venerdì 9 agosto 2019

Pittori, ville e servizi segreti (2)


Dopo le sette i servizi. È quanto accadde all’inizio di settembre 2001, quando i mezzi d’informazione s’inebriarono della nuova ipotesi investigativa, arricchita dal coinvolgimento del notissimo personaggio televisivo nonché criminologo Francesco Bruno.

La Carlizzi precede tutti. All’origine sempre lei, la sedicente “giornalista investigativa” Gabriella Pasquali Carlizzi, che un irresistibile impulso interiore costringeva a mettersi sempre in mezzo a ogni storia giudiziaria importante. Era stata lei, per prima, a fiutare la pista già da almeno tre anni, come dimostra questa lettera inviata a Giuttari il 9 marzo 1998, pubblicata nel libro il Mostro «a» Firenze. Conviene riportarne il testo completo, a suo modo assai gustoso, dal quale il lettore può anche farsi un’idea di quali fossero i metodi della donna, le cui segnalazioni partivano quasi sempre dalla lettura e dalla valutazione di documenti pubblici, in questo caso un libro.

Ill.mo Dr. GIUTTARI, faccio seguito a quanto già riferito telefonicamente al Suo vice – Dr. LA MATINA, per significarle quanto segue:
alcuni mesi fa ebbi l’occasione di leggere un libro intitolato “coniglio il martedì” il cui autore è tale Aurelio MATTEI. Dalla lettura analitica del testo, non ebbi dubbi che, il redattore dell’opera, si riferisse ai delitti attribuiti al cosiddetto mostro di Firenze insinuando, nel lettore, elementi tali da far intendere l’esistenza di una organizzazione – nonché di un movente da parte di chi, così ben informato sui fatti, potrebbe essere indicato o facente parte dell’organizzazione medesima, o depositario di verità ancora oggi occultate dagli organi inquirenti.

Da vero segugio, la Carlizzi si mise sulle tracce dell’autore sfruttando le poche informazioni presenti sul libro. Una notevole faccia tosta e l’aiuto di una delle sue numerose conoscenze la condussero alla meta.

Sentii, pertanto, l’esigenza di contattare direttamente l’autore del testo anche se ciò si rivelò assai difficile non avendo, costui, una diretta reperibilità. Effettuando una ricerca sui nominativi indicati nel testo stesso e circa i ringraziamenti del MATTEI ai collaboratori, risalii allo stesso mediante il nominativo della signora Eleonora SANTORO – all’utenza telefonica nr° 06/….
Riuscii ad ottenere dal MATTEI, presentandomi al telefono con altro nome, un appuntamento – motivando tale mia richiesta con una esigenza di ricerca e di studio riguardo ad alcuni aspetti, di natura criminologica, che emergevano dal suo libro.
Pertanto nella seconda metà dello scorso mese di dicembre, accompagnata da un amico – disposto a confermare il tutto, mi recai in Roma  - ….., 28 dove, con stupore, all’interno indicatomi dal Mattei trovai l’indicazione citofonica di altro ben noto professionista: il prof. Francesco BRUNO; fu questa, per me, un’ulteriore conferma che il contenuto del testo si riferiva, senza ombra di dubbio, ai delitti del mostro di Firenze.

Una volta scoperto l’inganno, Mattei avrebbe anche potuto mandare al diavolo la Carlizzi, ma non lo fece, probabilmente perché lo riteneva pericoloso, sapendo bene che la donna era meglio farsela amica piuttosto che nemica (anche se comunque neppure in questo modo c’era garanzia di risultato).

Entrata nell’appartamento e dopo aver atteso circa 15 minuti, venivo ricevuta, unitamente al mio accompagnatore, dal dr. MATTEI che, riconoscendomi, mi dirottava in una piccola stanza adibita – apparentemente, a ripostiglio; lo stesso, subito mi chiese spiegazioni in merito dichiarandosi palesemente contrariato dal mio espediente, al che io risposi confermando l’unico mio vero intento, cioè incontrarlo.
Chiarito l’equivoco, chiesi subito al MATTEI come mai avesse pensato di scrivere, anche lui e sotto forma di romanzo, fatti e circostanze dettagliati che dimostravano, da parte dell’autore, un bagaglio di informazioni inquietanti; questi, visibilmente irritato e diffidente, precisò – esordendo, che sarebbe anche stato disponibile ad una collaborazione purché non fosse mai emerso il suo nome, pena ampia smentita in tutte le sedi utili. Cogliendo l’occasione chiesi se, a suo avviso, PACCIANI si sarebbe convinto a rivelare notizie circa i mandanti dell’organizzazione criminale, apprendendo – con stupore, che il PACCIANI stesso era solito recarsi – sembra più volte nelle settimane, nello studio esatto in cui mi trovavo col MATTEI che, continuando, riferì di avere forti perplessità sulla longevità del PACCIANI, senza, ad onor del vero, specificare alcunché.

A questo punto Gabriella Carlizzi tirò le proprie conclusioni secondo il proprio stile, evocando la presenza di forze oscure che avevano operato e ancora operavano per ostacolare le indagini.

Poco dopo, mi congedai dal MATTEI con indosso la sgradevole sensazione che, dietro la vicenda del mostro di Firenze, permanevano interessi da parte di poteri occulti e, sicuramente, deviati e quindi lesivi per un sereno accertamento della verità.
Colgo l’occasione per ribadire la mia disponibilità a formalizzare quanto scritto, nonché ulteriori fatti di cui sono venuta a conoscenza nell’ambito della ben nota indagine conoscitiva da me, sempre, condotta unitamente ai miei più stretti e privati collaboratori.

La Carlizzi voleva essere convocata e ascoltata, e nella lettera non mise tutto quello che sapeva. Sapeva per esempio che Bruno, nella sua qualità di consulente del SISDE – i nostri servizi segreti civili di allora – aveva realizzato uno studio sul Mostro, avendo ottenuto da Fioravanti, difensore storico di Pacciani, una copia della perizia difensiva dello stesso Bruno che ne conteneva una parte. E non c’è motivo di dubitare che Giuttari, direttamente o indirettamente, avesse sentito cos’altro aveva da dire. Non che a lui fossero mancate le informazioni di prima mano, però andarle a scovare nell’immensa mole di atti e altra documentazione non era compito facile, quindi una suggeritrice come la Carlizzi gli tornava senz’altro utile.
In ogni caso in quel marzo 1998 non era ancora il momento di mettersi su una pista così impegnativa; e poi, di lì a poco, sarebbe arrivata una lunga sospensione delle  indagini, come già sappiamo.

Il momento dei servizi. Tre anni e più dopo la situazione era notevolmente cambiata. L’ingresso dei servizi segreti, notoriamente malvisti dall’opinione pubblica, avrebbe fatto più che bene alla reputazione della nuova pista, che dopo il rapporto consegnato in procura – ed evidentemente da questa ben accolto – doveva risultare sufficientemente solida, almeno in apparenza. Per di più il SISDE era uno strumento del Ministero dell’Interno, dal quale erano partiti i tentativi di fermare le indagini di Giuttari, la qual cosa s’incastrava alla perfezione con l’ipotesi di poteri occulti che avrebbero ordito trame in difesa di qualche personaggio intoccabile. C’erano quindi tutti i presupposti per tentare il colpaccio, al quale non si oppose Antonino Guttadauro, l’anziano procuratore capo in procinto di andare in pensione di lì a poche settimane. Al ritorno dalle ferie estive il superpoliziotto poté quindi mettersi subito al lavoro.
In un giorno a cavallo tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, in totale segretezza, gli uomini di Giuttari andarono a Roma a perquisire abitazione e ufficio di Aurelio Mattei, il quale confermò di aver collaborato con il SISDE in qualità di psicologo, e di aver ricevuto da Bruno copia di un dossier riservato sui delitti del Mostro, dal quale avrebbe ripreso qualche idea per il proprio romanzo. Subito dopo fu la volta di Osvaldo Pecoraro, la persona che tre anni prima aveva accompagnato la Carlizzi dallo stesso Mattei. Si trattava di un funzionario del Ministero dell’Interno, di buon livello, noto anche per essersi candidato alle recenti elezioni comunali di Roma, quindi un pesce già più grosso di Mattei. Infine toccò al peso massimo, se non altro a livello di notorietà televisiva, Francesco Bruno, la cui casa e i cui due uffici furono frugati da cima a fondo, con un bottino di vari scatoloni pieni di carta, anche se in massima parte straccia, almeno in rapporto alle indagini. Era il 4 settembre.
Forte della sua reputazione professionale e mediatica, il criminologo si risentì con fermezza davanti ai giornalisti, sostenendo che avrebbe aperto i propri archivi anche a una semplice richiesta (pensa il maligno: ma in questo modo non ci sarebbe stata la clamorosa notizia della perquisizione, la qual cosa forse non sarebbe stata altrettanto appetibile per chi era interessato alle attenzioni del pubblico). In ogni caso per lui non era ancora finita, poiché due giorni dopo Giuttari lo sottopose a un estenuante interrogatorio durato ben nove ore. Bruno stavolta capì che stava rischiando davvero e che Giuttari non ci avrebbe messo poi molto ad accusarlo di essere un fiancheggiatore, se non addirittura un mandante. In ogni caso alla fine i due si misero d’accordo e all’uscita fecero dichiarazioni tutto sommato in linea tra di loro anche se con ben diverso stato d’animo, come riporta “la Repubblica” del 7: “Abbiamo fatto un bel passo avanti, il cerchio si stringe” (il trionfante Giuttari), “Sì, ho offerto elementi davvero utili alle indagini” (l’inebetito Bruno). In realtà gli eventi successivi avrebbero dimostrato che in quelle nove ore, rispetto alla vicenda del Mostro, si era parlato del nulla. A giudizio dei giornali l’argomento principale era stato senz’altro quello degli ormai noti dossier, della cui marea di sciocchezze si è già scritto più che abbastanza qui, e dei quali in seguito un Giuttari molto opportunista avrebbe cercato di sfruttare gli accenni a una pista satanica, del tutto differente però dalla sua.
Per alcuni giorni i mezzi d’informazione si gonfiarono di notizie clamorose – che si deve pensare fossero filtrate non a caso – nella totale assenza di smentite. Qualche titolo dagli articoli del “Corriere della Sera”, il più autorevole tra i quotidiani, basti a darne l’idea: “Mostro, il Sisde sapeva: c'erano mandanti”, “Mostro, mezzo miliardo del Sisde per coprire la setta”, “Mostro, caccia ai dossier degli 007 travestiti da amanti”, “Nell'85 uno 007 donna scrisse: delitti di gruppo, dietro c'è una setta”. Per fortuna qualche giornalista rimase con i piedi per terra. Come Massimo Gramellini, che nella sua rubrica quotidiana “Buongiorno” sulla “Stampa” del 7 settembre, pubblicò alcune considerazioni di buon senso intitolate “L’industria del Mostro”:

Da noi nemmeno i delitti restano a lungo una cosa seria. Misteri eternamente irrisolti s’infrangono a ondate sulle prime pagine, scivolando verso il cabaret. È di nuovo il turno del Mostro di Firenze, col coinvolgimento immancabile dei servizi segreti, che in Italia sembrano aver fatto di tutto, tranne scoprire in anticipo che i black bloc non erano dei sagrestani. Il circo dell’inchiesta si è arricchito di nuove attrazioni, provenienti da altri fortunati “serial”. C’è la studiosa di sette sataniche che sostiene di aver risolto i casi Moro, via Poma, Marta Russo e ora Pacciani, ma anziché in clinica viene portata in procura per un interrogatorio. C’è lo psicologo del Sisde (i servizi!), già accusato di aver ipnotizzato la bidella della Sapienza come Giucas Casella e ora perquisito per aver descritto con precisione sospetta le imprese del Mostro in un romanzo semiclandestino. E c’è il criminologo della tv che ha difeso Pacciani: perquisito e interrogato pure lui.
Nessuno mette in dubbio la buona fede degli investigatori: è il meccanismo perverso che finisce per mandare in crisi anche loro. Come esiste il sospetto che non si trovi un rimedio contro il cancro perché il giro d’affari delle cure è troppo alto, così è lecito supporre che la mancata soluzione dei misteri italiani alimenti un’industria del mostro, che ha il suo indotto di interessi e gioca sulla morbosità inestinguibile del pubblico. 

Nello stesso giorno usciva su “L’Unità” un corsivo del filosofo Sergio Givone dal titolo “Il mostro di Firenze tra sette e 007”.

E così, dopo la coda del diavolo, spunta anche quella perfin più diavolesca dei servizi segreti. Non era bastato ipotizzare che dietro il mostro di Firenze ci fossero personaggi arcimostruosi: ricchi professionisti, imprenditori, docenti universitari che abbisognando di organi sessuali di giovani donne per certi riti satanici non trovarono di meglio che commissionarli a Pacciani e ai suoi compagni di merenda.
Adesso, a distanza di poche settimane da quelle sensazionali rivelazioni, vengono tirati in ballo i servizi segreti; che, abituati come sono a coprire e a depistare, farebbero lo stesso anche con le indagini sul mostro. Ma non basta. Tutti, credo, sono disposti a riconoscere che l'autore di un crimine è un criminale. Ma di fronte a crimini tanto orrendi come quelli commessi dal mostro di Firenze deve essere sembrato agli inquirenti troppo banale attribuirli a dei criminali. E allora che cosa ti vanno a supporre? Chi potrebbe essere il colpevole? Non un criminale qualsiasi. Bensì un criminologo. Vale a dire: un criminale alla seconda potenza.
In tutto ciò c'è una logica. Una volta esclusa l'idea che l'orrore più smisurato e più difficilmente immaginabile possa essere cosa nostra, cosa che può appartenere a ciascuno di noi, non resta che imboccare la pista dell'eccesso e dell'iperbole infinita: il mostro è uno che più mostro non c'è. Ora, io capisco bene che un pensiero molto difficile da accettare è che il vicino di casa, tanto una brava persona, sia uno stupratore di minorenni, o che i due cari ragazzini di buona famiglia siano gli esecutori dello sgozzamento di tutta la famiglia medesima, o che quei padri esemplari siano zelanti complici di uno sterminio di massa. Ma non è quanto la realtà ci mette continuamente sotto gli occhi?
Non dubito della buona fede di nessuno. Tantomeno degli inquirenti. I quali in ogni caso sono tenuti a non trascurare nessun indizio, anche il più labile o inverosimile. Dubito però, se la logica è quella, che si torni con i piedi per terra. Dobbiamo aspettarcene delle belle. Almeno sul piano delle ipotesi fantastiche e visionarie. Si dirà che tutto quel che si poteva inventare è stato inventato. Figuriamoci. Per esempio, l'affermazione che il mostro di Firenze può essere uno qualsiasi è facile ritorcerla contro chi la fa. Ossia l'autore di questo articolo. Se fosse lui il mostro? O quantomeno uno che ha interesse a coprire, a depistare…?

Incidentalmente vale la pena notare che quella di Givone fu una profezia presto avveratasi con l'arresto di Mario Spezi.
Ma torniamo a quei giorni di delirio esoterico e complottistico, anzi, torniamo ai dossier di Bruno, dove improbabili ragionamenti da Settimana Enigmistica avevano portato il criminologo a supporre l’esistenza di un luogo di cura, in una costruzione antica dotata di cappella, dove avrebbe bazzicato il Mostro. Tale clinica, secondo lui, doveva trovarsi o a Bagno a Ripoli o a Pontassieve, quindi in zone ben lontane dall’ex casa di riposo della famiglia C., che era invece a San Casciano e la cui costruzione risaliva appena agli anni ‘70. Ma i nostri investigatori dovettero credere che alla grossa Bruno ci avesse azzeccato lo stesso. Questo almeno si deduce da un commento di Paolo Canessa pubblicato da “Repubblica” dell’8 settembre: “Se l’avessimo saputo noi, se il rapporto ci fosse stato trasmesso chissà cosa avremmo trovato nella villa”. Del resto fu anche quello che capì il giornalista autore dell’articolo, Gianluca Monastra, poiché scrisse chiaramente che il riferimento era alla villa delle signore C., il cui triste momento, quindi, stava per arrivare davvero.

Il momento della villa. Quando Giuttari aveva messo piede per la prima volta nella villa dei C., nel maggio-giugno 1997, la famiglia era composta dal signor L. di 75 anni, dalla signora G. di 70, dalla loro unica figlia A. di 35, dalla figlia quattordicenne di questa e infine da R., fratello di G., 76 anni. Vivevano tutti in una porzione di 300 mq ricavata dalla loro proprietà, dopo avervi aperto nel 1992 un hotel ristorante a quattro stelle. Pochi mesi dopo la visita della polizia e i successivi interrogatori il signor L. morì d’infarto – anche se non è automatica una correlazione tra i due eventi, non si può certo negare che quel che era accaduto l’avesse scosso –  e la gestione dell’hotel fu data in affitto. Con il signor R. che si era già trasferito da tempo a qualche decina di chilometri, a Greve, le tre donne, rimaste sole, chiusero il loro appartamento e andarono a Roma, dove A. sperava di poter valorizzare le proprie capacità di scrittrice e pittrice.
Erano i tempi in cui le illazioni sul pittore e sulla villa uscite su Compagni di sangue e riprese da giornali e televisione avevano gettato discredito e sospetto sulla famiglia C., quindi si può immaginare che la loro dipartita da San Casciano ne fosse stata incentivata. In ogni caso vivere con quel peso sulle spalle non era facile neppure a Roma, dove le poverette tentarono di uscire dalla brutta situazione – ebbene sì, in modo poco ortodosso, ma chi nella loro situazione non avrebbe fatto altrettanto? – scrivendo a un paio di ministri (rintracciati in seguito dalla polizia, i fax avrebbero contribuito alla favola dei poteri forti scatenati contro Giuttari).
Arrivò pian piano il 2001, e i guai per la famiglia C. salirono sempre più di livello. Il primo scalino fu quello dell’apertura di un procedimento giudiziario, il 6402/01, per rapina, sequestro di persona e calunnia in seguito alle accuse del pittore C.F., alle cui bugie si volle credere, soprattutto perché consentivano di arrivare dove si voleva arrivare: una nuova e ben più approfondita perquisizione di tutte le proprietà dei C..
Prime due tappe, il 24 settembre 2001, Roma e Greve. Seguiamo direttamente l’efficacissimo racconto del signor R.:

Dopo anni d'inferno, terribilmente abbattuti moralmente per colpa di queste pazzie, nuovamente una mattina alle otto nella casa di Roma arrivarono gli agenti e fecero una perquisizione massacrante che durò fino al tardo pomeriggio. Mia nipote, che all’epoca aveva diciannove anni, ebbe diversi collassi e per due volte gli agenti chiamarono di loro iniziativa l’ambulanza, perché si resero conto dello stato in cui era ridotta; mia sorella e le mie nipoti passarono quella giornata piangendo disperatamente, per l'umiliazione che stavano subendo, non capendo il perché di tanta barbarie che si era accanita su di loro. Contemporaneamente vennero a perquisire la mia abitazione vicino a Greve; cosa potevano pensare di trovare del mostro a casa mia? Un ottantenne maestro di scacchi, ex partigiano, grande invalido di guerra di prima categoria, diploma d'onore al valor civile, con la salute a pezzi per aver combattuto per la libertà d'Italia? Nel mio appartamento non trovarono nulla ovviamente, io cercai di prendere la perquisizione con forza e filosofia, ma per la mia famiglia a Roma fu molto più dura.

A San Casciano sarebbe andata ancora peggio, molto peggio.

Quel giorno eravamo ancora agli inizi di tutte le torture psicofisiche che avremmo dovuto subire: verso le 18, quando ebbero finito di perquisire la casa di Roma di mia sorella ed aver sequestrato cose che non avevano assolutamente alcun nesso con il Mostro di Firenze, gli agenti dissero le seguenti parole: “ora o vi mettete in viaggio con noi per Firenze, oppure andiamo lì da soli e spacchiamo tutte le porte”; figuriamoci G. e le altre se in quelle condizioni – senza mangiare né bere tutto il giorno – potevano essere in grado di affrontare un viaggio di centinaia di km con la piccola ridotta in quel modo ed anche loro che non avevano fatto altro che piangere.
Alla fine il nostro avvocato, con il quale eravamo in collegamento telefonico, grazie ad una grande pressione riuscì a far rimandare al giorno seguente, però, “se avessimo tardato anche solo di 5 minuti all'appuntamento”, dissero che avrebbero cominciato “a buttarci giù le porte”. Alle 4 del mattino mia nipote A. e mia sorella si misero in viaggio lasciando lì da sola nella casa del mare la mia pronipote disperata, atterrita, sotto shock, immaginate con che stato d'animo! Arrivarono all'appuntamento con mezz'ora d'anticipo e gli agenti con mezz'ora di ritardo!

Prima di dedicarsi all’appartamento, gli agenti vollero frugare sei casette di legno ubicate all’esterno, il cui contenuto, ricordi di famiglia e beni di valore come quadri e mobili d’antiquariato, furono ammassati senza alcun riguardo sull’erba.

Vollero cominciare a perquisire le 6 casette prefabbricate che abbiamo all'interno di un recinto in giardino, dove custodivamo centinaia di oggetti, perché in casa non c'è mai stato abbastanza spazio; mia sorella e mia nipote in lacrime, disperate e distrutte, non trovarono le chiavi, così gli agenti presero il piccone e iniziarono a prendere a picconate tutte le porte. G. e A. chiesero continuamente agli agenti, in particolare al dottor Vinci che quel giorno fu il comandante di tutto questo: “ma poi la rimettete dentro questa roba vero!? Non la vorrete lasciare qui fuori?!”. E lui rispondeva con tono molto rassicurante, mettendogli una mano sulla spalla “ma che scherza signora stia tranquilla, rimetteremo tutto dentro, glielo prometto, non si preoccupi, non si preoccupi”.
Poi dopo molte ore gli stessi agenti cercarono di dissuadere Vinci dal continuare a buttare tutto fuori perché si erano resi conto che non c'era nulla che poteva aver a che fare con il mostro “dottò basta qui non ce sta nulla!”, ripetevano, ma lui gli ordinava di continuare dicendo: “no, no, tirate tutto fuori”.

Dopo il crudele scempio delle casette fu la volta di quello, ancora più crudele, dell’appartamento.

E così, quando veramente tutto fu fuori, Vinci disse che ora bisognava andare a perquisire tutto l'appartamento; mia sorella e mia nipote lo supplicarono di far rimettere prima tutta la roba dentro, ma lui promise che l'avrebbero fatto dopo.
Perquisirono nuovamente tutto l'appartamento; si ruppe un tubo dell'acqua che incominciò ad allagare tutto, così mia sorella si ripromise di provvedere a chiamare un idraulico per ripararlo non appena gli agenti se ne fossero andati. Appena terminata la perquisizione alle ore 20 circa, stremate, a digiuno da due giorni e sotto shock, il Dottor Vinci disse, sempre con quel suo tono falsamente confidenziale: “venite signore, venite a parlare fuori che vi devo dire una cosa in privato”. In realtà non gli doveva dire proprio niente e una volta che ingenuamente furono fuori, con tono secco, girandosi verso un agente, disse: “chiudi”.

L’efficacia delle parole dirette del signor R. ne sconsiglia qualsiasi sunto.

Gli agenti chiusero velocemente il portone blindato, presero le chiavi sia di casa che della recinzione delle casette prefabbricate e se ne andarono velocemente senza nemmeno considerarle. G. zoppicando e piangendo cercò di seguirli fino alle auto: “ma cosa fate ci avete rubato le chiavi, le chiavi sono nostre, noi vogliamo rientrare in casa nostra! Non potete farci questo! Dove andremo a dormire? Come Dottor Vinci, come?! Avevate promesso che avreste rimesso tutta la nostra roba dentro! Non potete lasciarla tutta fuori così, la rimettiamo dentro noi chiamiamo qualcuno, lo paghiamo noi, permetteteci almeno di chiamare un idraulico! La casa si sta allagando tutta! Per favore! Per favore! Non potete! Tutti i nostri mobili si sciuperanno!”
A., che essendo più giovane camminava meglio, correndo riuscì a raggiungerlo davanti all'auto e lui girandosi disse: “se cercherete di rimettere a posto anche un solo spillo sappiate che c'è l'arresto”. E poi se ne andò con tutti gli agenti impassibili, senza preoccupazione alcuna, senza rispondere, lasciandole lì fuori di casa pietrificate dallo shock. Mentre faceva manovra, con una forte sgommata per andarsene assieme agli altri agenti abbassò il finestrino e tirando fuori il braccio con tono beffardo disse: “state tranquille, state tranquille, le chiavi le teniamo noi! Ci vediamo a via Zara!”.

Le povere donne non poterono far altro che tornare a Roma, dove la figlia di A. aspettava preoccupata. Continua il grido di dolore del signor R.:

Ci rivolgemmo ad un avvocato che da Roma fu accompagnato a Firenze, alloggiando tutti in hotel – l'avvocato in centro e loro in un altro – per parlare con il PM e pregarlo di far sì che i nostri oggetti fossero rimessi al coperto. Canessa gli promise che avrebbe fatto rimettere tutto dentro. L'avvocato ci disse che era stato molto gentile e che “dovevamo star tranquilli” e poi aggiunse che gli aveva promesso che forse ci saremmo salvati dalle “ruspe che erano pronte a scavarci tutto il giardino”, in quanto Canessa gli aveva detto che aveva questa idea da tempo, “ma comunque dovevamo stare tranquilli”.
Ci sentivamo veramente presi in giro, ci venne un colpo a sentire queste cose, al solo pensiero che le nostre amatissime piante della nostra amatissima terra potessero essere violentate ed oltraggiate come lo eravamo noi. Ci sentimmo caduti nel burrone del delirio, nella spirale della pazzia, caduti nella barbarie giuridica di un mondo falsamente civile e progredito, dove il potere dovrebbe essere al servizio, guidato e governato dalle leggi di rispetto per l'essere umano, l'innocenza, la libertà. Capimmo che eravamo ancora ai tempi di Nerone, del Colosseo, dei Vandali, e di tutte le dittature anche del secolo scorso sparse per il mondo e quando un innocente è in pericolo lo Stato non c'è, anzi....
Il giorno dopo – visto che gli agenti non arrivarono a rimettere la roba al coperto come aveva promesso Canessa – facemmo una conferenza stampa con i nostri due avvocati e molti giornalisti, proprio lì fuori della recinzione delle casette prefabbricate dove attraverso la rete si vedevano le tonnellate di roba buttata all'aperto. Conferenza che però ci fu oscurata.

Da Bruno Vespa. Mentre la povera famiglia C. cercava inutilmente di far sentire la propria voce, quella stessa sera, 26 settembre 2001, il salotto di “Porta a Porta” fu interamente dedicato alle nuove indagini sui delitti del Mostro di Firenze. Quasi due ore di grottesco spettacolo, in bilico tra sorrisetti e battutine di Vespa e toccanti interviste ad alcuni familiari delle vittime, illusi dalla speranza nelle nuove indagini. In mezzo mille chiacchiere sulle fantasiose ipotesi esoteriche e complottiste, con i due attori principali, Giuttari e Bruno, impegnati a minimizzare le loro profonde divergenze, e vari comprimari.
A perorare la causa della pista satanica c’erano Gabriella Carlizzi, arrivata forse al momento di massima gloria, che buttò sul tavolo la sua ipotesi della presenza di una setta di tipo “esoterico-massonico” –  in pratica la famigerata Rosa Rossa – e l’antropologa Cecilia Gatto Trocchi, la quale, interpellata sul noto fermaporte a forma di piramide tronca trovato a Calenzano, lo qualificò come un “simbolo che ci riporta nell’ambito dell’occultismo segreto”. Va segnalato anche un intervento del giornalista Fiasconaro, seduto tra il pubblico, con la sua storia di un “misterioso signore tedesco” che si sarebbe “impicciato di questa setta satanica”, già raccontata a Giuttari e della quale poi non si è saputo più nulla, quindi anche qui solo fuffa. Infine, sempre sul fronte satanico, non si può tacere dei balbettamenti di Carlo Lucarelli, che a precisa domanda di Vespa sul perché avesse sposato la nuova teoria non seppe mettere insieme una sola frase convincente. Nella sostanza, non lo sapeva neppure lui.
Sul fronte opposto c’erano gli avvocati storici di Pacciani, Pietro Fioravanti e Rosario Bevacqua, ai quali non fu dato troppo spazio. In particolare il primo cercò di dimostrare, conteggi alla mano, che in realtà i soldi di Pacciani erano giustificati dalle entrate per il suo lavoro, in un lucido intervento tra i pochi da salvare, mentre Bevacqua si perse nel preservativo annodato di Mainardi.
Una parte della trasmissione fu dedicata al pittore e alla villa, dove, a onor del vero, Bruno Vespa dette il meglio di sé, cercando di ottenere da Giuttari delle informazioni che potessero giustificare gli eventi in corso. Invano, poiché il superpoliziotto si trincerò dietro l’impossibilità di poter parlare delle indagini. In compenso furono trasmesse tre interessanti interviste registrate qualche giorno prima, documenti senz’altro molto validi per una futura ricostruzione storica. Nella prima C.F. espose la propria versione, raccontando di essere stato drogato e derubato di ogni cosa dalle proprietarie della villa: mobili, due preziosi violini, un centinaio di quadri a olio e un migliaio di disegni per un valore totale di minimo 500 milioni di lire! Ed ecco il perché non aveva denunciato tutto alla polizia: “Mi hanno così fatto paura… dicendo che loro sono amici con i poliziotti… che mi fanno arrestare…”. A domanda se avesse avuto prova che le perfide proprietarie della villa conoscessero i responsabili dei delitti rispose: “Forse lo conoscevano perché mi sembra che era suo impiegato… giardiniere…”, intendendo Pacciani, il che rende bene l’idea di quel che lo spaventato pittore effettivamente sapeva: nulla.
Fu poi trasmessa un’intervista ad A., registrata prima dell’inizio della perquisizione, dove la donna lamentò il linciaggio dei mass media, e attribuì giustamente l’inizio dei guai della propria famiglia alla visita di Gabriella Carlizzi del 1995, della quale si è già detto. Infine fu la volta della signora G., intervistata a perquisizione in corso, la quale ingenuamente credeva che si stessero soltanto cercando altri quadri di C.F..
La registrazione completa della puntata è disponibile su Youtube (vedi), quindi il lettore può gustarsela con calma. Prima di abbandonare l’argomento è però il caso di segnalare un piccolo ma assai significativo episodio. Fin dall’inizio della trasmissione si notava sul tavolo di Vespa – per il resto sgombro – un piccolo libro. Era il ben noto Compagni di sangue, pronto per esser tirato fuori durante il successivo collegamento con Lucarelli, verso la fine, come poi sarebbe avvenuto. Ebbene, dopo neppure cinque minuti, Giuttari trovò il modo di ricordare a tutti che quel libro l’aveva scritto anche lui. A domanda sulla morte di Pacciani da innocente ecco l’inizio della sua risposta: “Io spero che questa sera qui, nella mia veste di chiaramente capo della squadra mobile e non già di scrittore, perché vedo il libro sul suo tavolo…”. Missione compiuta, poiché Vespa prese in mano il libro e lo presentò, indicandone autori e titolo. Ognuno dia la propria interpretazione dell’accaduto, va in ogni caso messo in rilievo un dato di fatto: in quel momento la propria futura carriera di scrittore doveva stare molto a cuore a Giuttari, se si pensa – ma ci torneremo – che era in fase di stampa il suo primo romanzo, Assassini a Firenze, distribuito in qualche migliaio di copie di lì a tre mesi attraverso la rivista Panorama. Risulta quindi oggettivamente ineliminabile il sospetto di una perversa interazione tra interessi dello scrittore e doveri dell’investigatore.

Perquisizione seconda puntata. Quel medesimo 26 settembre terminò la perquisizione nella villa, con la raccolta del seguente bottino: “Libri, riviste e ritagli di giornale, una vecchia spada, altri oggetti da esaminare con cura e attenzione nelle prossime ore. «Materiale molto interessante» dicono in questura” (“la Repubblica”, 27 settembre 2001). In realtà non era stato trovato nulla, e per qualche giorno gli inquirenti cercarono di assorbire il colpo, tra l'altro tornando a interrogare il bugiardissimo C.F. che continuò a illuderli con le solite balle. Intanto si preparavano ad alzare il tiro, con l’intervento di sofisticate apparecchiature in grado di scoprire vani nascosti dietro i muri. Dal “Tirreno” del 1° ottobre:

Forse domani, forse dopodomani ma le ricerche nella villa dei misteri riprenderanno. Perché è studiando le mappe catastali che il capo della mobile fiorentina Michele Giuttari è convinto che qualcosa non torni nella dislocazione di stanze e volumi dell'ex casa di riposo […]. Non una ricerca qualsiasi ma con strumentazioni sofisticate in grado di segnalare spazi vuoti, anche nicchie, senza la necessità di abbattere le pareti.
Cosa cercano gli uomini della Mobile e cosa sospettano di aver trovato? Una stanza murata che le proprietarie […] si affannano a sostenere inesistente. Una stanza vuota, chiusa chissà quando, che i ben informati di questa incredibile indagine dicono essere luogo di misteri e segreti. Se davvero la stanza dovesse esistere sarebbe una conferma importante, forse essenziale all'ultima frontiera dell'indagine che per capire movente e mandanti di almeno sette degli otto duplici delitti attribuiti al cosiddetto «mostro di Firenze», ha imboccato la pista della setta esoterica.

Il ridicolo evidentemente non spaventava i nostri investigatori, che forse credevano di essere finiti dentro la trama di un film di Dario Argento. Che le pareti interne della villa avessero subito qualche modifica si poteva giustificare con gli adattamenti che si erano resi necessari per la trasformazione in hotel e la separazione della zona privata. Invece no, poteva esserci una stanza segreta, forse la cappella ipotizzata da Bruno, al cui interno la setta avrebbe officiato le proprie messe nere. Un vero delirio, insomma, a causa del quale i nostri soldi di contribuenti furono ulteriormente scialacquati dall’affitto delle mirabolanti macchine che potevano vedere attraverso i muri. Ma neppure la vista a raggi X di Nembo Kid, alias Superman, sarebbe riuscita a trovare ciò che non c’era.

I cerchi di pietra. Effettuati anche gli ultimi e inutili tentativi, finalmente in procura si resero conto del madornale errore in cui erano incorsi. Proprio in quei giorni c’era stato un cambio al vertice, con l’andata in pensione di Antonino Guttadauro e la nomina al suo posto di Ubaldo Nannucci, per il momento solo come reggente, quattro mesi dopo in pianta stabile. Il 4 ottobre, fino a tarda sera, si discusse sul da farsi, si può immaginare in quale clima di sconforto e confusione. Il nuovo procuratore si sarebbe presto dimostrato molto meno disponibile del precedente ad assecondare le ipotesi romanzesche di Giuttari, ma in quei primi tempi di mandato provvisorio non si notarono cambiamenti sulla linea investigativa, e ufficialmente si continuò a inseguire la fantomatica setta.
Nei giorni e nelle settimane successive Giuttari e la procura avrebbero potuto contare sulla comprensione dei giornali, probabilmente indotti dalla loro cattiva coscienza a non infierire. In ogni caso l’opinione pubblica non poteva essere lasciata in astinenza, dopo la sbornia satanica. Si decise quindi di far buon viso a cattiva sorte, ostentando la massima sicurezza, e probabilmente nella stessa riunione del 4 fu decisa l'esposizione di qualche scarto di magazzino a beneficio di giornalisti e loro lettori. Insomma, le indagini andavano avanti, nonostante tutto. Scriveva “la Repubblica” del 6 ottobre:

Prima era solo un'ipotesi, adesso invece c'è “la certezza che dietro i duplici delitti del mostro di Firenze c'era un movente esoterico. Ora non si tratta più di indizi, abbiamo le prove documentali”. Lo ha detto oggi il capo della squadra mobile, Michele Giuttari.
Quello che Giuttari ha definito stamattina “il tassello definitivo” è costituito da alcune foto che ritraggono tre cerchi simbolici, di una novantina di centimetri di diametro, realizzati con pietre chiare a pochi metri dallo slargo dove le ultime due vittime del mostro, i turisti francesi Nadine Mauriot e Jen Michel Kraveichvili, si erano accampati con la tenda appena arrivati a Firenze. Secondo esperti di esoterismo, i tre cerchi rappresenterebbero tre momenti diversi di una sorta di rituale che vedeva al centro la coppia francese: l'individuazione delle vittime (cerchio aperto), l'ordine della loro esecuzione (cerchio di pietre e pelli di animali bruciati) e, infine, la avvenuta uccisione (cerchio con bacche e una croce di legno).
Le foto erano state scattate con una Polaroid da un guardiacaccia che aveva notato sul costone di Monte Morello, nel comune di Sesto Fiorentino, nei pressi di una delle ville appartenute alla famiglia Corsini, la tenda con i due ragazzi. Il guardiacaccia li aveva pregato di allontanarsi, perché in quella zona non era possibile campeggiare. Era il 4 settembre 1985.
Sei giorni dopo, il 10 settembre, vedendo sui giornali le foto delle ultime due vittime del mostro li aveva subito riconosciuti come la coppia trovata sul pendio di Monte Morello. Così era tornato nella zona e aveva scoperto i tre cerchi, li aveva fotografati, e aveva consegnato le foto e il suo racconto ai funzionari del commissariato di Sesto Fiorentino. In uno dei cerchi aveva trovato anche una cartuccia di un proiettile calibro 22 con la stampigliatura della serie (serie H), la stessa dei proiettili utilizzati dal serial killer. Questo materiale però era rimasto "nascosto" tra le migliaia di carte raccolte nelle indagini, senza risvegliare alcun interesse.


In realtà i guardiacaccia coinvolti erano tre, il resoconto giornalistico fonde assieme i loro differenti racconti. Tentiamo quindi di mettere un po' d'ordine, aiutandoci con la nota sullo stato delle indagini che Giuttari avrebbe compilato per la procura un paio di mesi dopo, il 3 dicembre 2001.
Alle 7:15 del 4 settembre 1985 le due guardie venatorie Gianni Zoppi e Francesco Cellai avevano mandato via da uno spiazzo di via Carmignianello, nel comune di Sesto Fiorentino, una coppia di campeggiatori, essendo in quel luogo vietato il campeggio. Zoppi aveva poi riconosciuto dai giornali la coppia uccisa a Scopeti, comunicando immediatamente il fatto al commissariato del paese (10 settembre).
La cartuccia era stata trovata soltanto una ventina di giorni dopo, il 1° ottobre, da una terza guardia venatoria, Andrea Ceri, e non proprio nello stesso punto, ma in una zona boschiva prospiciente. Vicino alla cartuccia l'uomo aveva notato “un mucchio di sassi su cui era stata fissata una croce fatta con due ramoscelli”. Il giorno stesso questa testimonianza e la precedente erano state trasmesse alla SAM con apposita nota.
A seguito di un appello apparso sulla “Nazione” in cui si chiedeva ai cittadini di comunicare eventuali notizie in loro possesso sulla vicenda del Mostro, il 17 luglio 1992 Andrea Ceri aveva inviato un fax a Ruggero Perugini, dove riportava i fatti precedenti. Non è ben chiaro se in detto documento, che non è in possesso di chi scrive, Ceri avesse già fatto cenno anche a numerosi e suggestivi altri elementi che avrebbe poi riferito a Giuttari, e che vedremo tra breve.
A quanto sembra l'interesse di Giuttari per l'argomento iniziò nel settembre 2001, con la lettura del materiale inviatogli dal commissariato di Sesto Fiorentino. Il primo ottobre fu lui stesso a interrogare Andrea Ceri, il quale, come si legge nella nota del 3 dicembre, così dichiarò:

- che nel 1985 praticava il volontariato come guardia giurata volontaria per conto della Federcaccia, con compiti tra l’altro di controllo delle zone di ripopolamento e cattura di Monte Morello, insieme ad un collega, Zoppi Gianni, deceduto verso la fine degli anni 80/inizi anni 90; 
- che nei primissimi giorni del mese di settembre 1985, lo Zoppi gli aveva riferito di avere allontanato da una piazzola due persone, campeggiatori abusivi, poi dallo stesso riconosciute nelle foto dei due cittadini francesi uccisi, 
- che lo Zoppi gli aveva riferito che, entrato in contatto con la Polizia della Questura, si era recato con alcuni operatori nella piazzola in questione, ove avevano rinvenuto tracce dei due francesi (lattine di birra francese e pacchetti vuoti di sigarette di marca francese); 
- che, qualche giorno prima del delitto, si era recato ad eseguire un controllo nella zona boschiva di via di Carmignianello, ove erano solite appartarsi le coppiette. Nella circostanza, aveva notato una struttura fatta con sassi e pietre di forma circolare e, poco distante, altre analoghe costruzioni, all’interno delle quali c’erano bacche e/o ramoscelli di alberi di circa 15 cm posizionati all’interno. Precisava che si trattava di un vero e proprio mosaico, costruito accuratamente con pietre di dimensione media/piccola incastrate tra di loro, di forma circolare e di diametro di 90 cm precise, così come aveva accertato utilizzando una ruota metrica in suo possesso; 
- che la zona in questione era da lui conosciuta come zona “sacra” con riferimento al fatto che era stata utilizzata dagli Etruschi come luogo mortuario, tanto che a poche centinai di metri in linea d’aria si trovano le tombe etrusche “La Montagnola” e “La Mula”; 
- che, incuriosito di tale rinvenimento, si era rivolto ad una signora di Sesto Fiorentino, conosciuta per le sue conoscenze esoteriche, tale Gasperini Rosetta. Costei, invece di dargli una risposta, gli aveva consegnato un libro del ‘700, scritto in francese o latino, affinché trovasse in esso, da solo, la risposta alla sua curiosità. In effetti, all’interno del libro, aveva trovato una figura umana che aveva catturato la sua attenzione per il fatto che su di essa vi erano sovrapposti dei cerchi del tutto simili a quelli da lui rinvenuti. Nell’occasione della restituzione del libro alla Gasperini, questa gli aveva detto che quella figura faceva riferimento ad un rito di magia nera; 
- che, successivamente, in altra occasione, era andato sul posto con un poliziotto di Sesto Fiorentino, tale Lombardi Vittorio, il quale, con una pala, aveva scavato all’interno di uno dei cerchi rinvenendo una porzione di pelliccia che, in base alla sua esperienza di cacciatore, poteva attribuirsi ad un animale e probabilmente a quella di un gatto; 
- che, in altra occasione ancora, era tornato sul posto sempre con lo stesso Lombardi e con un altro poliziotto, tale Picarella, fotografando le circonferenze dei cerchi. Successivamente, sempre in compagnia dei suddetti poliziotti, si era recato nel luogo ove erano stati uccisi i due francesi, per verificare se fossero presenti anche in quel posto dei segni simili, ma l’esito era stato negativo; 
- che, qualche giorno dopo, era tornato nuovamente sul posto del rinvenimento dei cerchi spinto dalla curiosità e, in questa occasione, durante le ricerche, aveva rinvenuto, all’interno di una macchia di vegetazione che dava proprio sulla piazzola, ove erano solite intrattenersi le coppiette, una specie di postazione ben nascosta dalla quale era possibile vedere senza essere notati. In questo posto, aveva trovato una cartuccia calibro 22 con impressa sul fondello la lettera “H”, integra nelle sue parti e senza segni di ruggine od altro, tanto che aveva dedotto che si trovasse lì da poco tempo. Precisava che aveva portato detta cartuccia al Commissariato di Sesto Fiorentino, consegnandola al Picarella, al quale aveva raccontato ciò che aveva scoperto. Precisava altresì di non essere stato preso a verbale né in quella occasione, né nelle altre; 
- che aveva consegnato le foto, da lui scattate e sviluppate, con i relativi negativi, a Picarella o a Lombardi; 
- che della scoperta della “stanza” di arbusti e del ritrovamento della cartuccia, a parte il Commissariato, ne erano a conoscenza la sua ex moglie, Robalti Maria, e l’attuale sua compagna Goretti Giuliana, mentre, ad eccezione dello Zoppi, nessun’altra guardia volontaria era a conoscenza delle sue scoperte; 
- che, nell’anno 1992, aveva inviato un fax al dott. Perugini, così come risultava in questi atti, a seguito di notizie di stampa che riportavano l’invito della Polizia ai cittadini a collaborare. Precisava che, dopo l’invio del fax, era stato contattato telefonicamente ed in modo fugace da qualcuno della Questura, che in seguito non si era fatto più sentire; 
- che era in grado di indicare i luoghi di cui aveva parlato.

Interrogata il 3 ottobre, l'esperta di esoterismo, Rosetta Gasperini, chiarì meglio la parte che la riguardava dichiarando:

- che, qualche giorno prima dell’uccisione dei due turisti francesi, il Ceri Andrea le aveva consegnato 4 foto polaroid, che aveva scattato in una zona vicino a Monte Morello, allo scopo di dare una interpretazione di quello che raffiguravano; 
- che, per interpretare quelle foto, oltre alle sue conoscenze esoteriche, si era avvalsa di un libro che, nell’ambito della sua famiglia, si erano tramandati di generazione in generazione. Precisava che si trattava di un libro del 1812 o del 1814, scritto in parte in latino, in parte in francese ed in parte in italiano; 
- che, a suo giudizio, l’interpretazione delle foto, che spontaneamente consegnava a questo ufficio, era la seguente: il cerchio chiuso rappresentava l’unione di due persone e cioè la coppia; il cerchio aperto rappresentava invece l’individuazione della coppia; il cerchio con le bacche e la croce rappresentava invece l’uccisione della coppia; 
- che aveva riferito al Ceri tale sua interpretazione, manifestandogli le sue preoccupazioni per qualcosa di brutto che stava per accadere; 
- che aveva prestato il libro al Ceri, il quale poi le aveva fatto notare che al suo interno esisteva, a tutta pagina, la figura di un uomo, ritratto in piedi, a braccia e gambe aperte, ricoperta di cerchi concentrici che, secondo la sua interpretazione, toccavano i punti vitali della persona. Precisava di aver riferito al Ceri che quella figura afferiva a riti esoterici; 
- che avrebbe cercato il libro in questione per consegnarlo a questo ufficio; 
- che, insieme alle foto, conservava un foglietto di carta a quadretti, sul quale vi era disegnata una figura geometrica, notata nel libro e che aveva riportata su quel pezzo di carta. Precisava che si trattava di una figura composta da nove cerchietti, collegati tra di loro da linee.

Vennero poi interrogati Carmine Picarella e Vittorino Lombardi (5 ottobre) nonché addirittura Ruggero Perugini (27 ottobre). Questi cadde dalle nuvole, dichiarando di non ricordare quasi nulla su questioni alle quali evidentemente non aveva attribuito alcuna importanza.
I passi precedenti sono una chiara dimostrazione dei danni che fantasie e suggestioni possono apportare a un'indagine. Al di là della fondatezza delle varie considerazioni esoteriche su quelli che, con tutta probablità, erano semplici frangi fuoco allestiti da qualche campeggiatore per abbrustolire salamelle e wurstel, i due poveri francesi uccisi a Scopeti nulla vi avevano avuto a che fare. Non erano loro, infatti, i due individui che il 4 settembre 1985 a Monte Morello erano stati invitati ad andarsene dal guardiacaccia, poiché quel giorno erano appena entrati in Italia, e nelle zone attorno a Firenze sarebbero arrivati soltanto il 7. Lo dimostravano gli scontrini dell’autostrada e delle consumazioni ritrovati a bordo della loro auto, con tutta evidenza non noti a Giuttari e non soltanto a lui.

Scritte sul muro e pipistrelli di plastica. Un altro evento che testimoniò lo stato di confusione in cui, dopo il fallimento della perquisizione alla villa, erano caduti i nostri investigatori fu il sequestro di un pezzo di muro. Ancora da “Repubblica” del 6 ottobre:

La scritta è sul muro del palazzo in via dei Serragli 157. Scura, pennarello a punta grossa. È lì coperta dal telo della polizia, guardata a vista e piantonata come qualcosa di importante, decisivo. Questo è ciò che pensano in procura e questura tanto da decidere di asportare il pezzo di muro su cui è comparsa la scritta per farla entrare direttamente nel processo sui delitti del mostro di Firenze. «Pacciani è innocente, arrestate…». Nient’altro perché il nome da arrestare è cancellato e dunque è impossibile leggerlo con chiarezza. Perché? Da chi? Quando?
Sotto la cancellatura, a prima vista, sembra intravedersi un nome noto. Ma servono perizie di tecnici armati di attrezzatura sofisticata per capirci qualcosa di più. E per realizzare le analisi con calma e lontano dal caos di una strada eternamente assediata dal traffico, è stata presa una decisione inedita quanto drastica: sarà asportato il pezzo di muro. Stamani saranno gli ingegneri dell’opificio delle pietre dure, contattati dalla polizia, a compiere un ultimo sopralluogo e poi pensare all’aspetto tecnico, con tutte le cautele del caso per evitare che il muro si rompa o sbricioli durante l’operazione. […]
Di sicuro l’intenzione è quella di salvaguardare al massimo la scritta ed arrivare al processo con un elemento integro, inattaccabile.

Ma quale processo? Se anche quel nome fu letto nessuno lo conobbe mai. Forse i tecnici e le loro sofisticate apparecchiature scoprirono che, almeno per il burlone che si era divertito nel metterli al lavoro, il Mostro era Diabolik, o magari Macchia Nera.
Lo zampino di un burlone dovette esserci stato anche in un episodio di una quindicina di giorni dopo, quando una segnalazione anonima fece ritrovare una piccola costruzione, non lontana dalla villa dei C., contenente materiale “esoterico”. Gli inquirenti andarono a vedere, trovando quello che così venne descritto in un comunicato ANSA del 23 ottobre 2001:

Tra gli oggetti trovati ci sono alcuni pipistrelli in plastica, rinvenuti fuori dalla porta e uno scheletro in cartoncino con i fili per farlo muovere che era nel cassetto di un tavolo di colore rosso sopra al quale c'erano una candela rossa e un soprammobile in ceramica raffigurante la testa di un gatto. Sulle pareti c'erano strisciate di vernice rossa, apparentemente recenti, mentre un occhio, di colore nero, è dipinto su una delle travi del soffitto. Sulla parete a fianco della porta, sull'esterno, c'è anche il disegno di un fantasma, mentre per terra, fuori, c'erano alcune foglie bruciate. Tutto materiale che sarà sottoposto ad analisi, spiegano gli investigatori, anche per accertare se davvero possa avere una qualche valenza esoterica.


Più che uno scherzo, secondo Giuttari la segnalazione era “un depistaggio” – ma da parte di chi, dei servizi segreti? –, la qual cosa dimostra una volta di più che nella ormai agonizzante pista esoterica il ridicolo non aveva più limiti. 
Verso la fine di quel terribile ottobre sarebbe naufragata anche l’ultima speranza dei satanico-complottisti, quando fu consegnata la perizia sul presunto omicidio di Pacciani, i cui risultati non portarono nulla di buono, nonostante le valutazioni di segno contrario rimbalzate sulla stampa. Insomma, sembrava proprio che la ricerca dei mandanti si fosse arenata in un vicolo cieco. Ma Giuttari aveva già dimostrato di essere un fenomeno nel riuscire a cavarsela in ogni situazione, e forse in questo frangente fu aiutato anche dalla fortuna; in un prossimo articolo si cercherà di ipotizzare se e quanto, fatto sta che proprio in quei giorni, a Perugia, gli si stava aprendo un nuovo e ben più ricco scenario grazie al quale sarebbe riuscito a rimettersi in gioco alla grande.

L’ordinanza del tribunale del riesame. La povera A. e sua madre G. continuarono a tentarle di tutte per salvaguardare la propria roba e la propria dignità ingiustamente violate, dalle conferenze stampa all’appello al tribunale del riesame, senza essere ascoltate da nessuno. “Parlano piangendo, se non piangono strillano, se non strillano si lamentano e le frasi, quelle sì, cadono a pioggia: un uragano sconclusionato”, scrisse con ottusa crudeltà “Il Tirreno” del 30 settembre. Da parte loro, il 15 ottobre, i giudici del riesame respinsero il ricorso che gli avvocati delle due donne avevano presentato contro il decreto di perquisizione. Letta oggi, la relativa ordinanza – subito fatta pervenire ai giornali, che il 20 ne pubblicarono ampi sunti – risulta di una superficialità e faziosità incredibili, soprattutto se si pensa che ormai era di fronte a tutti l’enorme errore commesso dai nostri investigatori, che nella villa non avevano trovato niente. Proviamo a leggerne e commentarne alcune parti.

Va detto che il decreto di perquisizione del Pm si presenta corretto dal punto di vista formale ed esente dai vizi che la difesa lamenta, anche nei motivi scritti nel ricorso, poiché in esso si chiarisce per quali procedimenti penali si sta procedendo (per l’esattezza i procedimenti n. 3212/96 in ordine alle indagini sui c.d. delitti del “mostro” di Firenze e quello a carico delle ricorrenti, avente il nr. 6402/01 per i delitti di cui agli artt. 110, 605, 628, 368 cp commessi in San Casciano Val di Pesa Firenze sino al 1997, così come correttamente è posto il “thema probandum” del mezzo di ricerca della prova costituito da “cose, documenti, scritti, agende, documentazione di ogni tipo e genere, beni mobili, arredi, o comunque tracce pertinenti i reati in ordine ai quali sono in corso le indagini”.

Da queste frasi si comprende come il decreto di perquisizione fosse stato giustificato sia dal procedimento per rapina, sequestro di persona e calunnia aperto contro A. e G. in base alle accuse del pittore, sia per i sospetti che le due donne avessero avuto a che fare con la vicenda dei delitti del Mostro. Ma questi sospetti – il “fumus commissi delicti” – da dove avevano origine?

Ciò premesso va ulteriormente rilevato che sussiste il fumus commissi delicti che ben giustifica l’esecuzione degli atti di perquisizione e sequestro in quanto le due indagini di cui sopra appaiono  connesse, o quantomeno collegate sotto il profilo probatorio, e riguardano un interessante spaccato di indagine incentrato sulla gestione da parte delle due ricorrenti di una casa di riposo per anziani non autosufficienti denominata “Villa […]” ed ubicata nella zona sud di Firenze, già (e non può essere una mera coincidenza) in qualche modo indicata in alcuni atti del Sisde ed in un libro intitolato il “coniglio del Martedì” di altra persona legata al servizio segreto civile, come possibile luogo di esistenza di una setta “esoterica” in qualche modo coinvolta nei delitti del mostro di Firenze (fatti per i quali vi sono state altre perquisizioni il cui vaglio di legittimità è recentemente state sancite da questo Tribunale).

Incredibile ma vero: per i giudici il sospetto che A. e G. avessero avuto a che fare con i delitti del Mostro nasceva dalla lettura dei dossier di Francesco Bruno – dove, come abbiamo visto, oltre alla estrema fantasiosità delle ipotesi dell’autore, peraltro prive di sette committenti, c’era il fatto che la “sua” villa avrebbe avuto caratteristiche del tutto diverse da quella delle due donne – e del romanzo di Mattei, il quale, oltre a essere un’opera di fantasia, con sette esoteriche e ville niente aveva a che fare!
Prosegue imperterrita l’ordinanza:

All‘interno di questo contesto vi sono le specifiche denunzie di tal F.C., pittore di origine svizzera, il quale racconta di aver conosciuto la C.A., di essersi di lei invaghito e di aver abitato per un certo periodo nella predetta villa, ove veniva plagiato, drogato a volte privato della libertà personale (dalla predetta e da sua madre) ed infine spogliato di molti suoi beni ed arredamenti di valore che egli aveva portato con sé.
Il racconto del pittore contrariamente alle apparenze dettate dallo scetticismo del senso comune, appare verosimile poiché ha trovato diversi punti di riscontro nelle indagini in corso che hanno fatto emergere, attraverso la assunzione di informazioni dei dipendenti delle due donne, non solo un quadro assai preoccupante quanto alla gestione della casa di cura, definita come una sorta di “lazzaretto” o “lager” che dir si voglia ove gli anziani ospiti (alcuni parenti stretti di personaggi di una qualche influenza) venivano maltrattati in tutti i sensi, nonostante le alte rette pagate, ma anche in reiterati comportamenti della T. e della C. (nonché del marito di costei) definiti da tutti “gente strana ed inquietante”, forse dedita a pratiche esoteriche occulte e comunque persone che più volte, anche nei confronti dei dipendenti, ricorrevano a metodi violenti ed anche privativi della libertà personale, nel momento in cui sorgevano dei rapporti conflittuali per ragioni di lavoro.
Ancora più significative, per quanto concerne la vicenda del F., sono le dichiarazioni di C.M., imprenditore pratese, che pure lui racconta di essersi invaghito della C. e di aver vissuto vicende del tutto analoghe a quelle del pittare svizzero, in quanto raggirato con perdite di alcune centinaia  di milioni e più volte segregato e privato della libertà personale in stanze della villa in questione.

Come si vede, i giudici ritennero fondate le gravissime accuse del pittore, senza neppure chiedersi il perché, durante i quattro anni in cui l’individuo si era reso irreperibile all’estero e dunque era esente da ogni tipo di costrizione, di tali reati non avesse mai fatto denuncia, se non altro almeno per recuperare i propri beni! Anzi, credettero anche all’imprenditore pratese C.M., del quale parimenti non si conoscono denunce per i millantati torti subiti. Infine non si capisce che cosa c’entrassero con il decreto di perquisizione le informazioni assunte dai dipendenti sulla gestione della vecchia casa di cura, ormai cessata da anni. Ammesso e non concesso che tali informazioni avessero contenuto un fondo di verità – ma la presenza di “alcuni parenti stretti di personaggi di una qualche influenza”, come il padre del procuratore Francesco Fleury, contribuiva semmai a confutarle –  dovevano confluire in un procedimento del tutto separato, che non risulta sia mai stato aperto.
Ma veniamo finalmente alla questione vera, quella dei delitti del Mostro.

Come detto queste vicende si intrecciano con quelle dei delitti sul “mostro” di Firenze, in quanto proprio dalle dichiarazioni di C.M., nonché da altri elementi di prova in atti emerge che il Pacciani Pietro ha lavorato per un periodo presso le due ricorrenti, ed F.C. ha parlato di alcuni vani e stanze “segrete” esistenti nel seminterrato della villa, come possibili luoghi di svolgimento dei riti magici, per i quali si sta precedendo ad opportune ricerche e verifiche, potendosi quindi constatare come la pista della “setta esoterica” in qualche modo connessa con i delitti del mostro, abbia una qualche attinenza con le vicende della gestione della casa di cura di riposo per anziani alla quale, par di dire “maliziosamente” si fa allusione in atti del servizio segreto civile, mai pervenuti, come di dovere, alla Autorità giudiziaria inquirente.
Una impostazione di indagine solida, razionale, che, per quanto spiacevole per le ricorrenti, è doveroso verificare, con tutti i metodi investigativi a disposizione, ivi compresi perquisizioni e sequestri;

Pietro Pacciani aveva lavorato nella villa – ma quando e per quanto tempo? I giudici lo sapevano? Non sembra, poiché si tratta di notizia mai emersa in alcuna documentazione –, la qual cosa determinava l’intreccio delle vicende del pittore, dell’imprenditore pratese e degli anziani maltrattati con quella dei delitti del Mostro! Per di più il pittore aveva parlato di stanze segrete dove si officiavano riti magici, stanze che però, al momento della stesura dell’ordinanza, erano già state cercate con ogni mezzo. Infine i dossier di Bruno, dove il criminologo aveva decrittato gli enigmi lasciati in giro dal Mostro, giungendo a questa sorprendente conclusione: “Cercare in un luogo clinico per non autosufficienti e per anziani intitolato ad una Monica (monaca) o ad una santa suora, a Bagno a Ripoli o a Pontassieve. Intendo fermarmi e vi invio gli elementi per identificarmi”. Ammesso e non concesso che il ridicolo lavoro di decrittazione avesse avuto una qualche validità, i giudici avrebbero fatto meglio a consultare una cartina per scoprire che la villa dei poveri C. era ben lontana sia da Bagno a Ripoli sia da Pontassieve, rispettivamente 30 e 40 km in linea d’aria. Ma per i giudici l’impostazione dell’indagine era “solida, razionale”!
Ecco infine l’incredibile chiusura, dove i giudici dimostrarono di credere alla favola dei poteri forti che avrebbero ostacolato le indagini di Giuttari, cercando di farlo trasferire (per come andarono effettivamente le cose vedere qui).

Tant’è che nelle carte e documenti in attuale sequestro sono stati trovati appunti precisi di date e vicende concernenti le vicende dei trasferimenti patiti dal dirigente della Squadra Mobile di Firenze, dr. Michele Giuttari il quale ha dovuto ingaggiare una complessa battaglia amministrativa per continuare ad investigare sugli aspetti della notissima vicenda, appunti che suscitano un certo senso di inquietudine poiché attestano un fervente interesse da parte delle ricorrenti a che i1 Dr. Giuttari non si interessi più di queste indagini e la ricerca di contatti con personaggi altolocati a questo fine e dovrebbe essere chiarito se questi contatti vi siano stati e se abbiano avuto un grave effetto di ritardo per le indagini medesime.

Come si vede, purtroppo i vecchi tentativi di scrollarsi di dosso l’infamia e la vergogna cercando di fermare in qualche modo i loro persecutori si ritorsero contro la disgraziata famiglia C..

Epilogo di un grande misfatto. Non passò molto tempo prima che la pista della villa fosse dimenticata dai giornali e dai loro lettori, ma la macchina messa in moto dalla leggerezza della nostra magistratura non disponeva di una marcia indietro troppo rapida, e i C. dovettero affrontare la rovina, con anche dei famelici avvoltoi che cercarono di trarne vantaggio (gli affittuari della parte adibita ad albergo). Intanto, per quattro mesi, i loro oggetti continuarono a marcire sotto le intemperie. Così continua il toccante racconto del signor R.:

Passarono i giorni, venne l'autunno, la pioggia, poi la grandine e poi anche l'inverno e la neve e la nostra roba continuò a restare lì nel campo, sulla nuda terra insieme ai nostri cuori, e nessuno del Ministero si fece vivo per aiutarci e rimettere le cose in un giusto ordine di civiltà; perché non esistono solo i crimini compiuti dagli assassini ricercati dalla polizia, esistono anche altri tipi di crimini.
Continuammo a telefonare al centralino di Canessa e di Giuttari, inviammo fax, pregandoli di mettere al coperto almeno la carrozzina di A.C., il mio nipotino morto, ma niente!
Eravamo tanto deboli ed affranti ma con tanta forza ci unimmo tutti e quattro, decidemmo di fare causa agli inquilini che non ci pagavano più l'affitto, le mie nipoti si presentarono al cospetto del giudice in lacrime, le espressero tutto il loro dolore e la loro disperazione, ma sbattendo violentemente il martellino sulla sua cattedra disse “silenzio!”. Tutti gli articoli pieni di menzogne avevano plagiato anche lei??? Poi incredibilmente la sentenza che fu emessa disse che dovevano restare dentro senza pagare per il momento, in quanto lei non accettava la richiesta dell'urgenza, e che avremmo dovuto fare una normale causa civile di anni ed anni per mandarli via!

Quando finalmente i beni furono dissequestrati erano ormai quasi del tutto irrecuperabili:

Dal momento in cui ci avevano sequestrato tutto al dissequestro passarono quattro mesi!! Quando ci fu permesso di riprendere possesso di tutta la nostra roba ed aprimmo la nostra casa fu troppo tardi per moltissimi oggetti: ogni cosa era verde di muffa, ovunque l'aria era terribile, tutto puzzava di marcio, ci sembrò di entrare in una palude, le foto avevano tutte macchie, il tappeto persiano all’entrata si sbriciolò a pezzi, era proprio marcito e il tubo buttava ancora le ultime gocce; trovammo degli enormi fori in molte stanze perché Giuttari e Canessa avevano osato bucare i muri per la loro fissazione di cercare una cappella dove cappella non c'era; fu un ennesimo colpo, un'ennesima ferita, capimmo perché gli inquilini ci telefonavano e ridendo, dico ridendo, ci avevano detto più volte: “Giuttari e Canessa vi stanno buttando giù la casa, si sentono dei rumori di martello pneumatico! Vi buttano giù tutto!”.
Fuori tutto era ormai marcito, fummo costretti a buttare via quasi tutto, come si faceva a recuperare tutti quei ricordi, anche se con tutto l'amore del mondo fu impossibile conservarli, erano ridotti in un modo pietoso. Che colpo quando potemmo rimettere le mani sui nostri oggetti! Quanto ha pianto mia sorella quando ha visto il suo abito da sposa tutto marcio ed ammuffito ed ogni oggetto: carte, documenti, libri, foto erano diventati intoccabili per la muffa, per i muri ed i pavimenti ci vollero quintali di varichina e mesi per ripulire.
Una vicina si alterò e venne a rimproverarci “se non togliete tutte queste montagne di roba marcia mi rivolgerò alle autorità! Il vento fa volare i vestiti, le carte, l'odore di marciume e poi tutto ciò attira i topi!!”. Come se fosse stata colpa nostra, beata lei che aveva da preoccuparsi solo di eventuali topi!


Nel 2002 dall'unico fascicolo aperto contro A. e G. ne fu scorporato uno nuovo, il 5398/02, inerente l'ipotesi di reato di “favoreggiamento personale nei confronti degli ignoti mandanti di omicidio continuato addebitati al c.d. Mostro di Firenze”, mentre il vecchio rimase per la parte che riguardava il presunto sequestro di persona del pittore. Chi scrive non sa come andò a finire con le false accuse del pittore, la speranza è che sia stata fatta giustizia con la condanna dello spregevole individuo. Sul favoreggiamento dei mandanti, invece, l’indagine languì per tre anni, fino a quando gli avvocati delle povere donne minacciarono l'avocazione scrivendo al procuratore generale presso la Corte d'Appello (13 luglio 2005)

G.T. e A.C., sulle quali incombe l'immane e atroce peso di una tanto grave ipotesi di accusa, chiedono che le indagini si svolgano e siano complete, affinché possa cosi essere appurata la verità e possa così essere riconosciuta e dichiarata la loro totale estraneitù all'orripilante catena dei delitti de c.d. 'mostro di Firenze', e pertanto a mezzo dei loro sottoscritti difensori si rivolgono alla S.V.Ill.ma con la presente istanza. I sottoscritti difensori fanno istanza al Signor Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Firenze affinché, verificate e ritenute fondate le suesposte considerazioni, ai sensi dell'art.412 co.1 cpp disponga con decreto motivato l'avocazione delle indagini preliminari nel procedimento penale in epigrafe.

A quel punto il titolare delle indagini preliminari, Paolo Canessa, fu costretto a richiederne l'archiviazione (17 settembre 2005).

Il Pubblico Ministero, visti gli atti di cui all'art. 378 C.P. commesso in Firenze nel corso del 1997. Rilevato che, come emerge dalla lettura degli atti ed in particolare dalle conclusioni della nota di data 28 maggio 1997 della Squadra Mobile della Questura di Firenze, i fatti addebitati alle indagate si fondano esclusivamente su ipotesi di Polizia Giudiziaria che non hanno trovato né al momento della stesura della nota, né successivamente, elementi concreti di riscontro per cui non appare possibile sostenere l'accusa in giudizio in ordine al reato ipotizzato [...] chiede che il Giudice per le Indagini Preliminari in sede voglia disporre l'archiviazione degli atti di cui sopra.

Così continua lo scritto del signor R.:

Sono sicuro che un castigo del genere di lasciare tutti i mobili alle intemperie non lo hanno dato nemmeno ai veri colpevoli, nemmeno ai mafiosi, e poi tutto senza una ragione perché dopo otto lunghissimi anni di graticola lo stesso Paolo Canessa fu costretto a scrivere la verità: che c'era “solo un'ipotesi” su di noi senza uno straccio d'indizio, solo per un'ipotesi abbiamo dovuto subire tutto ciò e molto altro, non avevano il diritto di farci questo. Delle persone estranee a tutto ciò che gli viene attribuito, che vengono trattate così!!! Non si può immaginare il dolore che abbiamo provato!! Questa violenza ha segnato profondamente la nostra vita. Quanto ci è successo dovrebbe far vergognare l'Italia agli occhi di tutto il mondo.

Si stenta a credere che tutto ciò sia accaduto davvero, e che nessuno abbia pagato le conseguenze per simili nefandezze compiute in nome e per conto del Popolo Italiano.


mercoledì 7 agosto 2019

Pittori, ville e servizi segreti (1)

Proseguendo il racconto delle indagini sulla pista esoterica – vedi Il ritorno di Giuttari – verrà qui trattato l’argomento della “villa” che varie volte ha fatto capolino in precedenti articoli. Come vedremo, i proprietari della villa in questione avrebbero subito notevoli disagi dagli ingiustificati sospetti nati a loro carico, e anche se oggi di quei sospetti non rimane traccia alcuna, neppure nelle discussioni in rete, è comunque loro desiderio non essere più accostati alla vicenda del Mostro. D’altra parte non è possibile, per una ricostruzione storica, ignorare quanto è accaduto in quei mesi di follia giudiziaria. Pertanto qui i fatti verranno ricostruiti, ma senza alcun nome, né quello della villa, che verrà indicata semplicemente come “villa”, né quelli dei proprietari, che verranno indicati come “famiglia C.”, e neppure quello del pittore che contribuì alle loro disgrazie. Anche eventuali interventi dei lettori ne dovranno essere privi, pena la loro non pubblicazione.

La fuga del pittore. In Compagni di sangue, assieme alla pista corrispondente a Giulio Zucconi – il “dottor Jekyll” che si sarebbe avvalso del “mister Hyde” Pacciani per soddisfare i propri istinti maniaci, vedi – ne veniva ventilata una seconda, quella di un misterioso pittore affittuario di due stanze in una villa-hotel situata tra San Casciano e Mercatale. Per inquadrare correttamente gli assurdi eventi giudiziari che avrebbero riguardato proprio questa villa, bisogna tornare agli anni dei delitti del Mostro, quando la struttura era adibita a casa di riposo per anziani facoltosi. Per una di quelle sfortune che possono capitare a persone scelte forse a caso dal destino, in un anno imprecisato Pacciani vi aveva svolto un’attività di giardiniere. Secondo i proprietari si sarebbe trattato di poca cosa, un rapporto di lavoro durato un paio di giorni e finito a male parole per la cattiva qualità dei risultati, ma quel poco era bastato per infettare la villa con un pericoloso germe i cui devastanti effetti si sarebbero visti qualche anno più tardi.
In tempi più recenti la famiglia C. era incappata in una seconda sfortuna: aveva incrociato la strada di Gabriella Pasquali Carlizzi (qui la presentazione del personaggio). Nel 1995, mentre si trovava nel bel mezzo della vicenda delle accuse ad Alberto Bevilacqua, la vulcanica “giornalista investigativa” era stata contattata telefonicamente da un fotografo in possesso, a suo dire, di una succulenta notizia: a San Casciano viveva un’amica dello scrittore al corrente di molte cose. Si trattava della giovane A., figlia dei coniugi proprietari della villa, una bella ragazza con ambizioni artistiche, madre di una bambina, già nota alle cronache per una storia di violenza subita da un famoso personaggio televisivo. In più il fotografo asseriva che la villa era un luogo inquietante, e ne faceva notare la vicinanza alla piazzola di Scopeti. A raccontarlo la stessa Carlizzi nel suo libro Lettera ad Alberto Bevilacqua (febbraio 1996):

«Signora Carlizzi, in quel posto c’è un mistero, perché non ci va, vedrà, avrà paura anche lei… »
«Paura? E perché dovrei avere paura? »
«[…] il mistero è tutto lì, in quel maledetto posto… […] c’è un limite signora Carlizzi, tra le cose terrene e le cose dell’aldilà, non tutti hanno il coraggio di varcare questo limite…»
«Senta, non la capisco più, ma chi dovrebbe varcare questo limite secondo lei?»
«I giudici… Quelli che cercano la verità…»
«Ma lei è pazzo, non lo sa che i giudici possono esaminare solo prove, intendo dire, cose terrene?»
«Ma in questo caso potrebbero essere utili anche le cose non terrene…»
«E quali per esempio?»
«La magia… L’esoterismo… Le messe nere… Le evocazioni… I riti sacrificali… Le sedute spiritiche…»

Gabriella Carlizzi si era precipitata a controllare di persona, ma era stata respinta in malo modo, ricevendo naturalmente una cattiva impressione. Così, in una denuncia orale nell’ambito della vicenda Bevilacqua, raccolta dalla questura di Firenze il 22 e 23 novembre 1995, aveva raccontato l’episodio (il testo è riportato in il Mostro «a» Firenze):

Nella primavera scorsa sono stata contattata da RINELLI Angelo fotoreporter domiciliato a Roma […] il quale mi fornì spontaneamente gli atti relativi alla separazione giudiziale tra Bevilacqua e la di lui moglie Marianna Bucchic. Nell’occasione ebbi l’impressione che Rinelli conoscesse molte cose del Bevilacqua, cosa di cui ebbi conferma quando mi raccontò di una relazione che intercorreva tra una sua amica di nome “I.” e lo scrittore. In proposito precisò che tale I. era titolare di un Hotel […] facendomi notare che tale Hotel si trova a San Casciano Val di Pesa tra luoghi che sono stati teatro di altrettanti delitti del “Mostro”. […]
Sempre nel corso della scorsa primavera, telefonai alla suddetta “I.” per conoscere direttamente le circostanze relative alle sue frequentazioni con il Bevilacqua. Costei ebbe una reazione, unitamente ai genitori che parteciparono alla conversazione telefonica, di grande paura, pertanto non ritenni opportuno insistere. L’altro ieri, 20 novembre, unitamente ad Alessandra Lisi, Mariangela D’Alessio e Cristiana Crivelli, ci siamo recate presso il suddetto Hotel. La signora Lisi e la signorina D’Alessio, scese dall’auto hanno chiesto un colloquio con la signora “I.” al padre della stessa il quale però si mostrava evidentemente e incomprensibilmente allarmato. Dopo circa quindici minuti si è presentata la signora “I.”, la quale, da quanto riferitomi dalle mie collaboratrici, mostrandosi estremamente spaventata, prima ancora di qualche richiesta o domanda da parte delle predette, ha chiesto: “è la signora Carlizzi?” ed ha affermato “si tratta di Alberto” continuando con “cosa volete che dica, che Alberto è un pazzo, che è il mostro di Firenze?”, mentre il padre interveniva con fare aggressivo e affermava: “mia figlia non capisce niente, non sa niente di questa storia, voi non dovete scrivere niente!”.
Le mie collaboratrici, avvertendo una notevole tensione, sono tornate verso l’auto ove io le attendevo con la signorina Crivelli, seguite dal padre dell’I. che con il dito puntato verso di noi ha proferito le seguenti parole: “guai a voi se esce qualcosa, mia figlia non sa niente, se scrivete qualcosa la pagate cara!”. L’atteggiamento del padre di I. mi ha sorpreso in quanto non ritengo sia attribuibile al semplice timore di pubblicità, questo perché i genitori della giovane donna sono al corrente della relazione della figlia con lo scrittore ed inoltre I. è stata già protagonista della cronaca quando, in qualità di autrice di poesie, conobbe Vittorio Sgarbi e denunciò di aver subito molestie sessuali da parte dello stesso, nell’occasione molti servizi giornalistici sono stati fatti proprio a “Villa…”.

La sorpresa della Carlizzi per l’atteggiamento aggressivo dei C. risulta francamente fuori luogo, dati i suoi trascorsi ben documentati dalle cronache. In ogni caso, dopo tale segnalazione, sia la giovane A. (nel frammento indicata come I.), sia la madre G. avevano subito un interrogatorio, che al momento non aveva dato luogo a ulteriori sviluppi.
Ma il destino era ancora in agguato, pronto a giocare un terzo brutto tiro alla malcapitata famiglia C. La sfortuna si presentò loro con le sembianze di C.F., pittore di buona levatura internazionale, forse francese forse svizzero, che in quello stesso 1996 prese in affitto due stanze per esporvi e vendere i propri quadri. Sembra però che l'individuo non fosse stato troppo diligente con i pagamenti, che oltre l'affitto avrebbero dovuto coprire anche l’uso del ristorante per pranzi e cene con i suoi clienti.
Passò un anno circa mentre il debito aumentava, fino a quando C.F. badò bene di risolvere la questione, dalla sera alla mattina, fuggendo – la leggenda dice a cavallo di una motocicletta, in realtà con il camper nel quale dormiva – e lasciando sul posto tutte le proprie cose. Tra di esse oggetti inquietanti, e collegati con la vicenda del Mostro, secondo la giovane A. e la madre G., le quali, con la speranza di essere aiutate a recuperare le loro spettanze, ebbero la pessima idea di andarlo a raccontare a Giuttari. Da Compagni di sangue:

Accade proprio alla vigilia dell'apertura del processo, esattamente il 14 maggio 1997. Quel giorno al dottor Giuttari arriva la telefonata di due donne, madre e figlia, proprietarie di una villa in aperta campagna, su una collina tra San Casciano e Mercatale. Due donne già conosciute mesi prima, proprio in occasione delle indagini sugli omicidi, già interrogate per un vecchio rapporto di lavoro che Pacciani aveva avuto con loro. Dicono di avere qualcosa di molto interessante. Qualcosa che avevano trovato in due stanze della villa occupate, fino a qualche giorno prima, da un artista francese.
Sopra ad un tavolo di grandi dimensioni, lungo oltre quattro metri, avevano disposto parecchi oggetti. Armi e un'abbondante documentazione pornografica. C'era un revolver calibro 38, alcuni coltelli particolari, foto raffiguranti scene pornografiche impressionanti molto simili ad alcune scene dei delitti. C'erano numerosissime riviste pornografiche di edizione francese, disegni e quadri raffiguranti prevalentemente una femminilità violentata e deturpata. Tutto quel materiale appartiene ad un pittore, tale C.F., di origine svizzera, ma abitante in Francia.
Un personaggio strano, che finché aveva occupato quelle stanze si era fermato lì per la notte solo pochissime volte, soprattutto negli ultimi tempi, perché di solito dormiva in un furgone tipo camper, attrezzato per l'occasione. In pratica il pittore si intratteneva di giorno nella villa, dove riceveva i suoi clienti, ma poi andava via, ritornando solo il giorno successivo. L'uomo possedeva un terreno e una casa colonica in Emilia, e una casa a Cannes. Di queste proprietà, prima di andare via, aveva lasciato alle due donne una procura speciale rilasciata presso un notaio di Scandicci, per venderle e potere in quel modo pagare l'affitto delle stanze.

Generalmente i pittori sono tutti personaggi un po’ particolari, spesso eccentrici, e C.F. non faceva eccezione, anzi, ma ritenerlo collegato alla vicenda del Mostro in base agli oggetti sequestrati sembra del tutto forzato. A proposito dei “quadri raffiguranti prevalentemente una femminilità violentata e deturpata”, c’è da dire che doveva trattarsi di quelli normalmente in vendita. Chi volesse togliersi lo sfizio di attaccarne uno simile nel proprio salotto, può acquistarlo ancor oggi on line per poche centinaia di euro. Eccone degli esempi:

 

Ma nella villa aveva lavorato Pacciani, anche se molti anni prima, quindi un collegamento con la vicenda del Mostro era assicurato d’ufficio. Collegamento invero labilissimo, sufficiente però per proseguire con le indagini sul pittore, e non soltanto su di lui, poiché a insospettire Giuttari erano anche la giovane A. e la madre G., che a suo parere non l’avevano raccontata tutta. Si legge in Compagni di sangue:

Il racconto è strano e poco convincente. Michele Giuttari sequestra tutto il materiale e fa accertamenti ma il pittore risulta incensurato agli atti di Polizia. Il 22 maggio, le donne chiamano ancora per la consegna di altro materiale. Si tratta ancora di materiale pornografico, a detta delle donne appartenente sempre al pittore.
Intanto, viene perquisita e sequestrata la casa colonica del pittore, sull'appennino emiliano. All'interno, su tutte le pareti delle camere, ci sono murales raffiguranti animali e donne con evidenziati gli organi genitali, i cui temi ricordano i noti disegni di Pacciani. Sul posto vengono interrogati alcuni amici del pittore che sono in possesso delle chiavi della casa, perché incaricati della vigilanza e di eseguire lavori di ristrutturazione. Il pittore, qualche settimana prima, aveva comunicato loro che aveva dovuto lasciare improvvisamente la villa di San Casciano, dove pensava di trasferirsi definitivamente, perché era stato trattato male dalle proprietarie, che addirittura lo avevano più volte chiuso a chiave nella camera. Il pittore conosceva la figlia dei proprietari di quella villa da oltre dieci anni e con lei aveva avuto una relazione sentimentale.

Convinte di aver fatto il proprio dovere e rassicurate sul recupero delle proprie spettanze, le povere donne si accorsero presto di aver commesso l’errore della loro vita. Così avrebbe scritto anni dopo il signor R., fratello di G., sul sito internet dove aveva riportato un drammatico resoconto della triste vicenda:

Ovviamente se avessimo avuto qualcosa da nascondere non avremmo mai e poi mai chiamato la Polizia e con tanta insistenza. Ma incredibilmente la nostra opera di aiutare la giustizia e la nostra speranza – assolutamente legittima – di recuperare quel credito ci si rivoltò contro. Dopo pochi giorni il capo della squadra mobile si presentò con un mandato di perquisizione, e subimmo una perquisizione terribile dalle sette del mattino fino al pomeriggio impedendoci anche di telefonare all’avvocato.

Ed ecco invece il punto di vista di Giuttari, sempre da Compagni di sangue:

In considerazione dei nuovi elementi raccolti, scatta la perquisizione nella villa, dove viene sequestrato altro materiale, appartenente all'artista, che non era stato consegnato dalle due donne nelle due occasioni precedenti. E lì c'è qualcosa di molto interessante. Disegni che riproducono autovetture di grossa cilindrata di tipo sportivo e moto, sempre di grossa cilindrata. Temi che ricordano i disegni di Pacciani, rinvenuti nel corso delle varie perquisizioni a suo carico. C'è anche un blocco da disegno Skizzen Brunnen delle dimensioni di 34 x 48 cm, recante sul retro il tagliando del prezzo di DM 19.60 e la dicitura, verosimilmente del negozio "Bausch Deulmann - 7570 Badén Baden". Un blocco della stessa marca e tipo era stato sequestrato nell'abitazione di Pacciani in occasione della perquisizione eseguita il 2 giugno 1992. Anche i familiari del Rusch, ucciso a Giogoli nel 1983, avevano consegnato alla Polizia un analogo blocco da disegno utilizzato dal giovane ucciso. Risultano diverse solamente le dimensioni, essendo quello rinvenuto a casa di Pacciani della grandezza di 17 x 24 cm e quello a casa del tedesco di 24 x 33 cm.

Da un esame sereno della lista di oggetti rinvenuti consegue l’ovvia considerazione che una terribile cultura del sospetto faceva vedere delle montagne al posto di qualche sassolino. È significativo in proposito il parallelo tra i disegni del pittore e quelli di Pacciani, auto e moto di grossa cilindrata, come se il fatto potesse rivestire un qualche significato probatorio. Ma lascia ancora più sconcertati il ragionamento sul blocco “Skizzen Brunnen”, dove si tocca veramente il ridicolo andando anche a confrontare le grandezze. Perché… forse i blocchi di marca “Brunnen” rientravano nel materiale necessario ai riti di magia nera? Ma allora, come faceva a saperlo il povero Horst Meyer (e non Uwe Rusch, come invece fa intendere il frammento precedente) quando ne avrebbe acquistato uno nel negozio di Osnabrück almeno 12 anni prima del pittore?
Nella puntata del Maurizio Costanzo Show del 19 maggio 1998, proprio quella conseguente alla pubblicazione di Compagni di sangue – dove Giuttari era stato invitato ma, per ordini superiori, non aveva potuto andare – tra gli ospiti c’era anche Ugo Fornari, coautore della nota perizia Lotti, al quale, secondo notizie giornalistiche, la procura aveva chiesto un giudizio sui disegni e gli altri oggetti del pittore: “Materiale importantissimo”, questo il suo sintetico parere esternato in trasmissione. Notizie su valutazioni più approfondite non se ne conoscono, ed è sicuramente meglio così, anche per la stessa dignità dell’eminente studioso, del resto non l’unico a cadere in una trappola simile (si ricorda l’altrimenti ottimo Francesco De Fazio per il noto “Sogno di fatascenza” e il luminare Vittorino Andreoli per i veri disegni di Pacciani).
Torniamo però a Compagni di sangue, dove il discorso si fa interessante per quelle che vanno considerate vere e proprie anticipazioni della futura pista esoterica.

C'è, inoltre, ben custodito in una copertina di plastica, un foglio di giornale del quotidiano «La Nazione» del 26 marzo 1996, riportante notizie sugli omicidi del “Mostro” e sugli indagati Lotti, Vanni e Pacciani, tutti fotografati. Di quotidiani e riviste italiane non c'era altro. Ci sono, invece, altri oggetti molto significativi e riconducibili proprio all'esercizio di pratiche di Magia nera. E proprio successivi accertamenti sui proprietari della villa consentono di appurare che si tratta di persone dedite ai riti di Magia nera.
Ci sono significative coincidenze con l'inchiesta sui “compagni di merende”. I proprietari della villa e l'artista francese risultano dediti alla magia, così come Pacciani e i frequentatori della casa di Indovino. Pacciani aveva frequentato sia la casa di Indovino, che la villa, quest'ultima, a dire dei proprietari, come giardiniere.
II pittore, professionista di spessore internazionale, come testimoniano le mostre fatte in varie città europee ed anche oltre oceano, realizzava disegni e quadri, aventi gli stessi temi di quelli di Pacciani. Tra il materiale sequestrato, c'era una rivista francese, di ottima fattura, destinata sicuramente ad una cerchia di clienti riservati, che riproduceva nudi femminili con varie
menomazioni, come il taglio del seno sinistro e del pube. Proprio di quelle parti, che, nel concreto, la banda di "Mostri" aveva realizzato.

Insomma, come mettere di tutto in uno shaker e tirare fuori per magia – questa sì che lo è – una nuova pista foriera di clamorosi sviluppi. A questo punto, infatti, Lucarelli e Giuttari formulano delle fantasiose ipotesi sul ruolo che potrebbero aver avuto villa e pittore nella vicenda del Mostro.

Chi è, veramente, il pittore? Un ispiratore? Un ideologo di quelle torture sessuali, che rappresentava nei suoi quadri ma che venivano realizzate da altri? O semplicemente un ammiratore affascinato di quei delitti e di quei luoghi? Fa parte di quel secondo livello, appena sfiorato dall'inchiesta bis? La villa, che lo ha ospitato, è stata luogo di riunioni particolari tra le persone interessate a quegli omicidi, una specie di club riservatissimo composto da pervertiti con tendenze sadiche, dediti a riti satanici? Perché i proprietari della villa, alla vigilia dell'apertura del processo, hanno consegnato quel materiale, che avrebbe potuto essere compromettente anche per loro?
Per sciogliere gli interrogativi bisognerebbe rintracciarlo. Ma il pittore fa subito perdere le proprie tracce, anche in Francia, dove risulterebbe essersi recato dopo aver lasciato improvvisamente San Casciano. Tutti i tentativi finora svolti hanno dato esito negativo. Il Consolato svizzero, la polizia francese, i suoi amici emiliani. È come svanito nel nulla. Non si fa sentire nemmeno per chiedere notizie sul sequestro della sua proprietà.

Sembra ovvio che C.F. non avesse avuto alcuna intenzione di farsi trovare; evidentemente il suo debito non era per nulla coperto dal valore della casa colonica data in pegno, in verità poco più di un rudere. Riguardo i malcapitati proprietari della villa si poté indagare un po’ di più, come avrebbe raccontato il signor R..

A nostra insaputa cominciarono delle indagini terribilmente offensive nei nostri confronti: grazie alle agende sequestrate durante la perquisizione la squadra mobile convocò in questura tutte le persone che conoscevamo: lavoratori, amici, conoscenti e nemici ed esaminò addirittura tutti i nostri conti correnti degli ultimi quarant'anni.

Per il momento però la famiglia C. fu salva, poiché, già lo sappiamo, il Ministero dell’Interno intervenne a fermare Giuttari; come per Francesco Calamandrei, tutto rimandato a data da destinarsi.

Il pittore torna. L’uscita di Compagni di sangue aveva irritato alquanto Gabriella Pasquali Carlizzi, che avrebbe voluto vedersi riconosciuta la priorità della segnalazione sulla villa e su Pacciani giardiniere della stessa. Non a caso la sera della presentazione del libro nel salotto di Costanzo era fuori dal teatro a regalare copie del proprio Lettera ad Alberto Bevilacqua al pubblico in ingresso, suscitando l’ira del presentatore. Una decina di giorni dopo tentò di rientrare in gioco inviando alla squadra mobile e a due giornalisti importanti (Agostini e Selvatici) una lettera in cui affermava di aver visto il pittore passeggiare nel parco della villa e di poter fornire elementi utili al reperimento della pistola del Mostro. In seguito fu sicuramente ascoltata, ma chi scrive non ha documenti che lo comprovino. In ogni caso il blocco delle indagini dovette bloccare anche i suoi tentativi di parteciparvi, come si evince dal fatto che nel libro il Mostro a Firenze in corrispondenza dell’anno 1999 vengono riportati soltanto due fax, dopo gli otto dell’anno precedente, mentre nel 2000 c’è il vuoto.
Da notizie giornalistiche, si viene a sapere che la pista del pittore e della villa era ancora ben presente nel brogliaccio di lavoro di Giuttari al suo rientro in scena a fine estate 2000 (ad esempio, su “Repubblica” dell’8 settembre 2000: “Fra le deleghe firmate dal pm Canessa ce n'è una interamente dedicata ad un pittore francese che ha vissuto a lungo in una villa tra San Casciano e Mercatale dove aveva lavorato Pietro Pacciani”). Ma si trattava di una pista al momento bloccata, essendo il pittore irreperibile. Fino al 31 marzo del 2001, quando, approfittando della fresca notizia dell’apertura di un fascicolo sulla morte di Pacciani, la Carlizzi rientrò in gioco attraverso l’invio di questo fax:

Ill.mo Capo della Squadra Mobile Dott. Michele Giuttari Firenze.
La sottoscritta Gabriella Pasquali Carlizzi chiede alla S.V. di essere ascoltata come persona informata sui fatti, nell’ambito delle indagini relative alle cause della morte di Pacciani Pietro.

A quanto se ne sa, sulla morte di Pacciani la donna non aveva nulla da dire, almeno di significativo, mentre sulla villa e sul pittore molto di più. Il 7 e l’8 aprile fu interrogata a lungo da Giuttari, che ai giornali rilasciò lo stringatissimo commento: “Dall’interrogatorio non è emerso niente di rilevante”. Ma è difficle che il commissario l'avesse raccontata giusta, poiché il giorno dopo correva in Francia a interrogare il pittore. Vista la concomitanza di date, è infatti molto probabile che fosse stata proprio la Carlizzi a segnalargli l’uscita di un articolo su un settimanale svizzero in lingua francese contenente un’intervista a C.F., dopo la scoperta della sua residenza nelle vicinanze di Cannes. Da “Repubblica” del 9 aprile:

Il settimanale elvetico «dimache.ch» ha rintracciato C.F., il pittore ginevrino che il capo della mobile Michele Giuttari vuole interrogare sui delitti del mostro. In un servizio intitolato «C.F.: "Non sono il mostro di Firenze"», il giornalista Paolo Mariani lo descrive come un uomo di 65 anni «che dice di essere malato», «si muove a fatica» e dichiara di non aver avuto un solo «momento di pace» dal 1976, quando fu denunciato per oscenità per alcuni suoi dipinti.
Nel ‘77 - scrive Mariani – C.F. lascia la Svizzera, per stabilirsi prima a Baden, poi nel Jura, infine per dividersi fra la Costa Azzurra e la Toscana: «Ma il suo gusto per l’erotismo, talvolta violento, non smetterà di essere messo in relazione con la sua vita privata». Anche in Italia, dove fra le sue carte sono state trovate foto di donne mutilate.
C.F. - racconta il giornalista - «cade dalle nuvole quando gli diciamo che l’affare del mostro sta di nuovo dispiegando le sue ali attorno a lui». Dell’Italia, dove non mette piede dal ‘97, si dichiara disgustato. «Sono una banda di gangsters», gli avrebbe detto il suo avvocato. Il pittore dice di aver soggiornato per lo più «in una piccola casa, per metà in rovina, a Tredozio, sull’Appennino», e per un breve periodo a San Casciano, in  «uno stabilimento gestito da una famiglia di truffatori da cui sono fuggito appena ho potuto».
«Non ho mai conosciuto nessuno che si chiamasse Pietro Pacciani», assicura, «e non ho mai avuto abbastanza soldi per permettermi un giardiniere». Quanto alle indagini sul mostro, è categorico: «C’è un complotto contro di me. Qualcuno vuol farmi fare il capro espiatorio. Ma sono io, la vera vittima». E si scaglia contro la famiglia che lo ha ospitato a San Casciano: «Mi hanno rubato tutto: i miei effetti personali, i miei mobili, le mie carte, le mie opere, persino i miei ricordi».

Interrogato il 9 aprile da Giuttari, C.F. si mostrò molto spaventato per i guai in cui avrebbe potuto incorrere – come minimo per l’accusa di detenzione illecita di armi – quindi non esitò a concedere tutta la collaborazione della quale il suo interlocutore aveva bisogno. Fu così che da possibile indagato diventò un importante teste nell’inchiesta sulla villa, ci si può immaginare con quale grado di attendibilità, viste le sue paure e le sue convenienze. C.F. seguì Giuttari in Italia, dove il 12 aprile partecipò a un sopralluogo nei dintorni della villa. Il giorno successivo il procuratore capo Guttadauro, nella conferenza stampa indetta per l’occasione, dichiarò: “C.F. non ha nulla a che vedere con il mostro di Firenze”. Il lettore penso sia d’accordo nell’interpretare il fatto come il classico do ut des, soprattutto considerando il tenore delle dichiarazioni rilasciate da C.F.. Si può farsene un’idea da una successiva intervista che concesse appena dopo il suo ritorno in Francia. Dal “Corriere della sera” del 23 aprile 2001.

Più che un appartamento, sembra la bottega di un rigattiere. Vestiti accatastati sui divani, scatoloni sparsi in pochi metri quadri, un odore terribile che arriva dalla cucina. Al centro c'è lui, un uomo distrutto nel fisico e nella mente. Per camminare si appoggia a un bastone, le mani tremano, fatica a parlare. Da mesi vive rintanato in questo bilocale di Montelieu, sette chilometri da Cannes. Ma del mondo dorato della Costa Azzurra il pittore C.F., 64 anni, non sa nulla.
Che cosa è successo in Toscana? “Sono dovuto fuggire, quelle due donne mi hanno rovinato la vita”.
Che rapporto aveva con loro? “Avevo conosciuto tanti anni fa la figlia e nel '97 fui ospite in quella villa”.
Che cosa le fecero? Di tutto, le cose più terribili. Venivo drogato e chiuso in una stanza. Poi mi convinsero a firmare delle procure a vendere e mi portarono via tutte le cose preziose che avevo. Mi hanno rubato miliardi. Avevo cose stupende, non ho più nulla”.
Come la convinsero a firmare? “Non lo so, ero completamente soggiogato. Scoprii che mi mettevano delle sostanze nel cibo. Mi tenevano sequestrato”.
Quando lei andò via, le proprietarie della villa consegnarono alla polizia alcune cose che lei aveva lasciato: una pistola, alcuni dipinti e un blocco da disegno uguale a quello di una delle vittime. Non era roba sua? “Era soltanto una piccola parte e comunque io con il mostro non c'entro davvero niente. Quel blocco faceva parte di decine di altri blocchi che avevo per il mio lavoro. Anche il resto non significa nulla. E' stato un complotto. Sono fuggito proprio perché ho capito che volevano incastrarmi. In quella casa c'era gente pericolosissima”.
Che cosa vuol dire? “Succedevano cose strane, soprattutto la sera. Ma di questo la polizia mi ha detto che non posso parlare”.
Lei partecipava a quelle riunioni? “No, assolutamente no”.
Conosceva Pietro Pacciani? “Mai visto. Non mi interessa la gente che taglia le persone a pezzi”.
Da indagato a testimone d’accusa. Perché ha deciso di collaborare con la polizia solamente ora? “Non sapevo che mi stavano cercando. Quando sono andato via volevo soltanto dimenticare. Sono state quelle donne a farmi ammalare e adesso dovranno pagare”.

Chissà perché un mese prima, davanti al giornalista elvetico che lo aveva scovato, per C.F. i proprietari della villa erano soltanto una “famiglia di truffatori”. In ogni caso per loro le cose si stavano mettendo molto male. Furono convocate in questura tutte le persone che avevano lavorato nella ex casa di riposo, tra cui due infermiere che evidentemente colsero l’occasione per sfogare vecchi rancori. Ecco un campionario delle loro terribili accuse riportato dal “Corriere della sera” del 23 aprile 2001:

Ha raccontato una teste alla polizia: “In quella casa succedeva di tutto. Nelle stanze c'erano soltanto due reti dove i vecchietti venivano tenuti tra feci e urine. Nessuno se ne curava. Un giorno uno di loro morì. Lo chiusero in una stanza e ci ordinarono di non parlarne con nessuno. I familiari dovevano ancora pagare la retta mensile e quindi non dovevano sapere che era morto. Lo tennero così per giorni. Gli anziani erano praticamente abbandonati a sé stessi.”
Ma la parte più interessante per gli inquirenti riguarda quello che avveniva la sera. “Dopo le dieci - ha messo a verbale un'altra donna - in quella villa nessuno poteva più mettere piede. Arrivavano diverse persone e si compivano riti magici e satanici. Si celebravano messe nere, cose strane, stranissime. Erano tutti strani. Ricordo la figlia della proprietaria: aveva appena sette anni, ma era una bambina che dava l'angoscia, metteva paura. Aveva sempre uno sguardo allucinato e quando usciva in giardino scavava delle buche. Diceva che costruiva le tombe. Tutti erano strani, anche quelli che venivano nella villa, ma a noi dipendenti non era permesso entrare quando scendeva la sera e venivano chiusi i cancelli.”

Il lettore sa già o comunque s’immagina che tutto sarebbe finito in niente, quindi è pacifico che le dichiarazioni delle due ex infermiere erano mendaci; la qual cosa però si poteva intuire già al momento, poiché proprio in quella struttura era stato ricoverato anche il padre del procuratore aggiunto Francesco Fleury, il quale quindi non si sarebbe accorto di nulla: molto difficile da credere.
Va peraltro registrata almeno una testimonianza contraria, quella di un ex cuoco che raccontò la verità sul pittore, e che per questo si vide accusare di favoreggiamento e calunnia. Dal che si può immaginare quale fosse l'atmosfera poco serena in cui si stavano svolgendo le indagini e gli interrogatori inerenti la villa.

Caccia alla setta. Quelli venuti fuori dal pittore e dai dipendenti della ex casa di riposo parevano elementi clamorosi... fossero stati veri. Veri non lo erano, ma per i nostri investigatori sembra proprio di sì, giudicando da come si sentirono ancora più motivati a cercare altre possibili tracce lasciate dalla misteriosa setta. Tra le vecchie carte conservate nei loro archivi ce n’era anche qualcuna che faceva riferimento diretto a sette sataniche e riti magici. Come quelle riguardanti la regista televisiva Maria Consolata Corti, figlia di un ex questore, che nel 1990 aveva rilasciato al settimanale “Visto” alcune sconcertanti dichiarazioni, secondo le quali “il mostro di Firenze è un personaggio molto noto e potente, con una doppia identità, e fa parte di una terribile setta satanica. È un uomo di 72 anni che lavora per i servizi segreti, di origine siciliana ma che ha vissuto a lungo in Toscana”.
Dopo l’uscita dell’articolo, la donna era stata convocata dalla SAM, dove le sue parole non erano state prese sul serio, anche perché non aveva voluto rivelare il nome del presunto assassino. Il 24 maggio 2001 Giuttari e Canessa tornarono a interrogarla, ottenendo quel nome e “preziose” informazioni sull’impiego dei feticci. Sul libro Il Mostro di Firenze di Fabio Fox Gariani viene riportato il relativo verbale, tratto da un articolo del “Messaggero” del 15 settembre 2001, che non è nella disponibilità di chi scrive.

Mio padre L., morto in circostanze misteriose a 54 anni, aveva sospetti su quel collega. L’ho capito dopo ricordando un episodio. Quando vivevo a C. nella casa dei miei genitori, un giorno ho trovato in cantina uno degli aeroplanini di carta che papà faceva per uno dei miei bambini. Per quello aveva usato un foglio dove c’era un appunto con il nome di X e una nota che diceva più o meno: “Tutte le piste portano a lui. Possibile che nessuno se ne accorga?”.
Nel ’75 mio padre venne ricoverato in una clinica romana per un sospetto tumore. Venne operato e poi trasferito in ospedale in rianimazione. Prima di morire disse: “Assassini, siete una mafia!”. Chiedemmo un’autopsia alla presenza di un nostro medico. Ma la fecero in fretta e furia dicendoci: “È venuto un dottore che ha detto di essere stato mandato da voi”. Non era vero. Presentammo una denuncia alla procura di Roma che venne archiviata.
Nell’87 mi occupai del mostro per la trasmissione RAI per cui lavoravo. E mi tornarono in mente l’aeroplanino, le ultime parole di mio padre. Chiesi un appuntamento a quell’uomo con una scusa. Al secondo incontro mi propose un lavoro illecito: dovevo trovare persone disposte ad acquistare titoli accademici e nobiliari falsi. Dissi di no. Capii che sospettava che avessi intuito tutto. Mi voleva inguaiare. Poi ci siamo visti altre volte.
Lui ha iniziato a fidarsi. Mi ha raccontato che molti anni prima si era innamorato di una ragazza, allontanata da lui dalla famiglia. Disse che aveva iniziato ad odiare le persone che si amano. Mi confessò di essere entrato in una setta che uccideva uomini e donne al momento dell’accoppiamento, che aveva commesso anche altri delitti oltre a quelli attribuiti al mostro di Firenze, ma che i cadaveri non erano stati mai trovati. Mi raccontò particolari tremendi, che aveva tagliato pube e seni di alcune delle sue vittime con un coltello multiuso. La setta li usava per dei macabri rituali, ritenendo che durante l’atto sessuale vengano liberate energie che possono essere utilizzate per curare malattie o aumentare la forza fisica. Disse cose pazzesche tipo: “I veri mostri sono quelli che fanno uscire falsi identikit, come quello che ha portato un barista al suicidio. Il vero identikit non esiste perché quando ammazzavo usavo maschere sempre diverse”.
Ero terrorizzata. Andai alla Mobile di Roma a raccontare tutto, ma mi dissero di lasciar perdere.

Secondo Gariani le dichiarazioni della donna sarebbero state prese molto sul serio da Giuttari e Canessa, del che parrebbe legittimo dubitare, visto il loro delirante contenuto. Se Gariani aveva ragione, vuol dire che gli entusiasmi del momento per il tema delle sette avevano condizionato non poco la serenità di giudizio del poliziotto e del magistrato.
Passiamo ad altro. Segnalata probabilmente già anni prima da Gabriella Pasquali Carlizzi, Giuttari e Canessa presero in esame la cosiddetta “perizia” – se così la vogliamo chiamare – di Tommaso D’Altilia, anch’egli sedicente “giornalista investigativo”. Si trattava di un documento del 1996 nel quale D’Altilia aveva già affrontato la vicenda del Mostro da una prospettiva di servizi segreti deviati e sette sataniche. A quel tempo lui e la Carlizzi si conoscevano e si frequentavano, e insieme avevano cercato invano di far pubblicare il lavoro, del quale entrambi forse non avevano più copia. Almeno questo si dovrebbe dedurre dalle mosse di Giuttari, che il 3 luglio 2001 mandò tre poliziotti a cercarne una a casa di Paolo Cantarelli, al quale D’Altilia aveva affidato la ricerca di un editore. Dopo il blitz, Cantarelli avrebbe ripreso i suoi tentativi fino a far pubblicare integralmente la perizia, verso la fine di quello stesso anno, in un libro dal titolo Mostro d’autore.
Il documento è un coacervo incredibile di sciocchezze, pieno di affermazioni gratuite e ragionamenti privi di logica. Valga un solo esempio a dimostrarlo, peraltro il pezzo forte. Secondo D’Altilia il delitto del 1968 sarebbe stato compiuto con una pistola differente rispetto a quella utilizzata nei successivi, quindi qualche forza oscura, tipo servizi segreti, avrebbe sostituito i bossoli  ritrovati nel fascicolo di Signa con altri sparati dalla pistola del Mostro (un tormentone che si fa sentire ancora oggi). Lo scopo sarebbe stato quello di far partire la falsa pista sarda per proteggere i veri assassini delle coppiette, da ricercarsi – c’è bisogno di specificarlo? – negli appartenenti a una setta. A prestarsi al subdolo depistaggio sarebbe stato anche il mitico maresciallo Fiori, quello che secondo alcuni si sarebbe ricordato del delitto di Signa e secondo altri avrebbe ricevuto una spinta da un ritaglio di giornale giunto in una lettera anonima, ma che in ogni caso avrebbe invitato i suoi superiori a controllare (vedi).
D’Altilia crede di poter dimostrare la non identità delle due pistole attraverso questo sconcertante ragionamento:

L’analisi storica è fatta di tasselli come un puzzle. E infatti, raffrontando il delitto Locci-Lo Bianco con i sette duplici omicidi dal ’74 in poi ci si accorge che l’arma non combacia, il tassello non s’incastra. Infatti nei sette delitti dal ’74 in poi, vennero sparati complessivamente 63 colpi.
Poiché la matematica non è un’opinione, è evidente (63 diviso per 7 dà 9), che l’arma usata dal ’74 in poi, detonò una media di nove colpi a delitto. Ergo, mentre la Beretta calibro 22 di Stefano Mele portava otto colpi a caricatore pieno, quella dei delitti successivi ne portava di più. Palesemente, matematicamente, non era la stessa arma!

È difficile stipare così tanti sfondoni in così poche righe. Innanzitutto non c’è alcuna certezza che la pistola di Signa fosse stata a 8 colpi, lo si può soltanto dedurre da una sibillina frase di Stefano Mele. In più non si può stabilire la capienza dell’altra conteggiando la media dei colpi sparati in tutti e sette i delitti successivi, semmai si dovrebbe prendere il valore massimo, supponendo che non ci fosse mai stato un ricaricamento. Poi la certezza che dopo Signa sarebbero stati sparati in totale 63 colpi non è noto da dove D’Altilia l’avesse tratta, il documento non lo dice. La tabellina riportata da Giuttari ne Il Mostro ne conteggia 52, mentre un’attenta ricostruzione delle dinamiche ha portato chi scrive a ipotizzarne 54. Ma c’è di peggio. Teniamo pure buoni i 63 colpi di D’Altilia e il metodo della media. Ebbene, la media di 9 a delitto è del tutto compatibile con una semiautomatica con caricatore da 8 colpi, la cui capienza effettiva è proprio di 9, aggiungendo quello inseribile in canna!
Non si sa bene quanto credito avessero dato Giuttari e Canessa alle sciocchezze di D’Altilia su sette e servizi segreti, di sicuro sconcerta alquanto scoprire, attraverso la sentenza Micheli, che anni dopo Giuliano Mignini ne avrebbe ripreso la teoria delle due differenti pistole e del depistaggio.
Torniamo però al 2001, e aggiungiamo ancora un tassello al variegato scenario che si presentava davanti ai nostri investigatori. Da “Repubblica” del 7 agosto:

Negli ultimi mesi, in questura sono arrivate alcune lettere anonime ritenute particolarmente interessanti. Nei messaggi si parla di magia nera dietro agli omicidi della calibro 22, si offrono dettagli che solo chi è bene informato può conoscere, e si invita la polizia a cercare una donna genovese (descrivendola, ma senza rivelarne l’identità) che molto saprebbe sulla vicenda. La donna è stata rintracciata a Genova dalla squadra mobile, nei giorni scorsi è stata interrogata, così come la sorella, e i loro appartamenti sono stati perquisiti. Dal faccia a faccia, un indizio: Pacciani frequentava i vicoli di Genova, la zona a luci rosse delle lucciole da marciapiede, fra la fine degli anni '70 e l’inizio degli '80. Particolare da chiarire: l’ultima di queste lettere anonime è stata consegnata già aperta in questura e in ritardo rispetto al giorno del suo arrivo a Firenze. La procura ha già sentito l’ufficiale di polizia giudiziaria che l’ha ritrovata per primo per chiarire l’elemento.

Delle due sorelle prostitute di Genova che avrebbero conosciuto Pacciani esistono altri cenni in altri articoli di giornale, dove viene anche raccontata la strana storia di un animale impagliato al cui interno sarebbe stata nascosta una misteriosa videocassetta in grado di svelare i misteri dei delitti del Mostro. È quasi inutile specificare che di tutta questa storia non si è saputo più nulla, quindi di nulla doveva trattarsi. Ma intanto anch’essa contribuì ad arricchire un rapporto che Giuttari proprio in quei primi giorni d’agosto consegnò in procura.

Il rapporto di Giuttari. Si tratta di un documento mai emerso, del quale però si conoscono a grandi linee i contenuti in virtù dei sunti riportati dai giornali. L’ipotesi alla base era naturalmente quella della setta che avrebbe commissionato i delitti ai compagni di merende. Non avendo in mano nulla di decisivo che lo potesse dimostrare, Giuttari mise dentro di tutto. Alcuni argomenti li abbiamo appena visti, inutile ripeterli. Altri riguardavano la presenza della magia nera tra i personaggi dell’inchiesta precedente. Come il ben noto mago Indovino, nella cui stamberga sarebbero state consumate orge a base di sesso e magia. E come lo stesso Pacciani, al quale ai tempi era stato sequestrato del materiale ritenuto “sospetto”: un tabellone per sedute spiritiche, un libro sui demoni, ricette magiche scritte su fogli di quaderno. Non si capisce però se il contadino era da considerarsi un semplice prezzolato con un proprio personale interesse per la magia “casereccia” oppure un adepto della setta.
Con l’aiuto dell’antropologa Cecilia Gatto Trocchi, e soprattutto di tanta fantasia, furono reinterpretati in chiave esoterica alcuni elementi già noti. Nel tralcio di vite infilato nella vagina di Stefania Pettini si volle vedere traccia di un rito, essendo la pianta simbolo di fecondità; ma che il delitto fosse avvenuto a qualche metro di distanza da una vigna suggerisce una spiegazione senz’altro più semplice e prosaica. Traccia di un altro rito si volle vedere in una pietra a forma di piramide tronca raccolta vicino al luogo del delitto di Calenzano, che però poteva anche essere classificata come un semplice fermaporte. E poi, era credibile che il gran sacerdote o chi per lui, forse Pacciani, si sarebbe attardato sul posto con candele o quant’altro rischiando di attirare l’attenzione di eventuali guardoni o altre coppiette? Forse la preziosa piramide tronca era stata dimenticata sul posto in seguito a una precipitosa fuggi fuggi della congrega? Ultima considerazione, ma forse prima in ordine d’importanza: per i delitti successivi, quelli cui avrebbe assistito, Giancarlo Lotti non aveva raccontato di nessuna cerimonia officiata sul posto.
Altre evidenti fantasiosità le ritroviamo nell’importanza esoterica attribuita alle notti di novilunio, anche perché non tutti i delitti avvennero in notti di novilunio esatto, anzi, in certi casi, come a Scopeti, anche piuttosto lontano. Considerazioni analoghe possono farsi sull’orario dei delitti, collocato da Giuttari tra le 23 e le 24, “quando la notte tracolla”. Francamente sfugge il significato esoterico di tale orario, anche perché, almeno per Scandicci e Vicchio, esso andrebbe anticipato a ben prima delle 23. Altra forzatura riguardava la scelta della stagione, sempre tra giugno e ottobre, anch’essa reinterpretata in chiave esoterica, quando sembra logico pensare al fatto che d’inverno non è facile trovare coppiette appartate in auto.
A quanto sembra la parte finale del rapporto era dedicata a un gruppo di personaggi sui quali Giuttari chiedeva di poter indagare, che era poi l’argomento che più lo interessava. Si legge su “Repubblica” dell’8 agosto:

I nomi sono già nel rapporto consegnato dalla squadra mobile alla procura. Quattro, cinque personaggi potenti quanto insospettabili, con coperture eccellenti su cui contare. Sarebbero stati loro ad ordinare omicidi e feticci per celebrare i riti di una setta composta da almeno una dozzina di persone. Al momento sarebbero indagati in altri fascicoli connessi all’inchiesta sui delitti del mostro, ma presto la loro posizione potrebbe mutare.

L’articolo individua uno solo di questi personaggi, “un diplomatico italiano che abitava a San Casciano, vicino a casa Pacciani”, che altri non era se non il povero Gaetano Zucconi, fratello del “dottor Jekyll” Giulio, ma della partita doveva essere anche Francesco Calamandrei. E pur se l’articolo non lo dice, ci si può immaginare il ruolo preponderante della villa di San Casciano come luogo di riunione della fantomatica setta. Tempo neppure due mesi e Giuttari avrebbe eseguito gli opportuni controlli, ma prima doveva arrivare il turno dei servizi segreti.