazzino un certo numero di esemplari da smaltire nel corso di più anni, mentre il nuovo detentore avrebbe anche potuto comprare le cartucce poco dopo essere entrato in possesso della pistola, quindi quasi contemporaneamente agli assassini di Barbara Locci. Per di più nel 1966 Firenze era stata sommersa dall’alluvione, e i registri di molte armerie erano andati perduti, favorendo la circolazione di armi e munizioni nel mercato clandestino. Molti dei bossoli repertati sulle scene dei crimini recavano chiare tracce di ossidazione, una loro permanenza tra i fanghi dell’Arno potrebbe esserne stata la causa.

Passiamo adesso a un altro elemento in grado di fornire ulteriori informazioni. Oltre a una forma, l’impronta possedeva anche una profondità e una nettezza, variabili in rapporto al grado di usura del punzone che l’aveva impressa, cosicché le impronte prodotte da punzoni nuovi risultavano ben distinguibili da quelle prodotte da punzoni consumati. In teoria lo studio di questa caratteristica avrebbe potuto dare un’indicazione della probabilità che due bossoli aventi un’impronta di forma identica, dunque derivata da una sola matrice, fossero anche stati prodotti o no a breve distanza l’uno dall’altro, e magari essere stati impacchettati all’interno di una stessa scatola. Consideriamo però le centinaia di migliaia di esemplari che un punzone trattava prima di essere dismesso e l’esigua profondità dell’impronta: è evidente che per poter distinguere una differenza di consumo servivano molti più cicli di punzonatura dei 50 necessari a trattare il contenuto di una scatola. Se poi si considera che i punzoni venivano utilizzati in serie di 20, si può senz’altro concludere che migliaia di bossoli condividevano impronte di fatto indistinguibili. Quindi dimostrare l’appartenenza di due cartucce alla medesima scatola da 50 sulla base di profondità e nettezza della lettera “H” impressa sui relativi bossoli è del tutto impossibile.
Pur con i limiti appena evidenziati, la comparazione di due lettere “H” di identica forma potrebbe comunque restituire informazioni utili, non tanto per accomunare più bossoli in una medesima scatola a impronte indistinguibili, quanto per dividerli in scatole differenti a impronte differenti. È probabilmente quanto fu fatto dopo l’omicidio di Vicchio, quando anche la Procura tentò una comparazione dei bossoli da un punto di vista merceologico, chiedendo la collaborazione dei tecnici della Winchester. In questo lavoro fu coinvolta l’Interpol, e i risultati furono decisamente interessanti, ma non pare siano stati utilizzati per come avrebbero meritato, visto che non ne è rimasta traccia, almeno nei documenti emersi. Per fortuna Gianno Bassano, il responsabile della Winchester per l’Italia, rilasciò alcune interessanti dichiarazioni sull’argomento, pubblicate su “La Nazione” del 21 ottobre 1985:

All’Interpol furono esaminati tutti i bossoli raccolti sui luoghi dei delitti, dal 1968 in poi. Nel corso dei controlli comparati, si scoprì che l'H impressa su parte dei bossoli espulsi dalla pistola del mostro era uguale a quella che compariva su proiettili Winchester calibro 22 Long Rifle che facevano parte della campionatura dell'Interpol. Non ci potevano essere dubbi: dalle gigantografie si vedeva chiaramente che le due H presentavano un segno identico, una piccola sbarratura lasciata dal punzone. I campioni dell'Interpol risalivano a prima del '68. I proiettili del mostro non fanno tutti parte di un unico lotto ma di tre lotti. Tutti però prodotti prima del '68. Lo si è visto dai segni lasciati dai vari punzoni: se il mostro infatti avesse comprato le pallottole, o ne fosse entrato in possesso anche soltanto due anni dopo il '68, le H avrebbero presentato altri segni. È un errore sostenere che i proiettili sono antecedenti al '68 solo perché presentano una H sul fondello, munizioni con l'H sono state prodotte fino a pochi anni fa. È stato solo l'esame all'Interpol a stabilire con certezza che il mostro ha sempre sparato proiettili che possedeva prima del delitto del '68.

Come si vede, oltre alla conferma delle conclusioni di Iadevito sull’anno di produzione, l’articolo contiene un’altra informazione molto importante: i bossoli potevano essere raggruppati in tre differenti lotti di produzione, il che vuol dire, con sufficiente certezza, che le varie cartucce utilizzate nel corso di 17 anni erano state estratte da almeno tre differenti scatole. Vari indizi, dei quali tratteremo in un futuro articolo, fanno ritenere che le cartucce in piombo nudo provenissero da una sola scatola, aperta dall’assassino nel 1981 ed esaurita nel 1985. Quindi le altre due scatole avrebbero contenuto munizioni ramate, e non è illogico pensare che una fosse stata usata nel 1968 a Signa e l’altra nel 1974 a Borgo, sia che il detentore della pistola fosse rimasto il medesimo, sia che fosse cambiato.
Alla fine si può senz’altro concludere che non è affatto dimostrato né dimostrabile che pistola e cartucce ramate avessero “camminato assieme”, per usare l’espressione di Lavorino, dal 1968 in poi, e quindi l’ipotesi dell’estraneo che raccolse l’arma da terra non può affatto escludersi.

Addendum: L'intervento sottostante di Henry62, il cui sito riporta un ottimo studio sul presente argomento (vedi), mi ricorda che i bossoli e le restanti parti della cartuccia (proiettile e carica esplosiva) venivano prodotti in differenti fasi di lavorazione, com'è logico, del resto, e successivamente assemblati. Quindi parlare di lotto di produzione della cartuccia non è la stessa cosa che parlare di lotto di produzione del bossolo. In altre parole, almeno in linea teorica, in dipendenza dei metodi di stoccaggio dei semilavorati, poteva anche capitare che differenti lotti di produzione dei bossoli si mischiassero in un unico lotto di produzione dell'intera cartuccia, e viceversa. Alla luce di queste considerazioni potrebbe forse spiegarsi l'anomalia di uno dei bossoli di Signa che, per Iadevito, sarebbe risultato di un lotto a sé, come riporta la sentenza Ognibene: 

[…] il perito dott. ladevito, nella relazione che accompagnava la perizia espletata in occasione dei duplice omicidio Rontini-Stefanacci, poneva in luce come rispetto ai bossoli relativi a tale episodio, uno dei bossoli relativi all'episodio Locci-Lo Bianco (il bossolo Vl) presentava la lettera H impressa, a suo giudizio, da un punzone diverso (vedi relazione citata, pag. 14).

Tutto questo rende naturalmente ancora più difficile poter assegnare due cartucce a un'unica scatola. A meno che le linee di produzione dei semilavorati procedessero in parallelo, senza stoccaggio.
Riguardo invece l'intervista di Bassano, convengo che contiene evidenti approssimazioni, e non è certo possibile in base a essa ipotizzare il numero delle scatole di munizioni ramate. Infatti, se anche nell'insieme della ventina di cartucce di quel tipo fossero stati rilevati due lotti di produzione dei relativi bossoli, ciò non avrebbe implicato anche due lotti di produzione delle cartucce, che invece avrebbero potuto essere tre come uno soltanto. Tuttavia il dato conforta almeno un po' la mia convinzione personale che a Signa e a Borgo fossero state usate due scatole differenti.

martedì 16 febbraio 2016

La scatola di cartucce (1)

Forse il mistero più grande dell’intera vicenda del Mostro di Firenze è legato al rapporto tra il delitto del 1968 a Signa e i successivi. Appena dopo l’uccisione, nel 1982, di Antonella Migliorini e Paolo Mainardi a Baccaiano – era il quarto duplice omicidio attribuito al Mostro – si scoprì che la medesima pistola era stata usata 14 anni prima per uccidere Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Le indagini di allora, pur lasciando molti dubbi sulla possibile partecipazione di altri soggetti, avevano individuato il colpevole in Stefano Mele, il marito tradito. In ogni caso quel delitto era sempre stato considerato di tipo comune, con i classici moventi dell’interesse o della gelosia. Quindi si poneva il problema di spiegare come un maniaco fosse entrato in possesso della pistola e, anni dopo, avesse ripreso a uccidere delle coppie appartate.
La prima ipotesi formulata dagli inquirenti fu quella di un individuo che avrebbe partecipato al primo duplice omicidio, si sarebbe tenuto la pistola e poi avrebbe maturato comportamenti maniacali sfociati in ulteriori duplici omicidi. Alla base c’era da una parte la certezza che a Signa erano stati i sardi a uccidere, dall’altra l’improbabilità che la pistola fosse uscita dal gruppo. Come ben si sa, seguita con ostinazione dal giudice Mario Rotella per sette anni, la cosiddetta “pista sarda” non portò a nulla di concreto. Da allora sono state formulate altre ipotesi, tra cui le principali sono queste tre:
  • Sardi incolpevoli: il maniaco del 1974-1985 avrebbe ucciso già nel 1968, quindi anche quel delitto sarebbe stato maniacale. Il principale fautore di questa ipotesi è senz’altro Nino Filastò.
  • Depistaggio: i bossoli del faldone di Signa sarebbero stati sostituiti con quelli sparati dalla pistola del Mostro, quindi a sparare nel 1968 non sarebbe stata la medesima pistola. Privilegia questa eventualità più che altro chi vede all’opera sette o comunque potenti organizzazioni.
  •  L’estraneo: dopo che il gruppo dei sardi avrebbe ucciso a Signa, uno sconosciuto, presente non visto all’omicidio, si sarebbe impadronito della pistola gettata a terra dal Mele per poi diventare il Mostro. In realtà si tratta di una possibilità sempre ben presente a tutti i commentatori ma quasi sempre respinta.
Ogni ipotesi ha i suoi pro e i suoi contro, non è però in questo articolo che ne verrà fatta un’analisi completa. Qui si vuole esaminare un unico elemento, ristretto ma importantissimo, del quale sia i fautori della pista sarda sia i fautori del maniaco operante già dal 1968 si sono sempre avvalsi per escludere l’ipotesi dell’estraneo: l’appartenenza delle munizioni utilizzate a Signa e sei anni dopo a Borgo San Lorenzo a un'unica scatola da 50. È chiaro che se l’assassino del 1974 avesse attinto alla medesima scatola del 1968, l’ipotesi del passaggio della pistola a un estraneo al gruppo dei sardi diverrebbe poco sostenibile, essendo molto difficile spiegare come questi sarebbe entrato in possesso anche delle munizioni.
In ognuno degli otto duplici omicidi vennero sempre usate cartucce “Winchester .22 LR”, dette impropriamente “serie H” perché sul fondo del bossolo recavano incusa una lettera “H” maiuscola, come era prassi per molti prodotti Winchester da più di cento anni. L’azienda intendeva rendere omaggio in questo modo a un suo dipendente, Benjamin Tyler Henry, che attorno al 1860 aveva inventato un efficiente fucile a ripetizione. Nei primi anni ’80 il simbolo fu sostituito dalla "W" di Winchester. Nella figura sottostante, tratta dal libro "Rimfire headstamp guide", di George Kass e Ron Merchant, si possono vedere quattro marchi differenti, tra cui i due indicati sopra.


Le cartucce erano vendute in confezioni da 50, e in due tipologie: le “Leader Staynless”, con proiettile in “piombo nudo”, e le “Super Speed”, dette anche “ramate” perché il proiettile, anch’esso di piombo, era ricoperto da un sottile rivestimento di rame. La tipologia ramata, di costo un po’ più elevato ma comunque sempre modesto, aveva il vantaggio di deformarsi di meno all’atto dello sparo, quindi risultava più veloce e penetrante.



Nel 1968 a Signa e nel 1974 a Borgo San Lorenzo furono rinvenuti soltanto proiettili del tipo ramato, mentre nei sei duplici omicidi successivi soltanto proiettili in piombo nudo, escluso uno ramato nel 1983 a Giogoli. Considerando che sia il numero totale dei colpi ramati, meno di 20, sia il numero totale dei colpi in piombo nudo (meno di 50) non superavano la capienza di una scatola, è opinione diffusa che tutte le munizioni provenissero da due sole scatole da 50. Molti dei libri dedicati alla vicenda sposano questo scenario in modo del tutto acritico. Come “Il mostro di Firenze e il caso Pacciani”, scritto nel 1994 da Carmelo Lavorino, nel quale si prende in esame  la possibilità dell’estraneo bocciandola proprio per il problema delle munizioni: 

Stefano Mele ha ucciso la moglie e l’amante, poi si è disfatto dell’arma. Un guardone ha visto la scena, ha raccolto l’arma e nel 1974 ha cominciato a uccidere. È diventato il famoso serial killer dopo aver colloquiato giorno dopo giorno con l’arma assassina, ed averne subito l’effetto criminogenetico e criminodinamico. […]
Vediamo cosa non quadra in questo scenario.[…]
I colpi esplosi nel 1968 erano tutti di una scatola, tutti di tipo ramato. Anche i colpi esplosi nel 1974 erano del tipo ramato e della scatola del 1968: ciò significa che pistola assassina e cartucce ramate hanno camminato assieme dal 1968 in poi. Ciò significa che è impossibile che Stefano Mele abbia buttato contemporaneamente cartucce e pistola […]

Pur da un punto di vista antitetico, più o meno nello stesso momento anche Ruggero Perugini la pensava nello stesso modo (“Un uomo abbastanza normale”, 1994):

Anticipo subito che mi presi la libertà di considerare l’omicidio del 1968 come commesso dalla medesima mano anche se per quel fatto era già stato condannato Stefano Mele, marito della donna uccisa. E questo perché, tutto sommato, non credo alle favole: ivi compresa quella di una pistola che viene trovata (assieme alle relative munizioni) da uno sconosciuto di passaggio. Che siccome ha, vedi caso, qualche piccola mania, se ne serve per ammazzare altre sette coppiette di innamorati.

Scrivevano nel 1996 Francesco Bruno e Andrea Tornielli (“Analisi di un Mostro”):

È nel delitto di Lastra a Signa, primo della lunga e tragica serie, che fa la sua apparizione per la prima volta la pistola Beretta calibro 22, modello Long Rifle. Insieme all’arma maledetta compaiono le cartucce: sono proiettili Winchester, serie H, appartenenti a due scatole diverse. Il Mostro di Firenze continuerà ad usare, fino all’ottavo duplice delitto del 1985, la stessa pistola e gli stessi proiettili provenienti dalle stesse due confezioni.

Così inizia “Il Mostro di Firenze”, scritto nel 2002 da Alessandro Cecioni e Gianluca Monastra:

Otto duplici omicidi, compiuti nell’arco di 17 anni, dal 1968 al 1985. In comune hanno l’arma, una Beretta calibro 22 Long Rifle, i proiettili usati, Winchester serie H, in parte ramati, in parte a piombo nudo, provenienti da due scatole da 50 proiettili.

Più sfumata la posizione di Nino Filastò, che nel 2005 così scriveva su “Storia delle merende infami”:

I bossoli repertati sono tutti della stessa marca Winchester, tutti con la medesima H impressa sul fondello, tutti appartenenti alla medesima partita, si dice addirittura emersi dalla medesima scatola.

Infine Mario Spezi, nel 2006 in “Dolci colline di sangue”, riportò maggiori particolari sull’argomento (e diverse inesattezze, sia sul numero dei colpi ramati, la più clamorosa, sia sui punzoni, questa la vedremo poi, sia sulle “fodere di piombo”, che semmai erano “fodere di rame”):

I proiettili, tutti Winchester serie H, appartengono a una marca e a un tipo che non servono a restringere la ricerca, perché sono tra i più diffusi nel mondo occidentale. Ma tutte quelle cartucce sono state prese dalle stesse due scatole. Fu dimostrato da un esame al microscopio elettronico. I segni H incisi nei fondelli hanno microimperfezioni uguali, indice evidente che furono impressi dal medesimo punzone. Non solo: il punzone, che viene sostituito quando comincia ad essere consumato, rivela anche che quelle due scatole erano state messe in vendita prima del 1968 […]
Ogni confezione, poi, contiene cinquanta cartucce. Ebbene, arrivato al cinquantesimo colpo esploso, iniziando il conto dal delitto del 1968, l’assassino aprì una seconda scatola. Questo è chiaramente indicato dalla circostanza che, se le prime cinque decine erano proiettili ramati, dal colpo successivo erano foderati di piombo.

Adesso diventa semplice capire perché la convinzione dell’unica scatola di cartucce per Signa e Borgo sia così diffusa anche tra gli appassionati di buon livello. Ma gli addetti ai lavori, in questo caso quattro giornalisti, due criminologi, un avvocato e un investigatore, da dove l’avevano tratta? Probabilmente l’origine è nel “Rapporto Torrisi”, un documento del 1986 che doveva essere ben noto in ambienti giornalistici e, naturalmente, investigativi, dove si può leggere:

− qualora qualcuno, subito dopo il delitto, si fosse disfatto dell'arma, appare inspiegabile come mai l'attuale possessore abbia la disponibilità, oltre dell'arma stessa anche delle cartucce contraddistinte sul fondello dalla medesima lettera "H" ed appartenenti allo stesso lotto;
− siffatta ipotesi, perché sia realizzabile, presuppone l'esistenza di due condizioni strettamente interdipendenti fra loro:
• l'omicida del primo delitto, quello di Signa, del 68, avrebbe dovuto portare appresso, oltre alla pistola, anche il munizionamento completo, – in tutti gli otto duplici delitti, di colpi ne sono stati esplosi almeno 66, tra proiettili ramati ed in piombo –;
• l'omicida, subito dopo la consumazione del delitto si è disfatto dell'arma e di tutte le munizioni, e qui non si comprendono i motivi per cui egli si porti appresso tutte le cartucce, dal momento che la previsione del loro impiego è limitata.

Appare francamente incredibile la superficialità con la quale l’allora tenente colonnello dei carabinieri Nunziato Torrisi, principale investigatore sul campo nell’ambito della pista sarda, affrontò il tema. Dalle sue parole sembra addirittura che gli assassini di Signa avrebbero dovuto portarsi dietro non una, ma due scatole di cartucce (“il munizionamento completo”). C'è da dire che anche in altri casi l'innamoramento per la propria tesi (la colpevolezza di Salvatore Vinci) giocò brutti scherzi all'altrimenti bravo militare.
Tre anni dopo il giudice Rotella fu più onesto, scrivendo nella nota sentenza:

Quanto alle cartucce adoperate, gli accertamenti peritali esperiti nel 1983 e 1984 non forniscono certezze. È possibile stimare, con sufficiente approssimazione, che le cartucce, di piombo nudo o in bagno di rame (più veloci), tutte Winchester, marcate ‘H’ sui fondelli, provengano da due partite e relativi inscatolamenti, ovviamente precedenti all’epoca di consumazione del primo omicidio.

Finalmente si comincia a parlare di “accertamenti peritali”, i quali però, e Rotella lo ammette, non avevano fornito certezze. Così il giudice si affida più modestamente a una stima di “sufficiente approssimazione” per sentirsi confortato nel percorrere la medesima strada di Torrisi. Ma Rotella era troppo intelligente per non avvertire l’imbarazzo di quanto stava scrivendo, e lo dimostra l’errore relativo alla scatola di cartucce in piombo nudo, la quale poteva anche essere stata comprata prima del delitto di Signa, come lui scrive accomunandola a quella delle ramate, ma non “ovviamente”, risalendo soltanto al 1981 il suo primo utilizzo certo.
A questo punto non resta che andare a vedere quali furono gli accertamenti peritali con i quali si indagò su cartucce e relative scatole.

domenica 7 febbraio 2016

La macchina rossa (3)


Durante i processi di primo e secondo grado ai cosiddetti “Compagni di merende” la datazione del delitto degli Scopeti alla domenica sera non venne messa granché in discussione dalla difesa di Mario Vanni, più che altro perché mancavano validi elementi di contrasto. Il principale tra questi, il parere dell’entomologo Francesco Introna sullo stadio di sviluppo delle larve di mosca desumibile dalle foto dei cadaveri, è infatti di qualche anno dopo (2002), anche se qualcuno aveva già sfiorato l'argomento. La strenua battaglia di Nino Filastò e Antonio Mazzeo per dimostrare che Pucci e Lotti mentivano fu combattuta sulla questione della Fiat 128 coupé rossa. Il 16 marzo 1998, mentre il processo di primo grado stava terminando con le repliche delle parti civili, Filastò chiese la parola per annunciare una clamorosa scoperta: da una ricerca effettuata presso il PRA era risultato l’acquisto di una Fiat 124 da parte di Giancarlo Lotti il 3 luglio 1985, quindi due mesi prima del delitto degli Scopeti. Pertanto, a logica, l’8 settembre 1985 Lotti doveva già guidare l’auto nuova, anche se la vecchia risultava ancora in suo possesso, poiché fu demolita il 19 marzo 1986, come era emerso dalla deposizione del poliziotto Fausto Vinci (vedi).
La discussione orale fu quindi interrotta per ascoltare, il giorno dopo, la versione di Lotti e alcuni testimoni: Karl Schwarzenberg, precedente proprietario della 124, Gino Coli, rappresentante dell’officina “Bellini” che l’aveva venduta, i fratelli Roberto e Luigi Scherma, datori di lavoro di Lotti, che avevano anticipato i soldi e avevano visto per anni le due auto. Purtroppo la trascrizione delle udienze del 16 e 17 marzo 1998 non è ancora uscita su “Insufficienza di prove”, il mai troppo lodato sito che sta pubblicando l’intero processo, però l’argomento è stato affrontato dalla sentenza, alla quale quindi possiamo riferirci.
A quanto risultava dal certificato esibito dal difensore di Lotti, la Fiat 124 era stata assicurata con una nuova polizza a partire dal 20 settembre 1985, il medesimo giorno in cui scadeva la vecchia sulla Fiat 128. Dal canto suo il rappresentante dell’officina “Bellini” aveva affermato categoricamente che le auto venivano consegnate soltanto dopo la stipulazione della polizza assicurativa, quindi Lotti poteva aver ritirato la propria Fiat 124 non prima del 20 settembre. A sua volta Lotti lo confermò, mentre i fratelli Scherma non furono d’aiuto, poiché testimoniarono d’aver visto la Fiat 128 ferma a lungo davanti casa di Lotti, ma non seppero precisare a partire da quando.
Alla fine questo fu il parere dei giudici:

Sicché, sulla base delle predette risultanze, deve escludersi che il Lotti abbia avuto la disponibilità della FIAT 124 prima del 20 settembre 1985, essendo la copertura assicurativa di tale auto iniziata alle ore 24 di tale data ed essendo stato il teste Coli categorico nell'escludere che l'auto potesse essere stata consegnata al Lotti prima del 20 settembre, senza copertura assicurativa.

Nell’intervallo tra il primo e il secondo grado, le ricerche degli avvocati di Mario Vanni proseguirono, in particolare a opera di Mazzeo, il quale si recò presso l’agenzia assicurativa dove trovò ancora giacenti i dossier relativi alle due polizze. Poté così reperire un certificato dal quale risultava che, a partire dalle ore 10 del 25 maggio 1995, la copertura del 128 era stata girata sul 124. Come si vede la data era di oltre un mese anteriore a quella d’iscrizione dell’atto di vendita/acquisto al PRA (3 luglio), un fatto comunque normale.
La scoperta di Mazzeo poneva sul piatto della bilancia due elementi di grande rilievo. Il primo: domenica 8 settembre 1985 Lotti aveva la disponibilità della Fiat 124, per la cronaca di colore blu, già da oltre tre mesi. Il secondo: in quello stesso giorno la Fiat 128 era priva di copertura assicurativa. In più l’avvocato aveva potuto reperire la documentazione di due piccoli incidenti, entrambi a responsabilità di Lotti, nei quali era stata coinvolta la Fiat 124, uno il 22 giugno e l’altro il 31 luglio 1985. A suo parere quella era la prova che l’individuo circolava con la nuova auto, non con la vecchia.
In base ai nuovi importanti documenti, all’apertura del processo di secondo grado la difesa di Vanni chiese e ottenne la riapertura del dibattimento, di solito non previsto in sede d’appello. Fu quindi sentito per primo Alberto Bartoli, rappresentante della compagnia assicurativa (vedi), il quale consegnò la documentazione originale che attestava sia il trasferimento della copertura da 128 a 124, sia i due sinistri provocati dalla 124. Del secondo fu anche rintracciato e interrogato il proprietario dell’altra auto, il quale riconobbe la propria firma in calce alla relativa denuncia, ma, stranamente, del fatto disse di non ricordare nulla.
I nuovi elementi davanti ai quali si erano venuti a trovare i giudici della Corte d’Appello indubbiamente contraddicevano le affermazioni di Lotti in primo grado, secondo le quali fino al 20 settembre 1985 l’auto nuova era rimasta in officina perché priva d’assicurazione. Quindi l’imputato fu chiamato a renderne conto. Ma prima di dare un’occhiata alle sue spiegazioni una riflessione pare opportuna.

Con le nuove informazioni acquisite grazie alle ricerche dei difensori di Mario Vanni, si era delineato uno scenario del tutto nuovo sulla decisiva e delicata questione della Fiat 128 coupé rossa. Lotti era entrato nella vicenda grazie alla testimonianza di Gabriella Ghiribelli che sotto Scopeti aveva notato un’auto di identico modello e colore ritenendo che fosse la sua. Quando Vigna lo aveva interrogato, l’11 febbraio 1996, Lotti sapeva bene che gliene sarebbe stato chiesto conto, lo avevano avvertito la stessa Ghiribelli e prima ancora la Nicoletti. Ma se davvero già mesi prima del delitto aveva cambiato auto, perché non dichiararlo fin da subito? Alla richiesta di quali auto avesse posseduto l’unica che era rimasta fuori dal suo elenco era stata proprio la Fiat 128 coupé rossa, mentre alla susseguente contestazione aveva cercato di negare (“La macchina non era la mia... se dico no è no”), quindi non si comprende il perché non avesse aggiunto che da tempo non usava più quell’auto, avendone acquistata un’altra. È pensabile che se ne fosse dimenticato?
Quando, al termine del processo di primo grado, la difesa di Vanni aveva portato in aula la documentazione che attestava l’acquisto del 124 nel maggio 1985, Giancarlo Lotti avrebbe potuto approfittare dell’occasione per tentare di tirarsi fuori dagli impicci, buttando le carte per aria. Invece no: di fronte alle domande incalzanti di Mazzeo e Filastò aveva ribadito con forza che a quel tempo lui guidava la Fiat 128 rossa, anche nella serata del delitto degli Scopeti. Si trattava di un comportamento poco comprensibile per un individuo che aveva sempre cercato di minimizzare le proprie responsabilità, tanto più se era innocente, come ritenevano i due avvocati, i quali di conseguenza avrebbero fatto bene a interrogarsi sulla correttezza della loro impostazione difensiva.
Ma supponiamo pure che Giancarlo Lotti fosse stato speranzoso fino all’ultimo di potersela cavare con poco, magari senza neppure un giorno di galera, e per questo avesse rinunciato ad approfittare dei nuovi elementi emersi in suo favore. Ebbene, dopo la condanna a trent’anni avrebbe dovuto aprire gli occhi, lui e anche il suo avvocato, il quale invece aveva preparato l’appello chiedendo soltanto una riduzione della pena per la minima partecipazione e per il merito di aver confessato (tra l'altro senza successo).
Dello spostamento dell’assicurazione dalla Fiat 128 alla Fiat 124 mesi prima del delitto degli Scopeti, e dei due incidenti con la 124, naturalmente Lotti aveva sempre saputo, e quindi risulta assai strano che non l’avesse mai detto. In ogni modo, nel momento in cui fu chiamato a testimoniare in appello, quelle informazioni erano venute fuori da sole. Ebbene, nonostante il peso dei trent’anni di carcere rimediati in primo grado, Lotti continuò ad affermare di aver guidato la Fiat 128 rossa anche dopo l’acquisto della Fiat 124 blu! “Io le adoperavo tutte e due le macchine, il 128 e il 124”, rispose a domanda del Consigliere relatore, giustificandosi con il solito “forse non mi ricordavo preciso” per aver dichiarato tutt’altro in primo grado, ossia di aver usato fino al 20 settembre soltanto il 128. E di fronte agli agguerritissimi avvocati di Vanni non cedette di un millimetro. Questo fu l’inizio dello scambio con Filastò (vedi):

Filastò: Lotti, lei quando è stato interrogato il 17 marzo dell'anno scorso ha detto per 8 volte, 8, guardi è a pag.15, il Presidente le chiede "ha lasciato la 128 per prendere la 124?" e lei dice "si"...
Lotti: Si, ma l'ho lasciata l'anno prossimo, l'anno dopo ma l'adoperavo sempre, non l'ho spiegato ancora...
Filastò: Aspetti.
Lotti: Si, io l'è tanto che aspetto!
Filastò: A pag.24 lei dice "quando presi il 124 l'era ferma la macchina 128"...
Lotti: No unn era ferma la macchina!
Filastò: Allora non è vero questo!
Lotti: Chi lo dice che era fermo?
Filastò: Lei lo ha detto! Lei! A pag.24.
Lotti: No, unn è vero!
Filastò: Bene, non è vero nulla, registrate "non è vero nulla".
Lotti: L'ho adoprata e basta.
Filastò: Pag. 26...
Lotti: Si e pagina ventison!
Filastò: "Io quando presi il 124 l'era ferma." E due!
Lotti: NO
Filastò: Va beh, l'ha detto qui a pag.27, "quando presi la 124 il 128 l'era ferma".
Lotti: L'era ferma nel marzo dell'86.
Filastò: Quindi non quando ha preso il 124.
Lotti: O unn ho detto fino a ora, l'adopravo! Lo so solamente IO se l'adopravo o no. NON LO SA ALTRI!

L’interrogatorio andò avanti su identici toni e con identici risultati, con Filastò che alzava la voce e Lotti che faceva altrettanto, senza timori e soprattutto senza spostarsi dalla propria posizione. Poi fu la volta di Mazzeo, il quale, seppur dotato di nervi più saldi del collega, non ebbe maggior fortuna di lui.

Mazzeo: La domanda è questa: lei perché ha comprato la 124? Perché le piaceva oppure perché la 128 era rotta?
Lotti: No unn era rotta!
Mazzeo: Allora ha detto la verità oggi quando dice che non era rotta o ha detto la verità l'anno scorso quando ha detto che era rotta?
Lotti: Non alzi tanto la voce con me, sennò un dico più niente!
Mazzeo: Parlo lento, lento, piano, piano...
Lotti: Perché alza la voce?
Mazzeo: Mi risponde per piacere?
Lotti: O non gliel'ho detto già... Adopravo sia il 128 che il 124.
Mazzeo: No, la domanda è un'altra.
Lotti: No la domanda è questa! Però, la voce, perché non l'abbassa un pochino?
Mazzeo: Lei ha detto la verità l'anno scorso...
Lotti: Non mi ricordavo di preciso...
Mazzeo: Non mi lascia fare la domanda!
Lotti: Non alzi la voce con me, l'ho già detto! No, perché sennò un ci si capisce!
Mazzeo: È un'arroganza intollerabile presidente! Lei ha detto la verità l'anno scorso o l'ha detta oggi?
Lotti: L'andava anche quella lì, andava anche il 128.

Non si era mai visto un individuo difendere con tale ostinazione e veemenza i propri trent’anni di carcere, a maggior ragione se era innocente come ritenevano i due avvocati! Tra l’altro ci riuscì benissimo, poiché i trent’anni furono ridotti di ben poco, a ventisei, i quali, per un uomo di quasi sessanta, equivalevano a un ergastolo.

In questo scenario, tutto da interpretare, va comunque puntualizzato che le scoperte della difesa di Vanni sulle polizze assicurative non dimostravano affatto che Giancarlo Lotti non poteva essere andato domenica 8 settembre a Scopeti con la Fiat 128 rossa. Al massimo potevano ingenerare delle perplessità sul comportamento, in apparenza assurdo, di chi avrebbe usato un’auto non in regola avendone avuto a disposizione una in regola e più affidabile. È quanto ancor oggi sia Filastò sia Mazzeo sostengono, come quest’ultimo nella recentissima puntata di NeroToscana trasmessa da RTV38 (vedi), dove così risponde al conduttore Francesco Selvi:

Se lei fosse stato il chiamante in correità Lotti, e nel luglio del 1985, prima dell’ultimo delitto del Mostro, avesse avuto a disposizione una macchina vecchia, rotta, con la batteria finita, senza assicurazione, e contemporaneamente una macchina nuova, con l’assicurazione, in grado di circolare, con quale di queste due macchine lei sarebbe andato a commettere questo omicidio?

Mettersi nei panni degli altri è sempre molto difficile, ancor più a fronte di situazioni che si allontanano decisamente dall’usuale, sia per motivi interni (personalità dell’individuo), sia per motivi esterni (condizioni al contorno). Certamente Francesco Selvi non avrebbe agito come Giancarlo Lotti se fosse stato accusato ingiustamente, come ritiene Mazzeo, di aver partecipato ai delitti delle coppiette, confessando e prendendosi 26 anni di carcere. E allora perché Giancarlo Lotti avrebbe dovuto comportarsi come Francesco Selvi nella questione delle auto? In realtà, con qualche sforzo in più e soprattutto senza voler difendere a tutti i costi le proprie tesi, si può ipotizzare un plausibile perché nel suo comportamento.
Con in mano un’auto ormai a fine vita (“il 128 gli era quasi per finire”), la Fiat 124 blu che aveva visto dal “Bellini” era parsa a Giancarlo Lotti un’occasione da non perdere (“Perché la comprai? Perché la pagai poco e poi mi garbava quella macchina lì”). Per poterla ritirare l’aveva assicurata girando su di essa la polizza della Fiat 128, ancora valida fino al 20 settembre. Secondo le regole vigenti avrebbe dovuto restituire il vecchio tagliando esposto sul parabrezza, ma non lo fece (“ci avevo il coso, però non era assicurata”, “quando la tiensi ferma c'era sempre il contrassegno alla macchina”). In effetti quel tagliando non era stato rintracciato tra le carte presenti nei dossier in agenzia, e in dibattimento l’allora titolare, Roberto Longo, dichiarò che con clienti conosciuti la regola poteva anche non essere rispettata (vedi).
A partire dal 25 maggio 1985 Giancarlo Lotti si era così trovato in possesso di due auto, la nuova regolarmente assicurata, la vecchia no, ma con un tagliando sul parabrezza che gli avrebbe consentito, fino al 20 settembre, di superare i normali controlli delle forze dell’ordine, per le quali la situazione appariva regolare. Se di venderla non c’era speranza, essendo ormai troppo vecchia, l’auto comunque era ancora in grado di viaggiare, e a un soggetto che comperava soltanto mezzi con vita residua di due o tre anni (la 128 era stata acquistata nel marzo 1983, ad esempio), poteva sembrare un peccato non sfruttarla per qualche altro mese, allungando così la vita della nuova 124. Non è quindi irragionevole ritenere che Giancarlo Lotti, almeno fino al 20 settembre, avesse circolato soltanto o prevalentemente con la vecchia auto.
È vero che i sinistri del giugno e del luglio nelle denunce all’assicurazione Lotti li aveva attribuiti al 124, ma non avrebbe potuto fare altrimenti, poiché soltanto quell’auto risultava coperta da una polizza valida.  Lotti ne era ben consapevole, come dimostra questo scambio col Consigliere relatore: “Quindi col 128 circolava senza assicurazione?”, “Ma avevo l'assicurazione di quell'altra macchina!”. Anzi, la dichiarazione della seconda persona coinvolta di non ricordare nulla (l’altra non era stata convocata) lascia sospettare che Lotti fosse stato alla guida proprio del 128. Pare strana, infatti, quell’amnesia per un evento fuori dall’ordinario come un incidente automobilistico, considerando anche il tempo che il teste dovette avere a disposizione per far mente locale dopo essere stato convocato. Per questo pare lecito immaginare che dietro ci fosse stato un piccolo e comprensibile inganno. Se Lotti aveva provocato l’incidente con il 128, per lui poteva nascere un bel problema, ma anche il danneggiato avrebbe fatto fatica a recuperare i propri soldi, quindi per entrambi la soluzione migliore sarebbe stata quella di dichiarare il 124 al posto del 128. Se così era andata, affermando in aula di non ricordare nulla la persona aveva evitato di confessare il sotterfugio senza però commettere un reato di falsa testimonianza.

Allo stato niente impedisce di ritenere che fossero proprio Giancarlo Lotti e Fernando Pucci i due individui che a bordo di una macchina rossa sportiva si aggirarono attorno alla piazzola di Scopeti domenica 8 settembre 1985. Si tratta di un dato che lo storico deve prendere in considerazione e spiegare. A chi scrive pare del tutto pretestuoso nascondersi dietro la mancanza di un riconoscimento certo, oppure attaccarsi alla inaffidabilità della testimone Ghiribelli, come pure fanno i due amici “mostrologhi” che sono intervenuti sulle puntate precedenti.
Nel primo caso si dovrebbe accettare una coincidenza enorme: nel 1995 gli inquirenti sarebbero stati così fortunati da aver trovato due personaggi, estranei alla vicenda ma disposti ad ammettere la loro presenza a Scopeti (Lotti e Pucci), la cui fisionomia era altamente compatibile con quella di due sconosciuti che effettivamente si erano aggirati attorno alla piazzola. E, di più, a bordo di un’auto del tutto particolare, sia per modello sia per colore, come del tutto particolare era la rara e desueta Fiat 128 coupé di Lotti.
Nel secondo caso ci sono le testimonianze dei coniugi De Faveri-Chiarappa, ben coordinate con quella di Sabrina Carmignani, a tagliare la testa al toro. In sostanza, se il fatto da dimostrare è lo strano interesse di Lotti e Pucci verso la tenda dei francesi in quella domenica, e non la loro partecipazione al delitto, l’avvistamento di Gabriella Ghiribelli è soltanto un di più. In ogni caso a chi scrive pare davvero fazioso ignorare la valenza della telefonata intercorsa tra Ghiribelli e Nicoletti la sera stessa dell’interrogatorio della prima. Non si capisce perché, nel parlare con l’amica, la Ghiribelli avrebbe dovuto mentire dicendo: “Io l'unica cosa che posso dire è che una macchina arancione l'ho vista sotto le luci piccole piccole di strada, sai è una strada piccola. Potrebbe essere stata arancione, potrebbe essere stata rossa, scodata di dietro. Mi hanno fatto vedere la foto e l'ho riconosciuta”.
Una volta accettato il fatto – la presenza di Lotti e Pucci sotto la piazzola di Scopeti a delitto già avvenuto da due giorni – è necessario tentarne un’interpretazione, soprattutto tenendo conto di quanto sarebbe accaduto dieci anni dopo. Per il momento vorrei fornire due spunti. Il primo è tratto da una dichiarazione televisiva rilasciata all’epoca da Giangualberto Pepi, storico avvocato di Mario Vanni poi ritiratosi all’arrivo di Filastò (la riprende il filmato di Paolo Cochi, visibile qui, al minuto 28): “vi potrebbe anche essere la possibilità che questi personaggi che si fanno vivi dopo 11 anni vogliano nascondere qualche cosa che forse potrebbe riguardarli anche direttamente”. Il secondo è il già noto pensiero di Vieri Adriani su Lotti, ribadito durante la puntata di NeroToscana di cui si è detto (vedi al minuto 62):

Non necessariamente lui ha detto il falso quando ha detto di essere lì la sera. Lui forse ha visto qualcosa, forse c’è stata una manomissione della scena criminis… però chi l’abbia compiuta non voglio dirlo né posso saperlo, però che sia completamente insincero su questa sua presenza la sera dell’8, che comunque sarebbe successiva al delitto, io mi sentirei di poterlo escludere.

mercoledì 3 febbraio 2016

La macchina rossa (2)


Quando Sabrina Carmignani, nelle dichiarazioni del 6 dicembre 1995 rese di fronte a Giuttari, precisò il colore rosso dell’auto da lei vista a Scopeti, ancora gli inquirenti probabilmente non pensavano che l’autista potesse essere Giancarlo Lotti. La dimostrazione è data dall’interrogatorio dello stesso, avvenuto il 15 successivo sempre di fronte a Giuttari, dove all’individuo nulla fu chiesto sul tema. Almeno questo risulta dal resoconto uscito sia su “Compagni di sangue”, sia su “Il Mostro”. A dire il vero però qualcosa nell’aria avrebbe già dovuto esserci, poiché il 27 novembre precedente, quindi a testimonianza DeFaveri-Chiarappa già resa, era stata sentita Filippa Nicoletti, la quale aveva riferito che Lotti all’epoca una macchina rossa l’aveva avuta. Di quell’interrogatorio si sa poco, soltanto i brevi cenni riportati dai libri di Giuttari, però si conosce il testo di una telefonata tra la stessa Nicoletti e Lotti avvenuta il giorno dopo l’interrogatorio di quest’ultimo. Era stato Lotti a chiamare, curioso di conoscere le domande rivolte all’amica, il cui telefono era sotto controllo. Ecco il passo che qui interessa (da “Il Mostro”):

Lotti: Ma a te cosa t'hanno chiesto?
Nicoletti: Più o meno quando ti ho conosciuto. Come ho fatto a conoscerti. Se io conoscevo le foto di persone che erano in un album. Se conoscevo la tua macchina. Se avevi una macchina rossa!
Lotti: La macchina rossa?... ah, sì! Ah! Io le ho avute! Ah, quel coupé, il 128! Ti hanno chiesto di quello?

La Nicoletti era stata sentita da Canessa, non da Giuttari, il quale ancora in quel fine novembre stava raccogliendo le idee, e forse proprio per questo l’accenno alla macchina rossa non era stato valutato con la dovuta attenzione. Ma neppure dopo l’ascolto della telefonata sembra che Lotti e la sua 128 coupé avessero fatto drizzare le orecchie al novello superpoliziotto, poiché l’interrogatorio di Gabriella Ghiribelli, l’amica prostituta segnalata dallo stesso Lotti, lo delegò ai propri collaboratori. E dalle parole della donna, quel 21 dicembre, la macchina rossa tornò ancora fuori, e in modo clamoroso. Purtroppo il verbale dell’interrogatorio non è ancora emerso, però sono emersi cospicui frammenti (vedi) della telefonata che avvenne la sera stessa tra Ghiribelli e Nicoletti, dei quali qui interessa il seguente:

Ghiribelli: Io l'unica cosa che posso dire è che una macchina arancione l'ho vista sotto le luci piccole piccole di strada, sai è una strada piccola. Potrebbe essere stata arancione, potrebbe essere stata rossa, scodata di dietro. Mi hanno fatto vedere la foto e l'ho riconosciuta.
Nicoletti: Si, ma è vecchia, quella macchina...
Ghiribelli: Appunto... ma è una cosa assurda!
Nicoletti: Ma ne ha cambiate tante di macchine, ne aveva una celestina, poi arancione, poi una rossa, poi ne ha presa un’altra rossa, una gialla ce n'aveva...
Ghiribelli: Senti, mi hanno domandato in Questura - ma il Lotti che macchine aveva? - e io gli ho detto rossa, una con la portiera rosa perché la portiera gli si era rotta e lui ne aveva presa una al disfacimento, e l'aveva messo questa portiera rosa.
Nicoletti: Sei sicura?
Ghiribelli: Son sicura di quello...
Nicoletti: Ma è stata quell'altra macchina che ha sostituito lo sportello! Quella che aveva prima di ora, quell'altra ancora prima era una sportiva...
Ghiribelli: Addirittura?

La Ghiribelli si riferiva alla serata della domenica 8 settembre 1985, quando, passando con il suo protettore dell’epoca Norberto Galli, aveva visto parcheggiata un’auto rossa sotto la piazzola di Scopeti. È evidente che quell’auto era la medesima vista al pomeriggio dai coniugi De Faveri-Chiarappa e da Sabrina Carmignani; poteva esser rimasta parcheggiata lì fin dal pomeriggio, ma sembra assai più probabile che dopo l'ultimo passaggio dei coniugi anche il guidatore se ne fosse andato, se non altro a mangiare, e poi alla sera fosse tornato, magari di nuovo assieme al compagno. E se l’interesse era per la tenda dei francesi, si può immaginare che l’uomo fosse salito fin nelle sue vicinanze, visto il buio che non consentiva più di vederla dal di sotto.
La Ghiribelli aveva dunque confermato che quella domenica qualcuno che guidava un’auto rossa sportiva si era aggirato in modo sospetto attorno alla piazzola di Scopeti. E, di più, ne aveva suggerito l’identità. Anche se dalla trascrizione della telefonata non se ne ha la conferma certa, è molto probabile che di fronte ai poliziotti che l’avevano sentita per primi la donna avesse già collegato l’auto a Giancarlo Lotti. Giuttari nei suoi libri non lo dice, ma si potrebbe anche pensare a una licenza “narrativa” allo scopo di rendere più appassionante un racconto del quale lui stesso risulta il protagonista principale. In ogni modo è sicuro che il collegamento la donna lo fece il 27, quando a interrogarla fu lo stesso Giuttari, evidentemente resosi conto dell'importanza di quanto aveva da dire. Da “Il Mostro”: 

Ritornando da Firenze, la sera prima del giorno in cui fu diffusa la notizia del duplice omicidio degli Scopeti intorno alle 23:30, insieme al mio protettore dell’epoca, proprio in corrispondenza della tenda […] ebbi modo di constatare la presenza di un’auto di colore rosso o arancione con la portiera, lato guida, di altro colore sempre sul rossiccio, ma più chiaro dell’intero colore del mezzo […] Quando si seppe la notizia in San Casciano del duplice omicidio, Norberto mi disse di tacere per non trovarci entrambi nei guai [...]

Tra le varie immagini di auto che le furono mostrate la Ghiribelli indicò una Fiat 128 coupé, quindi ci sono pochi dubbi sul fatto che quella sera avesse visto l'appariscente e rara Fiat 128 coupé rossa posseduta all’epoca da Giancarlo Lotti. Riguardo il particolare della portiera di colore differente, è possibile che la donna si fosse confusa con un’altra auto posseduta da Lotti fino a pochi mesi prima, una Fiat 131 anch’essa rossa sulla quale, dopo un incidente, era stata sostituita una portiera con un’altra recuperata da un rottamaio. È quello che si potrebbe arguire dal frammento di colloquio telefonico tra Ghiribelli e Nicoletti riportato poco sopra. Alla fin fine si tratta di un particolare non troppo rilevante, sul quale però molti fanno leva per denigrare la testimonianza, che invece la telefonata del 21 sera qualifica come del tutto genuina.
In effetti il racconto della Ghiribelli risultava semplice e lineare. Il clamoroso avvistamento era avvenuto dopo una giornata di “lavoro” a Firenze, al rientro a San Casciano con l’auto guidata da Galli. I due erano passati da via Scopeti per raggiungere, sulla vicina via di Faltignano, la casa di Salvatore Indovino, al quale la donna praticava delle iniezioni perché molto malato (l’anno dopo sarebbe morto di tumore). La sera stessa Giuttari fece prelevare Galli, da molti anni non più in rapporti con la sua antica protetta, il quale sostanzialmente ne confermò il racconto. Di quell’interrogatorio è noto soltanto lo scarno sunto pubblicato ne “Il Mostro”, ma Galli sarebbe stato sentito al processo, il 3 luglio 1997, quindi ci si può riferire alla relativa deposizione (vedi). In effetti l’auto sotto la piazzola di Scopeti l’aveva vista anche lui, ma con la coda dell’occhio, senza poterne identificare con certezza il colore (nell’interrogatorio aveva detto “credo fosse di colore bianco, forse chiara”), ricevendo comunque l’impressione di un modello di media cilindrata. A mezzi denti, l’uomo ammise di aver vietato alla Ghiribelli di andarne a parlare con le forze dell’ordine, quando era venuta fuori la notizia del delitto, confermando in questo modo sia l’avvistamento in sé stesso, sia la sua collocazione temporale.
Riguardo la testimonianza di Galli, va fatta una precisazione. Oltre che nel colore dell'auto, il suo racconto divergeva da quello della Ghiribelli in un altro importante particolare: a suo dire non stavano andando a casa di Indovino per fargli un’iniezione, ma Indovino era in auto con loro e a casa ce lo stavano accompagnando dopo una passeggiata. Questo almeno è quanto scrive Giuttari ne "Il Mostro", che poi così commenta: “Un uomo molto ammalato che desidera passare dal luogo del delitto, proprio quella notte, proprio a quell'ora!”. La circostanza in seguito sarebbe stata categoricamente esclusa dalla Ghiribelli (8 febbraio), e lo stesso Galli in dibattimento non se ne sarebbe mostrato affatto sicuro: “Non mi ricordo di preciso questo particolare, perché in quel periodo lui stava poco bene e si andava a fargli la puntura, si faceva la puntura”. Non si può prescindere dal sospetto che le prime dichiarazioni del preoccupatissimo Galli fossero state un po’ troppo accondiscendenti verso le aspettative di chi lo stava interrogando. Giuttari, infatti, era molto interessato alla figura del sedicente mago, sulla quale, con l’aiuto soprattutto dell’istrionica Ghiribelli, avrebbe costruito parte delle proprie fantasiose teorie esoteriche. 
Un’altra informazione importante che la Ghiribelli fornì agli inquirenti riguardò Fernando Pucci, un personaggio che all’epoca, a suo dire, era sempre assieme a Giancarlo Lotti. Quindi i due individui che si erano trattenuti sotto la piazzola potevano essere proprio Lotti e Pucci. Però la Ghiribelli aveva visto soltanto l’auto, la De Faveri i due individui ma di spalle, il marito solo uno e anche lui di spalle, infine la Carmignani, fuggevolmente, soltanto il guidatore al volante. Abbiamo già visto poi che né i coniugi né la Carmignani furono interpellati su una possibile identificazione, quindi alla fine non si può esser certi che ad aggirarsi quella domenica sotto Scopeti fossero stati Lotti e Pucci. Però il sospetto è massimo, soprattutto considerando il comportamento dei due dieci anni dopo, quando, pur raccontando un sacco di fandonie, non lo negarono affatto. Su quest’ultimo punto si potrebbe scrivere un libro, quindi per il momento è il caso di soprassedere, limitandoci a rilevare le compatibilità, e poi ad affrontare il tormentone della doppia auto di Lotti.
Riguardo l’auto, abbiamo già visto che la Ghiribelli non aveva dubbi. Ma anche le caratteristiche descritte dai coniugi De Faveri-Chiarappa erano ben compatibili con la Fiat 128 coupè di Lotti. Il colore, innanzitutto, un rosso sbiadito che faceva parte della gamma prevista per quell’auto, poi la forma squadrata e la coda tronca.


Il rosso sbiadito corrispondeva anche nella testimonianza di Sabrina Carmignani, la quale aveva aggiunto che le era sembrata un’auto di modello vecchio. In effetti la Fiat 128 coupè era stata in produzione dal 1971 al 1978, quindi nel 1985 poteva senz’altro considerarsi un modello ormai superato. Infine il frontale, unica parte che aveva visto, le ricordava quello della Fiat Regata, un modello commercializzato un paio d'anni prima. E una buona somiglianza in effetti c’è, soprattutto prendendo in considerazione per il 128 il modello S, che aveva i singoli fari squadrati, al contrario dell'SL dell'immagine precedente che li aveva doppi rotondi (la testimone aveva parlato di fari “probabilmente rettangolari”). Chi scrive non sa quale modello avesse posseduto Giancarlo Lotti, in ogni caso i doppi fari rotondi erano comunque racchiusi in una mascherina rettangolare.


Veniamo adesso ai due individui. Marcella De Faveri era riuscita ad apprezzare una certa differenza di statura, ben compatibile con Lotti e Pucci, alti rispettivamente 1.78 e 1.70. Il più basso venne definito “di mezza età” (Pucci aveva 53 anni), “senza collo, con testa dal taglio rettangolare” e con “i capelli corti”, una descrizione del tutto compatibile con la sottostante foto di Fernando Pucci.


La signora ebbe anche l’impressione di una persona grezza, come certamente era Pucci.
Chiarappa invece definì l’unico individuo da lui visto come “di corporatura grossa e di mezza età”. Lotti aveva 45 anni ed era un uomo molto robusto. La medesima impressione sulla corporatura l’ebbe anche Sabrina Carmignani: “abbastanza grosso”.
A questo punto parrebbe davvero difficile negare che quei due individui fossero proprio Fernando Pucci e Giancarlo Lotti, e che l’auto fosse la FIAT 128 rossa di Lotti, acquistata nella primavera del 1983. Ma la difesa di Vanni avrebbe cercato di dimostrare che quell’8 settembre 1985 Lotti non guidava già più quell’auto.