Il tentativo di forzare la testimonianza
di Sabrina Carmignani dimostra quanta ansia avessero gli investigatori, in quelle
settimane di fine 1995, di trovare un rimedio alla prevedibile assoluzione di
Pietro Pacciani in appello. Tutto porta a credere che in quel momento la priorità
non fosse affatto il soddisfare la sete di giustizia dei parenti delle vittime,
e tanto meno il fermare un assassino che ormai si era fermato da solo. Quel che
più interessava era fronteggiare lo smacco del fallimento di un’inchiesta durata
anni, dove si erano fatti sforzi tremendi per dare il volto di Pacciani
al Mostro. Per di più i magistrati di Firenze stavano scontando l'effetto anche di altri
pasticci.
Del tutto slegata dall’inchiesta
sui “Compagni di merende”, nondimeno è inevitabile sospettare che la vicenda
del cosiddetto “Autoparco della Mafia” dovette avere su di essa un peso
notevole. Tutto aveva avuto inizio il 17 ottobre 1992 con una clamorosa
operazione condotta a Milano da forze dell’ordine di Firenze – uomini del
reparto operativo della Guardia di Finanza (Gico) in accordo con la Procura –
che aveva portato a numerosi arresti di mafiosi e al sequestro di droga, armi,
soldi e gioielli. Seguendo uno spunto, si dice, arrivato direttamente da
Giovanni Falcone, già da un paio d’anni i magistrati e i finanzieri fiorentini
stavano tenendo d’occhio, con sofisticate apparecchiature fornite dai servizi
segreti, l’autoparco di Linate, ufficialmente deposito di container, in realtà
crocevia di traffici illeciti. A dire il vero il blitz era stato programmato
per qualche giorno più tardi, in concomitanza con il previsto arrivo di mille
chili di cocaina dalla Colombia, ma un’intercettazione ambientale aveva fatto
sospettare un imminente atto ostile contro il notissimo sostituto procuratore Antonio Di
Pietro, quindi era stato deciso un intervento immediato.
Nei giorni successivi sui
giornali emersero voci sul coinvolgimento di rappresentati della legge e dello
stato nelle attività mafiose ruotanti attorno all’autoparco, con anche notizie
di perquisizioni e interrogatori; ma la vera sorpresa arrivò un anno dopo, il
28 ottobre 1993, quando Piero Luigi Vigna e il suo sostituto Giuseppe Nicolosi
chiesero e ottennero dal gip Roberto Mezzi il clamoroso arresto di quattro poliziotti
e un vicequestore, Carlo Iacovelli, tutti di servizio a Milano. Le accuse erano
pesantissime (traffico di stupefacenti e associazione mafiosa); in più circolarono
presto indiscrezioni su altri agenti messi sotto inchiesta. Come se la
situazione non fosse stata già abbastanza esplosiva, qualche giorno dopo tutti
i giornali riportarono un azzardato commento attribuito a un collaboratore di
Vigna, il cui nome ufficialmente non sarebbe mai emerso:
Quello che abbiamo trovato noi a Milano lo
avrebbe scoperto chiunque avesse fatto un po’ di indagini. Ora siamo in grado
di dimostrare che tutte le forze di polizia sapevano da anni quello che noi
abbiamo trovato ora.
A quel punto lo sconcerto che si era
impadronito degli ambienti giudiziari milanesi divenne furore, con i sindacati
di polizia pronti a scendere sul piede di guerra e i vertici schierati compatti
in difesa dei loro uomini. Non mancò d’intervenire neppure il procuratore capo Francesco
Saverio Borrelli, la prestigiosa guida del pool Mani Pulite:
Trovo enorme, e perciò non credo, che un
magistrato possa avere dilatato l’incriminazione, sempre dolorosa, di un
ristretto numero di poliziotti, fino alla dimensione di un generalizzato
sospetto verso tutti i corpi di polizia operanti nella realtà milanese i quali
avrebbero ignorato o coperto le attività dell’autoparco. Un simile sospetto è
oltraggioso e ingiusto: ritengo di doverlo respingere con forza e confermo,
indipendentemente da spiacevoli ma ben circoscritte eccezioni, la fiducia della
magistratura milanese nei valorosi collaboratori delle tre polizie.
Vigna si affrettò a smentire che
mai qualcuno dei suoi uomini avesse pronunciato le frasi incriminate, ma il
patatrac ormai era fatto, e per di più e peggio, entro pochi giorni le carte in
mano alla Procura fiorentina si dimostrarono inaffidabili. La pista era partita
dalle dichiarazioni di alcuni pentiti, i quali avevano raccontato di regalie
(soldi, auto, orologi) accettate dagli uomini della Polizia per chiudere un
occhio sulle attività illecite svolte all’interno dell’autoparco. Ma presto uno
di loro, Salvatore Maimone, non è ben chiaro con quali modalità, era finito nell’ufficio
di Roberto Aniello, uno dei giudici della procura antimafia di Milano che lo
conosceva bene, al quale aveva raccontato di domande tendenziose degli
inquirenti fiorentini riguardanti personaggi di spicco della magistratura
milanese: Alberto Nobili, Armando Spataro, Francesco Di Maggio e Antonio Di
Pietro. A suo dire prima gli uomini del Gico, poi Nicolosi e Vigna lo avevano
interrogato pungolandolo con insinuazioni non verbalizzate sulla possibilità
che i quattro magistrati fossero corrotti.
“In questa storia c’è qualche cialtrone di troppo!
O il cialtrone è il pentito, e allora voglio la sua testa, o sono cialtroni i
Gico e i magistrati di Firenze, e allora voglio le loro di teste",
tuonò in un’intervista al Corriere del 14 novembre Francesco Di Maggio, al
momento vicedirettore delle carceri, negli anni ’80 prestigioso pubblico
ministero in prima linea nella lotta alla mafia. Molto più diplomatico, ma
senz’altro più cattivo, il commento rilasciato da Armando Spataro al Tg1, nel
quale il magistrato accusò i colleghi fiorentini di provincialismo, e di
essersi montati la testa:
La visione che la Procura di Firenze ha
dell’indagine sull’autoparco potrebbe non coincidere con la realtà milanese. A
Milano fatti come quello dell’autoparco sono ordinaria amministrazione: lo
dimostrano le centinaia di arresti che questa Procura fa sul fronte della
mafia. Certo, l’inchiesta di Firenze è stata rilevante. Ma ipotizzare che la
mancata scoperta di quel luogo sia frutto solo di coperture, e non anche del
fatto che ci si dedica a decine di cose più rilevanti, potrebbe essere indice
di una visione, come dire... un po’ provinciale.
Seguì un periodo di grande gelo
tra le due Procure, con la trasmissione degli atti sulle accuse ai quattro
magistrati ai colleghi di Brescia, i quali già in partenza minimizzarono, iscrivendo
nel registro degli indagati soltanto Nobili. Intanto a Firenze si stava preparando
il processo sull’autoparco, tra i cui 38 imputati comparivano anche il
vicequestore Carlo Iacovelli e cinque poliziotti. Il giorno stesso della prima
udienza, il 5 maggio 1994, la Procura di Brescia chiese di archiviare la
posizione di Alberto Nobili, e nel contempo iscrisse nel registro degli
indagati il pentito Maimone per calunnia. In sostanza Maimone era sospettato di aver mentito su tutti i fronti, sia sulle velate accuse a Nobili e agli altri magistrati milanesi, sia sulle insinuazioni riguardanti le domande tendenziose ricevute a Firenze. “Questo conferma la correttezza dell’operato della Procura di
Firenze. Ora è importante capire perché ha detto il falso e chi gliel’ha
suggerito", dichiarò Vigna accampando la sua buonafede. Ma quantomeno aveva fatto la figura del dilettante, come lasciò
intendere Nobili:
Non intendo pronunciarmi ma, quale sarà la
decisione del gip di Brescia, mi auguro che questa vicenda non venga
strumentalizzata contro l’indiscutibile utilità dei collaboratori di giustizia
e che, invece, possa servire per adottare maggiore cautela nella gestione dei
pentiti.
Il processo si trascinò tra le
polemiche, con dichiarazioni di vari pentiti alle quali non si sapeva mai quale
credito concedere. La vera partita però si combatteva sulla competenza, con
l’accusa che cercava tenacemente di mantenerla a Firenze e la difesa che voleva
spostarla a Milano. Dopo un primo verdetto di condanna in primo grado per
alcuni imputati, mentre se ne stavano giudicando altri, all’inizio del 1995 il
processo fu annullato e trasferito a Milano. Per i magistrati fiorentini si
trattò di una sconfitta bruciante, anche perché nel procedimento tenuto nel
capoluogo lombardo un fiume di veleni si riversò su di loro, con Maimone che rilanciava le sue pesantissime accuse per i presunti suggerimenti ricevuti durante gli
interrogatori a Firenze. Il processo di primo grado si concluse il 30 gennaio
1996, al secondo giorno di udienza dell’appello a Pacciani, e in un modo che
non dovette piacere per nulla ai magistrati del capoluogo toscano: Iacovelli fu
assolto con formula piena, e tra i poliziotti coinvolti soltanto due furono
condannati per reati minori.
Nel valutare gli accadimenti che avrebbero
portato all’arresto di Mario Vanni, sarebbe opportuno tenere bene a mente la
vicenda dell’autoparco di Linate, dalla quale si può arguire quanto poco serena fosse in
quel periodo la posizione della Procura nei riguardi dell'inchiesta sul Mostro. Possiamo
essere tranquilli sulla correttezza degli interrogatori che vennero eseguiti prima dell’arresto
di Mario Vanni? In un prossimo articolo vedremo come in dibattimento sarebbe emersa
traccia di una gestione affatto limpida dei primi tre di Fernando Pucci.
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