lunedì 25 marzo 2019

Qualcuno fermi Giuttari!

Alla fine dell’articolo La moglie del farmacista eravamo giunti alla perquisizione del 7 luglio 1998 nelle proprietà di Francesco Calamandrei, uno dei possibili “mandanti” individuati da Michele Giuttari. Anche se l’esito era stato nullo – e nulla c’era contro di lui, se non le vecchie accuse della moglie malata di mente già archiviate da anni – con il mastino che gli stava addosso il farmacista di San Casciano non aveva di che stare  troppo tranquillo. Ma per il momento la fortuna parve guardare dalla sua parte.

Promozione e trasferimento. Nell’ambito di un’indagine formalizzata – come era quella sul Mostro – da un punto di vista operativo la squadra mobile dipende strettamente dalla procura, alla quale deve chiedere i permessi per effettuare interrogatori e perquisizioni. Ma, in quanto parte della Polizia di Stato, gerarchicamente e amministrativamente la dipendenza è dal Ministero dell’Interno, organo di governo con sede a Roma. Si legge ne Il Mostro:

Non faccio in tempo a riesaminare gli atti del primo processo e gli elementi e le testimonianze raccolte successivamente, alla luce dell'indicazione dei giudici di indagare sull'eventuale presenza di uno o più mandanti dei delitti […] che ricevo un telegramma con la convocazione del ministero dell'Interno, a Roma, “per conferire presso la Direzione Centrale del Personale”. È la sera del 19 agosto 1998. [..]
Il giorno dopo, come richiesto, mi presento davanti al funzionario competente che, dopo i normali convenevoli, mi prospetta la promozione a vicequestore vicario e, nello stesso tempo, il cambio della sede di servizio.
Non c'è una motivazione particolare, una zona che richieda con urgenza le competenze che ho sviluppato nei miei anni di servizio e prioritaria rispetto all'indagine ancora incompiuta sul “mostro”.
Sono perplesso, e non lo nascondo.

Il libro prosegue, facendoci partecipi della tempesta di pensieri che si agitava nella mente dell’investigatore durante il viaggio di ritorno a Firenze.

Riparto da Roma ancora incredulo. I 250 chilometri che la separano da Firenze servono a calmarmi e a riordinare le idee. Cerco di capire la mossa dei miei superiori ma non ci riesco. Posso comprendere che ormai per molti la storia del “mostro” sia diventata obsoleta, sorpassata, in fondo tutto sommato risolta con l'arresto dei complici di Pacciani e la sua morte, più che sufficienti ad appagare la curiosità dell'opinione pubblica forse ormai distratta da altri eventi. Per molti, ma non per i vertici della polizia di Stato che certo non possono ignorare le indicazioni dei giudici che hanno condannato Vanni e Lotti.
No, qualcosa non torna.
Se c'è qualcuno che dovrebbe non poterne più di questa storia, e che potrebbe uscirne all'apice del successo perché ha dimostrato inequivocabilmente l'esistenza di complici e con essa in modo indiretto la colpevolezza di Pacciani, e assicurato i complici alla giustizia, quello sono proprio io. Potrei limitarmi a godere i frutti del mio successo invece di tornare a sporcarmi le mani con un'inchiesta difficile e già contrastata.
Ho deciso lungo il percorso che costi quel che costi devo rinunciare alla promozione e resistere a quel trasferimento: lo devo all'integrità della mia professione, alle vittime del “mostro”, alla sete di giustizia del padre di Pia Rontini, all'opinione pubblica che ha il diritto di sapere la verità fino in fondo e non solo ciò che aggrada agli organi di stampa o conviene a qualcuno per suoi imperscrutabili motivi.

Quindi Giuttari, a suo dire con stoica determinazione e per amor di giustizia, per di più rischiando la propria appena raggiunta reputazione di poliziotto di successo, decise di opporsi al trasferimento (e al conseguente blocco delle indagini sui mandanti, che senza di lui senz’altro si sarebbero fermate).
Ma torniamo un momento sulla frase “lo devo […] all'opinione pubblica che ha il diritto di sapere la verità fino in fondo e non solo ciò che aggrada agli organi di stampa o conviene a qualcuno per suoi imperscrutabili motivi”. Lasciamo perdere la stampa, il cui interesse era soltanto quello di vendere, quindi sarebbe stata ben contenta di sfornare altri articoli sulla vicenda del Mostro, e concentriamoci su quel qualcuno che avrebbe cercato di bloccare le indagini di Giuttari per incomprensibili ragioni. Il libro non fornisce elementi né per assegnare un’identità a quel qualcuno, né per almeno ipotizzare la natura delle sue ragioni. Questa mancanza di chiarezza più alcune sibilline risposte dell’ex superpoliziotto rilasciate nel corso di varie interviste hanno favorito la nascita di convinzioni poco ragionevoli. Trova infatti ancor oggi molto credito – si leggano a tal proposito le fantasiose teorie di cui si discute nel forum “I Mostri di Firenze” – l’ipotesi che forze oscure avessero tramato nell’ombra per proteggere personaggi potenti a rischio di essere smascherati. Chi scrive non lo crede affatto, e quindi, nello spirito dichiarato per questo blog – sgomberare il campo dalle mistificazioni che gravano sulla vicenda – verrà esaminata la documentazione disponibile alla ricerca dei veri motivi che indussero il Ministero dell’Interno a decretare il trasferimento di Giuttari.

Quattro si potevano salvare. Il 23 giugno 1997, a processo ai compagni di merende appena iniziato, Giuttari prese posto sul banco dei testimoni (vedi), per la prima di quattro lunghissime deposizioni durante le quali fornì un resoconto completo delle proprie indagini, dedicando la partenza ai “testimoni dimenticati”, ben 20 persone le cui testimonianze dell’epoca non sarebbero state prese in esame per come avrebbero meritato. Bisogna dire che risultò abbastanza evidente a tutti un certo tono critico verso chi aveva investigato prima di lui: “Testimonianze per me ritenute utili […] che mi accorsi purtroppo non erano state portate alla conoscenza della Corte di Assise che aveva giudicato Pacciani”; “[…] può dare l'idea di quanto importanti dovevano essere quelle circostanze e quanto importante sarebbe stato portarle alla valutazione del Giudice della Corte di Assise”; “Sempre per il delitto dell'84 […] già all'epoca c'erano altre testimonianze importanti che non erano state valutate”.
È probabile che di per sé le velate critiche non avrebbero poi suscitato così grande interesse, se non ci si fossero messi di mezzo i giornalisti, che naturalmente approfittarono dell’occasione per interrogare Giuttari – che da par suo di certo non si tirò indietro – sul ghiotto argomento. Leggiamo, tra i tanti, il resoconto di Giulia Baldi su “L’Unità” del giorno dopo (vedi), dal titolo eloquente: “Il mostro di Firenze poteva essere fermato”.

Se fosse vero gli ultimi quattro ragazzi uccisi dal «mostro» di Firenze potrebbero essere ancora vivi. Se fosse vero Pia Rontini, Claudio Stefanacci, Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili potevano essere salvati: se le indagini non si fossero incaponite sul serial killer isolato, forse, la feroce lista dei delitti del maniaco si sarebbe fermata al 1983. Ne sembra convinto il capo della mobile di Firenze, Michele Giuttari […]
Le prime quattro ore di deposizione di Giuttari sono un vero e proprio atto d’accusa a stile e strategie delle indagini precedenti: sono decine le segnalazioni di una macchina rossa e di tipo sportivo (Lotti a metà degli anni ‘80 aveva una 128 coupé rossa) nei luoghi degli ultimi tre delitti del «mostro», ma nessuno se ne è curato. La prima è del 13 settembre 1983, quattro giorni dopo il delitto di Giogoli, dove morirono Uwe Rusch e Horst Meyer. Giovanni Nenci, un operaio argentiere che abitava nella zona, si presenta spontaneamente ai carabinieri e dice di aver visto nella piazzola non solo il camper dei due tedeschi ma anche una macchina sportiva con la parte posteriore tronca e di colore rosso. […] Ma nessuno […] approfondì la segnalazione. […]
La testimonianza più sconvolgente, dice Giuttari alla corte, è quella di Maria Grazia Frigo a proposito del delitto di Vicchio, nell’84. La signora avrebbe ben visto un uomo su una macchina che procedeva a grande velocità intorno a mezzanotte, a due passi dal luogo dove i due ragazzi erano stati uccisi. Lo disse ai carabinieri, ma della sua deposizione non c’è traccia.
L’investigatore, formalmente, se la prende con i criminologi: «Posso soltanto dire che queste testimonianze citate sono tutte testimonianze importanti […] Il fatto che non siano state portate alla valutazione – io non ho fatto la prima indagine – è perché probabilmente c’è stato un condizionamento in quell’inchiesta dei risultati dei periti criminologi, che sostenevano con fermezza che l’autore di quei delitti era un serial killer solitario. E quindi tutte le circostanze che portavano alla presenza di più macchine e quindi di più persone non interessavano a quella ricostruzione sposata dagli investigatori dell’epoca che però è stata smentita dai fatti. I fatti sono questi qua. Sono dati oggettivi che non si potevano non registrare: sono persone serie, umiliate perché non credute, convinte di fare il loro dovere».

Significativo anche il titolo dell’articolo uscito su “Repubblica” in cronaca di Firenze: “Mostro, il superpoliziotto accusa: Indagini sbagliate qualcuno poteva salvarsi” (qui, qui e qui), mentre “La Nazione” attribuì allo stesso Giuttari la seguente frase: “Quattro vittime del mostro potevano essere salvate”, scritta a grandi caratteri sopra una foto che ritraeva l’investigatore attorniato dai microfoni dei giornalisti.
Letti i giornali, Carlo Papini, segretario del S.A.P. (Sindacato Autonomo di Polizia), fece affiggere in tutte le bacheche sindacali degli uffici dipendenti dalla questura di Firenze un durissimo comunicato (vedi):

Solo due righe perché ci sentiamo in dovere, come rappresentanti dei Poliziotti, di chiedere scusa alle persone presenti in aula che hanno ascoltato le dichiarazioni del Dirigente la Squadra Mobile Fiorentina, Dott. Michele GIUTTARI, e riassunte dagli organi d'informazione nella frase "QUATTRO VITTIME DEL MOSTRO POTEVANO ESSERE SALVATE".
La cosa ci sembra molto grave, sia per la deontologia professionale che avrebbe dovuto portare il Dott. GIUTTARI solo all'escussione dei fatti che lo hanno indirizzato al coinvolgimento nell'inchiesta di altre persone e non alle valutazioni personali di errori commessi dagli investigatori precedenti.
Le dichiarazioni rese dal Dott. GIUTTARI sarebbero dovute rimanere nella pertinenza del processo che si stava svolgendo, tenendo conto che ogni parola detta nel dibattimento, anche se emessa senza pensarci troppo (o pensandoci molto) screditando l'operato di altri Poliziotti, viene ascoltata oltre che dai giornalisti (utili sempre per far carriera ed emarginati quando non sono in sintonia con la Dirigenza N.d.R.) anche dai familiari delle vittime che dopo la sofferenza straziante trascorsa in questi anni per la perdita di una persona cara, hanno dovuto sentirsi dire dalla stessa Polizia che si sarebbero potuti salvare e potevano essere sempre lì insieme a loro.
Chiediamo di nuovo scusa ai familiari che sono passati in secondo ordine lasciando il posto a lotte interne per un posto Dirigenziale più ambito, a cui la risoluzione del caso "mostro di Firenze" porterebbe.
Il Dott. GIUTTARI, che giorni fa dichiarava sui giornali "che qualcuno vuol gettare fango sulla Polizia di Stato", non si è accorto che con le sue dichiarazioni si è trasformato proprio in uno di loro, con la differenza che oggi si sta parlando senza pensare al dolore delle famiglie coinvolte.
In ultimo vogliamo porgere gli auguri per il nuovo incarico del Dott. GIUTTARI e cioè di nuovo Dirigente il Centro Criminalpol Toscana di Firenze.
Ancora scusa a tutti.

Immediata partì la denuncia di Giuttari per diffamazione contro Papini. Vedremo tra non molto come andò a finire, intanto è il caso di spendere qualche parola sulla possibilità che, se si fosse indagato sulla Fiat 128 rossa vista a Giogoli da Giovanni Nenci, si sarebbero potuti evitare i due delitti successivi. Va però premesso che difficilmente Giuttari poté esprimere un giudizio così diretto di fronte ai giornalisti, i quali comunque quello intesero (in effetti pare che quel 23 giugno la sua risposta a una domanda in tal senso fosse stata questa: “Io questo non l’ho detto, certamente i miei colleghi avranno lavorato bene, fatto di tutto, io ho riferito i fatti, le conclusioni non le posso fare io…”). Poi: l’auto poteva anche essere stata quella di Giancarlo Lotti – anzi, chi scrive lo ritiene probabile –, però il presupporlo andava contro la credibilità dello stesso Lotti, che lo aveva sempre negato, affermando invece di essere stato condotto sulla piazzola quella stessa sera da Vanni e Pacciani, senza alcun preavviso.

La teste Frigo. Nella deposizione del 23 giugno 1997, Giuttari aveva insistito moltissimo su uno dei “testimoni dimenticati”, l’imprenditrice Maria Grazia Frigo. Rincasando dopo essere stata ospite di amici, la donna avrebbe visto due auto – una bianca di modello Ford guidata da Pacciani, una a coda tronca di colore rosso sbiadito guidata da una persona di fisionomia simile a quella di Lotti – su una sterrata non lontana dalla piazzola di Vicchio la notte del delitto. Senza riserva le lodi alla sua affidabilità:

La signora è molto precisa ha, una memoria devo dire, formidabile ed è stata molto, molto precisa. […]
Vedremo che è una testimone che mi ha impressionato veramente in una maniera eccezionale, positivamente e che devo dire, quando l'ho sentito, era mortificata perché non era stata quasi creduta nel '92, quando si era presentata spontaneamente”.

Abbiamo già visto (qui) che in realtà la testimone era pronta a tutto pur di rendersi utile, anche a modificare totalmente i propri ricordi. Ecco una breve sintesi delle sue dichiarazioni.
Dopo aver taciuto per otto anni sullo strano incontro, il 2 dicembre 1992 la Frigo telefonò a Canessa (vedi) dichiarando di aver visto Pacciani alla guida di un’auto rossa. Sentita due giorni dopo dalla SAM (vedi), quell’auto divenne genericamente scura. Il relativo verbale fu trasmesso a Canessa (vedi), che decise di non convocarla al processo, suscitando il suo vivo disappunto. Segnalata al PM – assieme ad altri testimoni, erano i tempi della ricerca di un’auto rossa – nella nota SAM del 12 ottobre 1995 (vedi), il 26 marzo 1996 venne interrogata da Giuttari (vedi), e il successivo 29 condotta sui luoghi (vedi), con il sorprendente risultato che le auto divennero due: una bianca guidata da Pacciani, una rossa guidata da Lotti. Con nota del 30 marzo (vedi) Giuttari segnalò la testimonianza alla procura, valorizzandola moltissimo. Infine il 15 aprile la donna venne sentita da Vigna e Canessa (vedi).
La signora Frigo rilasciò la propria deposizione il 7 luglio 1997 (vedi), suscitando molte perplessità. Di fronte alle contestazioni di Pepi e Bagattini, difensori di Vanni e Faggi, cercò di cavarsela come meglio poteva ma senza convincere nessuno. Bagattini la incalzò in particolare sulle differenze di colore dell’unica auto della quale aveva detto nella telefonata del 1992 a Canessa (rossa), e nell’audizione di due giorni dopo davanti alla SAM (scura). Dopo aver cercato inutilmente di uscire dall'angolo affermando di essersi confusa con la seconda auto – della quale però avrebbe detto soltanto quattro anni dopo – la donna lanciò pesanti accuse alla serietà di chi l’aveva ascoltata:

Frigo: Durante questo interrogatorio ho guardato tutte le fotografie. Senza esitazione ho trovato quella che corrispondeva a quello che a me interessava per il mio ricordo della persona che avevo visto nella macchina bianca. Era tutto un via vai di entro dall'ufficio, esco dall'ufficio, tipo andare a consultarsi con qualcuno, una cosa e un'altra. Poi, a un certo punto, io ho accusato una certa fretta di stilare il verbale, perché, insomma, bisognava chiudere, diciamo, quella... come si può chiamare? Verbale. […] E una di queste persone ha detto: «Non possiamo scrivere del colore bianco, perché la signora ha detto al PM. che era rossa, e quindi diciamo genericamente che è scura».
Bagattini: «Genericamente che è scura», scusi?
Frigo: Cioè, per loro non era particolarmente importante che si segnasse...
Bagattini: E questo, scusi signora, nonostante che lei avesse fatto presente: «Ma guardate che io l'ho vista, bianca»?
Frigo: Ascolti, può darsi che anche io, dopo due ore fossi stata un po' giù di tono. Per me la cosa importante, quella che io ritenevo importante, era che avevo riconosciuto la persona che avevo visto quella sera. [...]
Bagattini: Comunque, ecco, questa frase «Non voglio esprimermi con assoluta certezza, anche se ritengo che propendesse sullo scuro»...
Frigo: Come le ripeto, è stata una decisione delle persone che stavano in ufficio. Mi dice: «Guarda, al PM la signora ha detto che era rossa, non possiamo scrivere che era bianca. Allora mettiamo genericamente che era scura».
Avevano tutti una gran premura di andare a mangiare, scusi se glielo dico.

Poco dopo che la donna fu congedata, intervenne Pepi:

All'esito delle dichiarazioni oggi rese dalla Frigo Maria Grazia, chiedo che la Corte voglia sentire immediatamente – ovviamente nei tempi necessari, quindi magari domani – i verbalizzanti dell'interrogatorio 04/12/92, che sarebbero l'ispettore Lamperi, Frillici, Di Genova e Scirocchi. Mi pare che tre di questi sono già indicati anche dal Pubblico Ministero nella lista.
Io chiedo l'audizione soprattutto a chiarimento di queste affermazioni fatte dalla Frigo, perché, a avviso di questo difensore, se emergesse la conferma di quanto la signora Frigo oggi ha dichiarato, vi potrebbero essere anche delle responsabilità di ordine penale di cui la difesa, in questo momento, si riserva eventualmente di esperire le vie necessarie.

Naturalmente i giornalisti presenti non si lasciarono sfuggire l’occasione, e negli articoli del giorno dopo soffiarono sul fuoco delle polemiche, come in questo di “Repubblica” (vedi), intitolato: “«Quella notte vidi l’auto di Pacciani» Ed esplode la polemica con la SAM”, e questo della “Nazione” (vedi), intitolato: “In udienza nuove ombre sulla squadra antimostro”. È bene precisare che nei primi mesi del proprio mandato Giuttari aveva sciolto quanto era rimasto della SAM, due componenti della quale, Riccardo Lamperi e Alessandro Venturini, si erano poi fatti trasferire alla Criminalpol. Lamperi rimase male di fronte a insinuazioni – che si aggiungevano ad altre precedenti – ritenute lesive della propria onorabilità e del proprio lavoro, e volentieri sarebbe andato in aula, come richiesto da Pepi, a fornire le spiegazioni richieste, ma capì presto che ciò non sarebbe mai avvenuto – l’unico dei quattro verbalizzanti chiamato a deporre sarebbe stato Pietro Frillici, il 27 dicembre 1997 (vedi), ma non sulla questione sollevata dalla Frigo. Quindi, assieme all’ex collega Alessandro Venturini, che quasi sempre lo aveva affiancato nel lavoro alla SAM, il 28 luglio 1997 prese carta e penna e indirizzò la propria protesta al vicecapo della Polizia (vedi), in quel momento il ben noto Gianni De Gennaro. Ecco qualche frammento dello scritto:

Duole constatare come da mesi ed in particolare in questi ultimi tempi, in coincidenza dell’avvio del processo di primo grado a carico di VANNI Mario, LOTTI Giancarlo ed altri, siano frequenti gli articoli di giornale pubblicati anche in cronaca nazionale, in cui sono raccolte dichiarazioni secondo cui gli investigatori della SAM […] “hanno dimenticato di valutare nella giusta luce testimonianze ed hanno omesso di compiere le doverose indagini”.
Tali affermazioni, peraltro presenti anche in sede dibattimentale, sono gratuite e false ed inoltre ledono l’onorabilità e la professionalità degli scriventi che  – si ribadisce – non hanno nulla, ma proprio nulla da rimproverarsi.
Tutti gli spunti investigativi di cui si fa ora un gran parlare sono stati da anni rappresentati nella loro interezza e consistenza in atti formali diretti alla A.G. che  – è bene ricordarlo – ha sempre coordinato le indagini.[…]
Alla luce di queste considerazioni e del fatto che l’avvocato Giangualberto PEPI, difensore di VANNI Mario, ha richiesto in dibattimento l’audizione degli uomini della SAM poiché a loro carico potrebbero concretizzarsi anche delle responsabilità penali per aver omesso di portare in giudizio di primo grado contro Pietro PACCIANI delle testimonianze importanti, si fa rilevare come la continua opera di delegittimazione e di svilimento del lavoro da noi svolto unitamente ad altri abbia prodotto i suoi frutti nefasti che hanno instillato nella mente di coloro che seguono il processo l’erronea convinzione che le indagini siano state affidate a persone di scarsa capacità, poco professionali e molto superficiali.
Questa situazione ha determinato nei confronti degli scriventi danni immeritati e gravissimi al loro prestigio ed alla loro onorabilità, ingenerando l’idea sbagliata che tutta la verità sia dovuta “alle attente riletture” che altro non sono che l’utilizzo sistematico dell’ottimo lavoro investigativo già svolto.
Si può concludere con la riflessione secondo la quale la lista dei testi non la compila la polizia giudiziaria, bensì l’ufficio del P.M. il quale, sicuramente ben informato su tutte le testimonianze raccolte – fatte passare ora per inedite o trascurate – decise, molto opportunamente, di portare in primo grado quelle che riteneva più utili per resistere agli attacchi del collegio di difesa in sede di controesame.
Quanto sopra si riferisce, con la speranza che la S.V. vorrà accertare la verità dei fatti sulla base di dati oggettivi.

Il 3 settembre successivo Lamperi e Venturini vennero convocati a Roma nella sede dello SCO (Servizio Centrale Operativo), ufficio della Polizia di Stato che coordina il lavoro di tutte le squadre mobili delle questure italiane. Lì vennero accolti da un funzionario di alto rango, il questore Vincenzo Caso, che li intrattenne in un colloquio insolitamente lungo, dimostrando di comprendere le loro ragioni e dichiarandosi preoccupato per il clima poco sereno creatosi a Firenze tra gli uomini della polizia. Si tenga presente che in quel momento era già in essere la denuncia di Giuttari contro Papini, quindi, al di là dei torti e delle ragioni degli uni e degli altri, si può ben comprendere l’irritazione dei vertici della Polizia di Stato, che senz’altro va ritenuta una significativa componente nella loro futura decisione di trasferire Giuttari.
Prima di concludere il presente paragrafo, è il caso di riportare il giudizio sulla testimonianza Frigo contenuto in sentenza. L’estensore, dopo aver elencato tutta una serie di ragioni che squalificavano la credibilità della teste, scrisse:

Il che sta chiaramente a significare o che la Frigo si è inventata tutto (per la sua mania di protagonismo o per apparire comunque nella vicenda di Vicchio) o che quell’auto non era quella condotta dal Pacciani, come è dato cogliere anche dalle dichiarazioni del Lotti, che ha parlato di un diverso percorso fatto nel viaggio di ritorno dalla piazzola, a delitto avvenuto. […]
Ritiene quindi la Corte di non riconoscere credibilità alla suddetta teste, a prescindere da ogni considerazione sulla certezza dell’asserito riconoscimento del Pacciani e sull’asserita “memoria fotografica” della stessa teste, di cui ha in particolare parlato il marito nella medesima udienza del 7.7.97.

Compagni di sangue. Il processo a Vanni e Lotti si concluse il 24 marzo 1998; appena un mese dopo uscirono le prime notizie su un libro in preparazione. Da “Repubblica” del 25 aprile (vedi):

L'idea di scrivere un libro sul mostro di Firenze l'accarezzava da tempo. Non un romanzo ispirato a uno dei casi di cronaca più inquietanti degli ultimi trent'anni, ma un true crime, ovvero qualcosa di più di un giallo: una narrazione in forma di saggio dove si raccontano fattacci accaduti davvero, appoggiandosi a documenti e prove, rinunciando alla fiction. Quelle di Carlo Lucarelli, il miglior giovane giallista italiano e da qualche mese conduttore televisivo di successo (Mistero in blu, viaggio nei casi irrisolti delle cronaca nera italiana) sono prove eccellenti: per scrivere il suo libro sui delitti delle coppiette che per anni hanno seminato l'incubo nella campagna toscana (probabile titolo Compagni di sangue, lo pubblicherà a metà maggio la casa editrice Le Lettere), ha utilizzato i documenti fornitigli da Michele Giuttari, capo della squadra mobile di Firenze: interrogatori, verbali dei processi e delle deposizioni in folkloristico vernacolo toscano, che Lucarelli ha inserito senza cambiare una virgola, mantenendo integro il tono grottesco. Il libro uscirà a doppia firma “e sarà strutturato in tre parti – racconta Lucarelli – una iniziale e una finale, scritta in terza persona, dove è il giallista a parlare, a raccontare i fatti dall'esterno; in mezzo, una corposa porzione in prima persona dove la parola passa a chi ha condotto le indagini.

Il 18 maggio Giuttari e Lucarelli presentarono il libro in una conferenza stampa alla quale era presente anche Canessa. Come prevedibile, l’attenzione maggiore non fu per le vicende, oramai chiuse, di Vanni, Lotti e Pacciani, ma per gli sviluppi delle indagini verso i mandanti, una pista che il libro abbondantemente adombrava. L’argomento fu oggetto di dibattito al Maurizio Costanzo Show del giorno dopo, dove erano presenti Lucarelli, Nino Filastò, Francesco Bruno, Renzo Rontini, Gianpaolo Curandai e Ugo Fornari. Anche Giuttari avrebbe dovuto essere della partita, ma i suoi superiori lo bloccarono: “Sarebbe stata l’occasione di far sentire per una volta anche la voce di chi ha fatto l’indagine. Ma sono un funzionario di polizia e quindi obbedisco ai miei superiori” (“L’Unità”, 19 maggio 1998, vedi).
Purtroppo la registrazione del programma non è nelle disponibilità di chi scrive; peccato, poiché sarebbe stato interessante ascoltare le bibliche sciocchezze pronunciate in quella che dovette essere stata una gara, senza esclusione di colpi, a chi la sparava più grossa. Accontentiamoci di questo resoconto apparso sulle pagine fiorentine di “Repubblica” del 20 maggio (vedi):

Un mandante ricco, colto e potente che usa i rozzi compagni di merende come massacratori delle coppie e poi interviene sulla scena del delitto, forse per eseguire personalmente le mutilazioni. È lo scenario che emerge dalle ultime indagini sui delitti del mostro.
«Credevo di avere delle idee, adesso non le ho più. Sono confuso», sintetizza Maurizio Costanzo al termine del dibattito andato in onda ieri su Canale 5 su Compagni di sangue, il libro scritto dal giallista Carlo Lucarelli e dal capo della squadra mobile Michele Giuttari. Lanciando l'ipotesi di un mandante ricco, raffinato, medico, anzi ginecologo, un Doctor Jeckill in micidiale connubio con un Mister Hyde rappresentato da Pacciani e C., e gettando qualche fascio di luce sull'inchiesta ter sui delitti, il libro ha già scatenato notevoli polemiche. La trasmissione di Costanzo, a cui Giuttari non ha potuto partecipare, probabilmente le dilaterà.
Confrontandosi con Carlo Lucarelli, con Renzo Rontini, con il criminologo Francesco Bruno (che ha fatto sensazione sostenendo che a suo avviso il mostro è probabilmente l'esponente di una nobile famiglia toscana), e con gli avvocati Nino Filastò, difensore di Vanni, e con l'avvocato Giampaolo Curandai di parte civile, lo psichiatra forense Ugo Fornari ha rivelato dettagli inediti sulla nuova inchiesta. «Sto lavorando sul secondo livello dei delitti, per incarico della procura di Firenze», ha spiegato il professore, che da anni fa con il collega Lagazzi ha eseguito una consulenza psichiatrica su Giancarlo Lotti, il «compagno pentito». «Alcune cose non posso dirle. Il materiale trovato nella villa dove viveva il pittore svizzero è molto inquietante». Ci sono, in quel materiale, foto di cadaveri di donna mutilati.
«Avete visto le foto delle vittime del mostro?», chiede il professor Fornari: «Una storia è stata scritta su quei cadaveri». Una storia che bisogna decifrare, a suo avviso, con il metodo della falsificazione, e cioè mettendo continuamente in dubbio ogni ipotesi, «mentre qui ciascuno giura sulla sua verità». «Il materiale esaminato - sostiene il professor Fornari - mi fa pensare che il serial killer usi altre persone per prepararsi il campo. Poi interviene. Potrebbe essere stato lui a eseguire i tagli. Potrebbe essere un necrofilo in preda a un delirio mistico-religioso. E certamente è stato lui ad aprire e rovistare nelle borse delle vittime. La mia ipotesi è che si tratti di una persona non necessariamente toscana, certamente molto ben protetta, forse chiusa in qualche istituto». Parole che aprono orizzonti ancora tutti da sondare. «Questa - avverte Lucarelli - è una vicenda talmente fondamentale nella storia criminale italiana che occorre sviscerarla fino in fondo».

Intanto in procura si erano confrontati Fleury e Canessa, con il primo a far le veci di procuratore capo verso il collega più giovane. Nella medesima pagina di cui sopra si poteva leggere:

Prima una riunione a quattr’occhi, l’aggiunto Francesco Fleury e il sostituto Paolo Canessa. Dopo la conferenza per presentare il libro-bomba «Compagni di sangue» scritto dal capo della quadra mobile Michele Giuttari, non si erano ancora confrontati. Poi con molta calma ma altrettanta franchezza, arriva il commento secco di Fleury.
«Stiamo valutando se in quelle pagine c'è stata una violazione del segreto istruttorio. Di sicuro non è stato opportuno rivelare certi particolari ed è altrettanto sicuro che gli argomenti di questo libro ce li troveremo pari pari dei motivi di appello della difesa alla sentenza ai compagni di merende».
Insomma un libro che poteva essere evitato, per contenuti e tempi di uscita. E che potrebbe costare qualche fastidio anche a chi lo ha scritto […]
Fleury dice che «la procura sta valutando e che non è solita anticipare le proprie iniziative a mezzo stampa […]. Sui mandanti dei duplici delitti del mostro c'è un'indagine in corso su cui questo ufficio sta lavorando da tempo e di cui non abbiamo intenzione di parlare. E questo sia chiaro non vuol dire confermare quello che si ipotizza nel libro». […]
Paolo Canessa non ha voluto commentare il contenuto del libro. Lunedì mattina era presente alla conferenza stampa di presentazione. Ma appena le domande dei giornalisti si sono accentrate sui particolari dell’inchiesta ter, quella sui mandanti dei delitti, Canessa ha immediatamente lasciato l’aula dell’hotel Baglioni.

A Giuttari la reprimenda di Fleury non fece né caldo né freddo, come si deduce da un’intervista da lui rilasciata allo stesso quotidiano, e pubblicata il 21 (vedi). Eccone qualche stralcio:

Pentito di avere scritto il libro?
No, assolutamente, ci ho pensato molto prima di dire sì alla casa editrice Le Lettere. Ma ora rifarei esattamente quello che ho fatto. Perché i bisogni che mi hanno spinto sono ancora forti dentro di me.
Quali bisogni?
Volevo far riflettere sull’inchiesta bis. Alcuni elementi hanno reso la vicenda unica e irripetibile. La durata dei delitti, il dolore infinito di tanti familiari, l’incredibile mondo di perversione affiorato giorno dopo giorno. […]
Resta il fatto che molti non hanno gradito l’idea del libro. A cominciare dai magistrati fiorentini. Addirittura in procura sembrano decisi a non affidarle più le indagini. È vero?
Non mi risulta. La delega ce l’ho io, e continuerò il mio lavoro come sempre. […]
E il particolare del blocco da disegno sequestrato al pittore svizzero simile a quello sequestrato a Pacciani, che secondo l’accusa era di uno dei tedeschi uccisi nell’83?
È un’analogia inquietante, ma da valutare. Al momento sappiamo solo che Pacciani e il pittore svizzero hanno frequentato la stessa villa di San Casciano.
Probabilmente proprio perché è un episodio da valutare la procura preferiva tenerlo segreto.
Ma è significativo, come gli altri contenuti del libro. E io volevo che la gente conoscesse per la prima volta tutta la storia dell’inchiesta. Non da un altro, ma da chi l’ha vissuta dall’interno. Il racconto dell’investigatore insomma, qualcosa di diverso dai tanti libri scritti finora sul mostro con presupposti e obiettivi differenti dal mio.
Quasi uno sfogo?
No, nessuno sfogo, ma un messaggio.
Lanciato a chi?
Al mandante dei delitti della calibro 22. A chi finora è rimasto nell’ombra e continua a nascondersi dietro le quinte. Un modo per avvisarlo e dirgli: so che ci sei e lavorerò per scoprirti.

Il lettore capisce anche da sé quanto poco plausibili suonassero le parole di Giuttari, la cui discutibile iniziativa poteva essere nata soltanto da ambizioni personali – legittime certo, ma anche poco opportune, considerata la sua posizione –, come dimostrava la presenza di un coautore giallista di grande successo e come la storia futura avrebbe confermato. Poi, in un articolo del settimanale “Panorama” uscito in quei giorni (numero 1676 datato 28 maggio 1998, vedi), Giuttari rincarò la dose, affermando: “Mi hanno tappato la bocca. Sono un poliziotto e obbedisco, ma con molta amarezza: un funzionario avrebbe anche il diritto e il dovere di contribuire ad una corretta informazione su vicende come i 16 omicidi di Firenze”. Per di più il giornalista firmatario dell’articolo – Maurizio Bono – si lanciava in considerazioni molto irriguardose verso funzionari di grande prestigio:

Un poliziotto descrive in un libro verità l’indagine su Pacciani & C. e gli errori dei colleghi. Ma viene zittito. Ecco perché.
[…] la ragione va cercata forse nelle pagine in cui narra come si è imbattuto negli errori di colleghi e giudici che l’hanno preceduto: ‘indizi trascurati’, ‘testimoni incomprensibilmente dimenticati’. Come quella signora dal grande senso civico, Maria Grazia Frigo che sentì sparare e tornando […] vide in faccia il guidatore […]. E lo disse nel 1992 ma non fu presa in considerazione […]
Qui sta il bello. Quasi tutti i protagonisti dell’inchiesta scalcinata hanno fatto nel frattempo carriera. Piero Luigi Vigna, pubblico ministero a Firenze dall’inizio delle indagini, è ora a capo della Procura Antimafia. Uno dei sostituti incaricati delle indagini, Silvia Della Monica, adesso ha per le mani a Perugia l’inchiesta bollente sull’alta velocità. La Squadra Antimostro era coordinata dal Capo del Nucleo Centrale Anticrimine Gianni De Gennaro, da poco vicario del Capo della Polizia Fernando Masone. Il funzionario che dirigeva la squadra regge da allora l’Unità analisi crimine violento, vantato gioiello tecnologico dell’indagine all’americana. Che sfortuna, Giuttari: la sua carriera la stava facendo anche lui… Ora invece circola la voce di un trasferimento per aver detto la sua.

Pur se le frasi precedenti non gli erano state messe in bocca, agli occhi di qualsiasi lettore – quindi anche a quelli dei propri superiori – Giuttari risultava comunque responsabile del loro contenuto, almeno moralmente. Tra l’altro vale la pena ricordare che le pagine del libro avevano messo in piazza i sospetti su persone rivelatesi poi del tutto innocenti, come la vedova di Zucconi e le proprietarie della villa di San Casciano della quale era stato ospite il pittore svizzero.

Problemi giudiziari. Un mese dopo la presentazione del libro, il 18 giugno, venne archiviata la denuncia di Giuttari verso Papini. Nella sostanza il giudice per le indagini preliminari, Giuseppe Soresina, ritenne che le affermazioni di Papini fossero sì state gravi, ma non abbastanza da costituire reato, se commisurate all’eccessivo protagonismo di Giuttari. Dalla sentenza (qui):

Le dichiarazioni pubbliche successive, e il libro dato alle stampe, dimostrano nella sostanza la correttezza della lettura fatta a suo tempo delle interviste seguite alla deposizione dibattimentale, vale a dire l’atteggiamento fortemente critico nei confronti dei colleghi i quali avevano investigato sugli omicidi seriali, e l’essere tale atteggiamento critico non limitato al dissenso sulle scelte investigative, ma allargato a vere e proprie censure di dimenticanza, dunque di negligenza, d’incapacità.
Coerente con tali censure era la forte affermazione pubblica del proprio ruolo centrale e, si direbbe, la vera e propria personalizzazione dell’inchiesta e dei suoi risultati, giunta fino alla pubblicazione di un volume nel quale il proprio ruolo, in ciò che si era compiuto nell’esercizio di una pubblica funzione, relativamente a grave vicenda processuale tuttora al vaglio della magistratura giudicante, veniva esaltato tanto quanto era riprovato il ruolo dei predecessori simile esaltazione traendo alimento proprio dalla auto riconosciutasi capacità di valorizzare elementi dimenticati colposamente da altri.
Non essendo qui in discussione l’opportunità, o meno, di ergersi a protagonista pubblico di una vicenda processuale vissuta dall’interno quale inquirente e quale testimone nella veste di ufficiale di polizia giudiziaria, è peraltro evidente come tale atteggiamento di esaltazione pubblica del proprio ruolo e della propria abilità investigativa, anche attraverso gli apprezzamenti pesantemente negativi verso i colleghi suoi predecessori nell’inchiesta, autorizzasse il rappresentante sindacale, nella cura degli interessi di costoro, a registrarsi su toni altrimenti eccedenti i limiti della legittima critica.
L’attribuzione del perseguimento da parte del dr. Giuttari di scopi di carriera, dimentico delle ulteriori sofferenze per i familiari della vittime, è infatti critica aspra, a sua volta demolitrice, impropria e tendenziosa, la quale peraltro trova giustificazione sul piano della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 595 cod. pen. in tale atteggiamento di esasperata personalizzazione e autoesaltazione, tenuto al di fuori delle sedi istituzionali proprie del pubblico ufficiale che aveva operato nell’ambito della propria funzione di polizia giudiziaria, e tale quindi da rendere penalisticamente tollerabili le allusioni in questione, con cui si dava risposta al plausibile interrogativo suscitato dalla volontaria assunzione di un’immagine e di un ruolo presso il pubblico, ultronei rispetto a quelli istituzionali (e da ultimo clamorosamente confermati con il dare alle stampe addirittura un volume contenente la narrazione in prima persona, fortemente autogratificante).

Balza agli occhi la dura critica del giudice all’immagine pubblica che si era dato Giuttari, dalla quale anch’egli trasse il sospetto di ambizioni travalicanti il suo ruolo istituzionale di dirigente della Polizia di Stato.
Preoccupati per ulteriori denigrazioni del loro lavoro, già alle prime notizie sull’uscita del libro Lamperi e Venturini avevano inviato una lettera di protesta a Piero Luigi Vigna, capo dell’antimafia (29 aprile 1998, vedi), riportante più o meno il medesimo testo di quella del luglio dell’anno prima indirizzata a Gianni De Gennaro. Infine, dopo la presentazione ufficiale e il can can mediatico conseguente, i due ex uomini della SAM saltarono il fosso e il 22 maggio successivo sporsero formale denuncia inviando una lettera a Fleury (vedi) nella quale chiedevano di verificare se in Compagni di sangue fosse ravvisabile il reato di diffamazione nei loro confronti. Si legge nel documento:

In particolare si segnala il capitolo intitolato “L’INCHIESTA - I testimoni dimenticati” ove il funzionario di polizia, parlando in prima persona, dichiara ripetutamente (pagg. 30-31-32-34-35-37-41-42) che numerose testimonianze importanti erano state trascurate dagli investigatori della SAM, i quali non avevano ritenuto, inspiegabilmente, di utilizzarle nel dibattimento di primo grado a carico di PACCIANI Pietro. Solo grazie alla sua “rilettura” queste testimonianze erano state riesumate dall'oblio ove erano state colpevolmente riposte e l’indagine aveva potuto decollare e riprendere nuovo vigore.
È di tutta evidenza come tali affermazioni, peraltro assolutamente confutabili come si dimostrerà qui di seguito, insinuino nei lettori la convinzione che gli investigatori della SAM furono un manipolo di persone superficiali, incapaci e incompetenti. […]

La lettera approfondisce la testimonianza Frigo, proprio quella su cui più si era concentrata la critica di Giuttari.

Alla luce di queste considerazioni e del fatto che l'avvocato Giangualberto PEPI, primo difensore di VANNI Mario, richiese in dibattimento l'audizione degli uomini della SAM poiché a loro carico avrebbero potuto concretizzarsi anche delle responsabilità penali per aver omesso di portare in giudizio di primo grado contro Pietro PACCIANI delle testimonianze importanti (il riferimento è in particolare, tra 1e altre numerosissime, alla deposizione di Maria Grazia FRIGO e alle totali discordanze tra le dichiarazioni rese ripetutamente da questa alla SAM e al PM nel 1992, con quelle rese successivamente dalla donna al  nuovo dirigente della Squadra Mobile), si fa rilevare come la continua opera di delegittimazione e di svilimento del 1avoro  da noi svolto, unitamente ad altri, abbia prodotto i suoi frutti nefasti che hanno instillato nella mente di coloro che hanno seguito i1 processo l'erronea convinzione che 1e indagini furono affidate a persone di scarsa capacità, poco professionali e molto superficiali.
Si aggiunge che per quanta riguarda specificamente la deposizione della FRIGO innanzi a1 dirigente della Mobile (pagg. da 130 a 139) È BENE CHE SI SAPPIA che i coniugi BIANCHI (BIANCHI Edmondo e FALCHETTI Lydia) furono sentiti dalla SAM direttamente e in tempi diversi – non solo per telefono come afferma GIUTTARI – presso l'ufficio dell‘uomo […] presso la loro abitazione […]. In entrambi i casi dichiararono di conoscere la coppia FRIGO/BERTACCINI ma di non ricordare assolutamente se questi ultimi erano stati loro ospiti la sera del duplice omicidio di Vicchio.
Anche il marito della FRIGO, signor BERTACCINI Giampaolo, sentito dalla SAM e dal ROS presso la sua abitazione, dichiarò di non poter confermare in alcun modo il racconto della moglie perché non ricordava nulla dell’episodio riferito dalla donna.
Per opportunità, cioè per non pregiudicare un eventuale futuro utilizzo della testimonianza FRIGO, che conteneva indubitabili ed interessanti elementi di contatto con il racconto dei coniugi CAINI/MARTELLI, fu deciso di non formalizzare in alcun modo queste testimonianze così negative perché avrebbero potuto invalidare (anche in forma di semplice relazione di servizio) uno spunto investigativo da poter sfruttare utilmente in un prossimo futuro.

Viene toccato anche l’argomento della macchina rossa di Lotti:

Questa denuncia-querela non ha sinora toccato un altro aspetto, certamente non secondario e, a nostro avviso gravissimo, circa i1 modo con il quale sono rappresentati da GIUTTARI ai lettori i fatti oggetto dei successivi capitoli a quello de “I testimoni dimenticati”. Egli parla in prima persona come il dominus dell'indagine attribuendosi interamente attività e meriti non suoi, come, ad esempio, l‘identificazione dell’auto FIAT 128 sport coupé di colore rosso sbiadito intestata a LOTTI Giancarlo.
Si ricorda che GIUTTARI, da una sua prima “rilettura” della fine del 1995 aveva concentrato la sua attenzione su una vettura Volkswagen Maggiolino di colore rosso aragosta e che la predetta FIAT 128 coupé rossa emergeva con tutta chiarezza da una annotazione da noi redatta, unitamente all'Agente Sc. Lidia SCIROCCHI, in data 26.07.1994, circa l'attività di indagine svolta circa la presenza del PACCIANI Pietro a Signa, le sue frequentazioni con VANNI Mario e LOTTI Giancarlo e i rapporti di questi ultimi con Nicoletti Filippa.

Si muove il Ministero. A questo punto il lettore dovrebbe aver chiaro lo scenario generale in cui i vertici della Polizia, il 20 agosto 1998, comunicarono a Giuttari il suo trasferimento ad altra questura. È pacifico che le loro motivazioni nulla avevano a che fare con la necessità di tener fuori dalle indagini qualche personaggio importante, come tanti oggi pensano, ma riguardavano il clima poco sereno che si era creato in questura e in procura a Firenze.
È notorio tra gli addetti ai lavori come anche le più sgradite disposizioni del Viminale non ammettano repliche, pena il pericolo di incorrere in provvedimenti ancora più severi. Ma in questo caso al Ministero avevano fatto i conti senza l’oste, come avrebbero dimostrato gli eventi successivi. Da Il Mostro:

Tornato a Firenze senza perdere tempo metto al corrente Paolo Canessa, che più stupito di me scrive subito ad Antonino Guttadauro che nel frattempo ha sostituito Piero Luigi Vigna al vertice della Procura di Firenze. È una lettera fermissima che conclude dicendo senza mezzi termini che “nell'ipotesi del trasferimento ci sarebbe una responsabilità sul punto dello stesso ufficio della Procura della Repubblica essendo il funzionario impegnato nelle indagini e, in particolare, in quel filone che mira a far luce sul mandante dei duplici omicidi che, secondo le risultanze dibattimentali, sarebbe stato un medico conoscente di Pacciani”.

Giuttari seppe giocare più che bene le proprie carte, approfittando dell'errore del Ministero che evidentemente non si era accertato a sufficienza del bisogno che avevano di lui in procura. Se infatti la Polizia a livello gerarchico dipende dal Ministero dell’Interno, nello spostarne i dirigenti questo deve tener conto delle esigenze dei magistrati per i quali detti dirigenti stanno eventualmente lavorando. Ecco quindi che Giuttari chiese aiuto a Canessa, il quale prese carta e penna e scrisse al proprio capo, l’anziano e stanco Antonino Guttadauro ormai prossimo alla pensione.
Evidentemente Guttadauro trovò il modo di farsi ascoltare e bloccò il trasferimento. Intanto però i motivi di malumore nell’ambiente della questura non si placavano. Il SAP si fece forte della sentenza Papini per attaccare Giuttari (“Il Giornale”, 28 novembre 1998, vedi) chiedendo i danni. Si aggiunsero persino questioni politiche, incentrate su presunti rapporti privilegiati dell’investigatore con il PDS. Dall’edizione fiorentina di “Repubblica” del 28 novembre 1998 (vedi):

«BATTITORE libero o inviato molto speciale?». Che ci fa tutti i giorni in questura il responsabile della sicurezza dcl Pds? Lo chiede l'onorevole Roberto Tortoli di Forza Italia, che annuncia una interrogazione parlamentare sulla vicenda riferita ieri da «Repubblica». II responsabile della  sicurezza del Pds «da un po' di tempo sarebbe di casa negli uffici della questura di Firenze»: «Una presenza giornaliera, sempre a contatto con i funzionari con i quali avrebbe colloqui anche a porte chiuse per informazioni, per conoscere il come e il perché dell'inchiesta sul mostro o di altre indagini della polizia».
«Perché, a qual fine?», chiede l’onorevole Tortoli, che si rivolgerà al Ministro dell'Interno per sapere «se risponde a verità quanto è stato pubblicato sulla stampa e le motivazioni di una presenza così assidua e così inusuale negli uffici della Questura di Firenze». In ogni caso l'onorevole Tortoli chiede «che sia ristabilito un clima di garanzia e imparzialità rispetto a qualsiasi eventuale influenza politica sulla questura di Firenze».

Dal canto suo Giuttari continuò a buttare benzina sul fuoco – al posto dell’acqua che di sicuro sarebbe stata più opportuna – con la poco nota vicenda della presunta frode processuale sulla cartuccia di Pacciani.

La cartuccia Pacciani. I quotidiani del 4 febbraio 1999 dettero notizia dell’esistenza di un clamoroso rapporto inviato dalla questura alla procura. Leggiamo il resoconto de “L’Unità” (vedi):

Qualcuno ha barato? Qualcuno ha nascosto filmati, registrazioni e carte? Qualcuno ha fatto sì che al processo arrivasse una documentazione «monca» e, in quanto tale, fuorviante per chi doveva giudicare? Fatti gravi, anche se si fosse trattato di una semplice vicenda di ladri di polli. Ma ancora più gravi perché le «manomissioni» avrebbero riguardato il processo sul «mostro di Firenze», che in primo grado si era concluso con la condanna all'ergastolo di Pietro Pacciani. Ora, a distanza di anni, stanno emergendo spezzoni di un'altra verità.
Fatti, documenti. Tutti diligentemente annotati in un rapporto alto un palmo che la squadra mobile ha inviato alla procura di Firenze. Un rapporto che può davvero essere definito esplosivo. Destinato a provocare polemiche, sconquassi e una severissima inchiesta giudiziaria per frode processuale, abuso di potere, falsa testimonianza e quant’altro. Il tutto mentre riprende vigore un vecchio sospetto: qualcuno fabbricò ad arte alcune prove per incastrare Pacciani? […]
Nel 1992 – secondo la versione data all'epoca – il proiettile venne ritrovato durante una mega-perquisizione nell’orto di Pacciani, infilato nel foro di un paletto di cemento, di quelli utilizzati per sostenere i filari di vite. La scoperta – fu detto – sarebbe stata fatta personalmente dal commissario capo Ruggero Perugini […]. «Vidi uno scintillio – raccontò il funzionario davanti alla corte d’Assise – passando davanti al paletto spezzato, che in precedenza era stato rimosso».
Perugini, a quel punto, chiese l'intervento di un operatore della scientifica che filmò tutta l’operazione, ricavandone quattordici cassette. Quella versione, adesso, è messa in discussione dalla squadra mobile. Infatti gli investigatori hanno scoperto che una parte di quei filmati non sono mai arrivati in Corte d'Assise e, quindi, non sono stati visionati né dai giudici, né dai difensori dell'imputato.
Un fatto – viene rilevato – molto strano per un semplice motivo: il filmato (corredato dal sonoro) era stato «depurato» di un passaggio significativo. Infatti, ad un tratto, si sentirebbe distintamente la voce di Perugini chiedere a mezza bocca ad un poliziotto non ancora identificato: «Sei tu che l’hai notato?». Al che il poliziotto risponderebbe affermativamente. Una frase che dimostrerebbe, secondo il rapporto della squadra mobile, che l’autore materiale del ritrovamento non sarebbe il capo della Sam. […]
Ma come si è giunti a ipotizzare questo nuovo scenario? Lo spunto è venuto dall’avvocato Pietro Fioravanti, difensore di Pietro Pacciani, il quale, ascoltato nell’ambito dell’inchiesta ter sui mandanti, ha fornito alcuni spunti sulla vicenda del proiettile che poi si sono rivelati non privi di fondamento. […]
E adesso? La parola passa di nuovo alla procura di Firenze. Quello che è certo è che il rapporto della squadra mobile è durissimo: qualcuno – si sostiene – ha barato. Qualcuno ha tenuto nascosti ai giudici filmati e registrazioni. Qualcuno ha avallato verbali irregolari. Chi? Lo dovranno dire le prossime indagini. Di fronte ad un rapporto tanto duro quanto circostanziato, non sarà facile fare finta di nulla.

Naturalmente nessuno aveva interesse a riaprire una questione del genere, quindi il rapporto di Giuttari creò non pochi imbarazzi in procura: “«Una guerra fra bande» si mormora con fastidio in procura, sottointeso fra bande di poliziotti. Ci sono nuovi strascichi al veleno per il processo sul mostro di Firenze” (“la Repubblica”, 5 febbraio 1999, vedi); “Imbarazzo. Sconcerto. E una lunga riunione in procura tra i magistrati che si occupano dell’inchiesta-ter (quella sui mandanti) sul mostro di Firenze. Sul loro tavolo il durissimo rapporto della mobile fiorentina […]” (“L’Unità”, 5 febbraio 1999, vedi).
Peraltro non si comprende quale giovamento avrebbero potuto trarre le indagini di Giuttari sui mandanti dal mettere sulla graticola Ruggero Perugini, che già molto prima del suo arrivo aveva tolto il disturbo e in seguito aveva evitato ogni interferenza nella nuova inchiesta. Forse con la sua clamorosa iniziativa l’investigatore aveva cercato di valorizzare delle indagini che stentavano a fornire risultati, oppure più facilmente era alla ricerca di pezze d’appoggio per il proprio atteggiamento critico verso l’inchiesta precedente, di cui rischiava a breve di essere chiamato a rispondere in sede penale. In effetti la sua memoria difensiva (6 aprile 1999) per l'udienza preliminare avrebbe richiamato vari passaggi della sentenza Ferri, dove abbondavano le critiche alle indagini di Perugini, compresa la questione della cartuccia, sul rinvenimento della quale si paventava la presenza di “ampie zone d'ombra e di obbiettive e consistenti perplessità in ordine alla genuinità dell'elemento di prova”. In ogni caso tutto finì in niente, poiché non si ha notizia di ulteriori sviluppi.

Il Ministero non demorde, ma invano. È chiaro che il perdurare di questo clima di veleni mantenne alto il livello di preoccupazione negli ambienti dirigenziali di questura, procura e ministero. Negli scambi di comunicazioni più o meno riservate tra gli uffici preposti si stigmatizzavano i difficoltosi rapporti di Giuttari sia con gli organi istituzionali sia con gli stessi agenti e si evidenziava l’opportunità di procedere a una assegnazione ad altro incarico. E infatti il 3 marzo il Ministero reiterò la propria proposta di trasferimento – in questo caso alla questura di Pesaro, mentre della precedente destinazione chi scrive nulla sa – con annesso avanzamento di carriera; ma ancora una volta l’interessato rifiutò di ubbidire.
Dopo aver ascoltato le sue ragioni il 16 febbraio, il 15 marzo il pubblico ministero Rodrigo Merlo chiese il rinvio a giudizio di Giuttari per diffamazione nei confronti di Lamperi e Venturini (vedi), la qual cosa, comunicata per legge, fu senz’altro di ulteriore stimolo al Ministero dell’Interno per inasprire il proprio atteggiamento, fino ad allora tutto sommato paziente. Ottenuto il 20 aprile il nulla osta del Procuratore della Repubblica e il 23 quello del Procuratore Generale – in questo modo cautelandosi da eventuali recriminazioni, come era accaduto in precedenza –, il 14 luglio il Ministero emise un decreto di trasferimento all’Ufficio Stranieri della stessa questura di Firenze, notificato a Giuttari il successivo 5 agosto.
Il provvedimento del Ministero suonò come una punizione (la qual cosa, lo vedremo presto, fu un secondo errore). Immediatamente il sindacato cui era iscritto Giuttari, il S.I.U.L.P. (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia) si fece sentire su tutti i giornali attraverso il proprio segretario Antonio Lanzilli (vedi “la Repubblica” del 7, per esempio): “Si tratta di una punizione, non c’è dubbio, è lampante. Non è certo una promozione, visto che come prestigio la squadra mobile è un gradino superiore all’ufficio stranieri”. C’è da dire che Lanzilli attribuì il provvedimento del Ministero proprio alle polemiche che c’erano state in precedenza, e delle quali abbiamo fin qui discusso, quindi anche per lui niente poteri forti che volevano proteggere chissà chi: “Una punizione per quelle polemiche? Penso proprio di sì”.
Naturalmente anche Giuttari la prese male – da Il Mostro: “Dopo anni di lavoro dedicati a contrastare la criminalità organizzata e mafiosa […] vengo destinato a un ufficio burocratico molto meno importante di quello attuale” –, e probabilmente qualsiasi altro poliziotto a quel punto avrebbe chinato la testa. Ma non lui: dopo essersi messo in aspettativa per motivi di salute – il suo posto fu preso da Gilberto Caldarozzi –, fece ricorso al TAR del Lazio, organo regionale preposto a dirimere i conflitti in materia di pubblica amministrazione (del Lazio poiché il Ministero dell’interno aveva sede a Roma). Richiese poi il trasferimento da Firenze a Prato del proprio procedimento giudiziario per diffamazione – la casa editrice del libro aveva una stamperia a Calenzano, che rientrava sotto la giurisdizione di Prato; in questo modo evitò d'incontrare di nuovo il GIP Giuseppe Soresina, che nel caso Papini non si era mostrato benevolo verso di lui – e denunciò a sua volta Lamperi e Venturini per calunnia (27 settembre).
Chi scrive non ha consultato alcuna documentazione al riguardo, si può però supporre che nel proprio ricorso Giuttari fosse riuscito a dimostrare il carattere punitivo del provvedimento del Ministero, al quale aveva contrapposto i propri indubitabili successi nell’inchiesta sul Mostro, ben evidenziati da tutti gli organi di stampa e stigmatizzati da un elogio del tutto inusuale contenuto nella sentenza di primo grado di condanna a Vanni e Lotti, depositata il 30 luglio 1998:

Dopo la predetta sentenza [condanna di Pacciani in primo grado] venivano quindi riprese ed intensificate le indagini a tutto campo, nel senso indicate dalla Corte di Assise. Ad esse si dedicava in particolar modo il dott. Michele Giuttari, nella sua qualità di nuovo dirigente della Squadra Mobile presso la Questura di Firenze, che, dall'ottobre 1995 (da quando assunse tale carica), vi si applicava con grande impegno e capacità, riuscendo ben presto ad ottenere i primi risultati utili.

In ogni caso il 2 dicembre il TAR dette ragione a Giuttari, sospendendo il provvedimento e costringendo il Ministero a rivolgersi al Consiglio di Stato – l’equivalente di un tribunale di secondo grado –, dove l’8 febbraio 2000 vennero ancora una volta riconosciute le ragioni dell’investigatore.
Al termine del periodo di aspettativa di cui stava usufruendo, il 28 febbraio Giuttari riprese il proprio posto in servizio alla squadra mobile, ma per poco, poiché il 25 marzo il Ministero di nuovo decretò il suo trasferimento all’Ufficio Stranieri. Ancora Giuttari fece ricorso, ma questa volta il provvedimento doveva essere stato motivato meglio, poiché il TAR non ebbe nulla da eccepire. Fu allora Giuttari a rivolgersi al Consiglio di Stato, che il 27 luglio gli dette ragione. A quel punto al Ministero si dichiararono sconfitti, e non emisero altri provvedimenti. Giuttari poté così riprendere stabilmente il proprio posto a capo della squadra mobile e soprattutto le indagini alla ricerca dei mandanti, pressoché ferme da due anni.
Prima di passare a qualche commento sui fatti narrati, un cenno alla conclusione dello scontro con Lamperi e Venturini, su cui chi scrive ha per ora una documentazione soltanto parziale. Il 30 novembre 2000 il PM di Prato, Christine Von Borries, rinviò a giudizio Giuttari per diffamazione, ma il 26 gennaio 2001 il GUP archiviò il procedimento riconoscendo all’imputato l’esercizio del diritto di cronaca. La procura di Firenze, che aveva ancora in capo l’eventuale reato di falsa testimonianza commesso durante il dibattimento – sempre per la questione delle indagini precedenti mal riportate – due giorni prima ne aveva chiesto l’archiviazione. Ultimo atto la sentenza di Francesco Carvisiglia, il quale, nella veste di GIP, il 9 marzo 2001 prosciolse Giuttari dal reato di falsa testimonianza e Lamperi e Venturini da quello di calunnia.
Tutti innocenti, quindi, la qual cosa appare però contraddittoria, poiché almeno una delle due parti avrebbe dovuto trovarsi in torto.

Considerazioni. Probabilmente la stragrande maggioranza dei lettori si sarà molto annoiata nel leggere il presente articolo, nel quale la fanno da padrone diatribe tutte interne alle forze dell’ordine, con la vera e propria vicenda dei delitti del Mostro a fare da debolissimo sfondo. Ma era importante raggiungere un risultato: la dimostrazione che i due anni di blocco delle indagini di Giuttari, da tanti appassionati attribuiti a forze oscure impegnate a proteggere fantomatici mandanti, avevano avuto motivazioni assai più prosaiche. Non erano stati né la massoneria né l’Ordine della Rosa Rossa e della Croce d'Oro Indipendente e Rettificato a voler trasferire Giuttari ad altro incarico, ma un Ministero dell’Interno irritato per la sua esposizione mediatica e preoccupato per i conflitti da essa suscitati.
La vittoria alla fine fu di Giuttari, ma oggi è possibile e legittimo chiedersi: ci guadagnò anche la giustizia? A conti fatti si direbbe di no, poiché quei mandanti che con tanta caparbietà il superpoliziotto voleva cercare sappiamo bene che dopo tanti anni non sarebbero stati trovati, nonostante l’enorme dispendio di energie da lui messo in campo. E che ancora in anni recenti dichiari, o almeno lasci intendere: “Eravamo a un passo dalla svolta, la procura di Firenze ci bloccò” (vedi) suona francamente fuori luogo. Quale svolta? Davvero i misteriosi mandanti stavano per essere stanati? Vedremo più avanti che la lotta tra Giuttari e chi lo voleva fermare continuò, ma senza nessuna forza oscura che operava dietro le quinte; in ogni caso lui riuscì ad andare avanti per la propria strada fino addirittura al 2007, mettendo in campo risorse non certo indifferenti (è legittimo chiedersi: con quali costi per la collettività?).
A scuola ci hanno insegnato che “con i se e con i ma la storia non si fa”, si potrebbe però ugualmente scommettere che se Vigna fosse rimasto al proprio posto le indagini si sarebbero fermate subito. Anni dopo, a bocce ormai quasi ferme, l’ex procuratore capo avrebbe scritto (In difesa della giustizia, 2011):

Esistono i mandanti di quei delitti, tanto tenacemente ricercati dalla procura e dall’investigatore Michele Giuttari?
Da ex procuratore non posso che affermare che, nonostante le indagini, non si è mai giunti all’individuazione dei mandanti. E, francamente, non credo che esistano.
Mi sembrerebbe strano infatti che chi ha commesso tante volte questi terribili omicidi possa averlo fatto obbedendo ad un input esterno, per esaudire la richiesta di altri. L’ipotesi, già inverosimile per un solo omicidio, lo è ancora di più per una scia di morte tanto lunga e dilatata nel tempo. E poi, questi soldi, dove sarebbero finiti? Si è parlato del patrimonio di Pacciani come se si trattasse di un tesoro. Ricordiamo però che si tratta di un contadino che ha lavorato per quarant’anni, sicuramente parsimonioso, uno che dava da mangiare alle figlie il cibo per cani.
E a Vanni e Lotti non sarebbe andato niente di quel compenso? Lotti addirittura viveva in un alloggio della parrocchia che condivideva con alcuni immigrati. Il vantaggio patrimoniale per una serie ripetuta di omicidi avrebbe dovuto essere cospicuo e invece non se n’è trovata traccia.
E credo che mai si troverà.

C’è a questo punto una domanda alla quale sarebbe utile rispondere per poter meglio valutare gli accadimenti successivi: la tenacia di Giuttari nel voler portare avanti a tutti i costi le indagini sui mandanti, rifiutando anche un avanzamento di carriera, era davvero frutto di un alto senso del dovere, come lui afferma con decisione? Sono in molti a ritenere le sue ambizioni di scrittore non del tutto estranee alla volontà di percorrere una strada che gli offriva un ottimo palcoscenico dal quale farsi conoscere; un sospetto inevitabile, visti anche i successivi sviluppi della sua attività di giallista di successo, che indubbiamente deve molto al ruolo, sempre ben pubblicizzato, di investigatore sui delitti del Mostro. Un successo che però sembra sia andato calando via via che si allontanavano i tempi delle sue imprese investigative, tantoché oggi ci si chiede se e quando uscirà il prossimo romanzo, dopo la cadenza quasi annuale dei precedenti e i sei anni di distanza dall’ultimo, Il cuore oscuro di Firenze,  con l’autobiografia di Confesso che ho indagato a costituire il possibile canto del cigno.

I mandanti e le sentenze. Per trovare giustificazione alla propria incrollabile volontà di proseguire nella ricerca dei mandanti, Giuttari si è sempre fatto scudo delle “indicazioni dei giudici che hanno condannato Vanni e Lotti”. Proviamo ad approfondire la questione.
In effetti nella sentenza di primo grado viene accolta, come ipotesi di lavoro, la possibile esistenza dei mandanti. Ma molto flebilmente.

Le risultanze processuali non hanno invece portato ad alcuna conferma delle dichiarazioni del Lotti in ordine al "dottore", che avrebbe commissionato i delitti e che avrebbe acquistato le parti escisse dal cadavere delle ragazze, pagandole materialmente al Pacciani.
La Corte ha cercato di acquisire elementi anche su tale punto (ex art. 507 CPP, al fine di avere il maggior materiale probatorio possibile relativamente alle dichiarazioni del Lotti sugli omicidi), ma il risultato non è stato positivo, nel senso che non vi è stato alcun "riscontro" preciso sul predetto "dottore”.
Non sembra, tuttavia, che il Lotti possa aver mentito solo su tale circostanza, non avendo avuto alcun ragionevole motivo per farlo.

A dire il vero, secondo gli stessi giudici, questa non sarebbe stata l’unica circostanza nella quale Lotti avrebbe mentito, poiché già non avevano creduto alla sua ricostruzione del delitto di Giogoli. In ogni caso aggiungono poi ulteriori elementi per avvalorare in qualche modo l’ipotesi dei mandanti.

D'altra parte, l'istruttoria dibattimentale ha lasciato intravedere "qualcosa", che porta nella direzione indicata dal Lotti e, quindi, del predetto fantomatico "dottore". È emerso infatti:
1) che, in occasione dei duplici omicidi di Scopeti e di Vicchio (che furono appunto caratterizzati dall'asportazione del seno sinistro e della zona pubica dal corpo delle ragazze), il Pacciani ed il Vanni, al termine di tutta l'operazione, avrebbero lasciato un "fagotto" al limite di tali piazzole, poggiandolo delicatamente per terra nella zona dei cespugli, il che lascia ragionevolmente presumere che si sia trattato delle parti escisse dal corpo delle ragazze, che venivano lasciate temporaneamente lì, a disposizione di altro soggetto che avrebbe dovuto rimuoverle e portarle via; […]
Ciò porta ancora a ritenere che possa esserci stato, in occasione dei duplici omicidi, anche qualche altro "personaggio" nascosto tra i cespugli, personaggio che non si voleva far vedere da tutti quelli che partecipavano ai delitti e che chiaramente interveniva subito dopo, per prelevare e portar via le parti escisse, non appena gli altri si fossero allontanati dalla piazzola. […]
2) che le indagini di carattere finanziario, eseguite dalla PG sul conto di Pacciani, hanno portato ad una situazione economica del tutto incompatibile con la sua condizione di contadino, che lavorava i terreni altrui e che guadagnava appena il sufficiente per vivere […]
3) che una situazione un po’ simile si riscontra anche relativamente al Vanni, per quanto costui abbia fatto per anni il "postino" ed abbia preso una "liquidazione" all'atto della sua andata in pensione, essendo risultati a suo carico notevoli investimenti di denaro […]
Le predette situazioni vanno comunque meglio verificate da parte del PM, ai fini di una valutazione più sicura, nell’ambito delle nuove indagini in ordine al predetto "dottore". D’altra parte, la Corte non poteva non segnalare anche tutte le predette circostanze, che possono portare a maggiori risultati ed a fare finalmente completa luce sulla presente vicenda, che si trascina purtroppo da molti anni.

Questo blog si è già occupato delle assurdità delle quali è infarcita la sentenza di condanna di Vanni e Lotti in primo grado, e, come si vede, il passaggio precedente è del tutto in linea. Ci si domanda infatti come sia stato possibile anche soltanto ipotizzare uno scenario dove le parti di donna sarebbero passate dagli esecutori ai committenti – nascosti tra i cespugli! – attraverso fagotti lasciati sul posto, anzi, addirittura sepolti, secondo certe indicazioni di Lotti. Poi i soldi. Di quelli di Pacciani si è già detto (vedi), mentre di quelli di Vanni non c’è nulla da dire, poiché si trattava di una cifra del tutto compatibile con i risparmi di chi aveva lavorato una vita intera.
È pur vero tuttavia – quindi formalmente Giuttari ha ragione – che in qualche modo i giudici di primo grado avevano invitato l’autorità giudiziaria a indagare sul “dottore” di Lotti. Vediamo però quanto ne avrebbero scritto quelli di secondo grado un anno dopo.

Né ha trovato riscontro alcuno la ipotesi adombrata dalla impugnata decisione per la quale probabilmente vi era un medico che acquistava le dette parti anatomiche.
La cosa è stata riferita dal Lotti il quale ha detto di aver saputo dal Vanni che le parti escisse venivano vendute ad un non identificato “dottore” il quale pagava il tantundem al Pacciani.
Lotti ha dichiarato di non sapere chi fosse mai questo dottore e se la cosa riferitagli dal Vanni potesse rispondere o meno a verità: conseguentemente pare del tutto inutile ipotizzare, come ha fatto il primo giudice, oscuri personaggi che nottetempo si sarebbero nascosti nei boschi in attesa che il Pacciani e il Vanni consegnassero loro le parti anatomiche appena tagliate. Si tratta di mere illazioni che non meritano alcun commento o esame critico.

Come si vede i giudici di secondo grado badarono bene di togliere di mezzo, peraltro in modo sprezzante, l’assurda ipotesi dei fagotti, mentre ai soldi di Vanni e Pacciani neppure accennarono. Secondo loro i delitti trovavano spiegazione all’interno della stessa combriccola dei compagni di merende, poiché non c’era alcuna ragione di escludere che

alcuni criminali di provincia, certamente afflitti da personalità psicopatologica, chi in misura maggiore e chi in misura minore, ben protetti dalle omertà dell'ambiente che li circondava, ogni tanto decidessero di uccidere coppie di giovani durante o prima i rapporti amorosi, o successivamente, traendo da ciò, probabilmente ma non certamente, un qualche gradimento sessuale.

A pensar male, considerando che il documento venne scritto tra il giugno e l’agosto 1999 – durante il primo tentativo di trasferire Giuttari all’Ufficio Stranieri – si potrebbe anche sospettare che i giudici avessero voluto dare una mano al Ministero. In ogni caso il 26 aprile 2000 la sentenza di secondo grado fu confermata dalla Cassazione; possiamo quindi concludere che alla fine, visto che il verdetto valido è sempre quello più recente, non c’è stato alcun invito dei giudici a effettuare indagini sul “dottore” di Lotti.

Nasce la leggenda. Vedremo in un prossimo articolo quali furono le mosse investigative di Giuttari al suo rientro in piena fase operativa dopo i due anni di contrasti con il Ministero. Intanto vale la pena dare un’occhiata al modo in cui, fin da subito, l’investigatore cercò di capitalizzare la propria vittoria in termini di immagine mediatica, dando così inizio alla leggenda dei poteri forti che avrebbero cercato di fermarlo per proteggere i mandanti, proprio quella che il presente articolo si è proposto di confutare. A darci una mano è questo gustoso servizio, “C’è un mostro dietro il mostro”, uscito sul mensile “GQ” (Gentlemen's Quarterly) del settembre 2000 (vedi) a firma Marco Gregoretti.

L’uomo del sigaro ha un appuntamento con qualcuno. Meno gente lo sa, meglio è: Firenze per lui, poliziotto investigatore senza padrini, è sempre più calda. Quell’incontro con un giornalista che viene da fuori può essere pericoloso. Un cenno veloce del capo. Un sorriso che ricorda vecchi tempi quando le cose andavano senz’altro meglio. C’è poco tempo per parlare. Soltanto un caffè. E un pacchetto che velocemente passa dalle mani del poliziotto a quelle del giornalista. Poi Michele Giuttari, siciliano di Messina, uno dei cinque migliori investigatori d’Italia, per sette anni capo della Squadra mobile di Firenze, ovvero colui che ha scoperto e inchiodato i compagni di merende, se ne va rapido e silenzioso.

Che cosa ci sarà stato mai dentro quel misterioso pacchetto che Giuttari consegnò di soppiatto al giornalista investigativo Gregoretti?

Il giornalista aspetta un paio di minuti e scompare anche lui. Si avvia verso l’albergo […]. Sale in camera, la 162. Appoggia il pacchettino sul comodino. Lo apre. Vorrebbe farlo lentamente. La foga curiosa lo spinge a strappare con veemenza la carta. «Pensa te! Un libro, soltanto un libro. Il suo libro. Tutto ‘sto mistero per una copia di Compagni di sangue, di Michele Giuttari e Carlo Lucarelli». Ma un segno giallo sul nome di Michele Giuttari cattura la sua attenzione. Mah. Sfoglia il volume. A fianco della parola Epilogo, titolo dell’ultimo capitolo, c’è scritto in stampatello: «È l’ultima vittima del Mostro».

Svelato il primo mistero, se ne apre subito un secondo: quale fu l’ultima vittima del Mostro di Firenze tra le tante che gli vennero attribuite dopo l’ultimo duplice omicidio?

Il giornalista si incuriosisce. Legge quel capitolo. […] Le parole scritte da Giuttari sono messaggi rivolti a una persona precisa e a chi la copre, o ne protegge il buon nome. «Ma sì, certo», si convince il giornalista. «È lui, è Giuttari, l’ultima vittima del mostro». Il poliziotto con il sigaro ha capito che […] i compagni di merende agivano anche per conto di un uomo misterioso e potente che pagava. Il magistrato Paolo Canessa gli crede. E lui comincia a indagare. Si avvicina sempre più all‘uomo. Ne delinea i contorni: un medico appartenente a una famiglia molto importante. Ma un decreto del ministro degli Interni lo catapulta fuori dalla Squadra mobile. Mandato a dirigere all'Ufficio stranieri della Questura […]. Ricorre al Tar. Che gli dà ragione. Ma il ministro lo sposta di nuovo. E a fine luglio, il 27, proprio mentre questo articolo sta per andare in macchina, il Consiglio di Stato annuncia: «Il 25 luglio abbiamo sospeso il trasferimento del dottor Michele Giuttari all’Ufficio stranieri». Come dire: deve tornare a dirigere la Squadra mobile di Firenze.

Dunque l’ultima vittima era stato proprio Giuttari, per fortuna niente di fisico, ma “soltanto” un tentativo di bloccare le sue indagini.

Sì, il giornalista si convince: questa è la dimostrazione che quel trasferimento puzzava. Che forse era meglio non dare volto, nome e cognome al secondo livello. Al mostro, o ai mostri, dietro i mostri. In Italia si possono scoprire solo mezze verità. E al suo amico Michele, invece, interessano quelle intere: non crede che nelle storie criminali esistano soltanto gli esecutori. Lo chiama al cellulare: «Sono contento che ti abbiano dato ragione. Vediamoci, ho capito». «No, non ci vediamo. Non posso dirti nulla». «Solo una cosa, per favore: sei tu l’ultima vittima?».
«Sì».

E così la leggenda ebbe inizio.

Il mandante, e le persone a lui collegate, sono così potenti che sono riusciti a muovere le fila fino a far trasferire il loro nemico numero uno. «Non potevano ammazzarmi», ha confidato Giuttari a un amico, «perché nell’ultimo capitolo del libro faccio intendere che conosco la verità e che, oltre a me, la conoscono anche altri»

Questa dunque fu la versione che Giuttari lasciò passare, poiché non si ha notizia di sue smentite riguardo il contenuto dell'articolo.

domenica 10 marzo 2019

Natalino, fanciullo intelligente e sfortunato

Parole come buonsenso e logica – o anche insieme: logica del buonsenso – sono senz’altro un ingrediente fondamentale di ogni indagine poliziesca, come anche di ogni ricostruzione storica che la riguardi. Nel caso della vicenda del Mostro di Firenze la dimenticanza di queste parole ha portato a storture grottesche, come quelle di sette sataniche, complotti dei servizi segreti e doppi cadaveri. Che cosa mai avrebbero potuto farne le sette sataniche di quei poveri brandelli di carne rigorosamente procurati nel circondario fiorentino e clamorosamente prelevati dalla figura femminile di una coppia? Con tutti i problemi di terrorismo e mafia che avevamo, perché i servizi segreti avrebbero dovuto preoccuparsi d’insabbiare le indagini sui delitti di un maniaco omicida? Infine, a quale pro una famiglia prestigiosa, dimostratasi in grado di evitare l’obbligatoria autopsia di un loro congiunto, si sarebbe andata a cercare problemi sostituendone il corpo con quello di un individuo più basso di 20 centimetri e più grosso di altrettanti?
Largo quindi a buonsenso e logica, con un limite però: i fatti. È di un paio di settimane fa un (quasi) inutile articolo sul Mostro pubblicato da “Panorama” (27 febbraio 2019), dove in un trafiletto viene data la parola a Ruggero Perugini, il poliziotto che aveva incastrato Pacciani. Dice Perugini rispondendo a una domanda sul collegamento tra il delitto di Signa e i successivi: “Come tutti, anch’io mi chiesi se ci fosse stato un passaggio di mano dell’arma. Ma non ho mai creduto all’ipotesi del suo rinvenimento occasionale, visto che l’assassino aveva poi continuato a usare munizioni dello stesso tipo e lotto”. Certo, la nascita di un serial killer a partire dal rinvenimento più o meno casuale di una pistola usata per un delitto comune potrebbe sembrare un’ipotesi priva di buonsenso e di logica, una circostanza mai verificatasi prima e quindi da non credere. E siccome il Mostro tra i sardi non c’era, come avevano dimostrato anni di inutili indagini piene di passi falsi, per forza anche l’assassino di Signa doveva essere stato Pacciani. Peccato che questo porti a passare un devastante colpo di spugna sulla miriade di indizi che collocavano Stefano Mele e dei complici mai (ufficialmente) individuati sulla scena del crimine di quel primo duplice omicidio; indizi che prendevano corpo in base a una serie di fatti che, in quanto tali, non possono trascurarsi. In un precedente articolo (qui) ne abbiamo esaminati alcuni riguardanti Stefano Mele – la sua strategica malattia, le tracce di grasso sulle mani e la pur debole positività al guanto di paraffina –, in questo ne vedremo altri che riguardano il figlio Natalino.
Prima però d’iniziare, ancora qualche parola sull’annosa questione delle cartucce che avrebbero fatto tutt'uno con la pistola, tirata in ballo da Perugini per rafforzare la propria convinzione. Già, ma quali cartucce, quelle di una medesima scatola da 50? No, l’ex investigatore non si azzarda a sostenerlo, poiché nessuna perizia lo ha mai dimostrato e neppure lo avrebbe mai potuto dimostrare (vedi). E allora, sembra così difficile che sia gli assassini di Signa sia chi si sarebbe impadronito della pistola avessero potuto acquistare le loro munizioni alla medesima fonte e più o meno nel medesimo periodo, trovandovene di simili? E che magari il secondo assassino, inesperto di armi come avrebbe dimostrato al suo primo delitto a Borgo San Lorenzo, per non sbagliare avesse chiesto cartucce dello stesso tipo di quella che si era ritrovato in canna? I colpi sparati, infatti, erano stati otto, i colpi a caricatore pieno più quello in canna erano però nove. Infine, ammesso e non concesso che tutto ciò possa essere considerato improbabile, basta questa improbabilità a far dimenticare gli indizi di cui si diceva prima?
Proviamo dunque a vedere quanto pesano sul quadro probatorio generale le parole e il comportamento di Natalino.

Problemi d’interpretazione. Cominciamo subito con il porre un limite a questo lavoro: verranno esaminate parole e comportamento soltanto di Natale bambino, Natalino, quindi, a partire dal momento in cui suonò il campanello di De Felice, nella notte tra il 21 e il 22 agosto 1968, fino alla  deposizione al processo del padre, il 20 marzo 1970. È convinzione di chi scrive che quanto avrebbe detto Natale a partire dalla ripresa delle indagini nel 1982 ha poco valore, e quel poco può essere utilizzato soltanto nella ricerca di eventuali responsabilità del gruppo familiare di cui faceva parte, padre, zii e zie, e non nella ricostruzione degli eventi del 1968. Con i suoi vari cambi di versione, è evidente infatti che Natale non cercò mai di aiutare gli inquirenti, ma si preoccupò soltanto di allontanare i sospetti dai propri cari, anche introducendo una figura sconosciuta di accompagnatore cui ai tempi non aveva mai fatto cenno.
Il lavoro cui qui ci si accinge è stato già fatto da Mario Rotella, che ce ne ha lasciato una sintesi esaustiva nella sua sentenza, con la quale qua e là sarà opportuno confrontarsi, citandone delle parti. Cominciamo con il riprendere un richiamo del giudice al modo in cui vennero utilizzate le dichiarazioni di Natalino nelle indagini dell’epoca:

Durante le indagini svolte allora, le acquisizioni nei suoi confronti furono estemporanee o circondate da scetticismo, e in questa direzione operò anche un parere psicologico, formulato all'interno dell'istituto nel quale era stato ricoverato. Esso avvalorava l'esistenza di un trauma a cagione dell'enormità del fatto cui aveva assistito, e una rilevante suggestionabilità.
Non fu tuttavia mai svolta una perizia vera e propria per accertarne la reale incidenza. Né si pose mano ad un'esegesi delle sue narrazioni.

Quindi poco credito fu dato alle parole del fanciullo, sulla base anche di un “parere psicologico” purtroppo non disponibile a chi scrive. Rotella però la pensava in modo differente:

A molte dichiarazioni non si può dare immediato significato probatorio, nel senso ordinario del valore della testimonianza, e cioè che il narrato si stimi credibile, giusto l'art. 348, II co.. Ciò non per ragioni intrinseche di capacità del piccolo testimone, quanto per il fatto che le risposte appalesano un condizionamento o un contrasto con le emergenze materiali o una intrinseca contraddizione.

Con la sua prosa piena di termini desueti ma anche eleganti, Rotella ci dice che non si possono prendere per oro colato le parole del bambino, sia quando appaiono in contrasto con le prove, e questo è ovvio, sia quando evidenziano condizionamenti. Ma questo non vuol dire che debbano essere respinte in toto.

Va invece respinto un atteggiamento di apodittico scetticismo, non solo perché contrario allo spirito della legge, ma perché del tutto inadeguato alla logica formale che sorregge la tematica della prova rappresentativa. Insomma, se appare troppo facile osservare che il 're è nudo', è altrettanto superficiale stimare che non lo sia.
Quest'ultima posizione è sostanzialmente dovuta alla scarsa familiarità con il discorso infantile. Senonché i bambini tradiscono facilmente le loro menzogne, così che è più facile intenderne le ragioni di condizionamento. Il discorso di Natalino è interessante non solo per il dichiarato, quanto per gl'inquinamenti che appalesa e le loro fonti.

I bambini certamente possono mentire, sostiene Rotella, ma è anche facile scoprire le loro menzogne, e con esse chi quelle menzogne gliele ha messe in bocca, sembrando con ciò il giudice escludere che possano essere farina del loro sacco. Infatti, riguardo il caso di Natalino:

Finalmente è difficile trovare un solo caso nel quale egli sembri inventare. Tutto quanto dice non ha nulla di fantastico e, lì dove è incredibile, lo è solo per assenza di riscontro nella realtà storica, che si è potuta altrimenti ricostruire. Né trapela dalle sue versioni alcun interesse o ragione di affettività tale da indurlo a mentire. L'impressione complessiva, confermata passo passo dal dettaglio, è che egli narri i fatti come realtà obiettiva e occasionale, alla quale abbia partecipato da spettatore, senza sostanziali coinvolgimenti emotivi. Questi senza dubbio vi sono stati, a partire dalla paura generata dagli spari, al rilievo dell'inerzia della madre dopo la morte, alla scoperta del padre, all'accompagnamento notturno verso una casa d'estranei. Ma il narrato appare avulso dal vissuto, perché Natalino non sembra in grado di darsi una ragione complessiva degli accadimenti, così che il riferirli non rinnovella i sentimenti estemporanei di allora.

Rotella quindi era convinto che Natalino non avesse mai raccontato una bugia di propria iniziativa, e che le sue narrazioni avessero avuto il pregio di esporre gli accadimenti nudi e crudi, non avendo avuto modo di elaborarli e trasformarli, data la difficoltà di interpretarne le ragioni profonde. Purtroppo però, e lo vedremo, analizzando le parole del bambino il giudice si lasciò condizionare dalle proprie convinzioni, riguardo il destino della pistola, innanzitutto, ma anche l’accompagnatore, e altro. Purtroppo per lui, il “suo” assassino, Salvatore Vinci, non c’era nelle parole del bambino, la qual cosa si può immaginare lo avesse ostacolato alquanto nel valutarle con il necessario distacco; mancando di una visione imparziale dei fatti, il suo scritto appare affastellato di troppe considerazioni anche contrastanti, e troppi riferimenti al contorno, compresi quelli alle parole di Natale adulto, della cui sincerità è invece opportuno dubitare.
Veniamo adesso alle convinzioni di chi scrive, che è bene esporre fin da subito, poiché illustrano la chiave di lettura che verrà adottata per i comportamenti e soprattutto le parole di Natalino. Il presupposto fondamentale è analogo a quello di Rotella: nessuna invenzione originale è rintracciabile nelle parole del fanciullo. A poco più di sei anni è certamente possibile inventarsi delle storie fantastiche durante i giochi, ma nella situazione drammatica in cui si trovava Natalino, e della quale dimostrò di essere perfettamente consapevole – anche senza comprenderne le ragioni recondite –, risulta da escludere qualsiasi menzogna elaborata in modo del tutto autonomo. Naturalmente questo non vuol dire che i suoi racconti debbano essere accettati in modo acritico – se non altro perché ce ne sono di contraddittori – ma vanno interpretati alla luce di due possibili fattori di inquinamento.
Vi si devono innanzitutto riconoscere le menzogne, che Natalino disse più volte ma soltanto dietro le pressioni degli adulti. Oltre a essere riconosciute, tali menzogne vanno anche analizzate per capire chi e per quali ragioni lo aveva spinto a dirle. In almeno un caso la pressione fu fatta ma il bambino non ebbe la possibilità di eseguire le relative istruzioni.
Altri fattori di allontanamento dalla verità, meno clamorosi ma per questo anche più difficili da riconoscere, vanno cercati nella possibile distorsione con cui Natalino percepì i drammatici eventi, sia perché vissuti con mente di fanciullo, sia perché modificati dalle parole degli adulti che avevano cercato di nasconderglieli. Vedremo che ciò riguarda i momenti del delitto e quelli del successivo accompagnamento.

L’impossibile viaggio solitario. Come è ben noto, Natalino raccontò alle persone che lo avevano accolto in casa di essere giunto lì da solo. Si sarebbe svegliato trovando la mamma e Lo Bianco morti, sarebbe quindi uscito camminando a lungo al buio fino a giungere davanti alla porta di De Felice e suonare il campanello. Fin da subito le forze dell’ordine non gli credettero, e basta andare anche oggi sul posto per capire il perché. Immaginare un bambino di quell’età che percorre al buio completo – il cielo era nuvoloso – un percorso di oltre due chilometri in una strada sterrata in mezzo ai campi senza perdersi d’animo è fuori luogo. Tra l’altro risultò essere in ottime condizioni generali, solo un po’ spaventato e senza ferite ai piedi, dove portava soltanto i calzini, nonostante le cattive condizioni del fondo della lunga strada percorsa.
Anche le modalità con le quali disse di essersi svegliato non tornano. Non parlò di colpi di pistola, eppure due degli otto vennero esplosi con l’arma dentro l’abitacolo e che non li avesse uditi appare pertanto impossibile. Pensiamo poi alla sua situazione al momento in cui si sarebbe accorto che la madre e lo “zio” non rispondevano ai suoi richiami. Innanzitutto avrebbe dovuto capire che non gli avrebbero risposto mai più, poi prendere una decisione difficile e molto coraggiosa, quella di abbandonare l’auto e andare in cerca d’aiuto nel buio pesto della notte, e quasi subito, considerati gli orari. Si tratta di un comportamento non attribuibile a un bambino di neppure sette anni. E perché, semmai, non tornare indietro verso l’imbocco della sterrata che distava appena un centinaio di metri, oppure cercare aiuto in quei due o tre casolari che si trovavano verso la parte finale del suo viaggio?
Natalino stava mentendo, non ci sono dubbi, come non ci sono dubbi che lo avesse fatto dietro precise istruzioni. E di chi se non del padre, del quale si preoccupò subito di confermare l’alibi della malattia che l’uomo si era preparato alla mattina? Sono ormai arcinote le sue parole pronunciate quando De Felice si affacciò alla finestra, “Aprimi la porta perché ho sonno e ho il babbo ammalato a letto; dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina”, ma quella medesima frase continuò a ripeterla anche dopo, come risulta dalle dichiarazioni delle persone che lo accolsero (verbali del 7-8 ottobre 1968, qui): “Il bambino sembrava spaventato; si limitava a dire che il babbo era a letto ammalato e che la mamma e lo zio erano morti in macchina e che voleva essere accompagnato a casa perché aveva sonno” (Francesco De Felice); “Ripeté quanto aveva già detto prima, accennò che il babbo era a casa ammalato, che lui era uscito con la mamma e lo zio ed era andato al cinematografo” (Maria Sorrentino, moglie di De Felice);  Il bambino disse che il suo babbo era a letto ammalato e che vi erano poco distante sua mamma e suo zio morti in macchina” (Marcello Manetti, il vicino giunto poi).
Oltre alla frase che gli era stata fatta imparare a memoria, a Natalino doveva anche essere stato raccomandato di stare attento a quello che gli avrebbero chiesto i carabinieri. Lo si deduce dalla testimonianza di Maria Sorrentino, che rimase sola con lui mentre il marito e Manetti andavano a chiamare il piantone della stazione di San Piero a Ponti, Mario Giacomini:

Tutte le volte che sentiva passare un’automobile per la strada, domandava se per caso fossero i Carabinieri ed io cercavo sempre di rassicurarlo [...]
Quando tornò mio marito col Carabiniere allora il bambino si mise a piangere e cercai di calmarlo dicendogli che il Carabiniere era un suo zio. Era evidente che il bambino era insospettito. Tanto è vero che anche al Carabiniere dette solo le informazioni che aveva detto a noi […]

Queste le parole di De Felice:

Faccio presente che la moglie mi ha riferito che quando siamo usciti il bambino le domandò se per caso si fosse andati ad avvertire i CC.  e la moglie lo rassicurò dicendo di no. Però quando tornammo ed era con noi il carabiniere, il bambino si mise a piangere e non volle più parlare.

Il giorno dopo il delitto. Natalino trascorse la giornata successiva nella caserma dei carabinieri di Signa, dove continuò a sostenere la medesima versione del viaggio solitario, mentre il padre veniva interrogato in quella di Lastra a Signa; la sera i due andarono a casa assieme. “Quella notte, come si scoprirà durante l'istruzione, e come si riscontrerà a partire dal 1982, padre e figlio hanno parlato. Ed il primo ha ammaestrato il secondo”, si legge nella sentenza Rotella.
A evidenziare il tentativo di “ammaestramento” del figlio fatto da Stefano Mele nell’ultima occasione che ebbe per stare assieme a lui – il giorno dopo entrò in carcere – sono soprattutto le parole pronunciate dallo stesso Natalino il 21 aprile 1969, quando il giudice Antonio Spremolla sarebbe andato per la prima volta a sentirlo mentre era in istituto. Dovremo tornare su questa fondamentale audizione, intanto però è il caso di esaminare un passaggio del relativo verbale, redatto in forma indiretta:

Chiestogli se c’era anche Vinci Francesco dice di sì.
Chiestogli allora di ricordare chi abbia visto quella sera, ricorda oltre il papà, la mamma, l’uomo che era in macchina che lui chiama anche “Zio”, lo zio Piero e non menziona il Vinci Francesco.
Chiestogli perché non lo abbia ricordato risponde "Me lo disse il babbo di dire di averlo visto".

Nelle ore successive al delitto Natalino non aveva parlato di Francesco Vinci – che conosceva bene per averlo visto molte volte a casa propria –, quindi senz’altro tale pressione il padre non gliel’aveva fatta durante il suo accompagnamento verso casa De Felice. L’unica altra opportunità avuta da Mele è proprio quella dell’ultima notte trascorsa assieme. È evidente che il cercare l’appoggio del figlio riguardo la presenza di Francesco Vinci doveva far parte di un piano a suo modo ben elaborato, o evoluzione o seconda fase già programmata di quello messo in opera al momento dell’accompagnamento, nel quale Natalino non aveva visto nessuno e lui si dichiarava ignaro di tutto. Può essere infatti che Mele avesse previsto fin dall’inizio di operare su Natalino in due fasi, oppure che l’idea della seconda gli fosse venuta in caserma mentre anche Francesco Vinci veniva interrogato.
Sia come sia, sappiamo però che la mattina dopo, 23 agosto, Mele avrebbe accusato Salvatore, e non Francesco. La presenza accanto a lui del cognato Piero Mucciarini spiega bene il motivo; ci dovremo tornare sopra, intanto il lettore ci rifletta mentre qui è il caso di saltare a piè pari questa peraltro importantissima parentesi, per arrivare al pomeriggio del giorno dopo, 24 agosto, quando Mele, incalzato dagli inquirenti e lontano dai suoi familiari, abbandonò quella versione per riprendere la propria.
Il nuovo racconto di Mele lo vedeva andare a uccidere in un ruolo minimale assieme a Francesco Vinci, che poi, mentre lui fuggiva spaventato, avrebbe accompagnato il figlio da De Felice, minacciandolo affinché non parlasse. Natalino era stato zitto, ma la sera successiva gli avrebbe confidato il tutto; “chiedetelo a lui”, disse Mele ai suoi interlocutori. Al di là dei motivi che l’ometto aveva avuto per fornire tre versioni differenti in tre giorni – che ci sono e ben validi, si rassegnino i discepoli di Filastò che trovano un’improbabile spiegazione in ipotetici schiaffoni –  è qui importante evidenziare il tentativo di un secondo condizionamento operato dal padre su Natalino, che però non ebbe occasione di metterlo in pratica. C’è anche da dire che nel suo piano originario di sicuro Mele non era andato assieme a Francesco Vinci, ma era rimasto a casa ammalato (quindi con un perfetto collegamento al racconto del giorno prima); l’ammetterlo fu dovuto all’impossibilità di negare una sua partecipazione dopo averla ormai dichiarata (assieme a Salvatore), ridimensionandola però alquanto. Si legge nella sentenza Rotella:

Il risultato più sorprendente è che i suoi mutamenti conducono ad un arretramento rispetto alla posizione originaria, di aver lui stesso deliberato, seppure su istigazione, ed eseguito, seppure con ausilio altrui, il delitto. Trasformerà se stesso da agente, quasi ad “agito”. Il che lascia ragionevolmente credere che in origine ha bensì detto quanto non avrebbe voluto dire, ma solo per non aver ben calcolato che avrebbe potuto non dirlo.

Il piano di Stefano Mele nella formulazione originaria sarebbe venuto alla luce anni dopo, il 27 luglio 1982, alla ripresa delle indagini dopo la scoperta del legame del delitto di Signa con quelli del Mostro. Ecco allora che lui sarebbe tornato all’alibi della malattia che lo aveva tenuto a casa, e al figlio che la sera successiva gli avrebbe raccontato di Francesco Vinci, dopo essere stato zitto con gli altri causa le minacce ricevute: una posizione da perfetto innocente.
Infine chi scrive non è d’accordo con l’ipotesi di Rotella che vedeva Mele confessare di aver ucciso, istigato da Salvatore, “solo per non aver ben calcolato che avrebbe potuto non dirlo”: il bravo giudice, sconfitto soltanto da uno scherzo perverso del destino contro il quale poco avrebbe potuto fare, non teneva abbastanza conto dell’opera dei suoi familiari, la cui opinione su come affrontare il dopo delitto era evidentemente diversa da quella del loro congiunto.

Natalino ammette la verità. Si legge nel rapporto redatto dal maresciallo Gaetano Ferrero il 25 agosto (vedi):

Poiché sin dal primo momento il piccolo MELE Natale spontaneamente asseriva che la mamma e lo “zio” erano morti, che erano proprio morti, che il babbo si trovava a casa a letto, e di aver percorso a piedi tutta la strada che dal luogo del delitto in località Castelletti porta a S. Angelo a Lecore (sulla SS. 66 – Pistoiese) dove aveva dato l’allarme, ritenendo che un bambino di quella età non poteva da solo percorrere quel tragitto nel cuore della notte buia e senza scarpe perché lasciate sull’autovettura, anche perché apparentemente non dimostrava di essere eccessivamente stanco né i piedi presentavano segni di ferite o graffi, tranne un rossore marcato alla periferia degli occhi, più marcato in quello destro, si addiveniva nella decisione di effettuare una prova del percorso a piedi, unitamente al MELE Natale stesso.

Il pomeriggio del 24, alle ore 16:30, a bordo di una Fiat 600 il maresciallo Ferrero, il brigadiere Evaristo Poli e Natalino partirono dal luogo del delitto dirigendosi verso casa De Felice. Come aveva preannunciato Natalino, dopo circa un chilometro l’auto dovette tornare indietro, causa l’impossibilità di proseguire per la presenza di mucchi di ghiaia e sassi sulla massicciata. Proseguirono il viaggio a piedi Natalino e Ferrero. Si legge nel rapporto:

Strada facendo il Maresciallo Ferrero mostrando le asprità della strada, rivolgendosi al Mele Natale disse: “Senti Natalino, come vedi su questa strada è impossibile camminare senza scarpe, forse hai fatto altra strada, non questa”. Il bambino replicava: “questa è la strada e da qui sono passato a piedi”, al che il verbalizzante replicava: “bada Natalino, se non dici la verità questa notte al buio rifaremo la stessa strada, però senza scarpe come quella notte”. Al che il Mele di scatto rispose: “No! Quella notte mi portò il mio babbo” precisando… “a cavalluccio”.

Fermiamoci un momento. Gli irriducibili sostenitori di un viaggio solitario di Natalino affermano che questa sua ammissione sarebbe nata dalla minaccia di Ferrero di fargli ripetere la camminata di notte e senza scarpe. Si tratta con tutta evidenza di una posizione irrispettosa della logica, se si pensa che mai Natalino avrebbe ritrattato, fino alla deposizione al processo del 1970 che avrebbe contribuito a far condannare il padre, ma questo lo vedremo. Intanto si rifletta su altri particolari del suo racconto.

Si proseguiva così ripetendo che quella è la strada percorsa “col suo babbo” e si raggiungeva un ponticello intersecante con una strada rotabile comunale in terra battuta che dai colli Bassi di Signa porta a S. Angelo a Lecore. In quel punto il Mele Natale indicava di essere ivi stato deposto dal suo babbo e che il suo babbo era tornato indietro – che non sapeva per quale strada il suo babbo era tornata indietro e cioè se la prima o la seconda ivi intersecata, e che lui da quel punto, da solo, aveva raggiunto la casa bianca che si intravedeva illuminata sulla strada statale a S. Angelo a Lecore.

Quindi Natalino indicò a Ferrero il punto in cui il padre lo aveva lasciato, che poi risulta del tutto ragionevole, a poco più di un centinaio di metri da casa De Felice, da lì ben visibile. Anche quel particolare era stato un’invenzione frutto della paura di dover ripetere il percorso di notte a piedi scalzi?
In fine di pomeriggio Natalino venne condotto a Firenze dove, “nei locali del Nucleo Investigativo dei Carabinieri”, venne interrogato dal PM Antonino Caponnetto e dal tenente Olinto Dell’Amico. Dalla sentenza Rotella:
 
Alle 19,30 (la data non è indicata, ma dal tenore del verbale e dalla sua affoliazione -7- s'intende che è la stessa sera del sopralluogo) Natalino ripete al magistrato quanto ha già detto al m.llo Ferrero. Il verbale è reso in forma indiretta e offre dei dati che non risultano dal verbale di Ferrero:
“Il bambino riferisce più volte che, quando si svegliò in macchina, vide suo padre seduto vicino a lui sul lato sinistro del sedile posteriore… suo padre lo fece uscire dalla macchina dallo sportello posteriore destro e poi lo prese per mano, accompagnandolo fin presso la casa dove poi da solo il bimbo suonò… per buona parte della strada lo portò a cavalluccio…”.

Purtroppo chi scrive dispone soltanto della prima pagina di quel prezioso verbale (vedi), contenente poche frasi già riportate da Rotella, le cui pagine successive mancano in entrambi gli archivi consultati. Peccato, poiché sarebbe stato interessante conoscere tutti i “dati che non risultano dal verbale di Ferrero”. Qualcosina in più di quel colloquio è desumibile dalla deposizione di Olinto Dell’Amico al processo Mele (18 marzo 1970, vedi):

Interrogai il bambino con le cautele dovute all’età ed allo stato di choc in cui si trovava; egli appariva molto confuso e attraverso quello che si poté ricavare egli affermò di essersi svegliato alle detonazioni ed aver visto il babbo che poi lo aveva accompagnato nella casa del De Felice.

Quindi Natalino “affermò di essersi svegliato alle detonazioni”, come del resto era logico, confermando la presenza e l’accompagnamento del padre.

Natalino in orfanotrofio. Poco dopo Dell’Amico, anche il maresciallo Ferrero rilasciò la propria deposizione (vedi), dicendo riguardo Natalino:

Pensando che il bambino dovesse necessariamente sapere qualcosa e per toglierlo da un ambiente che ritenevo interessato, lo feci ricoverare nell'Istituto Vittorio Veneto, che fu indicato dagli stessi familiari e parlai con il direttore perché mi tenesse informato ove il ragazzo avesse detto qualcosa.
Dopo qualche giorno, il Direttore mi telefonò e mi recai all'Istituto ove interrogai il bambino che con mezze parole, data anche l'età, disse che quella notte si era svegliato ai primi spari ed aveva visto la mamma immobile e lo zio, cioè il Lo Bianco, gli aveva detto: “La mamma è morta, ci hanno sparato” e poi anche costui si era addormentato.
Il bambino aggiunse di essere sceso dall'auto e di aver visto fra le canne “Salvatore”. Ho interrogato altre volte il bambino e il bambino fece il nome di uno “zio Pierino” come autore del delitto, abbandonando la versione sul Salvatore e dicendo che questo “zio Pierino” aveva una figlia a nome Daniela.
La circostanza relativa alle dichiarazioni del bambino sul nome del “Salvatore” si verificò dopo oltre un mesetto dal fatto, dato che il bambino stesso fu ospite presso lo zio per circa un mese.
Ne parlai a voce al G.I. ed ai miei superiori, ma non ritenni di fare una segnalazione scritta. […]

Si può intanto osservare che, a distanza di un mese e più, Natalino diceva a Ferrero le medesime cose del giorno in cui era stato minacciato. Aveva ancora paura di dover percorrere la sterrata di notte senza scarpe? È francamente assurdo. Ma disse qualcosa in più: dapprima “di aver visto fra le canne Salvatore”, poi “fece il nome di uno ‘zio Pierino’ come autore del delitto, abbandonando la versione sul Salvatore”. Per completare il quadro si deve aggiungere l’ultima frase che si legge nel verbale dell’interrogatorio del 21 aprile 1969: “Prima di allontanarsi rinnovata la domanda se lo zio Piero gli abbia detto di non dire qualcosa il bambino dice «Mi disse di avere visto Salvatore fra le canne»”.
La figura di Piero Mucciarini cominciò quindi a materializzarsi nelle dichiarazioni del bambino fin dai primi tempi in cui, dopo aver trascorso un mese in casa sua, era stato trasferito in un collegio. Significativa appare la pressione dell’uomo per fargli dire che aveva visto Salvatore Vinci sulla scena del crimine. La circostanza va collegata alla prima confessione di Stefano Mele, quando aveva accusato Salvatore di complicità. Accanto a lui c’era proprio Mucciarini, che era passato a prenderlo assieme all’altro cognato Marcello Chiaramonti, l’unico del gruppo a disporre di un’auto. Le parole di Ferrero aiutano a capire la circostanza:

Nel confessare il Mele fece il nome del Vinci Salvatore come suo complice; alla confessione si giunse attraverso l’opera di persuasione fatta da un cognato del Mele, Mucciarini Piero.
Il Mucciarini si presentò spontaneamente in caserma; anzi: era il Mele che ci chiedeva di affidare il bambino alla sorella, moglie del Mucciarini, e costui pertanto fu presente all’interrogatorio del Mele e firmò il relativo verbale.

Dunque Mucciarini fece “opera di persuasione”; perché? Per aiutare la giustizia, contribuendo a una confessione che presto si sarebbe rivelata fasulla?
Dalla mattina stessa in cui Mucciarini e Chiaramonti erano passati da casa Mele per condurre Stefano in caserma, Natalino era stato preso in consegna dalla zia Antonietta, moglie di Mucciarini. Si deve per forza pensare che in quello stesso giorno i due coniugi avessero fatto pressione su di lui affinché dicesse di aver visto “Salvatore tra le canne”, in coerenza con la confessione del padre. Ma il loro tentativo si rivelò inutile, poiché Mele ritirò presto le accuse contro Salvatore Vinci, anzi, controproducente, poiché nel bambino ne rimase traccia, lo abbiamo visto, nonostante il prevedibile tentativo di farglielo dimenticare. È illuminante questo frammento della deposizione di Ferrero:

Dopo qualche giorno di permanenza in casa del Mucciarini, il Mucciarini mi riferiva che anche egli aveva cercato di indagare presso il bambino per apprendere la verità su quella sera, ma senza risultato perché il bambino diceva di non aver visto nulla.

La qual cosa appare molto strana, avendo Natalino già raccontato a Ferrero dell’accompagnamento del padre (ma non di aver visto lo zio Piero, evidentemente perché era ancora freschissima l’istruzione ricevuta). Quindi Ferrero ebbe presto comprensibili sospetti:

Accertammo dopo che il Mucciarini che lavorava come panettiere, la notte del delitto non era al lavoro perché era la sua giornata libera. […]
Io, quasi fin dall'inizio ebbi qualche sospetto sia sul Mucciarini che su tutti i congiunti dei protagonisti del fatto e cercai di indagare sul passato del Mucciarini che era stato arrestato tempo prima per rapina (molti anni addietro), ma poi a seguito della confessione resa dal Mele, si abbandonarono queste indagini. Escludo comunque che nel corso degli interrogatori al bambino sia stato fatto da noi per primi il nome di Pierino.

Le indagini del sagace maresciallo Gaetano Ferrero su Mucciarini e sugli altri componenti del gruppo familiare dei Mele vennero abbandonate sul nascere: in un modo o nell’altro Stefano Mele aveva raggiunto il suo scopo.

21 aprile 1969, ore 10:00. L’istruttoria del duplice omicidio venne presa in carico dal giudice istruttore Antonio Spremolla, poi anche pubblico ministero, che tra aprile e maggio 1969 per tre volte andò a interrogare Natalino nel suo collegio di Firenze. Esamineremo con attenzione tutte le dichiarazioni significative del bambino così come risultano dai verbali, cercando di capire di ognuna quanto vicina sia alla realtà e le ragioni dell’eventuale allontanamento. Si tratterà di un lavoro analogo a quello compiuto da Rotella nella sua sentenza, rispetto al quale, è bene precisarlo fin da subito, ci sarà una differenza di base. Quando il giudice incontrò una frase del bambino che non sapeva spiegarsi, oppure che non si inseriva nello scenario ritenuto plausibile, la interpretò come reazione a una domanda suggestiva. Si tratta di una metodologia poco convincente, poiché, al di là delle presumibili cautele che saranno state adottate in sede d’interrogatorio, da tutto il comportamento di Natalino emerge una figura di fanciullo affatto suggestionabile, anzi, assai determinato nelle sue risposte. Quindi qui si cercheranno altre spiegazioni.
Esaminiamo adesso il primo verbale, quello del 21 aprile 1969 (qui), redatto in forma indiretta. Ad ascoltare il bambino alle 10 di mattina un po’ troppe persone: Spremolla in veste di GI/PM, Gian Gualberto Alessandri consigliere istruttore, il tenente dei carabinieri Olinto Dell’Amico e il maresciallo Ferrero verbalizzante.
Partiamo da una notizia che potrebbe rivestire grande importanza:

Portato a parlare di quanto avvenne quella sera il bambino dice di essere stato preso in macchina con la mamma dallo “Zio” e di essere andato al cinema, c’era un film di guerra e poi usciti videro un uomo che non sa dire chi fosse e con il quale non parlarono però né la mamma né lo “Zio”, quindi andarono via con la macchina.

Perché Natalino parlò di questo personaggio? L’uso del plurale “videro” e la precisazione che né la mamma né Lo Bianco avevano parlato con lui ha un ovvio significato: lo avevano notato gli adulti conversandone tra di loro. Certamente non era uno dei fratelli Vinci, che Natalino conosceva. Senza poterne offrire alcuna prova, chi scrive lo mette in relazione da una parte all’ultimo spettatore entrato al cinema dopo i tre, a film pressoché iniziato, dall’altra al personaggio che sarebbe comparso nella deposizione di Giuseppe Barranca, cognato di Lo Bianco, al processo Mele (vedi), quando, a domanda dell’avvocato Ricci, questa fu la risposta:

Mai ho avuto occasione di invitare la moglie del Mele al cinema, avendo da questa un rifiuto con la scusa che c’era uno con il motorino che la seguiva; e mai – pertanto – ho potuto fare questo discorso al Mele dopo l’uccisione della moglie, nella caserma dei C.C.

Evidentemente Mele aveva riferito di questo discorso al proprio difensore – e non pare ragionevole ritenerlo frutto di un’invenzione, se Ricci si era deciso a porre la domanda –, e il fatto che in aula Barranca avesse negato potrebbe spiegarsi con il suo timore di dire qualcosa contro Francesco Vinci, che aveva un motorino. Infatti, riguardo l’argomento della minaccia riferita dalla Locci che stando assieme a lei gli potessero sparare – sulla quale torneremo –, aveva precisato: “Non pensai affatto che chi potesse sparare potesse essere il Vinci Francesco”.
Per Filastò tale personaggio era il Mostro, ma nello scenario di un delitto compiuto da Stefano Mele con dei complici bisogna pensare a qualcun altro, qualcuno che forse un ruolo lo avrebbe avuto comunque. Proseguiamo però con le dichiarazioni di Natalino, quando parlò degli spari:

Chiestogli se sentì sparare risponde di si.
Chiestogli quanti colpi dice 5 o 6.
Il bambino a domanda risponde che per primo fu sparato alla mamma;

In totale i colpi sparati furono otto, che il bambino ne avesse contati soltanto cinque o sei è quindi del tutto plausibile, anche perché ne fu svegliato. E comunque pretendere che li avesse contati con precisione sarebbe davvero troppo. Dallo studio della dinamica (vedi) sappiamo che tra i primi sei colpi, esplosi in rapida sequenza con un piccolo intervallo a metà, e gli ultimi due dovettero trascorrere almeno alcune decine di secondi, forse anche un minuto. Non c’è traccia di questo intervallo nelle dichiarazioni di Natalino, almeno in quelle verbalizzate, se non una indiretta che vedremo oltre, ma si deve ritenere che nessuna domanda in tal senso gli fosse stata posta. Tale intervallo però aiuta a capire il perché Natalino avesse detto che “per primo fu sparato alla mamma”. Come aveva raccontato a Ferrero, aveva avuto modo di sentire Lo Bianco che gli diceva “La mamma è morta, ci hanno sparato”. Aveva anche tentato di chiamare la madre, prendendole la mano. Tutto questo doveva essere accaduto proprio nell’intervallo tra i primi colpi, associati alla morte della madre, e gli ultimi due, associati alla morte di Lo Bianco.
Veniamo adesso alla presenza di Mucciarini:

Chiestogli chi c’era con il padre il bambino insistentemente dice che con il padre c’era lo “Zio Piero” da Scandicci;
Chiestogli chi abbia sparato il bambino [dice] “Piero”.
Il bambino dice altresì che lo zio Piero era venuto con una bicicletta celeste ed il padre con una bicicletta marrone.
Il bambino dice ancora che la rivoltella fu gettata nel fosso vicino e che lui andò via con il padre che lo portò in braccio.

L’uso dell’avverbio “insistentemente” è significativo, e al suo cospetto poco valore assume l’osservazione di Rotella sul potere suggestivo della domanda, “Chiestogli chi c’era con il padre”, con la quale già si suggeriva la presenza del padre e di qualcun altro. Oltre al padre, Natalino aveva visto Mucciarini sulla scena, non ci sono dubbi, e i numerosi altri particolari che sarebbero venuti fuori in seguito non fanno altro che confermarlo. Bisogna però dire che dalla sua posizione nel buio della notte non poteva averlo visto sparare, neppure i due colpi finali con la mano dentro il finestrino, che in ogni caso tutto lascia pensare fossero stati opera del padre. La sua convinzione può spiegarsi agevolmente con quanto avrebbe raccontato due giorni dopo, lo vedremo tra breve.
È il caso invece di spiegare subito la frase riguardante le biciclette, attribuita da Rotella a suggestione degli interroganti. Né Mele né Mucciarini erano in bicicletta, questo si può ipotizzare con ragionevole certezza, quindi perché Natalino lo riferì? Una logica spiegazione potrebbe essere trovata nelle domande che il bambino dové fare al padre durante il loro viaggio e le relative risposte. A quella di come lui e lo zio erano arrivati lì Mele aveva risposto “in bicicletta”, visto che non poteva dirgli di essere stato accompagnato in auto da altri, che non avevano voluto farsi vedere e non avrebbero approvato.
Riguardo l’ultima frase sulla rivoltella gettata nel fosso, vedremo meglio commentando il secondo interrogatorio. Intanto il lettore non condizionato dai soliti superficiali stereotipi rifletta su questo passaggio, devastante per l’inchiesta di Rotella che, infatti, avrebbe cercato di trovare una possibile spiegazione.
Nella parte conclusiva del verbale vediamo emergere le pressioni degli adulti.

Chiestogli se gli abbiano detto di non dire quello che ha invece rivelato, risponde che il padre gli aveva detto di non dirlo.
Chiestogli se c’era anche Vinci Francesco dice di sì.
Chiestogli allora di ricordare chi abbia visto quella sera, ricorda oltre il papà, la mamma, l’uomo che era in macchina che lui chiama anche “Zio”, lo zio Piero e non menziona il Vinci Francesco.
Chiestogli perché non lo abbia ricordato risponde "Me lo disse il babbo di dire di averlo visto".
Chiestogli se lo zio Piero gli abbia detto di non dire nulla dice di no.

Riguardo Francesco Vinci abbiamo già detto. Si può notare il fatto che Natalino lo escluse dall’elenco quando gli venne chiesto di ripetere i nomi di tutte le persone presenti, rivelando la pressione del padre, mentre non dimenticò lo zio Piero, sulla cui opera di persuasione il bambino non fu sondato abbastanza.

23 aprile 1969, ore 17:30. Due giorni dopo i due medesimi magistrati e i due medesimi carabinieri tornarono a interrogare Natalino. Ma nel frattempo doveva essere successo qualcosa, poiché il fanciullo, che aveva riconosciuto i suoi interlocutori e si presentava a proprio agio durante le prime domande generiche, a quelle sulle persone presenti la sera del fatto non voleva rispondere. Dal verbale (qui):

Chiestogli se la sera del fatto il padre fosse stato solo o in compagnia di altri al momento in cui fu sparato egli mostra di non voler rispondere, di essere impacciato e ostinatamente tace alle domande postegli dall’inquirente e dal P.M.
Invitato a ricordare gli zii da lui conosciuti ne ricorda diversi ma non lo zio Pietro né Piero, dicendo che quelli detti erano gli zii buoni e senza voler spiegare quali fossero i cattivi.

Si può notare che il verbale introduce già “lo zio Pietro”, anticipando un nome che sarebbe stato fatto in seguito dallo stesso bambino. Dopo alcune domande di “alleggerimento”, venne di nuovo affrontato il tema delle persone presenti.

Poiché il bambino insiste nel non voler parlare sulle circostanze di fatto dell’uccisione viene trattenuto dal Consigliere Istruttore e per evitare una maggior soggezione derivante dalla presenza di più persone.
A nuova domanda postagli dal Consigliere il bambino si induce a rispondere in un orecchio il nome di Pietro come la persona che la sera del fatto accompagnò il padre e sparò.

Chi era questo personaggio dal nome molto simile a quello dello zio Piero Mucciarini? Evidenziando soltanto le parti del verbale che lo riguardano – su alcune altre torneremo dopo – vediamo di scoprirlo.

Chiestogli dove stia lo zio Pietro dice che abita a Scandicci e chiestogli il mestiere dice che mette le piastrelle indicando un rivestimento di piastrelle che è collocato vicino al camino della stanza della direzione dell’Istituto.
Chiestogli come sappia del mestiere dello zio Pietro risponde che lo ha visto fare quel lavoro un giorno che il padre lo accompagnò in un posto che non sa indicare, ma che denomina come una fabbrica.
Chiestogli se lo zio Pietro sia cattivo e perché, dice che una volta mentre era solo gli dette uno schiaffo.
Chiestogli i connotati dello zio Pietro dice che è più alto del suo babbo che ha i capelli scuri e con la riga sulla destra.
A ulteriore domanda dice che lo zio Pietro lavora anche di notte e torna di giorno, come fa il padre della sua amica Daniela che abita alle cinque Vie dove abita anche lo zio Napolino.
Chiestogli ancora notizie sullo zio Pietro il bambino ricorda che lo zio Pietro frequentava la casa quando non c’era il padre e giocava a carte con la mamma e una volta lo rincorse intorno al tavolo per scherzare.

Il verbale inizia ad attribuire a “Pietro” la qualifica di “zio”, evidentemente perché Natalino o l’ha detto o l’ha lasciato intendere. È anche chiaro che si stia ancora riferendo a Piero Mucciarini, del quale il nuovo “zio Pietro” mantiene almeno un paio di caratteristiche: “abita a Scandicci” e “lavora anche di notte e torna di giorno”, in questo secondo caso “come fa il padre della sua amica Daniela”, quindi con un confronto con Mucciarini e il suo lavoro di fornaio. Ci sono però elementi differenti, tra cui un lavoro di piastrellista, che, nota Rotella, poteva anche riferirsi a quello di muratura dei fratelli Vinci.
Nei due giorni intercorsi tra un interrogatorio e l’altro su Natalino era stata fatta pressione affinché trasformasse l’indicazione dello “zio Piero” in quella dello “zio Pietro”. Rotella credette anche di poter individuare l’artefice di ciò nella zia Maria, che non aveva figli e che andava spesso a trovare il bambino portandolo a casa nei fine settimana. Si può immaginare che la donna, messa al corrente sia del primo interrogatorio sia del previsto secondo, fosse corsa dal nipote per chiedergli quello che aveva detto. E avendo saputo del riferimento alla presenza di Piero Mucciarini, avesse tentato di mutarlo in quello di altra persona di nome molto simile, un altro “zio”, ma non necessariamente uno vero, visto che Natalino chiamava “zii” anche gli amanti della madre, come Lo Bianco. Interesse della donna e degli altri congiunti, come poi sarebbe emerso con chiarezza alla ripresa delle indagini nel 1982, era quello di allontanare i sospetti su Mucciarini trasferendoli su un amante sconosciuto della Locci. Cercando di soddisfare le istruzioni, su quel nome Natalino lavorò di fantasia, associandogli caratteristiche di altri personaggi conosciuti (il lavoro di piastrellista, quello in fabbrica). Purtroppo per i Mele il bambino aveva davvero uno “zio Pietro”, Pietrino Locci, fratello della madre, che abitava alla Romola ed era fratello dell’altro zio Vincenzo:

Quando il babbo lo portò fuori dalla macchina vide che c’era anche “Il fratello dello zio Vincenzo che sta alla Romola” e il babbo con questo zio lo avrebbero portato alla casa del lumicino.
Postegli altre domande per indicare meglio questo zio e come lo abbia visto, conferma le dichiarazioni già fatte e cioè di averlo visto solo quando fu accompagnato dal padre nella casa col lumicino e non sa indicare il nome di questo zio che spiega essere il fratello dello zio Vincenzo che sta alla Romola.
Chiestogli di spiegare se colui che avrebbe sparato sia lo zio Pietro o lo zio Piero, il bambino mostra di distinguere nettamente di avere uno zio Pietro e uno zio Piero. Che lo zio Pietro è quello di Scandicci e che è quello che ha sparato, marito della zia Antonietta, presso cui ha anche abitato dopo i fatti e dove era stato visitato dal maresciallo Ferrero Gaetano, mentre lo zio Piero sarebbe il fratello della mamma e che abita a S. Casciano V.P.

Come si vede, Natalino, che all’epoca aveva sette anni e quattro mesi, di fronte alla necessità di seguire le istruzioni ricevute dalla zia Maria – per forza di cose sommarie, visto il poco tempo disponibile –, fece grande confusione, introducendo nello scenario la figura dello zio Pietrino Locci addirittura affiancandolo a Mucciarini, e trasferendo il nome dell’uno su quello dell’altro e viceversa. E mentre lo “zio Pietro”, che continuava a essere Mucciarini, aveva sparato, lo “zio Piero”, che invece era Pietrino Locci, lo aveva accompagnato assieme al padre. È vero che in questo caso Natalino inventa, però non per un suo sfizio o gioco, ma per la necessità di dover sostenere la difficile parte che gli era stata assegnata. Vedremo che in seguito, avendo avuto maggior tempo a disposizione per capir bene come comportarsi, se la sarebbe cavata assai meglio.
Riprendiamo adesso alcuni passaggi del verbale che sono stati saltati. Innanzitutto questo, importante sia per l’azione di Mucciarini in sé stessa, indicativa di un possibile movente, sia per la dimostrazione di quanto vigile e in grado di ricordare fosse stato Natalino: “Il bambino aggiunge di ricordare che la mamma aveva messo i denari, anzi il borsellino, sotto il sedile della macchina e che lo zio Pietro frugò nel cassetto del cruscotto e andò via”. Poi la questione delle biciclette, che Natalino ripeté, dimostrando come non fosse stata affatto una sua invenzione estemporanea suggerita dagli inquirenti: “Ricorda altresì che il padre e lo zio erano con le biciclette”.
Natalino fornì anche una possibile spiegazione al suo convincimento che a sparare fosse stato lo zio Piero.

Nuovamente domandato su chi abbia sparato il bambino insiste nell’indicare lo zio Pietro. Era sveglio e lo vide sparare. Il babbo allora aprì lo sportello della macchina e dopo che fu sparato si sedette vicino a lui e gli chiese chi avesse sparato. Egli rispose “Pietro”, ed il padre gli disse allora lo vado a cercare. Tornò da solo e allora gli disse di stare zitto.

Nell’intervallo tra i primi sei spari – assai probabilmente esplosi da Mucciarini, che di armi era il più pratico –, Natalino aveva avuto il tempo di accorgersi che la mamma non gli rispondeva e di sentire Lo Bianco dire: “Ci hanno sparato”. Doveva anche essersi accorto della presenza dello zio Piero, magari avendone sentito la voce. Gli ultimi due colpi, sulla Locci morta, li aveva sparati il padre, che poi, finalmente, iniziò a preoccuparsi di Natalino. Dopo essersi seduto accanto a lui, gli chiese se aveva visto chi avesse sparato, con lo scopo di verificare se si fosse accorto che era stato lui. Considerato che il padre stava ponendo la domanda, Natalino pensò allo zio Piero, l’unico della cui presenza si era reso conto. Va anche tenuta presente la comprensibile necessità interiore del bambino di non dover dare la colpa al padre.

L’avvertimento. Nell’importantissimo interrogatorio Natalino raccontò un episodio che spiegava molte cose.

Il bambino risponde a domanda che ricorda che un giorno lo zio Pietro venne a casa e sentì che diceva al babbo di avere comprato una pistola. Era presente anche la mamma ma non sa spiegare il motivo per cui venne fatto questo discorso. Il bambino dice di essere stato nascosto sotto il letto e di averlo così udito, aggiunge anche di avere visto un pezzetto di pistola che spuntava dalla tasca, indicando i pantaloni.

Il giudizio di Rotella fu affrettato e superficiale.

La storia appare improbabile e, per gli ultimi particolari, vien fatto di pensare che sia frutto di fantasia infantile, o di un malinteso suggerimento.
È anzi più probabile che Natalino abbia mescolato suggerimenti altrui con autosuggestioni intorno ad una persona reale. Ma non sono possibili riscontri.

Che non fossero possibili riscontri è senz’altro vero, ma stupisce il fatto che il bravo giudice non avesse cercato almeno qualche incastro, preferendo liquidare l’episodio come “fantasia infantile” (proprio lui, che aveva scritto: “È difficile trovare un solo caso nel quale egli [Natalino] sembri inventare ”), o come “malinteso suggerimento” (non si sa quale fosse stata la domanda, ma non si capisce quale suggerimento avrebbe potuto dare origine a un racconto così ben articolato).
Veniamo invece agli incastri, almeno tre, attraverso i quali la testimonianza di Natalino assume una valenza altissima. Il primo e più importante. Al processo del 1970 Barranca aveva fatto questo racconto:

Fu la moglie di lui a dirmi una sera che eravamo insieme in occasione della fiera di Signa, nell’agosto del ’68, e io l’avevo invitata ad avere rapporti con me: «Ci potrebbero sparare mentre siamo in macchina». Io riflettendo al fatto che sia ella che il marito erano sardi e temendo qualcosa, non ebbi alcun rapporto con lei e la riaccompagnai a casa.

La visita di Mucciarini a casa dei Mele con una pistola in tasca ha tutto il sapore di un monito inascoltato. A Barbara Locci veniva rimproverata la sua condotta libertina, motivo di grande vergogna per tutta la “famiglia”, e lo sperpero dei pochi denari guadagnati dal marito. Proprio in quel periodo erano sparite quasi tutte le 480 mila lire incassate il 21 giugno da Mele come rimborso per la sua gamba rotta in un incidente, un piccolo tesoro per gente così povera, anche se in questo caso la colpa non era della donna (ma i parenti di Mele non lo sapevano, in un futuro articolo il tema sarà approfondito).
La testimonianza di Barranca ci dice che Barbara Locci aveva capito l’avvertimento, ma gli uomini le piacevano troppo, quindi decise di uscire anche in una serata in cui il rischio era maggiore, causa il giorno libero dal lavoro di Mucciarini. Però  – e questo è il secondo incastro –, cercò almeno di cautelarsi con la presenza di Natalino, che naturalmente non è da credere né che fosse stata un’abitudine in tali occasioni, né che fosse stata casuale.
C’è infine un terzo incastro a dare valore al racconto, labile quanto si vuole, ma dotato comunque di un proprio potere suggestivo. Le Beretta della serie 70, come quella che con estrema probabilità venne usata a Signa, venivano prodotte sia con canna corta (lunghezza totale 165 mm) sia con canna lunga (lunghezza totale 225 mm). Se il modello a canna corta poteva anche entrare del tutto in una tasca laterale di un paio di pantaloni da uomo, quella a canna lunga di sicuro no. Ebbene, nella sua prima confessione Mele aveva parlato di pistola a canna lunga, da tirassegno, la qual cosa si accorda alla perfezione con il “pezzetto di pistola che spuntava dalla tasca” di cui aveva detto Natalino.

Il destino della pistola. Nei racconti di Natalino è contenuta anche una parte di spiegazione al mistero più grande dell’intera vicenda, quello del passaggio della pistola. Tutti gli investigatori che si sono applicati al caso hanno sempre fatto finta di niente di fronte alle sue precise parole, come fanno oggi frotte di appassionati sempre pronti a lavorare di fantasia ma troppo spesso senza partire dai dati reali. Già nel verbale del 21 si legge: “Il bambino dice ancora che la rivoltella fu gettata nel fosso vicino e che lui andò via con il padre che lo portò in braccio”. Due giorni dopo Natalino ritornò sull’argomento, fornendo anche altri dati:

Mostrandosi più disinvolto il bambino ricorda sempre a domande degli inquirenti che la rivoltella fu buttata dallo zio Pietro in un fosso vicino alla macchina.
Riconosce nella foto nr. tre allegata al rapporto dei C.C. il punto ove era la macchina e indica il fosso sulla destra della macchina poco più avanti di essa.

Di fronte a tale reiterazione e a tali precisazioni è davvero difficile ritenere che il racconto fosse stato frutto di fantasia – sembra quasi di vedere la scena, con Stefano Mele che stava mettendo a posto i cadaveri e lo zio Piero che aveva portato Natalino un po’ più avanti per non farlo assistere –, e in effetti Rotella non commise questo errore. Però lo scenario risultante avrebbe dato un colpo mortale alla sua inchiesta, che dalla permanenza della pistola in mano agli assassini di Signa traeva tutta la sua ragione d’essere. Quindi cercò di parare il colpo come meglio poteva, lanciandosi in questa lunga serie di intorcinate considerazioni:

L'affermazione sembra scaturire da un vero e proprio inquinamento, di cui la fonte sarebbe suo padre che, fatta una dichiarazione in tal senso, confessando il 23 agosto (e la sera precedente aveva ammaestrato il figlio), la ritrattava il giorno dopo. Senonché è opportuno anticipare che nel successivo interrogatorio Natalino riconosce nella foto nr. tre allegata al rapporto dei CC. un punto più avanti della macchina dove, nel fosso sulla destra, lo zio Pietro (non Piero in questo secondo verbale) avrebbe gettato l'arma. Tal cosa conduce ad altra ipotesi, e cioè che l'adulto, diverso dal padre, presente sul luogo del delitto, avrebbe effettivamente fatto mostra di disfarsi dell'arma, per rassicurare il bambino. Sotto questo aspetto la prima versione di Mele (egli avrebbe gettato via la pistola dopo il delitto) conterrebbe un accenno di verità, e la seconda non la smentirebbe (la pistola l'avrebbe trattenuta il correo, dopo aver finto di averla gettata via).
Per contro, si può rilevare che il gesto di gettar via la pistola (vero o simulato che si voglia intenderlo) non appare reale, quanto narrato da Natalino, alla luce di un'ultima considerazione.
Egli non ha ancora (e fino a questo momento, mai) detto letteralmente di aver visto (e, in effetti, non può dirlo) l'agente nell'atto di uccidere. E tal cosa è confermata sempre (in ogni versione) dal padre. Non avrebbe perciò mezzo di indicare lo sparatore se non collegando una persona al possesso dell'arma dopo il delitto (in merito è facile ravvisare la forzatura, che emerge nel secondo esame).
Di qui la probabilità che il riferire d'aver visto 'gettare la rivoltella', e di essere stato accompagnato da una persona invece che da un'altra, provengano dall'inquinamento subito, la sera successiva al delitto, da suo padre. Questi procurava che il figlio attribuisse le due cose ad una sola persona (Francesco Vinci). Le due indicazioni, subite altre suggestioni, si sarebbero poi divise nei riferimenti del bambino.
Se invece si crede che Natalino stia, in questo caso, riferendo un accadimento reale (anche se simulato), si avvalora la sua indicazione circa lo zio Piero/Pietro quale omicida.

Cerchiamo di semplificare il ragionamento di Rotella, nel quale sostanzialmente si indicano due possibili motivazioni a un racconto cui, per principio, il giudice non intendeva dare valore.
Natalino potrebbe aver visto lo zio Piero mentre faceva finta di buttare via la pistola, in un gesto che avrebbe avuto lo scopo di tranquillizzarlo. Si tratta senz’altro di un’eventualità possibile, bisogna dire però che non ve n’è alcuna traccia nelle parole del bambino, che in questa ipotesi alla vista della pistola in mano allo zio avrebbe dovuto spaventarsi. La sua narrazione appare invece neutra, riportando semplicemente un fatto osservato e ben rammentato con anche dei particolari – il luogo in cui la pistola venne gettata –, perlomeno questa è l’impressione che si ricava dalla sintesi verbalizzata.
In effetti Rotella stesso sembra propendere più per una diversa spiegazione, legata alle pressioni fatte da Mele al figlio l’ultima volta in cui erano rimasti assieme da soli, dalla serata del giorno dopo il delitto alla mattina successiva. Nell’occasione, lo abbiamo visto, Mele aveva istruito Natalino per fargli dire di aver visto Francesco Vinci sulla scena del crimine, e di essere stato da questi accompagnato. Ora ci si deve chiedere per quale motivo l’ometto avrebbe dovuto introdurre in questo scenario il particolare della pistola gettata via, che per di più Natalino avrebbe trasferito, di sua iniziativa, sulla figura dello zio Piero. È chiaro che Rotella cercò di arrampicarsi sui vetri, ma è comprensibile, altrimenti, è bene ribadirlo, avrebbe dovuto chiudere baracca e burattini dicendo addio alle speranze di acchiappare il Mostro.
Oggi si legge sempre la solita superficiale litania di una pistola che giammai sarebbe stata lasciata sul posto, dato il pericolo che potesse portare a chi l’aveva impugnata per uccidere. Peccato che non si ragioni abbastanza sulla prima confessione di Mele, dove quella pistola l’aveva impugnata lui ma era stata fornita da Salvatore Vinci; quindi il fatto che a questi avesse potuto portare avrebbe soltanto rafforzato il racconto di Mele.
Però la pistola sul posto non c’era, quindi Mele abbandonò la versione con Salvatore per riprendere quella con Francesco. Grazie ai racconti di Natalino e a qualche incrocio con altri dati, il lettore non irrigidito su un proprio scenario intoccabile ha tutti gli elementi per ricostruire il quadro generale in cui si svolse il delitto di Signa, di cui qui, volutamente, si è evitato di fornire proprio tutte le spiegazioni che si è dato chi scrive. Bisogna però che si convinca prima di un fatto: in una storia dove in cinquant’anni non si è ancora riusciti a trovare una soluzione soddisfacente qualcosa al di fuori dei canoni deve per forza essere accaduta.

16 maggio 1969, ore 11:20. A distanza di poco più di tre settimane Natalino venne interrogato di nuovo, questa volta soltanto da Spremolla e Alessandri (vedi). Il verbale è reso in forma diretta, con domande e relative risposte. Balza subito agli occhi la diffidenza del fanciullo: evidentemente questa volta gli adulti avevano avuto a disposizione più tempo per condizionarlo, senza però riuscirci del tutto. Il lettore può scorrersi da solo lo scarno verbale, di cui qui si sintetizzano i punti fondamentali.
Natalino confermò senza alcuna esitazione la presenza del padre:

D. Ma tu dormivi nella macchina? - R. Sì.
D. Ma come ti sei svegliato? - R. Quando ho sentito i colpi.
D. Ed allora chi hai visto? R. Ho visto il babbo.

Confermò subito anche la presenza di qualcun altro (“Il babbo era solo?”; “No”) ma soltanto dopo molti silenzi e dinieghi gli dette un’identità, quella dello zio Pietro che avrebbe anche sparato:

D. Era solo il babbo?- R. (Pausa di meditazione),
D. Le altre volte hai detto un nome. Te ne ricordi? - R.  Non mi ricordo più.
D. L’altra volta dicesti che c’era Pietro? R. (prontissima) “No. Ha sparato Pietro”.
D. Chi è Pietro? - R. Quello che sta a Scandicci.
D. Ma è tuo parente?- R. È mio zio.
D. E perché prima non lo dicevi? - R. Stavo pensando.

Nonostante il nome “Pietro” Natalino intendeva ancora Mucciarini, ben identificabile nelle sue parole dal fatto che abitasse a Scandicci.
L’interrogatorio conferma un paio di altri importanti elementi. Il primo è la presenza del bambino in macchina anche quando vennero sparati gli ultimi due colpi con l’arma dentro il finestrino posteriore:

D. Ma come fai a dire che Pietro sparava se dormivi? - R. Quando mi sono svegliato.
D. Ma ha sparato dei colpi quando eri sveglio? - R. Sì. Tutti i colpi non li aveva ancora sparati.
D. E come sparava? Cosa aveva in mano? - R. La rivoltella.
D. E dove la teneva? Tu eri in macchina? Ha rotto il vetro? - R. (all’ultima domanda) “No”.
D. Come ha fatto? La rivoltella la teneva in mano? - R. La teneva in su e sparava di fuori. Il finestrino era aperto.

La frase “Tutti i colpi non li aveva ancora sparati” è una conferma della pausa tra i primi sei e gli ultimi due.
Una secondo conferma è quella dell’assenza di Francesco Vinci:

D. Ma Francesco c’era? - R. (pronta) No. Non c’era.
D. Ma tu lo conosci questo Francesco? - R. Si chiama Vinci Francesco.
D. Ma non c’era allora Vinci Francesco? R. No. Non c’era.

Prima di passare all’ultima puntata delle dichiarazioni di Natalino, la deposizione al processo, è il caso di fare una riflessione su quelle esaminate fin qui. È pensabile che tutte le sue risposte, tutti i suoi racconti così densi di tanti particolari fossero delle invenzioni? È pensabile quindi che avesse compiuto il viaggio da solo? A chi scrive pare impossibile che fior d’investigatori, come Perugini, fior d’avvocati, come Filastò, e qualche capace criminologo di oggi, come Scrivo – nonché, ma qui è più facile farsene una ragione, registi, giornalisti e romanzieri – possa anche soltanto pensarlo o averlo pensato. Addirittura c’è chi arriva a dire che il bambino sarebbe stato accompagnato da uno sconosciuto Mostro di Firenze in erba, una figura che risulta del tutto assente dai suoi racconti. Ed è bene non dimenticarsi dell'assurdità massima: lo “zio Pietro” che sarebbe stato Pacciani!!!
Ma anche alcune convinzioni di Rotella sono fuori luogo. Non pare davvero possibile che Natalino fosse stato accompagnato da Salvatore Vinci, che nominò soltanto nel rivelare il tentativo di fargli dire di averlo visto. Lo scenario descritto dal bambino è semplice e chiaro: quella notte vide Mucciarini e il padre, che poi lo accompagnò. In base ad altri elementi e convinzioni personali possiamo anche collocare altre persone attorno alla scena del crimine, come il Salvatore Vinci caro a Rotella e a tanti appassionati di oggi, ma certamente lui non le vide.

La deposizione. Il 20 maggio 1970 Natalino venne condotto in tribunale a Firenze per deporre al processo contro il padre. Vista la sua giovanissima età – aveva otto anni e mezzo – venne fatto accomodare nella camera di consiglio della Corte, presenti soltanto il PM, i difensori e le parti civili. Accanto a lui lo zio Giovanni, fratello del padre. È disponibile la sintesi originale scritta a penna della sua deposizione (qui), che per chiarezza viene di seguito trascritta.

Esaminato con le dovute cautele il bambino è invitato a dire dove sia la mamma, risponde: è morta.
Alla domanda se sia morta di malattia, risponde di no; se sia stata uccisa risponde di sì; da chi, il bambino non risponde; chiestogli chi abbia visto quella sera sul posto, risponde: il babbo; ma afferma di non averlo visto sparare, di non avergli visto nulla in mano, di essersi svegliato al primo colpo, ma di non aver visto nessuno con la mano dentro la macchina continuare a sparare, mentre afferma di avere inteso altri colpi mentre era già sveglio.
A domanda chi fosse con il babbo, risponde di non aver visto nessuno, né vicino alla macchina né fra le canne vicino alla strada, “Il babbo era solo”.
Chiesto se avesse visto tale Salvatore, risponde di no; tale Pierino o zio Pierino, risponde ancora di no; tale Francesco, ancora di no; chiestogli se conosce Vinci Francesco che stava spesso con la mamma, risponde di conoscerlo, ma alla domanda se questo Francesco fosse sul posto assieme al babbo, risponde decisamente di no.
Chiestogli come sia sceso dalla macchina risponde che lo sportello di dietro era aperto, ed egli scese da solo, ed assieme al padre che lo portò in collo, andò in una casa di altri, ove fu lasciato solo davanti alla porta ed egli bussò al campanello; il padre era a piedi, non aveva né macchina né bicicletta.
Chiestogli se voglia rivedere il padre risponde di sì, ma a questo punto si mette a piangere.
A domanda cosa gli abbia detto il padre quando lo lasciò solo, risponde: Mi disse di non dire nulla.
Si dà atto che il P.M. cerca di far ricordare al bambino che quando fu da lui interrogato ebbe a dire di aver visto lo zio Pierino e quindi dica oggi se disse una bugia allora o la dice adesso.
Il bambino risponde: Dico la verità oggi.

Con la sua deposizione Natalino contribuiva a far condannare il padre al carcere ma anche sé stesso al collegio; ritenere che non ne fosse stato consapevole è fuori luogo. Sembra di vederlo, povero angioletto, quando gli fu chiesto se avesse avuto voglia di rivedere il genitore, e lui, dopo aver risposto di sì, si mise a piangere… Dovrebbe interrogarsi ben bene sulla propria onestà intellettuale chi ancora vede nella minaccia del maresciallo Ferrero – di fargli compiere a piedi scalzi di notte il percorso fino a casa De Felice – il motivo del suo insistere nell’accompagnamento da parte del padre. Un padre che comunque amava, e che non riusciva a concepire nei panni di un assassino, anche se l’aveva visto sulla scena del crimine: “Afferma di non averlo visto sparare, di non avergli visto nulla in mano”.
Bisogna comunque dire che la condanna di Stefano Mele come colpevole unico andava bene a tutti – eccetto a Mele stesso, che in carcere non ci voleva andare – e Natalino era stato preparato dai suoi zii per fornire il suo contributo. Tempo ne avevano avuto in abbondanza, lui era diventato più grande e più in grado di capire, quindi il nome dello zio Piero scomparve totalmente dalla sue parole.
Sembrava tutto risolto, quindi, dopo che il 25 maggio 1970 il giudice pronunciò la condanna rinunciando all’ombra del secondo uomo, alla quale il difensore Dante Ricci aveva cercato di dare corpo.
C’era però quella pistola, che lo zio Piero aveva lasciato sul posto ma che non era stata ritrovata: che fine aveva fatto?