giovedì 31 gennaio 2019

La madre di tutte le sette

Come abbiamo visto nell’articolo Il dottore di Lotti e il patrimonio di Pacciani, il primo passo concreto di Giuttari verso la pista dei mandanti fu la richiesta, inviata il 20 maggio 1996 al PM Canessa, di poter effettuare “accertamenti di natura patrimoniale e finanziaria nei confronti di Pacciani”. Contrariamente a quanto avrebbe poi dichiarato nei propri libri, a spingere Giuttari a prendere in esame uno scenario così atipico, mai visto prima in tutta la storia criminologica mondiale, non furono né le intercettazioni delle telefonate tra suor Elisabetta e Pacciani riguardanti i noti buoni postali, né il misterioso “dottore” della “lettera spontanea” di Lotti; entrambi gli eventi furono infatti successivi al documento inviato a Canessa,  rispettivamente fine giugno e metà novembre. Si potrebbe allora ipotizzare una semplice fulminazione, un’idea nata dalle doti di fantasista dell’investigatore messe a frutto più avanti anche nei propri romanzi di successo. Può darsi, ma una sospetta coincidenza di date fa intravedere una possibilità differente, legata a un personaggio che già da un po’ si era interessato alle indagini sui delitti del Mostro: la “giornalista investigativa”, come lei stessa amava definirsi, Gabriella Pasquali Carlizzi (1947-2010).

Vicende clamorose. Qualche semplice ricerca sugli archivi storici online dei nostri quotidiani restituisce molti articoli in cui il nome di Gabriella Carlizzi viene associato a note vicende di cronaca, nelle quali la donna era entrata dicendosi depositaria di verità clamorose sfumate poi in niente. Vale la pena fornire soltanto un paio di esempi.
Da questo articolo di “Repubblica” del primo novembre 1990 si viene a sapere che la Carlizzi si era accreditata come testimone di fatti importanti nella vicenda dei documenti riservati che le Brigate Rosse avrebbero sottratto allo statista Aldo Moro al momento del sequestro.

Ieri, sono state anche ascoltate come testi Maria Fida Moro e la signora Gabriella Carlizzi. Quest’ultima era stata già sentita nei giorni scorsi, ma ieri, sul Corriere della Sera sono apparse sue dichiarazioni nelle quali ha affermato di aver visto gli originali dei documenti di Moro nelle mani di Valerio Morucci nel carcere di Paliano. Un’altra versione. La teste ha ribaltato quanto riferito dal giornale. Avrebbe detto ai magistrati di non aver visto alcun documento ma di aver sentito dire, in carcere, quando prestava l’attività di assistente volontaria, che Morucci aveva quei documenti. La Carlizzi per alcune sue dichiarazioni è stata denunciata per diffamazione dal professore Tommaso Mancini, difensore di Morucci. Inoltre, ai due magistrati romani la donna ha detto più volte di essere amica di Maria Fida Moro e ha rivelato alcune presunte confidenze della figlia dello statista dc. Interrogata come teste, Maria Fida Moro avrebbe precisato che la Carlizzi l’avrebbe importunata da anni ed ha aggiunto che ne sono al corrente tutte le massime autorità di pubblica sicurezza e degli istituti di prevenzione e pena.

Valerio Morucci era stato uno dei sequestratori. Maria Fida Moro, figlia dello sfortunato statista, così respinse la pretesa della Carlizzi di accreditarsi come sua amica (vedi): “Ho un concetto dell’amicizia troppo alto per consentire ad una persona che conosco appena, che non stimo e che avrei preferito non conoscere mai, di entrare a forza nel numero dei miei amici”.
Un’altra e ancora più clamorosa vicenda viene illustrata da questo articolo, uscito su “Repubblica” del 2 agosto 1995:

Sembrerebbe, a prima vista, una delle classiche truffe all’italiana: c’è un bravo praticone che si spaccia per illustre clinico, guarisce la gente, ma non ha un titolo di studio e finisce nei guai. Invece, qui a Bergamo, la trama è misteriosa e complessa. C’è un video a luci rosse, ormai scomparso. Accanto agli investigatori giocano a tutto campo le due testimoni-accusatrici: una è la protagonista inconsapevole del filmino, l’altra una battagliera giornalista, sua amica. E l’uomo cardine di questa vicenda ha occhi penetranti e un innegabile "tocco magico" nelle mani: praticamente sconosciuto per i più, Pierantonio Bettelli, 50 anni, viene venerato da decenni da una clientela di star internazionali e di più modeste vedette della tv nostrana, da atleti e ballerini.

Bettelli venne indagato per abuso della professione medica, non essendo stato in possesso dei requisiti necessari alla pratica dei propri metodi di cura, applicati da vent’anni a un’ampia clientela di VIP, tutti soddisfattissimi (Pavarotti, Celentano, Zucchero, Lorella Cuccarini, Carla Fracci e tanti altri). Ma l’uomo venne sospettato anche di reati ben più gravi, nella cui configurazione ebbe un ruolo decisivo Gabriella Carlizzi.

Il secondo filone riguarda reati più gravi, da tribunale, ancora lontani da essere provati. Innanzitutto, c’è il filmato a luci rosse che vede come attrice protagonista Cristiana Crivelli, ex barista, con qualche problema psicologico, bella, che un giorno Bettelli nota e convince a mollare il bancone per passare ai massaggi. Ma, a parte il ruolo di assistente, Cristiana diventa la fidanzata di Bettelli, racconta di orge, di amore collettivo ripreso, a sua insaputa, con la videocamera […].
La storia poteva restare "coperta" sino a quando, nel centro di Bergamo, non irrompe per farsi curare la giornalista Gabriella Pasquali Carlizzi, la cui pubblicazione, L’altra Repubblica, ora campeggia nell’ufficio del capo della squadra Mobile, Giuseppe Vozza, riflessivo e caparbio. Carlizzi ha una passione per le storie oscure, ha contribuito a far mettere sotto accusa monsignor Cassisa, ha denunciato per mazzette Andreotti e Craxi, se s’imbatte in qualcosa che non quadra corre in qualche Procura. E così ha fatto anche questa volta. Per due mesi è stata ospitata nella villa di Bettelli, l’ha conosciuto bene, ha fiutato pericolo, ha scoperto che Bettelli ha curato anche il mafioso Gambino, e gli ha dato un consiglio: "Prendi il tuo prana (fluido magnetico delle mani, ndr) e va per il mondo, molla tutto prima che sia tardi". Bettelli non l’ha seguito e Carlizzi, che ha conosciuto anche Cristiana e l’ha portata a vivere con lei, a Roma, lontana da Bettelli, ha continuato a indagare.
La data cruciale è il 2 luglio scorso, quando muore agli ospedali Riuniti di Bergamo Giambattista Arzuffi, anziano architetto, curato prima da Bettelli (che lascerà erede). Qualcosa secondo la giornalista non quadra, convince gli inquirenti, tant’è vero che il cadavere, nonostante abbia subito già due autopsie, nei giorni scorsi viene riesumato e sottoposto al terzo esame autoptico. Gli anatomopatologi cercano alcuni farmaci letali. Se li troveranno, saranno riesumate altre due salme: un paziente, che si è buttato giù da una finestra del centro, sei anni fa; e un assistente, che nell’aprile scorso è stato trovato morto, sempre nel centro davanti alla prefettura, in una pozza di sangue e con medicine in bocca.

Alle tre morti sospette sopra indicate se ne aggiunse una quarta, di un personaggio ben più famoso, Walter Chiari, il cui cadavere venne poi in effetti riesumato. Chi scrive non è riuscito a recuperare informazioni sulla conclusione della vicenda, di sicuro Bettelli fu rinviato a giudizio per abuso della professione medica (vedi), mentre niente venne trovato sulle presunte morti sospette. Questo articolo del “Corriere della Sera” del 9 ottobre 1996 racconta della riesumazione della salma di Walter Chiari:

Walter Chiari, nessun mistero. La magistratura ha archiviato l'inchiesta sulla morte dell'attore. Cade così l'accusa più grave (omicidio colposo) per Pierantonio Bettelli, il massaggiatore delle star imputato di truffa ed esercizio abusivo della professione. E ieri, giorno del processo per la clinica dei vip, l'avvocato Roberto Ruggiero, legale dei familiari di Walter Chiari, non ha lesinato polemiche: "La riesumazione della salma si è rivelata assolutamente inutile, come noi stessi avevamo sostenuto. Un atto di violenza morale pesante". Invano Simone, figlio 22enne di Alida Chelli e Walter Annichiarico (in arte Chiari), s'era opposto alla riesumazione. […]
Il popolare attore morì il 20 dicembre '91 all' età di 67 anni, nel suo appartamento alla periferia di Milano. Per i medici non ci furono dubbi: insufficienza cardiocircolatoria provocata anche dalle precarie condizioni fisiche. Dunque, nessuna autopsia. La salma venne tumulata al cimitero monumentale a Milano. Fu durante gli interrogatori delle due grandi accusatrici di Bettelli, la giornalista Gabriella Pasquali Carlizzi e l’ex dipendente del centro fisioterapico Cristiana Crivelli, che vennero sollevati i primi sospetti (Walter Chiari era stato in cura alla clinica dei vip). Sospetti che spinsero la magistratura a ordinare la riesumazione della salma.

Condanna per truffa. Oltre che entrare da presunta testimone in quelle di altri, Gabriella Carlizzi fu protagonista di una vicenda giudiziaria tutta sua. Da “L’Unità” del 14 settembre 1995 (vedi):

Gabriella Pasquali Carlizzi, testimone volontaria in tante inchieste e in tante oscure italiche vicende, è stata arrestata ieri mattina dagli uomini della Guardia di Finanza per ordine del giudice per le indagini preliminari Alberto Pazienti. Insieme a lei è finito in manette anche il marito Camelo Maria. Ai coniugi, secondo le nuove disposizioni di legge, è stata concessa la detenzione domiciliare. Il provvedimento di custodia cautelare è stato firmato da Alberto Pazienti su richiesta del Pm Paolo D‘Ovidio. L'accusa è gravissima: circonvenzione d'incapace. I due coniugi, fondatori dell‘Associazione volontari della carità, avrebbero indotto sette anziane persone a finanziare l'associazione con grosse cifre, fino ad un totale di circa due miliardi di lire. Una sola coppia di anziani, i Deilei, ha raccontalo al giudice di aver dato ai coniugi Carlizzi almeno 900 milioni di lire, dopo aver saputo che la coppia andava raccontando in giro di essere la reincarnazione di un sacerdote deceduto nel 1984, il noto Padre Gabriele. Non dare soldi per la «sacra» memoria di Padre Gabriele, avrebbe significato incorrere in gravi disgrazie. Questo almeno secondo i denuncianti.

Prima di giungere alla fine della vicenda passarono diversi anni, ma alla fine i Carlizzi vennero condannati. Da “Repubblica” del 5 luglio 2006 (vedi):

Cinque anni e mezzo di reclusione e 2.100 euro di multa per l’accusa di circonvenzione di incapace. È la condanna inflitta a Gabriella Pasquali Carlizzi, per aver compiuto un raggiro nei confronti di alcuni anziani che avevano aderito all’Associazione dei volontari della carità, fondata dalla donna insieme con il marito Carmelo Maria Carlizzi. Condannato anche lui a 4 anni di reclusione. Al centro della vicenda, iniziata nel 1984, c’era un raggiro della Pasquali Carlizzi che, spacciandosi come il tramite di un religioso defunto, padre Gabriele, avrebbe convinto alcuni anziani a versarle beni valutati in 2 miliardi delle vecchie lire.

La vicenda Bevilacqua. Arriviamo alle vicende del Mostro di Firenze. Il 25 febbraio 1995 il dirigente della questura di Roma, Nicola Cavaliere, inviò un’informativa al sostituto procuratore Emma D’Ortona (vedi). Eccone alcuni stralci:

Alle ore 16 odierne, rientrando in ufficio [...] ho trovato in segreteria un appunto ove era riportata una telefonata pervenuta alle ore 13.50 precedenti. E precisamente «Dott.ssa Carlizzi – direttore “L’Altra Repubblica” – è urgente in quanto riguarda il Mostro di Firenze». Alle h. 14,15 mi mettevo in contatto con il citato direttore […]. Poco dopo raggiungevo la redazione del citato settimanale […].
La Carlizzi riferiva di aver appreso, circa 30 giorni orsono, da una ragazza di nome Anna Maria […] che il Mostro di  Firenze si identifica con il noto scrittore Alberto Bevilacqua.
Sulla scorta di tale confidenza, il direttore aveva quindi effettuato una serie di “indagini”, di riscontri ed altri accertamenti, giungendo alle stesse conclusioni della giovane donna […].
Riferiva, ancora, che la giovane era stata per un breve periodo l’amante del Bevilacqua e che, in detto periodo, nel corso degli incontri amorosi, avrebbe verificato alcuni atteggiamenti “mostruosi” dell’uomo, con totali sdoppiamenti della personalità.
La Carlizzi, dopo aver ricevuto questo input dalla giovane, aveva iniziato una serie di verifiche che lo scrivente provvedeva ad appuntarsi su un foglio, e che qui di seguito si riportano, tralasciando tutte le argomentazioni relative ai romanzi scritti da Bevilacqua, nei quali testi il direttore ha visto molte conferme alle sue tesi.

-  La giovane avrebbe visto in un armadio dell’abitazione di Bevilacqua molte confezioni del medicinale-psicofarmaco Norzetan. Il farmaco citato, a dire dell’avv.to Fioravanti, sarebbe stato trovato nei pressi di un luogo teatro di omicidio addebitato al Mostro di Firenze.
-  Bevilacqua avrebbe una casa in località Sermide (FE), alcuni testi del processo Pacciani sarebbero di Sermide.
-  Il Bevilacqua sarebbe stato più volte ricoverato in un ospedale psichiatrico in località Colorno.
-  La madre dello scrittore sarebbe stata a lungo ricoverata in vari ospedali psichiatrici e lui sarebbe stato cresciuto da una donna. Questa si sarebbe suicidata nello stesso periodo in cui è giunta la sentenza di condanna per il Pacciani.
-  Il Bevilacqua frequenterebbe la zona di San Casciano Val di Pesa, in quanto alcuni suoi libri sarebbero stati stampati presso “Le Officine Grafiche” di quella località.

La Carlizzi, a conclusione del colloquio, durato oltre un’ora, consegnava allo scrivente un “identikit”, a suo tempo divulgato, del “Mostro di Firenze”, avuto dall’avv.to Fioravanti, nonché due foto del Bevilacqua riprodotte da un retro copertina di un libro.
   
Poco più tardi fu Emma D’Ortona ad ascoltare la Carlizzi (vedi). La giovane che avrebbe avuto una breve relazione con Alberto Bevilacqua si chiamava Anna Maria Ragni. Il successivo 2 marzo sia la Carlizzi (vedi) sia la Ragni (vedi) vennero ascoltate in procura a Firenze da Paolo Canessa. Ecco uno stralcio del verbale della Ragni, dove viene descritto l’unico incontro con il famoso scrittore:

Il Bevilacqua mi ha detto espressamente nell‘unica volta che l’ho visto e nei modi che poi spiegherò di essere lui il mostro di Firenze. Lo avevo cercato io il Bevilacqua perché ero rimasta impressionata dai discorsi che faceva in televisione e volevo conoscerlo.
Nell‘aprile dell'anno scorso chiesi ad un mio amico di Milano […] di trovarmi l‘indirizzo del Bevilacqua. Stefano me lo trovò ed io cominciai a scrivere poesie che mandavo in forma anonima allo scrittore. Alla fine gli mandai anche due lettere con il mio indirizzo ed il telefono di Roma e lui mi telefonò la sera di Ferragosto dello scorso anno. Io non mi aspettavo quella telefonata. Parlammo un po', gli dissi che lo volevo conoscere e lui mi chiese se volevo portare fino in fondo il rapporto. Gli dissi di sì, mi disse che sarebbe stato via 15 giorni in America e che mi avrebbe richiamato.
Mi chiamò il 31 agosto andai a casa sua il 1° settembre […]. Mi ha subito offerto da bere, abbiamo un po' parlato. […] Conversando siamo andati prima in terrazza, poi ci siamo seduti sul divano in casa ad un certo punto da tranquillo mi è sembrato teso e serio. È diventato quasi malinconico e mi ha fatto una strana domanda: «Tu sei una ladra, hai rubato in casa mia?». Poi ha aggiunto «Tu non hai paura dei mostri?» ed ancora «Sono io il vero mostro». «Mi aggiravo nei boschi con Ligabue».
Si è assentato più volte e mi ha lasciato sola anche per una decina di minuti, ho girato per la casa ed ho visto su un mobile un coltello di tipo orientale. Girando ho trovato Alberto in camera da letto spogliato. Abbiamo avuto un rapporto completo anche se lui è andato in bagno più volte. Diceva parole volgari e mi ha preso con violenza. Mentre era in bagno ho visto che in un armadio aveva tante medicine. Io ho visto che fra queste c'era la Clozapina e che alcune erano confezioni vecchie, mi ricordo anche una medicina con una etichetta Norzaden. A mia domanda mi ha detto che alcune medicine erano di sua madre. Parlandomi parlò di quest‘ultima che era stata ricoverata in manicomio quando lui aveva 5 o 6 anni e lui era stato affidato ad altri. Faccio presente che quando mi chiese se avevo rubato in casa mi disse che lui aveva degli amici mascalzoni e criminali.
Sono stata in casa sua dalle ore 17.30 alle ore 22 circa. Uscendo mi disse di chiamarlo perché lui aveva tanti problemi ed aggiunse proprio mentre stavo uscendo «Io sono il vero mostro di Firenze».

Gli uomini della SAM (i “soliti” Lamperi e Venturini) effettuarono alcuni controlli, constatando tra l’altro che l’affermazione a verbale della Carlizzi “di mia iniziativa ho accertato presso l’ospedale psichiatrico di Colorno che il noto scrittore sarebbe stato ricoverato per ben due volte; voglio precisare che ho parlato con il Dott. Bianchi a cui ho telefonato oggi stesso…” non rispondeva al vero. Fu lo stesso Stefano Bianchi a smentire la donna a verbale (vedi), assicurando che Bevilacqua non era mai stato ricoverato presso la struttura ospedaliera della quale era lui il responsabile. Un risultato analogo ebbe il controllo presso l’azienda di San Casciano dove sarebbero state stampate opere di Bevilacqua, circostanza che risultò non vera (vedi).
Il 13 marzo sia Gabriella Carlizzi sia Anna Maria Ragni vennero iscritte nel registro degli indagati per il reato di calunnia; seguì, il 23 marzo, la richiesta d’arresto per entrambe (vedi), respinta però dal GIP, nel caso della Ragni per la mancanza delle necessarie condizioni di urgenza e pericolo di reiterazione del reato, nel caso della Carlizzi per incompetenza territoriale (vedi).
Gabriella Carlizzi non si lasciò spaventare dal pericolo di guai giudiziari, rispondendo a sua volta con denunce e scrivendo un libro, Lettera ad Alberto Bevilacqua, pubblicato nel febbraio 1996, dove ribadiva le proprie accuse. La vicenda giudiziaria terminò con la condanna sia della Carlizzi sia della Ragni, come attesta questo comunicato dell’agenzia Adrokronos del 25 maggio 2000:

Gabriella Pasquali Carlizzi, che nel 1995 aveva accusato lo scrittore Alberto Bevilacqua di essere il 'Mostro di Firenze', è stata condannata per calunnia dal Tribunale di Roma. Il presidente dell'ottava sezione penale, Luigi Rocco Fiasconaro, ha inflitto alla Pasquali Carlizzi una pena di due anni di reclusione, mentre l'altra imputata, Anna Maria Ragni, ha patteggiato la pena a 16 mesi di reclusione. La Pasquali Carlizzi era stata già condannata dal Tribunale civile di Roma a risarcire all'autore di tanti best-seller la somma di 500 milioni di lire per i danni arrecati alla sua immagine in seguito alle affermazioni diffamatorie che lo avevano coinvolto nei delitti delle coppiette nei dintorni di Firenze.
Gabriella Pasquali Carlizzi, ex assistente sociale a Roma, agli inizi degli anni Novanta fondò il periodico ''L'altra Repubblica'', pubblicando di volta in volta presunti scoop, poi rivelatesi sempre bolle di sapone. La giornalista, che di recente è stata condannata per calunnia anche ai danni del questore di Perugia Nicola Cavaliere, si è dichiarata via via in possesso di clamorose verità sui delitti di via Poma e dell'Olgiata, sulla morte dell'attore Walter Chiari, sulla Banda della Magliana, sul caso Moro, sul rapimento di Emanuela Orlandi, sull'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sulle stragi mafiose di Capaci e via D'Amelio.

L’idea della compravendita. Nei primi mesi del 1996 la Carlizzi inviò molti scritti ai magistrati fiorentini, riguardanti sia la vicenda Bevilacqua sia altri temi – come quello dei poteri forti che avrebbero tentato di boicottare l’inchiesta sul Mostro – riprodotti poi nell’opera in più volumi Il Mostro a Firenze, edita nel 2009. Scorrendo le varie pagine si scopre una lettera del 25 marzo, indirizzata a Vigna, Canessa e Fleury, dove si legge:

Illustrissimi signori, intendo informarvi di un particolare aspetto che è emerso nell’ambito della mia personale indagine sul “mostro di Firenze”. […] ritengo sia credibile il fatto che coloro (Vanni, Pacciani, Lotti,…) che avrebbero partecipato alle esecuzioni, in quanto organizzati, erano esenti da qualsivoglia movente psicologico o paranormale, ma, usati nelle loro perversioni e consuetudini nell’ambiente dei guardoni e della prostituzione, eseguivano un mandato. […]
È evidente che per quanto riguarda gli “esecutori”, i delitti non venivano concretati gratuitamente, ma in una collegiale complicità potevano essere garantiti solo da un passaggio di denaro e altri beni.
Come pure, se la “mente” commissionava i delitti per necessità occulte e finalizzate a riti sacrificali, tale pratica deve necessariamente essere pagata, così come dimostra l’intera letteratura nel merito. Nell’ambito della mia indagine in tal proposito mi sono chiesta e spero vi chiediate anche Voi: come si giustifica l’assetto patrimoniale di Pietro Pacciani? Con quali soldi acquista due case, intestate alle figlie, e contemporaneamente mette a frutto decine di milioni di risparmio in titoli di vario genere? O vogliamo veramente credere che abbia maturato certe somme mettendo da parte qualche centinaio di mila lire al mese? Non gli sarebbe bastata una intera vita.

Come si vede, ci sono tutti gli ingredienti della futura pista esoterica. Poco meno di due mesi dopo, il 20 maggio, la donna scrisse ancora ai medesimi magistrati:

Illustrissimi Signori, lo scorso venerdì 17 ho incontrato a Firenze il Capo della Squadra Mobile, dottor Giuttari, con il quale avevo preso un appuntamento onde illustrare circostanze “nuove” relativamente all’attuale inchiesta sul “mostro di Firenze”.
Seppure, con grande soddisfazione, ho avuto conferma dell’orientamento della Procura verso una vera e propria organizzazione, (e di tale orientamento ritengo, verbali alla mano, di essere stata promotrice, vedere verbale d’interrogatorio del 18/12/1995) ho peraltro percepito ancora una certa difficoltà nella lettura completa del fenomeno, che non può certo fermarsi alla bassa manovalanza delle esecuzioni, ma ha l’obbligo di risalire ai mandanti e ai mandatari, nonché alle eventuali complicità che di volta in volta hanno procurato coperture e depistaggi. […]
Se proviamo ad immaginare una piramide che comprende la chiave di lettura del fenomeno “mostro di Firenze”, possiamo distinguere vari strati: alla base, manovalanza locale e scelta nel mondo ricattabile dei guardoni e pervertiti, gente sicuramente conosciuta anche dalle forze dell’ordine locali, e forse, speriamo che non sia così, coperta anche da qualcuno di questi; al livello immediatamente superiore frequentatori locali di operatori dell’occulto e capaci di contrattare con la suddetta manovalanza il prezzo in danaro di tali “lavoretti”; ancora più su va ricercato il mago in loco, il quale appena raggiunta la certezza di potere attuare il rito con la disponibilità dei feticci, organizza, eventualmente con collaboratori di livello superiore nelle pratiche dell’occulto, il rito vero e proprio, quello cioè mediante il quale può adempiere secondo le esigenze espresse da chi si è rivolto alla magia costretto da situazioni di sofferenza personale.

Dalla lettera si viene quindi a sapere che venerdì 17 maggio 1996 la Carlizzi era andata a illustrare le proprie ipotesi esoteriche di fronte a Giuttari, al quale avrà senz’altro manifestato anche i propri dubbi sull’assetto patrimoniale di Pacciani. Naturalmente non è dato sapere quanto grande fosse stato il contributo della donna a sollecitare l'iniziativa di Giuttari, è però vero che il lunedì successivo il superpoliziotto avrebbe inviato a Canessa la richiesta della quale si è detto all'inizio dell'articolo:

[…] poiché si ha motivo di ritenere che le disponibilità finanziarie del PACCIANI possano ragionevolmente provenire dalla attività delittuosa in ordine alla quale è attualmente indagato. si prega di valutare l'opportunità di disporre completi accertamenti di natura patrimoniale e finanziaria, delegando Ufficiali di PG. di questa squadra mobile anche per l'assunzione di informazioni dai diversi datori di lavoro dell'indagato.

La coincidenza di date rende legittimo il sospetto che quell’incontro con la Carlizzi fosse stato piuttosto significativo per la partenza della pista esoterica. Di sicuro la donna sarebbe tornata molte volte a discutere delle proprie idee in questura e anche in procura, sia a Firenze sia a Perugia. Avremo occasione più avanti di esaminare qualcuno dei suoi “stimoli”; intanto si rifletta su questo frammento di un verbale datato 4 settembre 2002, in piena era Narducci (il documento completo è scaricabile qui).

Ieri 03.09 ho telefonato al dott. Mignini e gli ho parlato di due suore che sarebbero state interessate nel caso del mostro di Firenze, una è suora Elisabetta che tutelò Pacciani fino alla morte ed ebbe un interessamento un po’ troppo particolare. […] L’altra suora che ho conosciuto diversi anni fa, tale Suor Miriam, che effettivamente faceva parte del servizio segreto del Vaticano, questo avveniva nel 1993. Questa suora mi chiese se attraverso i messaggi di Padre Gabrieli avevo notizie della salute del Papa. Padre Gabrieli mi disse che era stato fatto un maleficio al Papa, una messa nera direttamente nel Vaticano, e gli avevano posto un “feticcio” nella rete ortopedica. Rivista la suora gli comunicai quanto avevo saputo; di seguito tornò questa suora per dirmi che il feticcio era stato trovato dove avevo indicato.

sabato 26 gennaio 2019

Autunno 1995

Di recente chi scrive è entrato in possesso della copia di alcuni documenti fino a oggi mai emersi, tramite i quali è possibile analizzare meglio la fase iniziale delle indagini sui compagni di merende, quella che portò all’interrogatorio di Gabriella Ghiribelli di fronte a Michele Giuttari, il 27 dicembre 1995. Come è ormai ben noto, in quell’occasione la donna raccontò di aver visto, la domenica sera del delitto, una macchina rossa parcheggiata sotto la piazzola di Scopeti. Di lì in avanti il cammino della nuova inchiesta divenne abbastanza facile e soprattutto obbligato, poiché quell’auto sportiva a coda tronca portava direttamente a Giancarlo Lotti, il personaggio chiave di tutta la vicenda, già interrogato un paio di settimane prima dallo stesso Giuttari che nell’occasione non si era reso conto appieno della sua importanza.
Raggiungere maggior chiarezza sul come si arrivò a individuare Lotti – attraverso la sua Fiat 128 Coupé rossa – è assai opportuno, soprattutto per verificare la teorizzata presenza di un diabolico piano degli inquirenti volto a costruire un “pentito” dal nulla. È senz’altro questa l’impostazione della grande maggioranza di chi oggi rifiuta la verità giudiziaria emersa dai processi. Come si vedrà, sembra però assai improbabile uno scenario di tal genere, poiché i documenti ci raccontano di indagini fatte a tentativi, quindi genuine, con la pista della 128 seguita dai pochi agenti rimasti alla SAM, mentre la procura e Giuttari parevano preferirne una alternativa. Fino a quando la testimonianza della Ghiribelli mise tutti d’accordo.

In cerca dell’auto prestata. Il 13 luglio 1994 al processo Pacciani aveva deposto il teste Ivo Longo, che si era detto certo di aver visto l’imputato guidare un’auto non sua la notte della domenica in cui si pensava fossero stati uccisi i due francesi a Scopeti. Il punto dell’avvistamento e la direzione nella quale si muoveva l’auto erano compatibili, secondo gli inquirenti, con un viaggio verso San Piero a Sieve, dove era stata imbucata la lettera con il frammento di seno di Nadine Mauriot. A quel punto si era supposto che qualcuno, subito dopo il delitto, avesse prestato la propria auto a Pacciani, intravedendo una nuova pista che era parsa assai interessante. Alcune ghiotte notizie sulle prime relative indagini sono desumibili da un’annotazione del 26 luglio (vedi) inviata dalla SAM in procura – quindi appena un paio di settimane dopo la testimonianza Longo –, sottoscritta da Riccardo Lamperi (ispettore principale poi ispettore capo), Alessandro Venturini (assistente capo poi sovrintendente) e Lidia Scirocchi (agente scelto), nella sostanza i soli tre componenti rimasti della vecchia struttura che aveva dato la caccia a Pietro Pacciani. Furono proprio loro a condurre le indagini, a quanto sembra in un clima di poca convinzione, con la procura che esitava a concedere deleghe, probabilmente perché già in attesa dell’arrivo di Giuttari.
Ma torniamo all’annotazione citata, dalla quale si viene a sapere che in un colloquio telefonico di qualche giorno prima il grande chiacchierone Lorenzo Nesi, oltre a ribadire quanto continui fossero stati i rapporti di frequentazione tra Vanni e Pacciani, aveva fornito due spunti che si sarebbero rivelati decisivi, introducendo nello scenario due personaggi nuovi: Filippa Nicoletti e Giancarlo Lotti. A dire il vero quest’ultimo era già stato interrogato quattro anni prima (vedi) in quanto amico di Pacciani, ma aveva tenuto un basso profilo riuscendo a defilarsi. Secondo Nesi poteva essere stato proprio Lotti il proprietario dell’auto vista da Longo, quindi gli uomini della SAM si erano prima informati al PRA sulle auto a lui intestate, poi erano andati ad ascoltarlo. Nell’occasione l’individuo si era detto sicuro di non aver mai prestato la propria auto a nessuno, quindi neppure a Pacciani, ma intanto aveva ammesso di aver posseduto quella Fiat 128 Coupé rossa la cui importanza nella vicenda si sarebbe presto rivelata decisiva.
Sempre nell’ambito della ricerca di eventuali auto non sue guidate però da Pacciani gli uomini della SAM andarono a recuperare vecchi verbali (è il caso di ricordare che il loro archivio conteneva migliaia di documenti catalogati in un personal computer). Tra di essi c’era anche quello di Giancarlo Rufo (vedi), nel frattempo deceduto, proprietario della colonica situata di fronte alla piazzola di Scopeti, dove si trovava il pomeriggio della domenica del delitto. Assieme a Rufo c’erano alcuni amici, dei quali il verbale nominava due coniugi, Marcella De Faveri e Vittorio Chiarappa, che l’11 ottobre Lamperi, Venturini e la Scirocchi andarono a sentire – separatamente, avrebbero specificato, come del resto buona norma comanda – nella loro casa di Firenze. Chi scrive è entrato in possesso del verbale dell’uomo (vedi), mentre di quello della donna, a tutt’oggi  irreperibile, è noto soltanto il sunto riportato da Giuttari nei propri libri. Da Il Mostro:

L'insegnante aveva confermato di essere stata la domenica dell'8 settembre 1985 nel primo pomeriggio, insieme al marito, alla casa colonica dell'amico e raccontò che, nel fare manovra per entrare nel cancello, avevano trovato difficoltà per la presenza di una vettura parcheggiata sul lato destro della carreggiata, una macchina «dalla forma tronca dietro, di colore rosso, sicuramente non più nuovo né brillante, ma sbiadito».
Nei pressi di quell'auto aveva visto due uomini dei quali aveva fornito queste descrizioni:
«Uno era un uomo di mezza età, di corporatura tipo squadrata, di media altezza, senza collo, con testa dal taglio rettangolare, che mi dava l'apparenza di essere un contadino. Costui stava appoggiato al cofano motore della macchina (cioè alla parte anteriore indirizzata verso San Casciano) guardando in avanti, lungo la strada. Mi dava l'impressione d'avere i capelli tagliati corti. Il secondo personaggio era appoggiato sul lato destro dell'auto e guardava il bosco. Questi dava l'impressione di essere un po' più alto del precedente e come figura sembrava meno grezzo dell'altro.»

Dal verbale di Vittorio Chiarappa:

Effettivamente quel pomeriggio io andai in visita da RUFO Giancarlo e vi giunsi intorno all'ora di pranzo. Con me si trovava anche mia moglie Marcella De Faveri. Della data sono sicuro per più di un motivo:
1) quel pomeriggio mi dovetti assentare temporaneamente, dalle 15.30 alle 17.30 circa, per far pubblicare a Firenze un necrologio per la morte del maestro di musica Franco FERRARA (effettuato presso LA NAZIONE);
2) essendo sia io che Giancarlo appassionatissimi di fotografia ricordo di aver portato con me in quella circostanza un teleobiettivo di 300 mm. di focale, cioè particolarmente potente;
3) perché́ collegai ciò̀ che vidi con il teleobbiettivo e che spiegherò qui di seguito con la notizia appresa dai giornali e dalla radiotelevisione riguardo al duplice omicidio dei cittadini francesi […].
Tornando a quel pomeriggio ricordo di aver inquadrato con il teleobbiettivo, intorno alle ore l5,00, 1'ingresso alla stradella che conduce alla piazzola del delitto […]. Notai che lì vi era parcheggiata parallelamente alla strada, con il davanti in direzione di San Casciano, una vettura di colore rosso sbiadito di forma squadrata, con il dietro tronco. Notai anche che c’era un uomo che, mostrando le spalle, guardava in direzione del viottolo che conduceva al luogo del delitto. Quest'uomo non si muoveva e stava appoggiato al tetto dell'auto, dalla parte dell'asfalto in modo tale che io potevo vederlo completamente di spalle.
Come ho già detto, osservai l'uomo anche quando scesi con la mia macchina a Firenze (da solo) per fare il necrologio e mi colpì molto il fatto di ritrovarlo nella medesima posizione dopo circa un'ora e mezza quando rientrai alla colonica del RUFO. Anzi lo ricordo bene perché, come si evince anche dalla foto a colori che mi mostrate, io ero costretto ad allargarmi un po' sulla destra per poter effettuare la manovra di ingresso a sinistra e la macchina dello sconosciuto mi ostacolava in una certa misura perché era sempre lì ferma.
Per quanto riguarda il misterioso personaggio egli era di corporatura grossa, di mezza età.

Come si evince dalla successiva nota inviata in procura (vedi), il racconto fece venire in mente agli uomini della SAM la Fiat 128 Coupé rossa che, secondo i registri del PRA, Giancarlo Lotti aveva posseduto dal 30 marzo 1983 al 2 aprile 1986. Una immediata richiesta agli organi storici della Fiat consentì loro sia la determinazione del tipo di rosso, molto simile a quello descritto nella testimonianza, sia l’ottenimento via fax dei vari profili dell’auto, mostrati ai coniugi e da essi ritenuti molto compatibili.
Poteva essere quella l’auto che Pacciani guidava la notte in cui sarebbe stato visto da Ivo Longo? Lamperi e i suoi colleghi dovettero ritenerlo possibile, poiché riportarono nella loro nota le seguenti dichiarazioni rilasciate dal teste in questura il 6 luglio 1994 (vedi): “Una macchina forse a due volumi, ma senza dubbio con un ripiano posteriore, dove si possono appoggiare oggetti, riviste o bagagli, ...la macchina non la ricordava chiara...”. Il documento ci dice altresì che gli uomini della SAM presero in esame anche due altre testimonianze, di persone che invece al processo Pacciani non erano state convocate.
Dopo un primo contatto informale, il 21 luglio 1994 i coniugi Tiziana Martelli e Andrea Caini avevano dichiarato (vedi) di aver visto transitare, in orario e luogo compatibili con il delitto di Vicchio, due auto sospette:

La prima auto aveva i fari anteriori rettangolari, poteva essere una due volumi, oppure anche una tre volumi, comunque con cofano della bauliera corto, tipo la Ford Escort prima serie, di colore scuro. La seconda auto poteva essere rossa, più chiara della precedente. Entrambe erano vetture di media cilindrata.

Ecco quindi ancora un’auto rossa, che peraltro pareva venir fuori anche da una seconda testimonianza sempre relativa alla notte del delitto di Vicchio, quella di Maria Grazia Frigo, che l’aveva incontrata in una via di campagna poco lontano dalla piazzola. In una telefonata a Canessa del 2 dicembre 1992 così la donna l’aveva descritta: “...un'auto rossa a fari spenti, forse una Ford od una Renault, ...non certo una FIAT. L'auto rossa era condotta da un uomo con i capelli brizzolati, a spazzola...”. Chi scrive non ha disponibilità della corrispondente nota redatta dal PM, ma soltanto delle dichiarazioni della teste in questura di due giorni dopo (qui) e della nota di invio del verbale in procura (qui).

Arriva Giuttari. Reduce dai successi nelle indagini relative agli attentati mafiosi del 1993, nelle quali era stato coinvolto come responsabile del settore investigativo della DIA di Firenze, nel 1995 Michele Giuttari era in attesa di trasferimento alla questura di Bari, dove avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di capo della squadra mobile. Ma le cose andarono in altro modo, poiché Vigna lo volle assegnare alle nuove indagini sui presunti complici di Pacciani, con la speranza di ottenere dei risultati utili entro il processo d’appello – che immaginava già sarebbe finito male per la procura – previsto per il 29 gennaio 1996. Giuttari stesso, con indubbio orgoglio, ha raccontato più volte i contorni di quella scelta, da certi punti di vista assai sorprendente, considerati i tempi stretti e la sua minima conoscenza dei fatti sui quali avrebbe dovuto investigare. Da Il Mostro:

Capisco che Vigna deve avere apprezzato le capacità analitiche e investigative che mi hanno aiutato a individuare i responsabili degli attentati, e vi fa ora affidamento perché all'appello si giunga con nuovi elementi di prova che consentano di rendere più certa la reale posizione dell'imputato, la cui colpevolezza viene da più parti messa in dubbio. Ma non è tutto: da un lato, il procuratore ritiene estremamente positiva la mia totale estraneità alla vicenda del "mostro", che può permettermi di affrontarla con mente sgombra da pregiudizi e preconcetti. Dall'altro Vigna mi dà un'indicazione precisa, invitandomi a indirizzare le indagini sui possibili complici di Pietro Pacciani, ipotesi ventilata dai giudici nella condanna del '94.
In quel momento del "mostro di Firenze" sapevo effettivamente molto poco, più o meno quello che sapevano tutti gli italiani. […] All'epoca dei delitti (fino al 1985), per di più, mi trovavo lontano dalla Toscana, in Calabria, impegnato nella lotta ai sequestri di persona. E durante il processo ero preso dall'indagine sugli attentati di mafia.
Nei confronti dell'imputato non ho dunque alcun preconcetto: non mi ero mai schierato né dalla parte dei colpevolisti né da quella degli innocentisti. Certo, come uomo di legge non posso non attribuire un qualche peso alla prima sentenza che lo ha condannato, ma più di tutto mi stimola la pista appena indicatami dal procuratore e che potrebbe funzionare come quelle operazioni matematiche in cui si ricava il valore di un'incognita accertando quello di un'altra. In altre parole, se scoprirò che Pacciani non agiva da solo ma aveva dei complici, la sua colpevolezza sarà definitivamente provata.
Assicuro quindi la mia totale disponibilità garantendo che mi metterò subito al lavoro appena assunto l'incarico. Anche se, ce ne rendiamo conto entrambi, è un compito quasi titanico: per la brevità del tempo (tre-quattro mesi da ottobre a gennaio), per l'«antichità» del caso (tutti i delitti risalgono a oltre dieci anni prima) e l'immane mole di atti (verbali, testimonianze, sentenze eccetera) che dovrò studiare in via preliminare.
Varco così la soglia della Questura di Firenze in via Zara il 15 ottobre 1995 pronto a immergermi in un delicato lavoro di "archeologia investigativa".

A partire da quel 15 ottobre 1995, Giuttari si immerse a tempo pieno nello studio degli innumerevoli documenti che si erano accumulati in anni d’indagine, con la procura che attendeva speranzosa la maturazione della sua operatività. Intanto Lamperi e colleghi cercavano di seguire le tracce della macchina rossa, con gli occhi puntati su Giancarlo Lotti e sulla sua Fiat 128 Coupé. In procura però la pensavano in altro modo; a interessare i magistrati sembra fosse una diversa auto, anch’essa rossa e anch’essa in qualche modo collegata a Lotti, che ne aveva parlato nelle sue dichiarazioni del 19 luglio 1990. Dal relativo verbale (vedi):

Conosco di vista una persona che frequentava il Pacciani. Questa persona era un uomo alto 1,80 circa, grosso di corporatura, vestiva in modo elegante, veniva a San Casciano con un Volkswagen Maggiolino di colore rosso, non conosco il suo nome e non so dove abita. Questa persona si appartava a parlare con il Pacciani, non so di cosa parlassero, certe volte andavano via in macchina. Vanni Mario conosceva questa persona e qualche volta andavano via tutti e tre in macchina.

La descrizione dell’auto fatta dai coniugi De Faveri-Chiarappa non faceva certo venire in mente un Maggiolino, in ogni caso si volle chiedere alla donna, che il 14 novembre venne convocata in procura (vedi). La sua risposta fu perentoria: “La vettura della quale ho parlato non era sicuramente un Maggiolino Volkswagen, tipo di auto che è uno dei pochi che conosco bene”. Dal verbale si viene anche a sapere che all’epoca i coniugi avevano riferito del loro avvistamento a un conoscente della questura, Giovanni Cecere Palazzo, che evidentemente non aveva ritenuto opportuno farli convocare.
Gli agenti della SAM si recarono poi ad Arezzo, dove da qualche anno era andata ad abitare Filippa Nicoletti, la prostituta amica di Lotti già sentita nel luglio 1994. A quel colloquio informale, di cui a oggi non è ancora emerso alcun documento, seguì la convocazione della donna in procura, dove il 27 novembre venne interrogata dal pubblico ministero Paolo Canessa (vedi). Oltre alla conferma del possesso del 128 da parte di Lotti – “Il 128 Coupé di cui parlo che aveva il LOTTI è proprio la macchina che mi viene mostrata in fotocopia che viene allegata al verbale” –, la donna raccontò un fatto che, inevitabilmente, alimentò ulteriori sospetti sull’individuo:

Quando, nel luglio dell’anno scorso, fui sentita dalla SAM, telefonai ad uno dei bar di S. Casciano dove so che va sempre il LOTTI, gli parlai e gli dissi che ero stata sentita dalla Polizia e lui volle sapere cosa gli avevo detto e quali domande mi erano state fatte.
Anche ieri e ieri l’altro ho informato il LOTTI che ero stata convocata oggi e lui mi ha pregato di telefonargli l’esito dell’interrogatorio.

Il 2 dicembre Lamperi e Venturini andarono ad ascoltare Sabrina Carmignani, della quale avevano in mano la testimonianza del 9 settembre 1985 (vedi). È ormai universalmente noto che la Carmignani, in compagnia  del proprio fidanzato, si era avvicinata in auto alla tenda dei francesi il pomeriggio della domenica del delitto, ricevendo l’impressione che i poveretti fossero già stati uccisi. Ma in quel momento agli uomini della SAM interessava un altro particolare che emergeva dal verbale:

Siamo andati via dal posto dopo circa una mezz'ora dall'arrivo. Mentre stavamo andando via è arrivata un'altra autovettura con una persona a bordo. Era una macchina tipo la Regata, ma si trattava di un'auto che non so descrivere, anche perché non ho dato importanza alla cosa.

Si legge nella nota del 5 dicembre 1995 (vedi):

[...] gli scriventi mostravano alla CARMIGNANI la foto del modello FIAT 128 coupé con lo scopo di una eventuale individuazione del modello di vettura notato dalla ragazza in correlazione con le dichiarazioni già rese da altre persone (CHIARAPPA Vittorio e DE FAVERI Marcella): la giovane asseriva che avrebbe potuto trattarsi anche di quel tipo di vettura precisando che a suo tempo aveva parlato di FIAT REGATA solo perché tale modello, posseduto da sua madre, le richiamava alla mente l'auto sopraggiunta a causa dei fari squadrati.

Due giorni dopo Giuttari usciva dal suo lungo periodo di full immersion nella documentazione del caso consegnando una nota a Vigna (vedi). La lettura del documento, fino a oggi mai emerso, ci aiuta a capire le successive mosse dell’ancora acerbo – sul caso – investigatore. Balza agli occhi in modo eclatante la mancanza di qualsiasi riferimento alla Fiat 128 Coupé di Giancarlo Lotti, nonostante vengano citate le testimonianza dei coniugi De Faveri-Chiarappa e di Sabrina Carmignani che si erano dichiarati possibilisti sul relativo riconoscimento. Lotti compare invece sia per lo strano interesse manifestato verso gli interrogatori dell’amica Filippa – “il LOTTI continua a mantenere un atteggiamento quanto mai strano, dimostrando ancora di voler conoscere tramite terzi (nella specie la NICOLETTI) il contenuto di dichiarazioni rese all'A.G.” – sia per la questione del Maggiolino rosso, in questo caso assieme a un certo Salvatore Musso che pareva anch’egli aver visto accompagnarsi a Pacciani il medesimo uomo alto ed elegante che lo guidava.
Una buona idea di Giuttari fu quella di chiedere, nella nota stessa, l’autorizzazione a intercettare i telefoni di Mario Vanni e Filippa Nicoletti. Se dall’ascolto del primo non si sarebbe ottenuto alcun risultato utile, una conversazione tra la Nicoletti e la Ghiribelli avrebbe invece fornito il punto di partenza per i clamorosi sviluppi successivi dell’inchiesta.

Giuttari esce allo scoperto. Il 6 dicembre Giuttari condusse la sua prima operazione sul campo ascoltando Sabrina Carmignani in un drammatico interrogatorio protrattosi per ben sei ore. Questo blog se ne è già occupato in uno dei primi articoli (vedi), cercando di mettere in evidenza l’inopportuno tentativo di forzare la teste a dire di aver visto Mario Vanni sulla piazzola di Scopeti, addirittura alla guida dell’auto rossa, lui che neppure aveva la patente. Il reperimento della nota del 2 dicembre, dove Lamperi e Venturini riassumevano le dichiarazioni rese dalla donna ci aiuta a ricostruire meglio l’accaduto (vedi); vi si legge:

[…] per capire cosa avesse visto realmente la ragazza le si dava lettura delle dichiarazioni già rese dalle predette persone, omettendone i nomi, limitatamente alla presenza della vettura e degli individui visti da costoro accanto ad essa.
La giovane ascoltava in silenzio quanto verbalizzato dal CHIARAPPA, mentre, alla descrizione dell'individuo "... un po' più alto del precedente e meno grezzo dell'altro....", SPONTANEAMENTE, senza alcuna sollecitazione, dichiarava: "È quello lì di San Casciano... come si chiama... Torsolo..." precisando subito dopo che si trattava del suo compaesano VANNI Mario, personaggio a lei ben noto come "guardone" frequentatore della piazzola degli Scopeti. Di questo la CARMIGNANI era sicura perché anche lei si recava spesso in quel luogo di pomeriggio e di notte.

In sostanza la Carmignani aveva creduto di poter ravvisare la figura di Mario Vanni nella persona più alta descritta da Vittorio Chiarappa, avendo visto l’individuo più volte sulla piazzola in atteggiamento da guardone; ma certamente non disse di averlo visto quella domenica. Alla fine non volle firmare alcun verbale, dichiarando di non voler “entrare in alcun modo nel processo a carico di PACCIANI Pietro per timore di rappresaglie contro il suo bambino da parte di personaggi a lui collegati ancora in libertà”. Fu probabilmente questa scusa, che in realtà doveva nascondere la paura che potessero emergere in pubblico argomenti del tutto privati, a far immaginare a Giuttari la possibilità che la teste potesse nascondere qualcosa; da qui il drammatico e inopportuno interrogatorio, del quale ancora anni dopo Sabrina Carmignani si sarebbe lamentata.
Il 15 dicembre fu la volta di Giancarlo Lotti (vedi), in un interrogatorio nel quale non gli venne chiesto nulla della sua Fiat 128 Coupé rossa e della possibile sosta pomeridiana davanti alla piazzola di Scopeti, nonostante la presenza – ma soltanto formale – di Lamperi che aveva già fiutato da tempo la pista. Si potrebbe anche ritenere che quella di Giuttari fosse stata una scelta di strategia investigativa, un modo per non spaventare l’individuo e magari ascoltarne qualche successiva conversazione telefonica con la Nicoletti, come poi accadde davvero, ma l’emersione della nota del 4 dicembre dimostra invece che in quel momento il superpoliziotto non si era reso conto dell’importanza di quell’auto. Il fatto non è tanto significativo per valutare la qualità del fiuto di Giuttari, quanto per i suoi risvolti su un possibile indottrinamento di Giancarlo Lotti, che viene oggi ipotizzato dai più superficiali tra coloro che rifiutano la verità giudiziaria uscita dai processi. Ebbene, in base alla documentazione emersa, possiamo senz’altro affermare che quel 15 dicembre 1995 Giuttari non aveva affatto in mente di manipolare Lotti per arrivare a Vanni e Pacciani, almeno non attraverso la sosta a Scopeti.
Il giorno dopo Lotti telefonò all’amica Filippa (vedi). La corrispondente registrazione ci aiuta a ricostruire meglio l’interrogatorio dell’individuo, che dovette essere stato anche abbastanza duro, il che tra l’altro confuta una volta di più l’immagine di un Lotti fragile personaggio in mano agli inquirenti (“Madonna... io non è che tremo... lui alzava la voce e l'alzavo anch'io... mi diceva «io ti arresto... ti sequestro la macchina»... Che fai? mi sequestri la macchina?... erano le 8.30... non ce la facevo più”). Ma l’auto che interessava Giuttari era una Fiat 124 celeste, che Lotti poteva aver prestato a Pacciani, e di quella gli aveva chiesto
La conversazione telefonica cadde anche sulla 128, quando Lotti volle avere notizie sull’audizione dell’amica del 27 novembre:

G.: Che ti hanno detto più o meno?
F.: Quando ti ho conosciuto... come ho fatto a conoscerti.
G.: Ma te lo hanno detto subito di me?
F.: Eh no!... se io conoscevo a quelli della fotografia... se io non li conoscevo, se ti conoscevo... la macchina... la macchina era la tua...
G.: Come la mia?
F.: La macchina che hanno loro... hanno una foto della macchina.
G.: Ma che macchina è?
F.: È la macchina rossa, quella sportiva che avevi.
G.: La macchina rossa?
F.: Sì.
G.: Ah, sì... ah... io le ho avute... ah, quel coupé, il 128... ti hanno fatto vedere quello?... ma quello è da quindici anni e più...

Da questo frammento si ottiene da una parte conferma che Giuttari a quell’auto ancora non pensava, dall’altra che Lotti, per la prima volta, doveva essersi reso conto che comunque gli inquirenti ne erano interessati. Quindi, se davvero la domenica di Scopeti l’auto era fuori uso sostituita da una 124, come la difesa di Mario Vanni avrebbe cercato di dimostrare e come ancor oggi sostengono molti commentatori, l’individuo poteva far mente locale e prepararsi alle future contestazioni, davanti alle quali invece non avrebbe opposto alcuna resistenza.

La testimonianza decisiva. Nell’interrogatorio del 15 dicembre Giancarlo Lotti aveva fatto il nome di Gabriella Ghiribelli, una prostituta che aveva frequentato e dalla quale, almeno una volta, si era recato anche Vanni. Lamperi e Venturini l’andarono a cercare nella sua abitazione di Firenze e poi, il 21 dicembre, la interrogarono in questura. Dallo scarno verbale (vedi) emerge la figura di Salvatore Indovino, per alcuni anni protettore e convivente di Filippa Nicoletti, nella cui stamberga di San Casciano si sarebbero svolte le sedute spiritiche utilizzate anni dopo come ingrediente della pista esoterica. Non c’è invece traccia dell’argomento 128 rossa. Possibile che gli uomini della SAM  non si fossero informati se la teste l’aveva  mai vista o no in mano a Lotti?
La sera stessa la Ghiribelli telefonò alla Nicoletti. È ormai notissimo il passaggio cruciale della relativa intercettazione (vedi), ma che in ogni caso è sempre bene riportare, poiché costituisce un macigno sul quale sono destinate a infrangersi tutte le congetture dei “negazionisti” (intendendo con questo termine chi non crede al coinvolgimento di Lotti nella vicenda):

G.: Io l'unica cosa che posso dire è che io una macchina arancione l'ho vista... sotto le luci piccole piccole di strada... sai, in una strada piccola potrebbe essere stata arancione... potrebbe essere stata rossa... scodata di dietro... mi hanno fatto vedere la foto... l'ho riconosciuta...
F.: Sì, ma è vecchia quella macchina.
G.: Appunto!... ma è una cosa assurda...
F.: Ma ha cambiate tante di macchine!... ne aveva una celestina, poi una arancione, poi una rossa, poi ora ne ha presa un'altra rossa... una gialla ce l'aveva.
G.: Senti... mi hanno domandato in questura... «Il LOTTI che macchina aveva?» Io gli ho detto rossa... una con una portiera rosa perché la portiera gli s'era rotta e lui ne aveva presa una al disfacimento e l'aveva messo questa portiera rosa.
F.: Sicura?
G.: Son sicura per quello.
F.: Ma è stata quell'altra macchina, quella che aveva prima di ora! Quell'altra ancora prima era una sportiva!

Quindi gli uomini della SAM le avevano chiesto della Fiat 128 Coupé rossa di Lotti, le avevano anche fatto vedere una foto e lei l’aveva riconosciuta. Ma il verbale non lo riporta, come non riporta, la qual cosa risulta assai più sorprendente, dell’avvistamento di quell’auto “sotto le luci piccole piccole di strada […] in una strada piccola”, quindi di sera o di notte. Si può soltanto ipotizzare che la donna avesse sì riconosciuto la macchina di Lotti nelle foto che le erano state mostrate, ma non lo avesse dichiarato, e soprattutto non avesse fatto cenno all’avvistamento, e che quindi il verbalizzante avesse deciso di non farne menzione.
Dopo aver ascoltato questa e una successiva telefonata tra le due donne (23 dicembre, vedi), Giuttari si convinse che era il caso di ascoltare la Ghiribelli direttamente; l’audizione venne programmata per il pomeriggio del 27 dicembre. Prima però di affrontare questo cruciale passaggio dell’inchiesta, vale la pena dare un’occhiata a questo documento, datato 27 dicembre, probabilmente della mattina ma in ogni caso precedente l’interrogatorio della Ghiribelli, che iniziò alle 16:30. Si tratta della richiesta di proroga per l’attività di intercettazione del telefono della Nicoletti, firmata da Giuttari e dal suo collaboratore Fausto Vinci. A giustificazione della richiesta vengono riassunte le tre telefonate del 16 con Lotti e del 21 e 23 con la Ghiribelli. Riguardo quella del 21 viene toccata anche la questione della 128, ma stranamente senza far cenno alcuno alla macchina arancione vista di sera dalla Ghiribelli in un strada piccola. Possibile che non si fosse capito l’importanza di quel passaggio?

Interessante, nello stralcio in questione, oltre ad una serie di nomi indicati dalla Gabriella come partecipanti alle sedute spiritiche, è nuovamente il riferimento alla macchina sportiva, rossa/arancione "scodata" del LOTTI. Ed è la Filippa a fare chiarezza circa il particolare della portiera rosa presa al disfacimento e montata sulla macchina rossa del LOTTI. La Filippa
dice che la portiera rosa non era montata sulla macchina sportiva, bensì sulla penultima macchina posseduta da Giancarlo (una FIAT 131).

Per la cronaca, è il caso di notare che Compagni di sangue non contiene alcun accenno a quella telefonata, mentre ne Il Mostro ne vengono riportate molte frasi (pagg. 113-114) ma non quella dell’avvistamento. In ogni caso tutto si chiarì durante l’interrogatorio del pomeriggio (vedi), nel quale la Ghiribelli raccontò di aver visto l’auto di Lotti la sera della domenica del delitto sotto la piazzola di Scopeti. Nel verbale si afferma che la donna lo avrebbe fatto spontaneamente, ma è lecito immaginare qualche precedente frase da cui aveva capito di essere stata intercettata, e che quindi non avrebbe potuto continuare a tacere.
Sulla genuinità dell’avvistamento della Ghiribelli i “negazionisti” hanno sempre condotto strenue battaglie. Proprio per fronteggiarne una – del comunque valido Frank Powerful – questo blog si è già occupato della questione (La teste “Gamma”); era più di due anni fa, quando ancora mancavano alcuni importanti documenti oggi disponibili, alla luce dei quali l’articolo sarebbe da revisionare, almeno in alcuni dei suoi passaggi. Per adesso esaminiamo almeno la trascrizione di una telefonata del 14 febbraio 1996 tra Gabriella Ghiribelli e uno sconosciuto amico di nome Mario (vedi).
Il documento ci fornisce innanzitutto un’informazione inedita: non sappiamo da quando, ma probabilmente non da molto, anche il telefono della Ghiribelli era stato messo sotto controllo. Riguardo il contenuto della telefonata, bisogna tener presente che quella stessa mattina sui giornali erano usciti a tutta pagina i resoconti dell’assoluzione di Pietro Pacciani in appello (13 febbraio), accompagnati dalla notizia dell’esistenza di due testimoni misteriosi che avrebbero visto Mario Vanni e lo stesso Pacciani mentre uccidevano. La Ghiribelli sapeva bene chi erano quei due testimoni; sulla loro identità le era stato imposto il silenzio, ma adesso che i giornali ne avevano parlato non vedeva l’ora di dirlo. Ecco alcune delle frasi più interessanti della telefonata:

Senti, ascolta Mario, io non ti avevo mai detto nulla… L’hai visto il telegiornale?... Lo sai chi sono i du’ testimoni?... È Ciccio, è Fernando… La macchina che io avevo visto quando tornavo a San Casciano… te lo ricordi? Stavo sempre con Galli… Ora te lo dico perché è di dominio pubblico, ma a me la polizia mi ci ha tenuto l’altra settimana fino alle 11 e mezzo lì in questura… e mi dissero di non dir nulla a nessuno… Ecco perché… ieri tu mi dicesti a me… ma Ciccio non viene più… e non ti potevo dire nulla perché non era di dominio pubblico… la storia… Io lo avevo raccontato a Dino… Dino lo sapeva, però anche Dino non ti diceva nulla perché glielo avevo detto io di non dirti nulla…

È significativa soprattutto la frase “La macchina che io avevo visto quando tornavo a San Casciano… te lo ricordi? Stavo sempre con Galli…”. Di quella macchina la Ghiribelli aveva parlato all’amico Mario prima di andarlo a raccontare a Giuttari, forse già all’epoca (“te lo ricordi?”),  la qual cosa rende il suo avvistamento del tutto genuino. Chi ancora si ostina a voler vedere la Fiat 128 Coupé rossa di Lotti parcheggiata con le ruote per aria in quel settembre 1985 inganna sé stesso.

Il mistero del verbale. Abbiamo visto che nel primo verbale sottoscritto dalla Ghiribelli non c’è alcun cenno all’avvistamento dell’auto rossa. Dopo la seconda di fronte a Giuttari, l’8 febbraio 1996 la donna fu protagonista di una terza audizione, nel cui verbale (vedi), sorprendentemente, si legge:

Circa l'auto che vedemmo sul ciglio della strada quella sera ho già spiegato l'episodio in tutti i suoi dettagli prima all'ispettore LAMPERI e al sovrintendente Venturini della PS, qui presenti, e riportato nel verbale del 21 dicembre 1995, di cui mi viene data integrale rilettura e che confermo. Ho poi rispiegato l'episodio al DR. GIUTTARI della Questura, nei dettagli e che confermo. 

La contraddizione è clamorosa. Secondo questo passaggio già il 21 dicembre, di fronte a Lamperi e Venturini, la donna avrebbe raccontato dell’avvistamento dell’auto rossa, e non fuori verbale, poiché viene precisato: “[…] riportato nel verbale del 21 dicembre 1995, di cui mi viene data integrale rilettura e che confermo”. Quale dei due documenti dice il vero, quello del 21 dicembre o quello dell’8 febbraio? La questione non è affatto irrilevante, poiché l’affidabilità dei verbali è un elemento critico di ogni procedimento giudiziario e della successiva ricostruzione storica, tanto più in questa vicenda, dove i sospetti di manipolazione delle testimonianze sono all’ordine del giorno in tutte le discussioni.
I due documenti erano entrati in possesso di chi scrive, da oltre un anno, nel formato di trascrizione OCR. Anche se la fonte era più che affidabile – l’archivio digitale di Francesca Calamandrei – e i numerosi difetti di lettura ne attestavano ancor più la genuinità, si trattava pur sempre di file di testo, per loro natura manipolabili. Quindi, prima di trarre qualsiasi conclusione, era il caso di tentare il recupero delle immagini dei documenti originali. L’avvocato Vieri Adriani ha fornito la versione preparata per il processo d’appello a Pacciani (qui e qui), dove i nomi di Lotti, Pucci, Ghiribelli e Galli risultano sostituiti dalle ormai famose prime quattro lettere dell’alfabeto greco. A parte questo, nei documenti si leggono le medesime frasi della versione OCR, per di più con tanto di firma dei verbalizzanti. Una successiva ricerca della mai abbastanza encomiata Francesca nel proprio archivio cartaceo ha consentito il recupero anche della versione con i nomi veri (qui e qui), priva di firme dei verbalizzanti ma identica per contenuto alle altre.
Per andare ancora più a fondo della questione, chi scrive ha interpellato l’allora ispettore Riccardo Lamperi, oggi in pensione, che gentilmente ha autorizzato la pubblicazione di questo suo scritto:

Presa visione del verbale redatto con la teste Gabriella Ghiribelli in data 21 dicembre 1995, verbale in cui non appaiono riferimenti all'auto Fiat 128 di colore rosso, osservo che, comunque, di quell'auto con la donna ne parlai e che le mostrai anche le fotografie di quel modello, con quella verniciatura (questa mia affermazione è oggettivamente confermata dallo stralcio della telefonata intercorsa dopo, tra la stessa Ghiribelli e Nicoletti Filippa).
Tuttavia non ritenni opportuno, al momento, verbalizzare nulla riguardo alla macchina perché la Ghiribelli si dimostrò incerta, insicura e reticente, verosimilmente perché non voleva essere coinvolta in ulteriori testimonianze, convocazioni e dibattimenti.
Preciso che la mia scelta di non insistere, quando lei affermava di non ricordare, è stata dettata dalla opportunità di non ottenere un verbale contenente dubbi e incertezze che poi, in fase dibattimentale, in sede di controesame, sarebbe stato sicuramente utilizzato dagli avvocati per attaccare l'ipotesi investigativa dell'accusa.
Quindi la mia fu una scelta di strategia, ponderata e saggia.
Lasciava aperta la porta anche a futuri, prossimi ripensamenti della teste, come poi effettivamente avvenne nei verbali successivi.

Come si vede, Lamperi non fa cenno nella propria dichiarazione all’incongruenza contenuta nel verbale dell’8 febbraio, dove compare anche la sua firma; a ulteriore richiesta di chiarimenti, ha allora inviato questa mail:

Disattenzione dei magistrati, nulla di più. Io, che misi la firma su quel verbale lo feci perché il contesto era questo: venivano riletti alla teste i due atti, quello del 21 e quello del 27 dicembre e lei li confermava entrambi. Quindi io ero a posto per quanto riguardava il mio operato.
Poi, torno a dire, c'erano tre PM a dettare. Sicuramente quella incongruenza è stata dovuta a una disattenzione, ma nulla di più. Capisco che per chi vuole vedere cose losche a tutti i costi possa apparire strano, ma la cosa si spiega semplicemente così, una disattenzione e non un trappolone (tipo verbale del 21 fatto due volte e modificato ecc. ecc.).

La spiegazione di Lamperi sembra filare, anche perché non si vede quale utilità potrebbe aver avuto taroccare il verbale del 21 togliendogli la parte dell’avvistamento. In ogni caso il lettore ha davanti a sé il medesimo quadro dello scrivente, dal quale può trarre le proprie conclusioni che, se vuole, può condividere intervenendo.

Altre auto. Finora abbiamo utilizzato la pista “macchina rossa” per seguire la partenza delle indagini che portarono ai compagni di merende. Ma sappiamo bene che Pacciani aveva una macchina bianca, una Ford Fiesta, della quale si cercò qualche traccia. A dir la verità la materia doveva essere stata sviscerata già dall’inchiesta precedente, quella su Pacciani serial killer solitario, ma comunque qualcosa venne trovato lo stesso.
Come risulta dal corrispondente verbale (vedi) il 10 settembre 1985 una cittadina americana di nome Sharon Stepman (nel documento indicata erroneamente come Sharon Daliana) aveva rilasciato davanti ai carabinieri la seguente dichiarazione:

La sera dell’8 corrente, verso le ore 23.00, alla guida della mia autovettura percorrevo via degli Scopeti, diretta verso Firenze. Giunta poco prima del ristorante, denominato “La Capannina”, ho notato un’autovettura di colore bianco, probabilmente non di grossa cilindrata, ma di media cilindrata […].
La manovra del suo conducente mi ha attirato l’attenzione in quanto col sopraggiungere della mia auto ha fatto marcia indietro, riportandosi probabilmente nella stradina interna, dandomi la sensazione che il conducente non voleva essere notato.[…]
Sono venuta a San Casciano perché ho accompagnato in via degli Scopeti il mio amico RASPOLLINI Valeriano.

La donna si riferiva alla domenica sera del delitto. Purtroppo la trascrizione OCR del verbale non è completa, in ogni caso sappiamo che la donna aveva visto l’auto mentre stava uscendo da una stradina laterale. Il 28 settembre 1995 Lamperi, Venturini e Scirocchi andarono a trovare Valeriano Raspollini nella sua abitazione di San Casciano (vedi). Quella sera l’uomo si trovava in auto con l’amica Sharon, ma al momento dell’avvistamento era già sceso, quindi più di tanto non poté dire.
Il 2 ottobre fu la volta della stessa Stepman, che gli agenti della SAM condussero lungo via Scopeti in cerca della stradina da cui sarebbe uscita l’auto bianca. Va detto, per inciso, che questo blog si è già occupato dell’argomento nell’articolo La testimonianza Stepman, dove si dimostra che l’ipotesi, ritenuta valida dai giudici del futuro processo, che tale stradina avesse corrisposto allo slargo di accesso al cancello della proprietà Rufo posto esattamente di fronte alla piazzola del delitto, era del tutto errata. Torniamo però alle indagini e alla loro storia, che poi è il tema di questo articolo. Dopo il sopralluogo vennero raccolte in questura le dichiarazioni della donna, subito dopo ripetute davanti a Vigna e Canessa in procura (vedi).
Un’auto differente sia da quella di Lotti sia da quella di Pacciani venne fuori dalla consultazione di un verbale del 9 settembre 1985 (vedi), sottoscritto da James Taylor, cittadino americano, dove si poteva leggere:

Verso le ore 00.15 o 00.45, non posso essere più preciso, transitavo con la mia ragazza, Luisa Gracili, che vive in San Casciano, all'indirizzo ove sono ospite a bordo di una Citroen Dyane 2CV, di. proprietà della mia ragazza, sulla statale che conduce a San Casciano, provenendo da Firenze.
Giunti in località Scopeti, nello stesso luogo ove oggi ripassando ho visto un assembramento di persone, ricordo di aver notato sul ciglio della strada, lato destro, direzione San Casciano, una Fiat 131 di colore argento.

Da una loro annotazione del 3 ottobre 1995 (vedi) si apprende che Taylor venne risentito dagli uomini della SAM:

In ordine poi alla deposizione resa alle ore 19.50 del giorno 9 settembre 1985 dal cittadino statunitense TAYLOR James Robinson, meglio qualificato in oggetto, fotografo, […] si comunica che costui, risentito a tale proposito negli uffici della SAM, ha riconfermato integralmente il verbale già̀ sottoscritto in occasione del duplice omicidio, peraltro corredato di un disegno esplicativo. Il TAYLOR ha aggiunto di essere sicuro di avere notato nell'occasione, parcheggiata senza nessuno a bordo, una FIAT 131 grigia argento: infatti, essendo stato a sua volta possessore di una FIAT 124, gli erano ben noti i veicoli fabbricati dalla casa automobilistica torinese.

Vale la pena ricordare che sopra quella Fiat 131 color argento si sarebbe cercato di mettere il povero Giovanni Faggi, anche con l’aiuto delle fin troppo disponibili dichiarazioni di Fernando Pucci.

I testimoni dimenticati. Così si intitola un capitolo di Compagni di sangue. Scrive Giuttari, raccontando della sua rilettura degli atti non presentati al processo Pacciani:

Man mano che andavo avanti, ecco che, a poco a poco, affioravano, come dei fantasmi, diversi testimoni, dimenticati nei polverosi fascicoli della cosiddetta SAM, la Squadra Antimostro. Quella stessa Squadra Antimostro, che, d'altro canto, aveva scoperto il nome del Pacciani, indagandolo.
Chi erano questi testimoni?
Erano persone che avevano riferito fatti interessanti certamente per una fedele ricostruzione dei delitti e, in particolare, per quelli del 1984 e del 1985. Erano persone, quasi tutte, che non si conoscevano tra di loro e che avevano testimoniato, presentandosi spontaneamente alle Forze di Polizia, o subito dopo la scoperta dei delitti ovvero successivamente durante le indagini e il processo a carico di Pacciani.
Vediamole, adesso, singolarmente, queste persone risvegliandole da quel letargo in cui erano state fatte cadere e che erano destinate a rimanere per sempre nell'oblio giudiziario. Le distinguo in relazione ai delitti, così come si presentarono a me nel corso della prima lettura.

Il libro elenca quindi dodici persone – nell’ordine: Andrea Caini, Tiziana Martelli, Maria Grazia Frigo, Sharon Stepman, Valeriano Raspollini, Giuseppe Pordoli, Sabrina Carmignani, James Taylor, Petra Weber, Giancarlo Rufo, Marcella De Faveri, Vittorio Chiarappa – e presenta le loro testimonianze, concludendo poi:

I testimoni dimenticati, con le loro dichiarazioni fino ad allora completamente ignorate, erano finalmente usciti dal profondo sonno in cui erano stati fatti cadere e davano concretezza all'ipotesi segnalata nella sentenza di condanna del Pacciani, secondo cui, almeno per gli omicidi del 1984 e del 1985, potevano esserci stati dei complici.

Come si vede, e come si desume da altri suoi interventi – nella deposizione dibattimentale (vedi), ne Il Mostro, in Confesso che ho indagato e varie interviste – sembra che l’investigatore affermi di aver scovato tali persone durante il proprio “delicato lavoro di archeologia investigativa”. Ma nell’elenco il lettore avrà già notato la presenza di testimoni che erano stati sentiti, o comunque posti all’attenzione della procura, dagli uomini della SAM ben prima che Giuttari si rendesse operativo, addirittura prima del suo insediamento a capo della squadra mobile. Rimangono fuori soltanto due nomi, quelli di Giuseppe Pordoli (vedi) e di Petra Weber (vedi), dei quali chi scrive è in possesso soltanto di verbali del 1985.
Nell’ambito dell’intera vicenda la questione potrebbe apparire irrilevante, invece ha la propria importanza, poiché corrisponde comunque a una delle tante zona d’ombra sulle quali va fatta chiarezza. Torniamo quindi ai due unici nomi per cui non risultano, secondo i documenti in possesso di chi scrive, audizioni o comunque controlli da parte degli uomini della SAM.
Riguardo Petra Weber, non si sa bene quando e da chi venne riesumato il verbale del 1985. Ma in ogni caso la testimonianza appare priva di grande interesse, riguardando soltanto il presunto rumore di un unico sparo udito dalla donna verso le 24 della domenica del delitto dei francesi. In realtà sembra davvero difficile che lo schiocco, simile a quello di una bottiglia stappata, potesse aver avuto collegamenti con il paio di sequenze di colpi esplosi dall’assassino.
La testimonianza Pordoli, complessa e anche un po’ particolare, ma in ogni caso più interessante (racconta di una tenda a Scopeti diversa da quella dei francesi, e di una motocicletta e del relativo guidatore visti a lungo vicino alla piazzola), viene invece citata nella nota che Giuttari redasse alla fine del suo periodo di full immersion nei documenti, il 4 dicembre 1995 (vedi). Giuseppe Pordoli, quindi, potrebbe essere l’unico vero “testimone dimenticato” scoperto dall’investigatore durante il proprio lavoro di archeologia investigativa. C’è però da dire che la sua testimonianza non contribuì per nulla a individuare la pista dei compagni di merende.

Addendum 16 aprile 2019. Successive acquisizioni di verbali hanno consentito a chi scrive di chiarire il mistero della Wolkswagen Maggiolino di colore rosso sulla quale si erano appuntate in un primo tempo le maggiori attenzione prima della procura poi di Giuttari. Ebbene, l’uomo alto 1.80, grosso, capelli biondi brizzolati, ben vestito altri non doveva essere che Walter Ricci, marito di Laura Mazzei – la cui madre era cugina della madre di Vanni – entrambi già testimoni al processo Pacciani.


Ricci era stato un impiegato di banca, quindi è plausibile che si vestisse in modo elegante. Non è nota a chi scrive la sua altezza, però dall’immagine soprastante si vedono dei capelli che una volta dovevano essere sul biondo.
Si legge nel verbale dell’audizione di Ricci alla SAM del 5 novembre 1991 (vedi):

A volte mi chiedevano dei passaggi sulla mia VW Maggiolino di colore aragosta ed in particolare il VANNI Mario mi chiedeva di portarlo a Firenze dove si faceva lasciare nella zona di piazza Piave per andare da una prostituta che esercitava il mestiere in un appartemento vicino mentre il PACCIANI mi può avere solo chiesto dei passaggi per portarlo a casa.

Sentito quattro anni dopo, il 27 novembre 1995, in procura da Vigna e Canessa (vedi), così Ricci aveva risposto a domanda:

Ho avuto un Maggiolino Volkswagen color aragosta: a memoria l'ho posseduto intorno alla metà degli anni '80. Mi è capitato, a volte, con quella macchina di ríaccompagnare il PACCIANI da S. Casciano a casa a Mercatale.

Quella della Wolkswagen Maggiolino di colore rosso era una falsa pista, e certo, sorprende un po' che un segugio come Giuttari non se ne fosse accorto subito. Probabilmente il verbale del 5 novembre 1991 gli era sfuggito.