L’Italia
è piena di cosiddette “Cattedrali nel deserto”. Si tratta di opere pubbliche
che sono costate fior di quattrini, ma che non hanno mai funzionato. Rovine di
fabbriche, ospedali, centri sportivi, dighe rimangono a testimoniare degli
enormi sprechi di danaro che hanno contribuito a rendere quasi insostenibile il
nostro debito pubblico. Da questo punto di vista anche tante ambiziose inchieste
della magistratura possono essere considerate “Cattedrali nel deserto”. Nate su
presupposti che non sempre avevano adeguata giustificazione nella ricerca di
giustizia, si sono via via avvinghiate su loro stesse producendo soltanto
danni.
Con l’istituzione del giudice per l’udienza preliminare (GUP), il nuovo codice ha cercato per quanto possibile di evitare che inchieste nate male finiscano per intasare i tribunali, ma prima dell’intervento del GUP passano anni durante i quali i pubblici ministeri (PM) possono far di tutto. Il nuovo codice ha assegnato loro poteri molto ampi, purtroppo calmierati in modo spesso insufficiente dal giudice per le indagini preliminari (GIP), il quale dovrebbe controllarne l’operato. Non è questa la sede per affrontare un problema annoso come quello della separazione delle carriere, ma il lettore provi a immaginarsi un GIP e un PM che lavorano negli stessi uffici e magari pranzano assieme, poi si metta nei panni dell’indagato che dal GIP pretenderebbe imparzialità. Imparzialità che a dire il vero la legge impone anche al PM, il quale invece s’innamora quasi sempre della propria inchiesta, ancor di più se mediaticamente esposta, facendola diventare una questione personale e dimenticando nel contempo che le indagini preliminari dovrebbero essere svolte anche nell’interesse dell’indagato. Lo dice l’articolo 358 del codice penale: “Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell'articolo 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Questo non avviene praticamente mai, anzi, i PM spesso e volentieri tendono a nascondere gli elementi a discarico per evidenziare maggiormente quelli a carico. Il peggio avviene quando elementi a carico non se ne trovano, essendo le indagini partite su presupposti sbagliati. E allora si finisce per crearli, interpretando in modo malevolo elementi che di per loro non avrebbero alcun significato probatorio.
Nell’inchiesta che cercava di trovare i fantomatici mandanti dei delitti attribuiti al Mostro di Firenze, e in quella collaterale sul presunto omicidio di Francesco Narducci – che di quei mandanti sarebbe stato parte – è facile intravedere tutte le negatività sopra elencate. Dopo dieci e più anni di inutili interrogatori, intercettazioni, perizie e processi – e quindi montagne di danaro pubblico buttato al vento – nulla è rimasto, se non tanta confusione sulla quale si baloccano gli appassionati in interminabili discussioni su Internet, dove ancora si evocano assurdi scenari di sette sataniche delle quali non è mai stata trovata traccia.
In questa sede prenderemo in esame la partenza dell’inchiesta Narducci, fino all’istituzione del noto procedimento giudiziario 17869/01/44 che ne costituisce l’origine formale. Cercheremo di capire il modo in cui, inseguendo un’ipotesi priva di validi riscontri – a giudizio di chi scrive, ma anche di personalità ben più prestigiose – fosse stato aperto un rubinetto dal quale sarebbe uscito soltanto un oceano di melma, senza alcun beneficio per la risoluzione dei misteri inerenti i duplici omicidi di Firenze, anzi, aggravandone la confusione.
Ma prima di cominciare riprendiamo l’argomento dell’articolo Firenze – Perugia andata e ritorno, con il quale si era illustrato il sorprendente scenario delle telefonate minatorie all’estetista di Foligno fatte apposta per stimolare la partenza delle indagini su Narducci.
Un documento inquietante. Dopo la pubblicazione dell’articolo sulle minacce telefoniche – che è necessario leggere prima di procedere con questo – sono pervenuti nella disponibilità di chi scrive altri documenti che consentono ulteriori riflessioni. Partiamo da una comunicazione di Giuliano Mignini a Paolo Canessa, datata 12 maggio 2004. Eccone il testo, con i cognomi e i dati anagrafici omessi:
Si trasmettono le copie delle trascrizioni delle telefonate ricevute da Falso Dorotea, di interesse per le indagini collegate, unitamente a copia della nota della Squadra Mobile della Questura di Perugia in data 24.01.2003.
Per il procedimento relativo alle minacce telefoniche, contraddistinto con il n. 9144/2001 R.G.N.R. (da cui è stato stralciato quello n. 17869/01 R.G. Mod. 44), è stato emesso avviso ex art. 415 bis c.p.p., nei confronti delle sottoindicate persone:
Continuano in ogni caso, nel procedimento n. 17869, le indagini per accertare eventuali rapporti esistenti tra la vicenda delle minacce telefoniche e il Prof. Francesco Narducci.
In sostanza Mignini avverte Canessa della fine delle indagini preliminari per cinque soggetti – questo è il significato della locuzione “ex art. 415 bis c.p.p.” – nell’ambito del procedimento sulle minacce telefoniche a Dorotea Falso, il 9144/01/21. Nell’occasione invia anche una nota della questura di Perugia, risalente al 24 gennaio 2003, alla quale erano allegate le relative trascrizioni (fino alla cassetta 13; sappiamo però che erano state consegnate altre cinque cassette, l’ultima attorno al 18 luglio 2003). È opportuno riflettere con grande attenzione sull’elenco degli indagati.
Innanzitutto va rilevata la presenza dei due cognati di Dorotea Falso, Francesco B. e la moglie Nadia C.. C’è poi tale Roberta F., la stessa persona nominata nell’articolo uscito sulle pagine umbre della “Nazione” del 30 marzo 2006 (vedi). A dire il vero in tale articolo c’era confusione tra Roberto e Roberta, ma doveva intendersi Roberta, visto che le età coincidono. In ogni caso in detto articolo si dice che questi tre soggetti vennero rinviati a giudizio.
Ci dovette invece essere proscioglimento per Tania C., il cui nome nell’articolo citato non c’è, ed è mancante anche dal resto della documentazione attualmente nella disponibilità di chi scrive. Stessa cosa per il dr. X.X., sul quale bisogna soffermarsi. Riprendiamo un frammento del libro Setta di stato, di Francesco Pini e Duccio Tronci:
Dall'analisi dei tabulati della Telecom, il 30% circa di queste telefonate non risultano. Ufficialmente mai effettuate. In un caso la chiamata arriva non da una cabina, ma da un cellulare. Il numero dell'utenza non è però registrato: come se fosse inesistente. Una telefonata di minacce proviene addirittura dal commissariato di Foligno, un’altra da un’utenza riconducibile ad un poliziotto.
Con grande probabilità il dr. X.X. è proprio il poliziotto cui si riferisce il libro. Chi scrive ha deciso di non fornire alcun dato che possa consentire di identificarlo, è comunque il caso di osservare che oggi ha una posizione di grande rilievo. Qual è stato il suo ruolo in questa torbida vicenda? Il lettore può dare libero sfogo alla propria immaginazione. In base agli elementi emersi, chi scrive ha il forte sospetto che qualcuno, nell’ambito delle forze dell’ordine, avesse avuto grande interesse a far partire l’inchiesta sulla morte di Narducci e sui suoi eventuali collegamenti con i delitti del Mostro. Per far questo approfittò di una preesistente vicenda di ridicole minacce telefoniche a un’anonima estetista, facendo in modo che vi entrassero Pacciani e le sette sataniche, entrambi argomenti caldi sul fronte fiorentino. Non per niente quell’estetista abitava a Foligno, e le sue denunce erano state presentate al commissariato di Foligno.
Lo si è già osservato nel precedente articolo, ma vale la pena ribadirlo: non pare un caso se le registrazioni delle telefonate da parte della Falso fossero iniziate proprio quando in esse era comparsa la figura di Pacciani. La coincidenza rende improbabile che l’iniziativa fosse stata della donna, qualcuno interno alle forze dell’ordine doveva averglielo suggerito. Forse quello stesso personaggio che quando l’inchiesta cambiò passo con la riesumazione del cadavere di Narducci vi introdusse anche la figura dello stesso. La qual cosa avvenne due giorni prima del momento topico corrispondente al deposito della perizia di Pierucci sugli atti – 20 maggio 2002 – quindi si deve presumere che le sue informazioni fossero state di prima mano.
Il documento ci dice ancora qualcosa: non vi si menziona Pietro Bini, che sarà poi l’unico soggetto condannato. Dal momento dell’apertura del procedimento 9144 ( attorno al 1° ottobre 2001) erano trascorsi due anni e mezzo; due sarebbero dovuti ancora trascorrere prima dell’inizio del processo (29 marzo 2006), nel quale era presente Bini, la cui richiesta di patteggiamento, lo abbiamo visto, sarebbe stata rifiutata. Quando entrò nell’inchiesta tale personaggio, se ai primi di maggio 2004 le indagini erano terminate? Che fossero terminate lo dice il documento precedente, e la controprova la troviamo nella sentenza Micheli, dove è lo stesso PM ad affermarlo nella sua requisitoria:
Nel frattempo, nel procedimento n. 9144/01/21 erano cessate le indagini ed era stato notificato l’avviso ex art. 415 bis c.p.p. da cui emergeva che le telefonate ricevute dalla FALSO provenivano da sedicenti appartenenti ad una sorta di setta satanica e riguardavano proprio il Narducci (e il Pacciani). Il quotidiano “La Nazione” pubblicava tali notizie e il Brizioli, con due telegrammi del 5 e dell’11.05.04, intimava alla giornalista Erika Pontini, autrice dell’articolo, di non pubblicare più notizie del genere sotto pena di azioni legali. Il giornalista Pino Rinaldi, nell’esame in data 5.05.05, ha ammesso di aver letto l’articolo della Pontini.
Ma allora Pietro Bini?
Edit: Dopo una rilettura della documentazione ritengo di poter affermare con una certa sicurezza che Tania C. altro non fosse che la baby sitter di Dorotea Falso, da lei nominata nelle dichiarazioni alla questura di Perugia del 29 settembre 2001. Tra l'altro moglie di un poliziotto.
La perizia fonica. Il lettore non se la prenda se si sente confuso, poiché risulta davvero difficile districarsi in questo incredibile guazzabuglio. Abbiamo visto nel precedente articolo (qui) che nel gennaio 2003 Bini era già stato segnalato al PM come elemento sospetto, ma non si sa se fosse anche stato iscritto nel registro degli indagati. Un tassello ulteriore ci viene offerto dalla perizia fonica ordinata il 18 agosto 2005 dal PM su 20 delle telefonate tratte dalle cassette della Falso. Tra l’altro ci si sarebbe aspettato che tale perizia fosse stata richiesta nell’ambito del procedimento 17869, quello sulla morte di Narducci, visto che sul 9144 le indagini erano terminate da più di un anno. E invece no, poiché nell’intestazione si legge che il procedimento è proprio il 9144. Si tratta dell’ennesima stranezza di questa inchiesta, forse un ripensamento del PM, forse una richiesta degli indagati. La legge consente infatti ulteriori investigazioni anche dopo la fine delle indagini preliminari, ma qui l’enorme ritardo – più di 15 mesi – non può non lasciare perplessi. È lecito chiedersi il perché tale perizia non fosse stata ordinata prima. In ogni caso eccone gli obiettivi:
Previo esame delle trascrizioni e della fonia delle telefonate per cui è processo, accerti il C.T.U. tutte le caratteristiche delle voci degli anonimi interlocutori di Falso Dorotea (in relazione all'avviso ex art. 415 c.p.p.), caratteristiche atte ad identificarli, vale a dire:
Il fatto che si suggerisse una possibile provenienza dei telefonisti da Cannara ci conferma i sospetti su Bini, il quale a Cannara era nato e a Cannara risiedeva. Questi i risultati:
Dunque la voce maschile era proprio quella di Pietro Bini, di Cannara, ma la voce femminile? L’inflessione piemontese ci dice che non apparteneva a nessuna delle tre donne presenti nel documento di chiusura delle indagini preliminari, tutte nate e residenti in Umbria. Quindi tale soggetto non venne individuato, almeno non fino all’udienza del 29 marzo 2006, nella quale il PM e l’avvocato di Bini avevano concordato una pena per il patteggiamento. Tra l’altro appare strano il fatto che si volesse concedere il patteggiamento a chi non aveva reso una confessione completa, tacendo l’identità della sua complice.
Tra i telefonisti non individuati, oltre a una donna di origini piemontesi ci doveva essere anche un uomo di origini toscane. La sua presenza risulta dalle trascrizioni delle prime cassette, dove si parla di “accento toscano” e di “-H- aspirata tipica toscana”. Quindi di sicuro non Bini, visto che è impossibile confondere parlata umbra e parlata toscana. Evidentemente le telefonate di questo soggetto non erano tra le 20 selezionate per la perizia fonica, che a questo punto si deve ritenere che avesse avuto più lo scopo di mettere la parola fine alla grottesca vicenda che quello d’individuare i telefonisti.
Sulla questione delle minacce telefoniche per adesso fermiamoci qui, restando in attesa di nuova documentazione – il massimo sarebbe la sentenza con la condanna di Bini – che possa portare chiarezza.
La notizia di reato. L’apertura di ogni procedimento giudiziario viene effettuata sulla base di almeno una “notizia di reato”– detta anche notitia criminis – attraverso la quale il magistrato ha preso atto di un reato da perseguire. Le fonti dalle quali tale notizia gli arriva possono essere molteplici, ma nella grande maggioranza dei casi si riducono a due tipologie: la denuncia, da parte delle forze dell’ordine o anche di comuni cittadini e il referto, segnalato dal sistema sanitario dopo l’esame di un soggetto offeso. A quel punto il magistrato deve iscrivere tale notizia in un apposito registro di cinque, ricevendo un numero progressivo annuale che, assieme all’anno e al tipo di registro, contraddistinguerà il relativo procedimento (per esempio 12345/20/21).
Dei cinque registri qui ne interessano tre. Nel registro detto “modello 21” vengono inserite le notizie di reato per le quali sono già state individuate una o più persone da indagare (registro delle notizie di reato a carico di persone note). Nel registro detto “modello 44” vengono inserite le notizie di reato per le quali tali persone non sono state ancora individuate (registro delle notizie di reato a carico di persone ignote).
Prima di parlare del terzo registro, è il caso di affrontare un tema spinoso, una delle fonti di possibili malfunzionamenti della giustizia italiana. Quando il reato è evidente di per sé la sua iscrizione in uno dei due registri citati è una logica conseguenza, anzi, la legge ne prevede l’obbligo. Saranno poi le indagini preliminari e il successivo processo a perseguire i responsabili, quando noti. In molti casi invece il reato non è evidente: potrebbe esserci stato ma anche no. L’esempio più eclatante è quello dell’abuso sessuale, i cui confini in certi casi sono davvero indefiniti. E quando il procedimento giudiziario viene aperto per un reato inesistente, il rischio è che tale reato, intercettazione dopo intercettazione, interrogatorio dopo interrogatorio, perizia dopo perizia, finisca per configurarsi davvero, con tutte le conseguenze negative che si possono immaginare. Soltanto l’esperienza e la sensibilità del magistrato possono risparmiare a persone innocenti l’ingresso in questi tunnel, evitando nel contempo che le risorse tutt’altro che illimitate di forze dell’ordine e magistratura vengano distolte dal perseguimento di reati reali.
Quando la sussistenza del reato non è certa, il magistrato può aprire un procedimento provvisorio avvalendosi del registro degli atti che non costituiscono notizia di reato (modello 45), senza avvertire il giudice per le indagini preliminari. Dopodiché procede con le proprie valutazioni, cercando di acquisire informazioni maggiori anche attraverso una limitata attività investigativa, che la legge non consentirebbe ma che appare evidente rendersi necessaria (per esempio sentire la persona offesa e il presunto responsabile). Alla fine di tale breve percorso, il magistrato deve quindi decidere se aprire un provvedimento a modello 21 o 44, oppure soprassedere semplicemente chiudendo il procedimento provvisorio.
Questo breve riassunto di una materia non troppo semplice servirà al lettore per seguire meglio gli eventi che dettero origine all’apertura delle indagini sulla morte di Francesco Narducci. Inevitabilmente sarà necessario sopportare qualche ripetizione di notizie già fornite dal precedente articolo.
Dal 9144/01/21 al 5202/01/45. Dopo la consegna alla questura di Perugia, il 29 settembre 2001, delle prime due cassette di minacce – dove compariva Pacciani – con una nota di due giorni dopo il capo della mobile Angeloni comunicò la notizia a Mignini, suggerendo come sospettato Francesco B., cognato della Falso. Il procedimento riferito è 1’11674/00/21, citato in varie occasioni dal magistrato come relativo a una vicenda di usura, nella quale evidentemente Francesco B. doveva risultare coinvolto. Ma scritto a penna compare anche il numero di un procedimento nuovo, il 9144/01/21, quello per le minacce telefoniche, che probabilmente fu aperto quel giorno stesso a carico del soggetto in questione e forse già della moglie, Nadia C.
Il 9 ottobre Angeloni inviò a Mignini il documento dal quale si può dire che sarebbe partita l’intera inchiesta Narducci (vedi). Dopo aver fornito inequivoca dimostrazione che nelle telefonate a Dorotea Falso non c’era stato alcun riferimento al medico umbro, appare ancor più sorprendente la richiesta di poter acquisire il “fascicolo processuale inerente la persona del dr. Narducci Francesco, perito a seguito di probabile suicidio”, con la seguente motivazione: “Come è ormai noto, voci insistenti avevano indicato il Dr. Narducci quale materiale esecutore dei ‘tagli’ di parti del corpo, effettuati dal mostro di Firenze, e che per di più avrebbe conservato in modo e luoghi adatti”. Nello stesso documento Angeloni chiedeva “delega all’acquisizione di sommarie informazioni da parte della professoressa Barone, impiegata quale medico legale presso l’istituto di Medicina legale di Perugia”. Questo perché “sembra che la Professoressa Barone sia al corrente di diversi particolari inerenti chiaramente la morte del Narducci, ma anche fatti specifici sulla sua vita, forse in considerazione anche del fatto che erano comunque colleghi”. Il tutto “al fine di stabilire se le persone autrici del reato [le minacce telefoniche], allo stato degli atti ancora non identificate, facciano parte o meno della setta satanica a cui fanno riferimento nelle conversazioni telefoniche, nonché siano interessate o coinvolte nella morte di Pacciani e/o comunque legate all’attività della persona che fu definita ‘il mostro di Firenze’”.
Sfugge davvero il nesso tra l’identificazione delle persone autrici delle minacce telefoniche e le chiacchiere su Narducci che da una quindicina d’anni circolavano nella zona, e sulle quali già la procura di Firenze aveva messo una pietra sopra giudicandole inconsistenti. Semmai in una prima fase delle indagini ci si sarebbe dovuti preoccupare dell’identificazione in sé, per capire cosa ci fosse dietro. Ma di fatto, come appare evidente, l’interesse per quelle minacce non era altro che un pretesto per iniziare a indagare sulla morte di Narducci.
In ogni caso le richieste di Angeloni ricevettero positiva accoglienza da parte di Mignini, il quale gli concesse le deleghe e nel contempo aprì un procedimento per atti che non costituiscono notizia di reato: il 5202/01/45. Chi scrive non ha la data precisa di tale apertura, ma un documento che tra breve vedremo fa presumere fosse avvenuta quello stesso 9 ottobre, assieme al recupero della scarna documentazione dell’epoca. In ogni caso poco cambia: per una ricostruzione storica è importante osservare che in quei giorni il magistrato stava riflettendo sugli eventi che avevano accompagnato la morte di Francesco Narducci, alla ricerca di una possibile notizia di reato, e per questo si era avvalso del registro a modello 45.
Francesca Barone. Lunedì 22 ottobre 2001 iniziò la settimana decisiva per la futura inchiesta su Narducci: Mignini doveva decidere se farla partire oppure no, cominciando col mettere in forse la causa ufficiale di morte, “asfissia da annegamento da probabile episodio sincopale” (in sostanza Narducci, provetto nuotatore, sarebbe affogato in seguito a un malore che lo aveva fatto cadere in acqua dal suo motoscafo). Abbiamo visto che sui procedimenti a modello 45 non sono consentite indagini, anche se spesso queste vengono svolte comunque, seppur in modo molto limitato. In ogni caso il magistrato scelse una strada alternativa e, per ascoltare i primi testimoni, si avvalse del procedimento 9144, che in verità con Narducci nulla aveva a che fare.
Alle 16:20 di quel lunedì 22 ottobre Francesca Barone, professoressa dell’Istituto di Medicina Legale di Perugia, era di fronte a Mignini. Come già emergeva dai documenti, la donna confermò di non essere stata interpellata in occasione del rinvenimento del cadavere, come invece riteneva fosse necessario. Dal verbale:
Ricordo che quella settimana ero di turno all'istituto di medicina legale per la sala settoria e che non fui interpellata in occasione del rinvenimento del cadavere di Francesco Narducci, che peraltro conoscevo di persona, essendo mio collega. Seppi subito che fu trovato il suo cadavere nel lago e mi allertai pensando di dovere intervenire per il sopralluogo ma non venni chiamata dalla Procura come è consuetudine. Ricordo in particolare che vi erano stati annegamenti di pescatori nel lago di Corbara ed io fui chiamata per il sopralluogo e l'autopsia. In questi casi venivamo sempre chiamati dalla Procura ma in quell'occasione, come ho detto, nessuno mi interpellò. Seppi che una dottoressa, le cui funzioni potrebbero oggi essere assimilate a quelle della guardia medica, era intervenuta, redigendo un certificato di morte per annegamento; a quanto mi risulta non fu eseguita la perizia autoptica e il cadavere non fu portato all'obitorio ma affidato direttamente ai familiari.
Francesca Barone disse anche altro. In effetti, se Angeloni voleva stimolare i sospetti di Mignini verso scenari inquietanti aveva suggerito la persona giusta. Vediamo le dichiarazioni inerenti il giorno in cui era stato ritrovato il cadavere:
Per pura causalità incontrai dei pescatori, uno dei quali, di cui non ricordo il nome, aveva partecipato al recupero del cadavere; quest'uomo […] mi disse che il cadavere di Francesco Narducci presentava delle macchie rosse, come se avesse sbattuto contro qualcosa o che comunque avesse subito colpi violenti. Le macchie erano presenti soprattutto sul volto; il pescatore aggiunse che il cadavere aveva le mani ed i piedi legati dietro la schiena. Il pescatore mi disse che dovevano avergli dato tantissime botte per come era ridotto il volto.
Ecco invece qualche notizia sulla figura di Narducci:
Domanda: ricorda quali erano le abitudini del Dr. Narducci Francesco?
Risposta: solo per sentito dire, ricordo che il Narducci era una persona dal carattere difficile, molto ansioso ed estremamente chiuso e che frequentava una ristretta cerchia di amici. Nell'ambito dell'ospedale la sua cerchia di amici era quella della vecchia clinica medica. Mi risulta, per sentito dire, che avesse una casa in Toscana, dove si recava frequentemente.
Domanda: con chi viveva il Dr. Narducci Francesco?
Risposta: non lo so, so soltanto che era separato dalla moglie. Non si parlava nemmeno di suoi rapporti con altre donne, cosa che si sarebbe risaputo in clinica dove si conoscevano subito questi pettegolezzi. Quando si parlava del Narducci, si diceva subito che era introverso e che aveva una vita molto riservata. Ho sentito dire anche che Narducci aveva interessi verso l'esoterismo.
Molte notizie gustose, dunque, ma tutte per sentito dire – tra l’altro anche inesatte, come il fatto che Narducci fosse separato dalla moglie – e che peraltro la Barone aveva già avuto modo di raccontare, negli anni precedenti, a giornalisti che proprio a lei erano andati a chiedere lumi.
Domanda: quali erano le condizioni di salute del Narducci?
Risposta: nulla so in proposito, però posso dire che era giovane ed aveva un fisico atletico. Vorrei aggiungere che diversi anni fa durante il meeting di Comunione e Liberazione di Rimini, un giornalista toscano, di cui non ricordo il nome mi telefonò e poi mi fece delle domande su Francesco Narducci, ricollegandolo alla vicenda del cosiddetto “Mostro di Firenze”. Non ricordo a quale giornale appartenesse questa persona ma sapeva tantissime cose sulla vicenda del mostro di Firenze e sapeva anche che il Dr. Narducci aveva una casa in Toscana. Mi indicò il luogo preciso ma non ricordo se fosse Firenze o un'altra località. Un'altra inchiesta giornalistica fu fatta da Luigi Amicone del settimanale “Tempi” di Milano; anche Amicone venne da me e mi chiese di Narducci ma non era così informato come l'altro. Il giornalista di cui non ricordo il nome mi disse che Narducci aveva una pistola.
Domanda: ha più visto il giornalista toscano?
Risposta: no, non l'ho più visto. Voglio specificare che il giornalista, dopo l'incontro a Rimini venne a Perugia un paio di volte per parlare con me sempre di Narducci.
È il caso di fare qualche precisazione sul racconto del pescatore che aveva riferito alla Barone di aver visto il cadavere di Narducci con mani e piedi legati dietro la schiena. Tempo dopo sarebbe stato identificato per Giancarlo Zoppitelli, non pescatore ma imbianchino, il quale dapprima cadde dalle nuvole, poi, dopo un confronto con la Barone, il 13 marzo 2002 dichiarò:
Ora che ho visto la Prof.ssa Barone ricordo che effettivamente nel pomeriggio del 13.10.1985 riferii a quest'ultima che il cadavere aveva il volto tumefatto, il naso rotto e le mani legate, ma questo non l'ho visto di persona. L'ho sentito dire quel giorno da molta gente sul pontile, nel momento del ritrovamento da persone del paese che hanno ripetuto queste affermazioni anche nel bar “Menconi”, gestito da tale Menconi, non ricordo se il padre o il figlio. Mi dispiace di essermi infilato in questo impiccio.
A questo punto si provi a immaginare i colloqui della Barone con i due giornalisti, e si avrà un’idea di massima di come la vicenda Narducci si sia nutrita di chiacchiere della cui origine non si è mai saputo nulla: sul pontile e al bar Zoppitelli avrebbe sentito dire delle condizioni sospette del cadavere (ma forse se le era inventate lui), poi lo aveva detto alla Barone. Si può immaginare che a sua volta la Barone lo avesse riferito ai due giornalisti, i quali lo avranno senz’altro riportato nei loro servizi.
A proposito della scelta della Barone come primo testimone in scaletta si legge nella sentenza Micheli:
È emblematico constatare come già la prima persona escussa per valutare se fosse il caso di vederci più chiaro sui fatti del 13 ottobre 1985 si trovi a dare contezza della voce corrente sul coinvolgimento del Narducci nelle questioni fiorentine, sulla disponibilità in capo a lui di una casa nella zona di Firenze e addirittura sugli interessi esoterici del defunto.
È anche singolare prendere atto che, in un congresso di qualche anno prima, un giornalista toscano – si capirà in seguito trattarsi del Licciardi – avesse pensato di chiedere notizie sulla vicenda proprio alla prof.ssa Barone, e che sempre da lei, ben prima del ritorno di interesse degli inquirenti su quella storia, si fossero recati altri giornalisti.
Per la cronaca, Pietro Licciardi è un giornalista pisano, autore a quattro mani di due libri in argomento, entrambi pessimi: Gli affari riservati del Mostro di Firenze, assieme a Gabriella Carlizzi e La strana morte del dr. Narducci, assieme a Luca Cardinalini. Di ben altra caratura Luigi Amicone, il cui servizio su Narducci non è purtroppo nella disponibilità di chi scrive.
Nella documentazione dell’epoca comparivano i nomi dei funzionari che si erano interessati al caso, in massima parte ancora in vita (il maresciallo dei carabinieri Lorenzo Bruni, il dirigente della mobile Alberto Speroni, il questore Francesco Trio, tanto per citarne alcuni), quindi perché non chiedere spiegazioni a loro? Evidentemente si cominciava già a considerarli parte in causa nelle presunte malefatte, mentre la scelta della Barone era funzionale alla ricerca di motivi di sospetto. Sia come sia, il colloquio con lei dovette risultare molto convincente. Quel giorno stesso, infatti – pare logico ritenere: appena dopo averla ascoltata – Mignini inviò alla procura di Firenze un documento nel quale dichiarava la sua intenzione di partire con le indagini: “Si fa presente che questo Ufficio procede in ordine alle circostanze relative alla scomparsa e al rinvenimento del Dr. Francesco Narducci”. Il procedimento indicato in capo al documento è il 9144, ma nel testo si legge: “Oggetto: procedimento n. 5202/01 R.G. Mod. 45”, quindi il provvisorio aperto con la ricezione dell’informativa di Angeloni del 9 precedente, la quale veniva allegata.
Riguardo questa fin troppo solerte comunicazione – perché non attendere fino all’apertura del procedimento definitivo? – si deve osservare come alimenti i sospetti che a Firenze non si fosse affatto all’oscuro di quel che si stava preparando a Perugia, e che anzi, si attendesse con ansia l’apertura di un nuovo fronte sulle moribonde indagini alla ricerca dei mandanti. È il caso di ricordare la brutta situazione in cui si trovavano in quei giorni Giuttari e la procura, reduci dal clamoroso fallimento della perquisizione nella villa dei C. a San Casciano
Avanti con le deleghe. A testimoniare la decisione oramai già presa c’è un documento del giorno successivo, 23 ottobre 2001, nel quale Mignini chiede ad Angeloni di partire con approfondite indagini, concedendogli amplissime deleghe.
Pregasi procedere alle indagini relative ai fatti rappresentati nell'allegata notizia di reato, assumendo informazioni ex artt. 362 e 370 c.p.p., da tutte le persone che possono comunque fornire notizie utili in ordine a quanto emerso nel corso dell'attività di indagine, in ordine agli ultimi giorni di vita del Narducci e, soprattutto, in relazione all'ultimo e, in particolare, al viaggio da Perugia al Lago Trasimeno e all'eventuale sosta nell'isola Polvese, nonché in ordine ad eventuali appuntamenti del defunto con sconosciuti.
Pregasi, in particolare, di accertare, anche attraverso l'ausilio di persone idonee, ex art. 348, ult.mo comma c.p.p., le seguenti circostanze:
Di tutte le persone assunte a s.i. dovranno essere indicati generalità complete e residenza o domicilio e dovranno essere identificati e assunti a s.i. coloro che verranno indicati dalle persone interrogate.
Si fa presente che, qualora le persone informate sui fatti si riferiscano, a loro volta, ad altre persone che siano a conoscenza dei fatti per cui si procede, sarà indispensabile che le stesse vengano assunte a s.i. ex art. 351 c.p.p., nel rispetto della norma di cui all'art. 13 della l. n. 63/2001, o che, almeno, siano esattamente identificate.
La delega è estesa a tutte le attività che, durante lo svolgimento delle indagini, si rivelassero necessarie.
Con facoltà di subdelega al corrispondente organo di Polizia Giudiziaria territorialmente competente che dovrà svolgere con sollecitudine le indagini delegate e restituire gli atti direttamente a questa Procura, dandone comunicazione all'Autorità delegante entro e non oltre il termine di scadenza delle indagini stesse.
Anche in questo caso venne utilizzato l’escamotage d’inserire l’attività richiesta nell’ambito del procedimento sulle minacce telefoniche alla Falso. Si parla però di “allegata notizia di reato”, una parte del documento non in possesso di chi scrive, ma che è facile immaginare cosa contenesse. Non a caso tra le disposizioni ad Angeloni c’era anche quella d’indagare sulla “presenza e l'individuazione di eventuali visitatori nell'isola Polvese, nel pomeriggio dell'8.10.1985”, visitatori che avrebbero potuto essere i responsabili del reato da perseguire.
Donatella Seppoloni. Nonostante la comunicazione ai colleghi di Firenze e le disposizioni ad Angeloni, anche il giorno dopo Mignini non aprì un procedimento definitivo, preferendo ascoltare qualche altra testimonianza nell’ambito del solito 9144. Alle 10:25 di mercoledì 24 ottobre Donatella Seppoloni, all’epoca medico della USL del Lago Trasimeno, si trovava di fronte a lui. La mattina di domenica 13 ottobre 1985 la dottoressa era stata chiamata sul pontile dove giaceva il corpo di Narducci appena recuperato dal lago, e in quella circostanza aveva redatto il certificato di morte con la diagnosi “asfissia da annegamento da probabile episodio sincopale”.
Dal lungo colloquio emerse innanzitutto che l’intervento era avvenuto secondo una prassi di assoluta normalità:
Domanda: nell'attività di medico strutturato aveva compiti di interventi di urgenza, quali visite di urgenza o come visite esterne di cadavere e comunque attività di medico legale?
Risposta: non era il mio lavoro ordinario ma lo svolgevo in condizioni di reperibilità per il pomeriggio, per le notti e per i periodi festivi.
[…] fui chiamata dal centralinista dell'ospedale di Castiglion del Lago nel primo pomeriggio, forse intorno alle ore 14,30 - 15,00 di un giorno di Ottobre di molti anni fa; mi venne detto dal centralinista che c'era una chiamata urgente dal molo di S. Arcangelo in quanto era stato rinvenuto un cadavere nel lago. Sono arrivata sul molo di S. Arcangelo e vi trovai il Dr. Trippetti giovane, che non aveva potuto fare la certificazione perché non poteva più esercitare le funzioni di medico necroscopo. L'unico medico abilitato ad effettuare attività di necroscopia ero io.
Dunque la dottoressa Seppoloni era effettivamente la persona da chiamare (il suo ricordo dell’orario risultava però sbagliato, l’intervento era infatti della mattina). Quel che invece non appariva normale erano le forti pressioni fattele per redigere il certificato di morte in base a un’ispezione sommaria e soprattutto senza disporre la necessaria autopsia.
Domanda: la visita fu effettuata tutta all'esterno o il cadavere fu portato in qualche luogo chiuso?
Risposta: io dovevo fare solo una constatazione di morte e redigere il conseguente verbale; ricordo che la visita si svolse sul molo, dove avevo visto per la prima volta il cadavere. Il cadavere non fu spogliato perché non serviva ai fini della constatazione di morte. Ricordo che sia il fratello, che il Dr. Morelli ed il Dr. Farroni o Ferroni, mi giravano continuamente intorno e questo mi dava piuttosto fastidio, tant’è che chiesi ai vigili di tenermi lontano queste persone, fra cui vi erano anche i giornalisti con macchine fotografiche. Ricordo che ad un certo punto sopraggiunse una Autorità, non so se della Questura o della Procura, che mi chiese di fare una ispezione cadaverica; intorno a me c'erano i Carabinieri credo della Stazione di Magione. […]
Domanda: Lei di solito faceva le ispezioni o si limitava a redigere i certificati di morte?
Risposta: io di solito redigevo solo i certificati di morte perché non avevo la competenza professionale per effettuare le ispezioni cadaveriche. Questa persona comunque mi chiese di fare quest'ispezione ed io dissi che non ero in condizioni di poterla fare sul molo e quindi il cadavere doveva essere trasportato nella camera mortuaria dell'ospedale di Castiglion del Lago, che era la più vicina. Qui iniziarono purtroppo delle insistenze e delle pressioni per fare immediatamente l'ispezione sul posto poiché si trattava di un caso urgente, vi erano i familiari affranti e comunque non si poteva attendere il trasporto alla camera mortuaria. Vi fu un minimo di contraddittorio, perché io insistevo ad avere un ambiente adeguato che non ottenni perché mi si ribadì la necessità e l’urgenza di effettuare l’ispezione, senza sapere se questo fosse disposto dall'Autorità Giudiziaria; quindi mi rimboccai le maniche e grazie all'ausilio dei Vigili del fuoco che mi aiutarono anche nell'ispezione, mi accinsi a questa operazione, dopo aver invitato i Carabinieri ad allontanare la gente. Feci comunque presente alla persona in divisa che la mia ispezione sarebbe stata del tutto sommaria perché non avevo né i mezzi né la competenza professionale per procedere ad ispezioni di quel tipo.
Antonio Morelli e Ferruccio Farroni, colleghi di Francesco Narducci, furono i firmatari del certificato di riconoscimento. Il personaggio indicato come “autorità” si sarebbe appurato poi trattarsi del questore Francesco Trio. Alla fine le loro pressioni sortirono l’effetto desiderato: la Seppoloni effettuò un’ispezione sommaria sul posto e certificò che la causa di morte era l’annegamento, rendendo quindi non indispensabile l’autopsia, che in effetti non sarebbe stata eseguita. Nella documentazione si legge anche il momento del decesso, risalente a 110 ore prima dell’ispezione. Su questo importante dettaglio la Seppoloni cadde dalle nuvole:
Il verbale fu redatto materialmente in un locale, credo della cooperativa dei pescatori di S. Arcangelo, dove mi recai assieme ai Carabinieri i quali provvidero a redigere il verbale che io firmai nella parte relativa alla ricognizione del cadavere, ma non ricordo che mi vennero fatte domande circa l’orario della morte od altro, anche perché non potevo stabilire l’orario della morte del Dr. Narducci ed escludo di avere detto che era morto da 110 ore perché non avevo un minimo di competenza per affermarlo. Voglio aggiungere che c’erano delle forti pressioni intorno a me perché più io allontanavo le persone, con l’ausilio dei Carabinieri, più la gente mi pressava anche all’interno del locale.
Evidentemente chi aveva redatto il verbale aveva fatto un semplice conteggio di ore dal momento della scomparsa.
Baiocco e Trovati. Subito dopo la Seppoloni, alle 12:55, toccò alla persona che aveva rinvenuto il cadavere, il pescatore Ugo Baiocco.
Domanda: ricorda di avere ritrovato il cadavere del Dr. Narducci?
Risposta: sì, ricordo che lo ritrovai insieme a mio cognato […] annegato quest'anno nel lago. Sapevo che il Dr. Narducci era sparito nella zona del lago […]. Come tutte le mattine, anche il giorno del ritrovamento […] eravamo io e mio cognato in barca, diretti verso l'Arginone, che si trova in un luogo situato in direzione di Castiglion del Lago, con l'intenzione di porre le reti […].
Ricordo perfettamente che quel giorno vi erano molte alghe che affioravano dall'acqua e vi era vento da ponente; io dissi a mio cognato, guardando quel cumulo di alghe, “ma non sarà mica il professore quello?” E quando ci avvicinammo, rallentando con il motoscafo, vidi il corpo di un uomo sfigurato, a pancia all'aria, vestito con cravatta, camicia e mi pare un giacchetto, calzoni e scarpe, con il volto tumefatto, nero e gonfio, e non si vedevano nemmeno gli occhi.
Ricordo che la testa era rivolta verso Castiglion del Lago, a favore di vento, ricordo anche che sulla testa vi erano molte alghe che formavano come una specie di capannella in cui era immerso il corpo. Aveva il braccio sinistro poggiato sullo stomaco e il braccio destro lungo il corpo; appena lo vidi svenni e mi ripresi dopo pochi minuti. Ricordo che in quei giorni il vento era di ponente un po' sostenuto, in sostanza veniva da Castiglion del Lago ed andava verso S. Arcangelo; ricordo anche che la mano sinistra, quella poggiata sullo stomaco, era particolarmente gonfia, deforme e scura, mentre l'altra mano era sott’acqua.
Dopo quel fatto facemmo chiamare i Carabinieri di Castiglion del lago che hanno portato il cadavere al molo, dove è arrivato il Procuratore. Io, dopo essere andato al molo, me ne andai. Ricordo che quando il cadavere fu poggiato nel motoscafo dai Carabinieri, si aprì un qualcosa nel corpo del morto, non so se dal ventre o dalla bocca, e vi fu una puzza indescrivibile, tanto che i Carabinieri dovettero mettersi una garza alla bocca ed al naso.
Come abbiamo già visto, niente mani e piedi legati dietro la schiena, dunque. In quel momento però Mignini non aveva ancora avuto modo di sapere chi fosse il pescatore che aveva raccontato la scena alla Barone, quindi neppure di interrogarlo. E allora ci si deve chiedere se sospettò che magari anche Ugo Baiocco avesse partecipato ai misfatti!
L’ultimo testimone della giornata, alle 16, fu Giuseppe Trovati, detto Peppino, proprietario della darsena di San Feliciano dove era ricoverato il motoscafo dei Narducci. Era stato lui a vedere Francesco mentre partiva per il suo ultimo viaggio, quindi il suo racconto assume particolare rilevanza.
Domanda: che cosa notò l'ultima volta che vide il Dr. Narducci in vita?
Risposta: arrivò verso 1e 15,00 - 15,30 circa di un giorno di ottobre a bordo di una moto che già avevo visto altre volte e mi pare che il colore del serbatoio fosso di colore oro, ed il tipo della moto fosse quello tradizionale, con il manubrio alto. Ricordo che indossava un giubbotto di pelle di camoscio, con sotto una camicia, mi pare, non ricordo se avesse i jeans ed i mocassini. Preciso che verso le ore 14,?? il Narducci telefonò a mia moglie per sapere se la barca era ancora al lago perché normalmente nel mese di Ottobre vengono tolte e ricoverate in un piazzale; invece quell'anno era molto caldo e la barca era ancora ormeggiata nella darsena. Mi salutò cordialmente ed appariva del tutto normale; mi disse che usciva con la barca ed io gli chiesi se avesse bisogno del carburante e lui mi disse che era sufficiente quello che aveva, contando sul fatto che comunque il serbatoio di scorta era mezzo pieno di benzina, contenendo 10 - 12 litri. Quel motore consumava circa 1,5 lt per chilometro; quando ii Dr. Narducci salì sull'imbarcazione non aveva niente in mano, e partì verso l'isola Polvese e comunque verso il centro del lago. Ricordo che non prestai attenzione alla sua partenza perché dovevo andare dal commercialista.
Il racconto passa quindi alla fase in cui Trovati si accorse del mancato rientro e dopo un po’ iniziò a preoccuparsi.
Quando tornai dal commercialista, verso le ore 19,00 circa, e comunque quando era già notte, notai che il motoscafo non era rientrato. La moto era ancora parcheggiata all'interno del terreno della darsena, dove l'aveva lasciata, nei pressi di una pianta. […] Non vedendo il Dr. Narducci ho aspettato una mezz'oretta senza essere eccessivamente preoccupato, sia perché il Narducci era particolarmente esperto sia perché il lago era completamente calmo. […] Verso le ore 19,30 telefonai a casa dei genitori e mi rispose suo fratello. Lo informai che il Dr. Francesco non era ancora rientrato con il motoscafo e lui mi rispose che sarebbero arrivati. Verso le ore 21,30 - 22,00 arrivò il fratello del Dr. Narducci, Dr. Pierluca, insieme al Dr. Ceccarelli, oltre ad altre due persone, fra cui il cognato. Uscirono con il motoscafo a cercare il Dr. Francesco; ricordo che non c'era la luna piena e quindi era buio.
Senza neppure attendere l’arrivo dei parenti, Trovati uscì sul lago. Poi tornò alla darsena e si unì ad altri in una ricerca più organizzata. Alla fine il motoscafo venne ritrovato vuoto tra le canne dell’isola Polvese.
Dopo avere chiamato i familiari, feci un giro con il motoscafo intorno all'isola Polvese e non vidi il motoscafo del Dr. Narducci, dove poi è stato ritrovato, e cioè nel canneto dell'isola Polvese. Quando il motoscafo fu ritrovato, credo che fosse a circa venti metri dall'isola stessa. Dopo aver fatto il giro dell'isola, tornai alla darsena e vidi che i familiari erano già arrivati. Escludo di avere chiamato i Carabinieri e ricordo che c'erano i mezzi della provincia ma non mi pare che vi fosse la motovedetta dei Carabinieri, se ben ricordo. Il motoscafo con cui avevo fatto il giro dell'isola aveva un faretto non molto potente e le canne in mezzo a cui fu ritrovata l'imbarcazione erano abbastanza alte. Comunque quando tornai alla darsena, i soccorsi erano già stati organizzati dalla Provincia e noi fummo dotati di baracchino con cui comunicavamo a distanza. Io fui mandato verso l'isola Maggiore, dove verso le ore 00,30 mi fu data la notizia che era stata rinvenuta la barca presso l'isola Polvese. […]
Il natante appariva in condizioni assolutamente normali, come se Narducci si fosse tuffato per una nuotata senza più risalire a bordo (in realtà il suo cadavere vestito di tutto punto faceva escludere questa ipotesi; semmai poteva essere caduto in acqua per un malore).
Appena saputa la notizia, rientrai alla darsena, dove era stata portata la barca. La barca presentava la leva del cambio del motore in folle ed il motore spento; c'era anche un pacchetto di sigarette ed un accendino, posti sul sedile anteriore, vicino a quello di guida. La barca era in perfetto ordine; io provai il motore che andò regolarmente in moto. Non controllai il livello del carburante. Quando vidi l'imbarcazione notai che le chiavi erano nel quadro.
Il dado è tratto. Alla fine di quel frenetico 24 ottobre 2001 Mignini ritenne di aver acquisito sufficienti elementi per prendere una decisione. Il lettore sa già quale fu, ma facciamo finta di non saperlo, e cerchiamo di metterci al suo posto. Pare evidente che con la mancata autopsia e tutti gli altri necessari controlli sul cadavere fossero state commesse delle irregolarità, delle quali risultavano responsabili medici e rappresentanti delle forze dell’ordine, peraltro di grado elevato. Alcuni erano presenti nella testimonianza della Seppoloni, come l’autorità che lei ricordava in divisa ma che doveva essere il questore Francesco Trio. E poi i colleghi di Narducci, Antonio Morelli e Ferruccio Farroni, nonché il fratello Pierluca, che le avevano fatto pressione diretta ma la cui responsabilità era soltanto morale. Altri personaggi emergevano dai vecchi e scarni documenti, magistrati, poliziotti e carabinieri che avevano preso visione delle irregolarità senza creare problemi. Tra loro il capo della mobile, Alberto Speroni, e un procuratore e un giudice istruttore che avevano rinunciato a esercitare azione penale.
Si legge in un frammento della requisitoria di Mignini riportato nella sentenza Micheli, dove si parte da uno scambio tra Ugo Narducci, il padre, e una testimone:
“Ugo mi prese in disparte portandomi in un’altra stanza, uno studio, e mi disse: mi sono messo d’accordo con il Questore per non far fare l’autopsia a Francesco”.
Qui siamo al di fuori di qualsivoglia canone giuridico processuale: un privato si accorda con il funzionario che è sì a capo della Polizia della provincia ma che è totalmente privo di qualsivoglia competenza di polizia giudiziaria circa il fatto che un atto che è tipicamente un atto di indagine di competenza dell’Autorità giudiziaria debba o non debba essere fatto.
Ricordo la dizione dell’art. 16, primo comma del R.D. 28.05.1931 n. 602, sulle Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: “Se per la morte di una persona sorge sospetto di reato, il pretore o il procuratore della Repubblica accerta la causa della morte e, se lo ravvisa necessario, ordina o richiede l’autopsia…”. Questa, a sua volta, se non fosse apparsa collegata a ricerche di carattere complesso, si doveva considerare rientrante nelle ipotesi di cui agli artt. 17, primo comma disp. att. c.p.p. previgente e dall’art. 391, secondo comma c.p.p. previgente.
Si doveva, quindi, procedere con istruzione sommaria, con il rischio che, data l’evidente complessità degli accertamenti, il Pubblico Ministero avrebbe dovuto, con ogni probabilità, richiedere l’istruzione formale al Giudice istruttore.
Ma, in questo caso, un privato, cioè il padre del morto, si accorda con il Questore per non compiere un atto che, a norma delle disposizioni allora vigenti, era di competenza del pretore o del procuratore della Repubblica e avrebbe dovuto dar luogo ad un vero e proprio processo penale. Ma dove siamo? Anzi, dove eravamo? In uno sperduto paese del Terzo mondo, con tutto il rispetto per il Terzo Mondo o nella civilissima Europa e nella sua culla del diritto, cioè l’Italia?
Ovviamente, neppure la polizia giudiziaria, presente sul posto il giorno 13, ha fatto alcunché in merito a quelli che erano i precisi doveri che il previgente codice di procedura penale, all’art. 222, faceva carico agli stessi, vale a dire procedere ai necessari accertamenti e, in generale, alla conservazione del corpo e delle tracce del reato.
Senz’altro gravi irregolarità, dunque, che però di per sé non costituivano certo il presupposto per la formulazione di una notizia di reato, poiché, se reati erano stati commessi, dopo 16 anni risultavano prescritti. Per aprire un procedimento sulla morte di Narducci c’era una strada soltanto: ipotizzare che la mancata autopsia avesse avuto lo scopo di nascondere un reato ben più grave, tanto grave da non essere ancora prescritto. Un omicidio. Ma su quali basi poteva essere formulata un’ipotesi tanto grave? Prima di rispondere leggiamo alcune considerazioni di buon senso fatte dal giudice Micheli:
Chi scrive ha lavorato come Sostituto Procuratore della Repubblica, in tre uffici diversi e complessivamente per quasi 10 anni: costituisce esperienza comune, o se si preferisce fatto notorio, che i familiari di chiunque sia stato ritrovato morto per un apparente suicidio o una verosimile disgrazia cerchino molto spesso di sensibilizzare gli inquirenti per far comprendere quanto sarebbe drammatico per i loro affetti non solo ammettere l’idea di un’autopsia, con la necessaria dissezione del cadavere del congiunto, ma anche dover prolungare la sofferenza della perdita fino al momento di vedersi riconsegnata la salma (evenienza che qualunque attività formale, per quanto non cruenta, necessariamente ritarda).
Ergo, è capitato e continua a capitare a tutti, di ricevere la telefonata del comandante la Stazione dei Carabinieri dove vivono i familiari del defunto, con il militare a rappresentare il dolore di un padre o di una madre neppure sfiorati dall’idea che ci siano reati da accertare e che non sanno capacitarsi della necessità di dover attendere che il medico legale faccia il suo lavoro; e può certamente accadere che, se quel padre o quella madre conoscono non un maresciallo dei Carabinieri, ma il comandante della Compagnia o financo il Questore, la telefonata in questione la faccia qualcuno che si potrebbe pensare più autorevole.
Le considerazioni di Micheli paiono del tutto condivisibili. Come per qualsiasi altro familiare di una persona morta, anche a quelli di Narducci non avrebbe certo fatto piacere un’autopsia. E i Narducci non erano una famiglia di operai, era gente che in ambito locale contava moltissimo. Per di più Francesco era sposato con una componente di una famiglia ancora più prestigiosa, in questo caso addirittura a livello nazionale e internazionale, per le industrie dolciarie Perugina e la catena di abbigliamento Spagnoli. Quindi non c’è da stupirsi troppo se le autorità del posto avevano chiuso un occhio di fronte alle richieste di un padre affranto.
Peraltro la famiglia Narducci aveva un motivo in più per temere l’autopsia: il forte sospetto di un suicidio, come del resto era apparso chiaro a tutti fin da subito. Il loro congiunto non era morto per una disgrazia ma si era tolto la vita, riuscendo in qualche modo a reprimere l’istinto di sopravvivenza e ad affogarsi. Avrebbe detto il genero, Gianni Spagnoli, in un’audizione del 21 febbraio 2002, la prima di tante: “Al secondo giorno della scomparsa di Francesco, cioè il 9.10.1985, Pierluca a casa di Francesca mi disse che non si sarebbe meravigliato se Francesco avesse preso una fiala di un farmaco che precisò ma di cui non ricordo il nome e si fosse buttato dalla barca”. I familiari sapevano bene che assieme all’autopsia sarebbe stato effettuato un esame tossicologico, e se il loro congiunto si fosse stordito con un farmaco la notizia sarebbe rimbalzata sui giornali, con tutte le conseguenze del caso.
D’altra parte il racconto di Trovati sulle modalità con le quali Narducci si era diretto verso il suo tragico destino non offriva alcun appiglio all’ipotesi di un omicidio, anzi, favoriva quella di un suicidio. Il poveretto si era allontanato in barca da solo, in un giorno feriale di metà ottobre che, per quanto di bel tempo, non si conciliava affatto con una gita sul lago. Le sue intenzioni dovevano essere state ben più tragiche, e molto probabilmente comprendevano il tentativo di far pensare a una disgrazia, per un gesto di riguardo verso i propri familiari. Riguardo l’ipotesi dell’omicidio, di sicuro in un film sarebbe risultato spettacolare un appuntamento con i propri assassini in mezzo al lago, ma nella realtà molto poco pratico e molto più denso d’incognite rispetto, tanto per fare un esempio, al banale intervento di un sicario in mezzo a una strada, magari di sera.
In realtà in quei giorni a Perugia si voleva partire con l’inchiesta Narducci a tutti i costi, come peraltro viene confermato dallo scenario delle minacce telefoniche. E Mignini, fino a prova contraria in buona fede ma comunque in un modo che non si può non giudicare almeno avventato – e se dietro le telefonate ci fosse stata la misteriosa setta che intendeva depistare? – agì di conseguenza, e il 25 ottobre 2001 iscrisse a modello 44 un nuovo procedimento, il famoso 17899/01. Si legge sul frontespizio del fascicolo:
* NR. 017869/01 * DEL 09/10/2001
– IGNOTI – ISCRITTA IL 25/10/2001
==============================================
P.M. DELEGATO DR. GIULIANO MIGNINI
* NOTIZIE DI REATO *
(001) – CP 0575, CP 0576,
(002) – CP 0577, CP 0061 Num. 02 Num. 04,
PERIODO DAL: IN EPOCA ANTERIORE E PROSSIMA AL 13/10/1985
PERIODO AL: //
IN MAGIONE
* LISTA PARTI OFFESE/RIFERIMENTI *
COGNOME E NOME: NARDUCCI / FRANCESCO
La data del 9 ottobre dovrebbe riferirsi all’apertura del fascicolo provvisorio, il 5202/01/45. Il reato ipotizzato è l’omicidio (CP 0575) con aggravanti (CP 0576, CP 0577, CP 0061). Le aggravanti previste dai tre articoli sono molte, e chi scrive non sa bene quali intendesse Mignini, è interessante però la specifica del capoverso 2 dell’articolo 61, dove l’aggravante è così descritta: “L'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri […] la impunità di un altro reato”. E qui si arriva al nucleo della questione, alla stessa ragion d’essere del procedimento: l’ipotesi che Francesco Narducci fosse stato ucciso dall’organizzazione segreta che avrebbe commissionato i delitti del Mostro, della quale lui stesso avrebbe fatto parte e che avrebbe avuto intenzione di denunciare. Ipotesi tanto audace quanto fantasiosa, ben compatibile con le trame dei romanzi che Giuttari e i suoi editor di lì a un paio d’anni avrebbero cominciato a concepire.
Nella sostanza, con l’apertura del procedimento 17869/01/44, si riconfigurava a Perugia quello scenario dei mandanti che a Firenze aveva appena finito di dimostrare tutta la sua inconsistenza.
Un’inchiesta dura a morire. E qui non possiamo far altro che tornare al tema d’apertura, quello delle “Cattedrali nel deserto”. Dando il via all’inchiesta sulla morte di Francesco Narducci e sui suoi eventuali legami con le vicende dei duplici omicidi di Firenze il pubblico ministero Giuliano Mignini s’incamminò lungo una strada dalla quale non sarebbe più riuscito a tornare indietro, nonostante se ne fosse presto resa evidente la mancanza di sbocchi. A nulla sarebbe servita la costante interpretazione di ogni elemento in chiave malevola (la sentenza Micheli offre numerosissimi esempi al riguardo). Alla fine l’inchiesta si sarebbe aggrovigliata su se stessa, finendo per impiegare le maggiori risorse non più tanto sull’ipotesi di reato iniziale, ma sulla difesa dalle critiche dei giornalisti e dai tentativi delle autorità di porle un freno. Come una belva affamata priva di cibo si sarebbe rivoltata anche contro qualche incolpevole testimone accusandolo di reticenza o intralcio, come nel caso di Donatella Seppoloni e Giuseppe Trovati.
E non dimentichiamo i costi economici. Si legge nella sentenza Micheli:
“È una vicenda complessa, forse la più complessa, la più dirompente e la più tormentata che la cronaca giudiziaria di questa sede perugina ricordi.”
Il Procuratore della Repubblica, nella requisitoria depositata per atto scritto e che verrà riportata di seguito per ampi stralci, ha usato queste parole per definire il processo che viene definito con la presente sentenza. Prescindendo in questa fase introduttiva dalle cause che hanno portato a tale situazione concreta, ma è un punto su cui si dovrà almeno implicitamente tornare, si può essere senz’altro d’accordo sulla conclusione: di rado gli atti trasmessi dal P.M. al Giudice dell’Udienza Preliminare per corredare una richiesta di rinvio a giudizio hanno una mole anche lontanamente assimilabile agli oltre 100 faldoni di carte che qui sono stati raccolti; e forse mai (ma il forse è un eufemismo) questo Ufficio è stato chiamato a pronunciarsi su fatti storici che trovano antecedenti – e, secondo l’impianto accusatorio, motivazioni – in episodi risalenti a 25 anni prima.
Si aggiungano tutti i procedimenti collaterali, come quello stralciato per i legami con i delitti di Firenze, poi archiviato per mancanza di elementi su richiesta dello stesso PM. Ma anche l’inchiesta fiorentina sui mandanti si sarebbe presto arenata senza la pista Narducci; invece andò avanti fino a portare in giudizio il povero farmacista Francesco Calamandrei, il quale naturalmente sarebbe stato assolto. E non dimentichiamo il GIDES, la struttura investigativa di Giuttari, nata in seguito all’apertura dell’inchiesta Narducci, che per quattro anni impiegò nove poliziotti a tempo pieno in indagini inutili. Sarà mai disponibile una valutazione dei costi di tale gigantesca attività, che alla fin fine si proponeva di scoprire chi avesse acquistato sei poveri brandelli di carne umana?
Si legge nella sentenza Micheli:
Una prima osservazione, su un piano di inquadramento complessivo della storia di questo processo (“storia” è parola che normalmente non si addice ad atti di indagine o di esercizio dell’azione penale, ma qui sembra pertinente), riguarda il perché di quegli accertamenti: ritiene il giudicante che siano state compiute indagini perché era doveroso farle, pur non essendo condivisibili le conseguenze che oggi il Pubblico Ministero sostiene sia necessario ricavarne.
E non vi sarebbe stato motivo di compierle se 25 anni fa le cose fossero andate diversamente, seguendo un pur minimo standard di completezza nelle acquisizioni istruttorie conseguenti alla morte di Francesco Narducci. In altre parole, che il 13 ottobre 1985 non venne fatta non solo un’autopsia, ma neppure uno straccio di visita esterna degna di questo nome, sulla salma dell’uomo ripescato dalle acque del Lago Trasimeno (si affronterà in seguito il problema se potesse trattarsi di una persona diversa dallo scomparso), è qualcosa di francamente inconcepibile.
Chi scrive trova le considerazioni di Micheli in genere condivisibili. In questo caso però no. Ci saranno anche state delle gravi irregolarità riguardo la tumulazione di Narducci, ma quali elementi potevano farle inquadrare in un’ipotesi di omicidio? Le telefonate di minaccia alla Falso dove il nome di Narducci neppure compariva? Le fantasiose ipotesi di Giuttari sui mandanti dei delitti di Firenze? Le malevole chiacchiere dei perugini su Narducci coinvolto in quei delitti e dei quali poteva quindi divenire un mandante?
Da libero cittadino italiano che vedrebbe volentieri le proprie tasse meglio impiegate da una magistratura sempre in affanno, chi scrive si sente di poter affermare che quel 25 ottobre 2001, giorno di apertura del procedimento giudiziario 17869/01/44, sarebbe stata una fortuna se Giuliano Mignini avesse iniziato a occuparsi di una delle tante vicende di malefatte più ordinarie che probabilmente anche a Perugia, come in tutt’Italia, giacevano in attesa su qualche scaffale.
L'articolo finisce qui. Ma non finisce qui l'interesse di questo blog per la vicenda Narducci. Esamineremo più avanti il modo con il quale le indagini cominciarono a scavare in fatti risalenti a 16 anni prima, con quali difficoltà e con quali rischi di travisamento è facile immaginare. Come nel caso dell'ormai famoso ispettore Luigi Napoleoni.
Con l’istituzione del giudice per l’udienza preliminare (GUP), il nuovo codice ha cercato per quanto possibile di evitare che inchieste nate male finiscano per intasare i tribunali, ma prima dell’intervento del GUP passano anni durante i quali i pubblici ministeri (PM) possono far di tutto. Il nuovo codice ha assegnato loro poteri molto ampi, purtroppo calmierati in modo spesso insufficiente dal giudice per le indagini preliminari (GIP), il quale dovrebbe controllarne l’operato. Non è questa la sede per affrontare un problema annoso come quello della separazione delle carriere, ma il lettore provi a immaginarsi un GIP e un PM che lavorano negli stessi uffici e magari pranzano assieme, poi si metta nei panni dell’indagato che dal GIP pretenderebbe imparzialità. Imparzialità che a dire il vero la legge impone anche al PM, il quale invece s’innamora quasi sempre della propria inchiesta, ancor di più se mediaticamente esposta, facendola diventare una questione personale e dimenticando nel contempo che le indagini preliminari dovrebbero essere svolte anche nell’interesse dell’indagato. Lo dice l’articolo 358 del codice penale: “Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell'articolo 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Questo non avviene praticamente mai, anzi, i PM spesso e volentieri tendono a nascondere gli elementi a discarico per evidenziare maggiormente quelli a carico. Il peggio avviene quando elementi a carico non se ne trovano, essendo le indagini partite su presupposti sbagliati. E allora si finisce per crearli, interpretando in modo malevolo elementi che di per loro non avrebbero alcun significato probatorio.
Nell’inchiesta che cercava di trovare i fantomatici mandanti dei delitti attribuiti al Mostro di Firenze, e in quella collaterale sul presunto omicidio di Francesco Narducci – che di quei mandanti sarebbe stato parte – è facile intravedere tutte le negatività sopra elencate. Dopo dieci e più anni di inutili interrogatori, intercettazioni, perizie e processi – e quindi montagne di danaro pubblico buttato al vento – nulla è rimasto, se non tanta confusione sulla quale si baloccano gli appassionati in interminabili discussioni su Internet, dove ancora si evocano assurdi scenari di sette sataniche delle quali non è mai stata trovata traccia.
In questa sede prenderemo in esame la partenza dell’inchiesta Narducci, fino all’istituzione del noto procedimento giudiziario 17869/01/44 che ne costituisce l’origine formale. Cercheremo di capire il modo in cui, inseguendo un’ipotesi priva di validi riscontri – a giudizio di chi scrive, ma anche di personalità ben più prestigiose – fosse stato aperto un rubinetto dal quale sarebbe uscito soltanto un oceano di melma, senza alcun beneficio per la risoluzione dei misteri inerenti i duplici omicidi di Firenze, anzi, aggravandone la confusione.
Ma prima di cominciare riprendiamo l’argomento dell’articolo Firenze – Perugia andata e ritorno, con il quale si era illustrato il sorprendente scenario delle telefonate minatorie all’estetista di Foligno fatte apposta per stimolare la partenza delle indagini su Narducci.
Un documento inquietante. Dopo la pubblicazione dell’articolo sulle minacce telefoniche – che è necessario leggere prima di procedere con questo – sono pervenuti nella disponibilità di chi scrive altri documenti che consentono ulteriori riflessioni. Partiamo da una comunicazione di Giuliano Mignini a Paolo Canessa, datata 12 maggio 2004. Eccone il testo, con i cognomi e i dati anagrafici omessi:
Si trasmettono le copie delle trascrizioni delle telefonate ricevute da Falso Dorotea, di interesse per le indagini collegate, unitamente a copia della nota della Squadra Mobile della Questura di Perugia in data 24.01.2003.
Per il procedimento relativo alle minacce telefoniche, contraddistinto con il n. 9144/2001 R.G.N.R. (da cui è stato stralciato quello n. 17869/01 R.G. Mod. 44), è stato emesso avviso ex art. 415 bis c.p.p., nei confronti delle sottoindicate persone:
- B. Francesco [omissis: nato e residente a Foligno]
- F. Roberta [omissis: nata a Foligno, residente a Trevi]
- C. Nadia [omissis: nata a Foligno, convivente di B. Francesco]
- N. Tania [omissis: nata a Terni, residente a Foligno]
- Dr. X.X. [omissis: nato a Foligno, domiciliato presso il commissariato di Foligno]
Continuano in ogni caso, nel procedimento n. 17869, le indagini per accertare eventuali rapporti esistenti tra la vicenda delle minacce telefoniche e il Prof. Francesco Narducci.
In sostanza Mignini avverte Canessa della fine delle indagini preliminari per cinque soggetti – questo è il significato della locuzione “ex art. 415 bis c.p.p.” – nell’ambito del procedimento sulle minacce telefoniche a Dorotea Falso, il 9144/01/21. Nell’occasione invia anche una nota della questura di Perugia, risalente al 24 gennaio 2003, alla quale erano allegate le relative trascrizioni (fino alla cassetta 13; sappiamo però che erano state consegnate altre cinque cassette, l’ultima attorno al 18 luglio 2003). È opportuno riflettere con grande attenzione sull’elenco degli indagati.
Innanzitutto va rilevata la presenza dei due cognati di Dorotea Falso, Francesco B. e la moglie Nadia C.. C’è poi tale Roberta F., la stessa persona nominata nell’articolo uscito sulle pagine umbre della “Nazione” del 30 marzo 2006 (vedi). A dire il vero in tale articolo c’era confusione tra Roberto e Roberta, ma doveva intendersi Roberta, visto che le età coincidono. In ogni caso in detto articolo si dice che questi tre soggetti vennero rinviati a giudizio.
Ci dovette invece essere proscioglimento per Tania C., il cui nome nell’articolo citato non c’è, ed è mancante anche dal resto della documentazione attualmente nella disponibilità di chi scrive. Stessa cosa per il dr. X.X., sul quale bisogna soffermarsi. Riprendiamo un frammento del libro Setta di stato, di Francesco Pini e Duccio Tronci:
Dall'analisi dei tabulati della Telecom, il 30% circa di queste telefonate non risultano. Ufficialmente mai effettuate. In un caso la chiamata arriva non da una cabina, ma da un cellulare. Il numero dell'utenza non è però registrato: come se fosse inesistente. Una telefonata di minacce proviene addirittura dal commissariato di Foligno, un’altra da un’utenza riconducibile ad un poliziotto.
Con grande probabilità il dr. X.X. è proprio il poliziotto cui si riferisce il libro. Chi scrive ha deciso di non fornire alcun dato che possa consentire di identificarlo, è comunque il caso di osservare che oggi ha una posizione di grande rilievo. Qual è stato il suo ruolo in questa torbida vicenda? Il lettore può dare libero sfogo alla propria immaginazione. In base agli elementi emersi, chi scrive ha il forte sospetto che qualcuno, nell’ambito delle forze dell’ordine, avesse avuto grande interesse a far partire l’inchiesta sulla morte di Narducci e sui suoi eventuali collegamenti con i delitti del Mostro. Per far questo approfittò di una preesistente vicenda di ridicole minacce telefoniche a un’anonima estetista, facendo in modo che vi entrassero Pacciani e le sette sataniche, entrambi argomenti caldi sul fronte fiorentino. Non per niente quell’estetista abitava a Foligno, e le sue denunce erano state presentate al commissariato di Foligno.
Lo si è già osservato nel precedente articolo, ma vale la pena ribadirlo: non pare un caso se le registrazioni delle telefonate da parte della Falso fossero iniziate proprio quando in esse era comparsa la figura di Pacciani. La coincidenza rende improbabile che l’iniziativa fosse stata della donna, qualcuno interno alle forze dell’ordine doveva averglielo suggerito. Forse quello stesso personaggio che quando l’inchiesta cambiò passo con la riesumazione del cadavere di Narducci vi introdusse anche la figura dello stesso. La qual cosa avvenne due giorni prima del momento topico corrispondente al deposito della perizia di Pierucci sugli atti – 20 maggio 2002 – quindi si deve presumere che le sue informazioni fossero state di prima mano.
Il documento ci dice ancora qualcosa: non vi si menziona Pietro Bini, che sarà poi l’unico soggetto condannato. Dal momento dell’apertura del procedimento 9144 ( attorno al 1° ottobre 2001) erano trascorsi due anni e mezzo; due sarebbero dovuti ancora trascorrere prima dell’inizio del processo (29 marzo 2006), nel quale era presente Bini, la cui richiesta di patteggiamento, lo abbiamo visto, sarebbe stata rifiutata. Quando entrò nell’inchiesta tale personaggio, se ai primi di maggio 2004 le indagini erano terminate? Che fossero terminate lo dice il documento precedente, e la controprova la troviamo nella sentenza Micheli, dove è lo stesso PM ad affermarlo nella sua requisitoria:
Nel frattempo, nel procedimento n. 9144/01/21 erano cessate le indagini ed era stato notificato l’avviso ex art. 415 bis c.p.p. da cui emergeva che le telefonate ricevute dalla FALSO provenivano da sedicenti appartenenti ad una sorta di setta satanica e riguardavano proprio il Narducci (e il Pacciani). Il quotidiano “La Nazione” pubblicava tali notizie e il Brizioli, con due telegrammi del 5 e dell’11.05.04, intimava alla giornalista Erika Pontini, autrice dell’articolo, di non pubblicare più notizie del genere sotto pena di azioni legali. Il giornalista Pino Rinaldi, nell’esame in data 5.05.05, ha ammesso di aver letto l’articolo della Pontini.
Ma allora Pietro Bini?
Edit: Dopo una rilettura della documentazione ritengo di poter affermare con una certa sicurezza che Tania C. altro non fosse che la baby sitter di Dorotea Falso, da lei nominata nelle dichiarazioni alla questura di Perugia del 29 settembre 2001. Tra l'altro moglie di un poliziotto.
La perizia fonica. Il lettore non se la prenda se si sente confuso, poiché risulta davvero difficile districarsi in questo incredibile guazzabuglio. Abbiamo visto nel precedente articolo (qui) che nel gennaio 2003 Bini era già stato segnalato al PM come elemento sospetto, ma non si sa se fosse anche stato iscritto nel registro degli indagati. Un tassello ulteriore ci viene offerto dalla perizia fonica ordinata il 18 agosto 2005 dal PM su 20 delle telefonate tratte dalle cassette della Falso. Tra l’altro ci si sarebbe aspettato che tale perizia fosse stata richiesta nell’ambito del procedimento 17869, quello sulla morte di Narducci, visto che sul 9144 le indagini erano terminate da più di un anno. E invece no, poiché nell’intestazione si legge che il procedimento è proprio il 9144. Si tratta dell’ennesima stranezza di questa inchiesta, forse un ripensamento del PM, forse una richiesta degli indagati. La legge consente infatti ulteriori investigazioni anche dopo la fine delle indagini preliminari, ma qui l’enorme ritardo – più di 15 mesi – non può non lasciare perplessi. È lecito chiedersi il perché tale perizia non fosse stata ordinata prima. In ogni caso eccone gli obiettivi:
Previo esame delle trascrizioni e della fonia delle telefonate per cui è processo, accerti il C.T.U. tutte le caratteristiche delle voci degli anonimi interlocutori di Falso Dorotea (in relazione all'avviso ex art. 415 c.p.p.), caratteristiche atte ad identificarli, vale a dire:
- Sesso ed età degli interlocutori; timbro delle voci; caratteristiche 'linguistiche' delle voci; individuazione dell'aerea geografica di provenienza alla luce dell'inflessione dialettale, specie in relazione alle note distintive fonetiche, all'andamento della tonalità e a particolarità lessicali e/o morfologiche;
- Comparazione dei risultati raggiunti con le caratteristiche linguistiche generali delle aree di Foligno (PG) e Cannara (PG), specie in relazione agli aspetti di cui all'ultima parte del punto 1;
- Ulteriori particolarità espressive, atte a riferire le voci a particolari ambienti socio-culturali;
- Eventuali anomalie di pronunzia e loro origine.
Il fatto che si suggerisse una possibile provenienza dei telefonisti da Cannara ci conferma i sospetti su Bini, il quale a Cannara era nato e a Cannara risiedeva. Questi i risultati:
- Il supporto ottico esaminato contiene la registrazione di 20 conversazioni telefoniche, numerate dai periti progressivamente da 1 a 20 secondo l'ordine di presentazione;
- Le prove di ascolto e l'analisi linguistica individuano come autori delle telefonate: un medesimo interlocutore maschile presente nelle conversazioni nn 2, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 18, 19, 20 e un medesimo locutore femminile nelle restanti conversazioni nn 1, 3, 4, 5, 6 e 17;
- Il tema trattato, i termini impiegati e altre peculiarità insolite (come p.e. il modo di sghignazzare) sono in comune a entrambi i parlatori anonimi: la circostanza implica che l'uno sia al corrente delle modalità attuate dall'altro in fase di conduzione della conversazione (è ragionevole pensare quindi che sussista un tentativo di emulazione);
- Le particolarità espressive rilevate manifestano per entrambi i locutori in verifica un lessico informale corretto, tecnico-settoriale che porterebbe a ipotizzare l'appartenenza a una setta o congregazione (per il tema trattato - esoterico) e una estrazione culturale medio-alta;
- Il parlatore anonimo pone in essere una artefazione della propria naturale fonazione mediante laringalizzazione con conseguente voce arrochita e forzata. La voce della parlatrice anonima è verosimilmente priva di artefazione e pertanto utile a eventuali futuri confronti basati anche su analisi di tipo strumentale;
- Dall'analisi linguistica (fonetico-articolatoria) si individua verosimilmente
come zona di origine:
per la voce maschile compatibile con quella di Cannara;
per la voce femminile compatibile con quella piemontese.
Dunque la voce maschile era proprio quella di Pietro Bini, di Cannara, ma la voce femminile? L’inflessione piemontese ci dice che non apparteneva a nessuna delle tre donne presenti nel documento di chiusura delle indagini preliminari, tutte nate e residenti in Umbria. Quindi tale soggetto non venne individuato, almeno non fino all’udienza del 29 marzo 2006, nella quale il PM e l’avvocato di Bini avevano concordato una pena per il patteggiamento. Tra l’altro appare strano il fatto che si volesse concedere il patteggiamento a chi non aveva reso una confessione completa, tacendo l’identità della sua complice.
Tra i telefonisti non individuati, oltre a una donna di origini piemontesi ci doveva essere anche un uomo di origini toscane. La sua presenza risulta dalle trascrizioni delle prime cassette, dove si parla di “accento toscano” e di “-H- aspirata tipica toscana”. Quindi di sicuro non Bini, visto che è impossibile confondere parlata umbra e parlata toscana. Evidentemente le telefonate di questo soggetto non erano tra le 20 selezionate per la perizia fonica, che a questo punto si deve ritenere che avesse avuto più lo scopo di mettere la parola fine alla grottesca vicenda che quello d’individuare i telefonisti.
Sulla questione delle minacce telefoniche per adesso fermiamoci qui, restando in attesa di nuova documentazione – il massimo sarebbe la sentenza con la condanna di Bini – che possa portare chiarezza.
La notizia di reato. L’apertura di ogni procedimento giudiziario viene effettuata sulla base di almeno una “notizia di reato”– detta anche notitia criminis – attraverso la quale il magistrato ha preso atto di un reato da perseguire. Le fonti dalle quali tale notizia gli arriva possono essere molteplici, ma nella grande maggioranza dei casi si riducono a due tipologie: la denuncia, da parte delle forze dell’ordine o anche di comuni cittadini e il referto, segnalato dal sistema sanitario dopo l’esame di un soggetto offeso. A quel punto il magistrato deve iscrivere tale notizia in un apposito registro di cinque, ricevendo un numero progressivo annuale che, assieme all’anno e al tipo di registro, contraddistinguerà il relativo procedimento (per esempio 12345/20/21).
Dei cinque registri qui ne interessano tre. Nel registro detto “modello 21” vengono inserite le notizie di reato per le quali sono già state individuate una o più persone da indagare (registro delle notizie di reato a carico di persone note). Nel registro detto “modello 44” vengono inserite le notizie di reato per le quali tali persone non sono state ancora individuate (registro delle notizie di reato a carico di persone ignote).
Prima di parlare del terzo registro, è il caso di affrontare un tema spinoso, una delle fonti di possibili malfunzionamenti della giustizia italiana. Quando il reato è evidente di per sé la sua iscrizione in uno dei due registri citati è una logica conseguenza, anzi, la legge ne prevede l’obbligo. Saranno poi le indagini preliminari e il successivo processo a perseguire i responsabili, quando noti. In molti casi invece il reato non è evidente: potrebbe esserci stato ma anche no. L’esempio più eclatante è quello dell’abuso sessuale, i cui confini in certi casi sono davvero indefiniti. E quando il procedimento giudiziario viene aperto per un reato inesistente, il rischio è che tale reato, intercettazione dopo intercettazione, interrogatorio dopo interrogatorio, perizia dopo perizia, finisca per configurarsi davvero, con tutte le conseguenze negative che si possono immaginare. Soltanto l’esperienza e la sensibilità del magistrato possono risparmiare a persone innocenti l’ingresso in questi tunnel, evitando nel contempo che le risorse tutt’altro che illimitate di forze dell’ordine e magistratura vengano distolte dal perseguimento di reati reali.
Quando la sussistenza del reato non è certa, il magistrato può aprire un procedimento provvisorio avvalendosi del registro degli atti che non costituiscono notizia di reato (modello 45), senza avvertire il giudice per le indagini preliminari. Dopodiché procede con le proprie valutazioni, cercando di acquisire informazioni maggiori anche attraverso una limitata attività investigativa, che la legge non consentirebbe ma che appare evidente rendersi necessaria (per esempio sentire la persona offesa e il presunto responsabile). Alla fine di tale breve percorso, il magistrato deve quindi decidere se aprire un provvedimento a modello 21 o 44, oppure soprassedere semplicemente chiudendo il procedimento provvisorio.
Questo breve riassunto di una materia non troppo semplice servirà al lettore per seguire meglio gli eventi che dettero origine all’apertura delle indagini sulla morte di Francesco Narducci. Inevitabilmente sarà necessario sopportare qualche ripetizione di notizie già fornite dal precedente articolo.
Dal 9144/01/21 al 5202/01/45. Dopo la consegna alla questura di Perugia, il 29 settembre 2001, delle prime due cassette di minacce – dove compariva Pacciani – con una nota di due giorni dopo il capo della mobile Angeloni comunicò la notizia a Mignini, suggerendo come sospettato Francesco B., cognato della Falso. Il procedimento riferito è 1’11674/00/21, citato in varie occasioni dal magistrato come relativo a una vicenda di usura, nella quale evidentemente Francesco B. doveva risultare coinvolto. Ma scritto a penna compare anche il numero di un procedimento nuovo, il 9144/01/21, quello per le minacce telefoniche, che probabilmente fu aperto quel giorno stesso a carico del soggetto in questione e forse già della moglie, Nadia C.
Il 9 ottobre Angeloni inviò a Mignini il documento dal quale si può dire che sarebbe partita l’intera inchiesta Narducci (vedi). Dopo aver fornito inequivoca dimostrazione che nelle telefonate a Dorotea Falso non c’era stato alcun riferimento al medico umbro, appare ancor più sorprendente la richiesta di poter acquisire il “fascicolo processuale inerente la persona del dr. Narducci Francesco, perito a seguito di probabile suicidio”, con la seguente motivazione: “Come è ormai noto, voci insistenti avevano indicato il Dr. Narducci quale materiale esecutore dei ‘tagli’ di parti del corpo, effettuati dal mostro di Firenze, e che per di più avrebbe conservato in modo e luoghi adatti”. Nello stesso documento Angeloni chiedeva “delega all’acquisizione di sommarie informazioni da parte della professoressa Barone, impiegata quale medico legale presso l’istituto di Medicina legale di Perugia”. Questo perché “sembra che la Professoressa Barone sia al corrente di diversi particolari inerenti chiaramente la morte del Narducci, ma anche fatti specifici sulla sua vita, forse in considerazione anche del fatto che erano comunque colleghi”. Il tutto “al fine di stabilire se le persone autrici del reato [le minacce telefoniche], allo stato degli atti ancora non identificate, facciano parte o meno della setta satanica a cui fanno riferimento nelle conversazioni telefoniche, nonché siano interessate o coinvolte nella morte di Pacciani e/o comunque legate all’attività della persona che fu definita ‘il mostro di Firenze’”.
Sfugge davvero il nesso tra l’identificazione delle persone autrici delle minacce telefoniche e le chiacchiere su Narducci che da una quindicina d’anni circolavano nella zona, e sulle quali già la procura di Firenze aveva messo una pietra sopra giudicandole inconsistenti. Semmai in una prima fase delle indagini ci si sarebbe dovuti preoccupare dell’identificazione in sé, per capire cosa ci fosse dietro. Ma di fatto, come appare evidente, l’interesse per quelle minacce non era altro che un pretesto per iniziare a indagare sulla morte di Narducci.
In ogni caso le richieste di Angeloni ricevettero positiva accoglienza da parte di Mignini, il quale gli concesse le deleghe e nel contempo aprì un procedimento per atti che non costituiscono notizia di reato: il 5202/01/45. Chi scrive non ha la data precisa di tale apertura, ma un documento che tra breve vedremo fa presumere fosse avvenuta quello stesso 9 ottobre, assieme al recupero della scarna documentazione dell’epoca. In ogni caso poco cambia: per una ricostruzione storica è importante osservare che in quei giorni il magistrato stava riflettendo sugli eventi che avevano accompagnato la morte di Francesco Narducci, alla ricerca di una possibile notizia di reato, e per questo si era avvalso del registro a modello 45.
Francesca Barone. Lunedì 22 ottobre 2001 iniziò la settimana decisiva per la futura inchiesta su Narducci: Mignini doveva decidere se farla partire oppure no, cominciando col mettere in forse la causa ufficiale di morte, “asfissia da annegamento da probabile episodio sincopale” (in sostanza Narducci, provetto nuotatore, sarebbe affogato in seguito a un malore che lo aveva fatto cadere in acqua dal suo motoscafo). Abbiamo visto che sui procedimenti a modello 45 non sono consentite indagini, anche se spesso queste vengono svolte comunque, seppur in modo molto limitato. In ogni caso il magistrato scelse una strada alternativa e, per ascoltare i primi testimoni, si avvalse del procedimento 9144, che in verità con Narducci nulla aveva a che fare.
Alle 16:20 di quel lunedì 22 ottobre Francesca Barone, professoressa dell’Istituto di Medicina Legale di Perugia, era di fronte a Mignini. Come già emergeva dai documenti, la donna confermò di non essere stata interpellata in occasione del rinvenimento del cadavere, come invece riteneva fosse necessario. Dal verbale:
Ricordo che quella settimana ero di turno all'istituto di medicina legale per la sala settoria e che non fui interpellata in occasione del rinvenimento del cadavere di Francesco Narducci, che peraltro conoscevo di persona, essendo mio collega. Seppi subito che fu trovato il suo cadavere nel lago e mi allertai pensando di dovere intervenire per il sopralluogo ma non venni chiamata dalla Procura come è consuetudine. Ricordo in particolare che vi erano stati annegamenti di pescatori nel lago di Corbara ed io fui chiamata per il sopralluogo e l'autopsia. In questi casi venivamo sempre chiamati dalla Procura ma in quell'occasione, come ho detto, nessuno mi interpellò. Seppi che una dottoressa, le cui funzioni potrebbero oggi essere assimilate a quelle della guardia medica, era intervenuta, redigendo un certificato di morte per annegamento; a quanto mi risulta non fu eseguita la perizia autoptica e il cadavere non fu portato all'obitorio ma affidato direttamente ai familiari.
Francesca Barone disse anche altro. In effetti, se Angeloni voleva stimolare i sospetti di Mignini verso scenari inquietanti aveva suggerito la persona giusta. Vediamo le dichiarazioni inerenti il giorno in cui era stato ritrovato il cadavere:
Per pura causalità incontrai dei pescatori, uno dei quali, di cui non ricordo il nome, aveva partecipato al recupero del cadavere; quest'uomo […] mi disse che il cadavere di Francesco Narducci presentava delle macchie rosse, come se avesse sbattuto contro qualcosa o che comunque avesse subito colpi violenti. Le macchie erano presenti soprattutto sul volto; il pescatore aggiunse che il cadavere aveva le mani ed i piedi legati dietro la schiena. Il pescatore mi disse che dovevano avergli dato tantissime botte per come era ridotto il volto.
Ecco invece qualche notizia sulla figura di Narducci:
Domanda: ricorda quali erano le abitudini del Dr. Narducci Francesco?
Risposta: solo per sentito dire, ricordo che il Narducci era una persona dal carattere difficile, molto ansioso ed estremamente chiuso e che frequentava una ristretta cerchia di amici. Nell'ambito dell'ospedale la sua cerchia di amici era quella della vecchia clinica medica. Mi risulta, per sentito dire, che avesse una casa in Toscana, dove si recava frequentemente.
Domanda: con chi viveva il Dr. Narducci Francesco?
Risposta: non lo so, so soltanto che era separato dalla moglie. Non si parlava nemmeno di suoi rapporti con altre donne, cosa che si sarebbe risaputo in clinica dove si conoscevano subito questi pettegolezzi. Quando si parlava del Narducci, si diceva subito che era introverso e che aveva una vita molto riservata. Ho sentito dire anche che Narducci aveva interessi verso l'esoterismo.
Molte notizie gustose, dunque, ma tutte per sentito dire – tra l’altro anche inesatte, come il fatto che Narducci fosse separato dalla moglie – e che peraltro la Barone aveva già avuto modo di raccontare, negli anni precedenti, a giornalisti che proprio a lei erano andati a chiedere lumi.
Domanda: quali erano le condizioni di salute del Narducci?
Risposta: nulla so in proposito, però posso dire che era giovane ed aveva un fisico atletico. Vorrei aggiungere che diversi anni fa durante il meeting di Comunione e Liberazione di Rimini, un giornalista toscano, di cui non ricordo il nome mi telefonò e poi mi fece delle domande su Francesco Narducci, ricollegandolo alla vicenda del cosiddetto “Mostro di Firenze”. Non ricordo a quale giornale appartenesse questa persona ma sapeva tantissime cose sulla vicenda del mostro di Firenze e sapeva anche che il Dr. Narducci aveva una casa in Toscana. Mi indicò il luogo preciso ma non ricordo se fosse Firenze o un'altra località. Un'altra inchiesta giornalistica fu fatta da Luigi Amicone del settimanale “Tempi” di Milano; anche Amicone venne da me e mi chiese di Narducci ma non era così informato come l'altro. Il giornalista di cui non ricordo il nome mi disse che Narducci aveva una pistola.
Domanda: ha più visto il giornalista toscano?
Risposta: no, non l'ho più visto. Voglio specificare che il giornalista, dopo l'incontro a Rimini venne a Perugia un paio di volte per parlare con me sempre di Narducci.
È il caso di fare qualche precisazione sul racconto del pescatore che aveva riferito alla Barone di aver visto il cadavere di Narducci con mani e piedi legati dietro la schiena. Tempo dopo sarebbe stato identificato per Giancarlo Zoppitelli, non pescatore ma imbianchino, il quale dapprima cadde dalle nuvole, poi, dopo un confronto con la Barone, il 13 marzo 2002 dichiarò:
Ora che ho visto la Prof.ssa Barone ricordo che effettivamente nel pomeriggio del 13.10.1985 riferii a quest'ultima che il cadavere aveva il volto tumefatto, il naso rotto e le mani legate, ma questo non l'ho visto di persona. L'ho sentito dire quel giorno da molta gente sul pontile, nel momento del ritrovamento da persone del paese che hanno ripetuto queste affermazioni anche nel bar “Menconi”, gestito da tale Menconi, non ricordo se il padre o il figlio. Mi dispiace di essermi infilato in questo impiccio.
A questo punto si provi a immaginare i colloqui della Barone con i due giornalisti, e si avrà un’idea di massima di come la vicenda Narducci si sia nutrita di chiacchiere della cui origine non si è mai saputo nulla: sul pontile e al bar Zoppitelli avrebbe sentito dire delle condizioni sospette del cadavere (ma forse se le era inventate lui), poi lo aveva detto alla Barone. Si può immaginare che a sua volta la Barone lo avesse riferito ai due giornalisti, i quali lo avranno senz’altro riportato nei loro servizi.
A proposito della scelta della Barone come primo testimone in scaletta si legge nella sentenza Micheli:
È emblematico constatare come già la prima persona escussa per valutare se fosse il caso di vederci più chiaro sui fatti del 13 ottobre 1985 si trovi a dare contezza della voce corrente sul coinvolgimento del Narducci nelle questioni fiorentine, sulla disponibilità in capo a lui di una casa nella zona di Firenze e addirittura sugli interessi esoterici del defunto.
È anche singolare prendere atto che, in un congresso di qualche anno prima, un giornalista toscano – si capirà in seguito trattarsi del Licciardi – avesse pensato di chiedere notizie sulla vicenda proprio alla prof.ssa Barone, e che sempre da lei, ben prima del ritorno di interesse degli inquirenti su quella storia, si fossero recati altri giornalisti.
Per la cronaca, Pietro Licciardi è un giornalista pisano, autore a quattro mani di due libri in argomento, entrambi pessimi: Gli affari riservati del Mostro di Firenze, assieme a Gabriella Carlizzi e La strana morte del dr. Narducci, assieme a Luca Cardinalini. Di ben altra caratura Luigi Amicone, il cui servizio su Narducci non è purtroppo nella disponibilità di chi scrive.
Nella documentazione dell’epoca comparivano i nomi dei funzionari che si erano interessati al caso, in massima parte ancora in vita (il maresciallo dei carabinieri Lorenzo Bruni, il dirigente della mobile Alberto Speroni, il questore Francesco Trio, tanto per citarne alcuni), quindi perché non chiedere spiegazioni a loro? Evidentemente si cominciava già a considerarli parte in causa nelle presunte malefatte, mentre la scelta della Barone era funzionale alla ricerca di motivi di sospetto. Sia come sia, il colloquio con lei dovette risultare molto convincente. Quel giorno stesso, infatti – pare logico ritenere: appena dopo averla ascoltata – Mignini inviò alla procura di Firenze un documento nel quale dichiarava la sua intenzione di partire con le indagini: “Si fa presente che questo Ufficio procede in ordine alle circostanze relative alla scomparsa e al rinvenimento del Dr. Francesco Narducci”. Il procedimento indicato in capo al documento è il 9144, ma nel testo si legge: “Oggetto: procedimento n. 5202/01 R.G. Mod. 45”, quindi il provvisorio aperto con la ricezione dell’informativa di Angeloni del 9 precedente, la quale veniva allegata.
Riguardo questa fin troppo solerte comunicazione – perché non attendere fino all’apertura del procedimento definitivo? – si deve osservare come alimenti i sospetti che a Firenze non si fosse affatto all’oscuro di quel che si stava preparando a Perugia, e che anzi, si attendesse con ansia l’apertura di un nuovo fronte sulle moribonde indagini alla ricerca dei mandanti. È il caso di ricordare la brutta situazione in cui si trovavano in quei giorni Giuttari e la procura, reduci dal clamoroso fallimento della perquisizione nella villa dei C. a San Casciano
Avanti con le deleghe. A testimoniare la decisione oramai già presa c’è un documento del giorno successivo, 23 ottobre 2001, nel quale Mignini chiede ad Angeloni di partire con approfondite indagini, concedendogli amplissime deleghe.
Pregasi procedere alle indagini relative ai fatti rappresentati nell'allegata notizia di reato, assumendo informazioni ex artt. 362 e 370 c.p.p., da tutte le persone che possono comunque fornire notizie utili in ordine a quanto emerso nel corso dell'attività di indagine, in ordine agli ultimi giorni di vita del Narducci e, soprattutto, in relazione all'ultimo e, in particolare, al viaggio da Perugia al Lago Trasimeno e all'eventuale sosta nell'isola Polvese, nonché in ordine ad eventuali appuntamenti del defunto con sconosciuti.
Pregasi, in particolare, di accertare, anche attraverso l'ausilio di persone idonee, ex art. 348, ult.mo comma c.p.p., le seguenti circostanze:
- La presenza e l'individuazione di eventuali visitatori nell'isola Polvese, nel pomeriggio dell'8.10.1985;
- La presenza di reti (nasse) nel tratto lacustre tra l'isola Polvese e il luogo del ritrovamento del cadavere;
- Le condizioni metereologiche e la presenza e la direzione di eventuali correnti nel periodo compreso tra l'8 e il 13.10.1985, nonché le caratteristiche della fauna e della vegetazione lacustre nel tratto di Lago suindicato;
- I movimenti subiti dai cadaveri di persone annegate nel tratto lacustre in questione;
- Il livello di carburante necessario all'imbarcazione del Narducci per portarsi all'isola Polvese e ritornare;
- Dove si trovi la moto utilizzata dal Narducci;
Di tutte le persone assunte a s.i. dovranno essere indicati generalità complete e residenza o domicilio e dovranno essere identificati e assunti a s.i. coloro che verranno indicati dalle persone interrogate.
Si fa presente che, qualora le persone informate sui fatti si riferiscano, a loro volta, ad altre persone che siano a conoscenza dei fatti per cui si procede, sarà indispensabile che le stesse vengano assunte a s.i. ex art. 351 c.p.p., nel rispetto della norma di cui all'art. 13 della l. n. 63/2001, o che, almeno, siano esattamente identificate.
La delega è estesa a tutte le attività che, durante lo svolgimento delle indagini, si rivelassero necessarie.
Con facoltà di subdelega al corrispondente organo di Polizia Giudiziaria territorialmente competente che dovrà svolgere con sollecitudine le indagini delegate e restituire gli atti direttamente a questa Procura, dandone comunicazione all'Autorità delegante entro e non oltre il termine di scadenza delle indagini stesse.
Anche in questo caso venne utilizzato l’escamotage d’inserire l’attività richiesta nell’ambito del procedimento sulle minacce telefoniche alla Falso. Si parla però di “allegata notizia di reato”, una parte del documento non in possesso di chi scrive, ma che è facile immaginare cosa contenesse. Non a caso tra le disposizioni ad Angeloni c’era anche quella d’indagare sulla “presenza e l'individuazione di eventuali visitatori nell'isola Polvese, nel pomeriggio dell'8.10.1985”, visitatori che avrebbero potuto essere i responsabili del reato da perseguire.
Donatella Seppoloni. Nonostante la comunicazione ai colleghi di Firenze e le disposizioni ad Angeloni, anche il giorno dopo Mignini non aprì un procedimento definitivo, preferendo ascoltare qualche altra testimonianza nell’ambito del solito 9144. Alle 10:25 di mercoledì 24 ottobre Donatella Seppoloni, all’epoca medico della USL del Lago Trasimeno, si trovava di fronte a lui. La mattina di domenica 13 ottobre 1985 la dottoressa era stata chiamata sul pontile dove giaceva il corpo di Narducci appena recuperato dal lago, e in quella circostanza aveva redatto il certificato di morte con la diagnosi “asfissia da annegamento da probabile episodio sincopale”.
Dal lungo colloquio emerse innanzitutto che l’intervento era avvenuto secondo una prassi di assoluta normalità:
Domanda: nell'attività di medico strutturato aveva compiti di interventi di urgenza, quali visite di urgenza o come visite esterne di cadavere e comunque attività di medico legale?
Risposta: non era il mio lavoro ordinario ma lo svolgevo in condizioni di reperibilità per il pomeriggio, per le notti e per i periodi festivi.
[…] fui chiamata dal centralinista dell'ospedale di Castiglion del Lago nel primo pomeriggio, forse intorno alle ore 14,30 - 15,00 di un giorno di Ottobre di molti anni fa; mi venne detto dal centralinista che c'era una chiamata urgente dal molo di S. Arcangelo in quanto era stato rinvenuto un cadavere nel lago. Sono arrivata sul molo di S. Arcangelo e vi trovai il Dr. Trippetti giovane, che non aveva potuto fare la certificazione perché non poteva più esercitare le funzioni di medico necroscopo. L'unico medico abilitato ad effettuare attività di necroscopia ero io.
Dunque la dottoressa Seppoloni era effettivamente la persona da chiamare (il suo ricordo dell’orario risultava però sbagliato, l’intervento era infatti della mattina). Quel che invece non appariva normale erano le forti pressioni fattele per redigere il certificato di morte in base a un’ispezione sommaria e soprattutto senza disporre la necessaria autopsia.
Domanda: la visita fu effettuata tutta all'esterno o il cadavere fu portato in qualche luogo chiuso?
Risposta: io dovevo fare solo una constatazione di morte e redigere il conseguente verbale; ricordo che la visita si svolse sul molo, dove avevo visto per la prima volta il cadavere. Il cadavere non fu spogliato perché non serviva ai fini della constatazione di morte. Ricordo che sia il fratello, che il Dr. Morelli ed il Dr. Farroni o Ferroni, mi giravano continuamente intorno e questo mi dava piuttosto fastidio, tant’è che chiesi ai vigili di tenermi lontano queste persone, fra cui vi erano anche i giornalisti con macchine fotografiche. Ricordo che ad un certo punto sopraggiunse una Autorità, non so se della Questura o della Procura, che mi chiese di fare una ispezione cadaverica; intorno a me c'erano i Carabinieri credo della Stazione di Magione. […]
Domanda: Lei di solito faceva le ispezioni o si limitava a redigere i certificati di morte?
Risposta: io di solito redigevo solo i certificati di morte perché non avevo la competenza professionale per effettuare le ispezioni cadaveriche. Questa persona comunque mi chiese di fare quest'ispezione ed io dissi che non ero in condizioni di poterla fare sul molo e quindi il cadavere doveva essere trasportato nella camera mortuaria dell'ospedale di Castiglion del Lago, che era la più vicina. Qui iniziarono purtroppo delle insistenze e delle pressioni per fare immediatamente l'ispezione sul posto poiché si trattava di un caso urgente, vi erano i familiari affranti e comunque non si poteva attendere il trasporto alla camera mortuaria. Vi fu un minimo di contraddittorio, perché io insistevo ad avere un ambiente adeguato che non ottenni perché mi si ribadì la necessità e l’urgenza di effettuare l’ispezione, senza sapere se questo fosse disposto dall'Autorità Giudiziaria; quindi mi rimboccai le maniche e grazie all'ausilio dei Vigili del fuoco che mi aiutarono anche nell'ispezione, mi accinsi a questa operazione, dopo aver invitato i Carabinieri ad allontanare la gente. Feci comunque presente alla persona in divisa che la mia ispezione sarebbe stata del tutto sommaria perché non avevo né i mezzi né la competenza professionale per procedere ad ispezioni di quel tipo.
Antonio Morelli e Ferruccio Farroni, colleghi di Francesco Narducci, furono i firmatari del certificato di riconoscimento. Il personaggio indicato come “autorità” si sarebbe appurato poi trattarsi del questore Francesco Trio. Alla fine le loro pressioni sortirono l’effetto desiderato: la Seppoloni effettuò un’ispezione sommaria sul posto e certificò che la causa di morte era l’annegamento, rendendo quindi non indispensabile l’autopsia, che in effetti non sarebbe stata eseguita. Nella documentazione si legge anche il momento del decesso, risalente a 110 ore prima dell’ispezione. Su questo importante dettaglio la Seppoloni cadde dalle nuvole:
Il verbale fu redatto materialmente in un locale, credo della cooperativa dei pescatori di S. Arcangelo, dove mi recai assieme ai Carabinieri i quali provvidero a redigere il verbale che io firmai nella parte relativa alla ricognizione del cadavere, ma non ricordo che mi vennero fatte domande circa l’orario della morte od altro, anche perché non potevo stabilire l’orario della morte del Dr. Narducci ed escludo di avere detto che era morto da 110 ore perché non avevo un minimo di competenza per affermarlo. Voglio aggiungere che c’erano delle forti pressioni intorno a me perché più io allontanavo le persone, con l’ausilio dei Carabinieri, più la gente mi pressava anche all’interno del locale.
Evidentemente chi aveva redatto il verbale aveva fatto un semplice conteggio di ore dal momento della scomparsa.
Baiocco e Trovati. Subito dopo la Seppoloni, alle 12:55, toccò alla persona che aveva rinvenuto il cadavere, il pescatore Ugo Baiocco.
Domanda: ricorda di avere ritrovato il cadavere del Dr. Narducci?
Risposta: sì, ricordo che lo ritrovai insieme a mio cognato […] annegato quest'anno nel lago. Sapevo che il Dr. Narducci era sparito nella zona del lago […]. Come tutte le mattine, anche il giorno del ritrovamento […] eravamo io e mio cognato in barca, diretti verso l'Arginone, che si trova in un luogo situato in direzione di Castiglion del Lago, con l'intenzione di porre le reti […].
Ricordo perfettamente che quel giorno vi erano molte alghe che affioravano dall'acqua e vi era vento da ponente; io dissi a mio cognato, guardando quel cumulo di alghe, “ma non sarà mica il professore quello?” E quando ci avvicinammo, rallentando con il motoscafo, vidi il corpo di un uomo sfigurato, a pancia all'aria, vestito con cravatta, camicia e mi pare un giacchetto, calzoni e scarpe, con il volto tumefatto, nero e gonfio, e non si vedevano nemmeno gli occhi.
Ricordo che la testa era rivolta verso Castiglion del Lago, a favore di vento, ricordo anche che sulla testa vi erano molte alghe che formavano come una specie di capannella in cui era immerso il corpo. Aveva il braccio sinistro poggiato sullo stomaco e il braccio destro lungo il corpo; appena lo vidi svenni e mi ripresi dopo pochi minuti. Ricordo che in quei giorni il vento era di ponente un po' sostenuto, in sostanza veniva da Castiglion del Lago ed andava verso S. Arcangelo; ricordo anche che la mano sinistra, quella poggiata sullo stomaco, era particolarmente gonfia, deforme e scura, mentre l'altra mano era sott’acqua.
Dopo quel fatto facemmo chiamare i Carabinieri di Castiglion del lago che hanno portato il cadavere al molo, dove è arrivato il Procuratore. Io, dopo essere andato al molo, me ne andai. Ricordo che quando il cadavere fu poggiato nel motoscafo dai Carabinieri, si aprì un qualcosa nel corpo del morto, non so se dal ventre o dalla bocca, e vi fu una puzza indescrivibile, tanto che i Carabinieri dovettero mettersi una garza alla bocca ed al naso.
Come abbiamo già visto, niente mani e piedi legati dietro la schiena, dunque. In quel momento però Mignini non aveva ancora avuto modo di sapere chi fosse il pescatore che aveva raccontato la scena alla Barone, quindi neppure di interrogarlo. E allora ci si deve chiedere se sospettò che magari anche Ugo Baiocco avesse partecipato ai misfatti!
L’ultimo testimone della giornata, alle 16, fu Giuseppe Trovati, detto Peppino, proprietario della darsena di San Feliciano dove era ricoverato il motoscafo dei Narducci. Era stato lui a vedere Francesco mentre partiva per il suo ultimo viaggio, quindi il suo racconto assume particolare rilevanza.
Domanda: che cosa notò l'ultima volta che vide il Dr. Narducci in vita?
Risposta: arrivò verso 1e 15,00 - 15,30 circa di un giorno di ottobre a bordo di una moto che già avevo visto altre volte e mi pare che il colore del serbatoio fosso di colore oro, ed il tipo della moto fosse quello tradizionale, con il manubrio alto. Ricordo che indossava un giubbotto di pelle di camoscio, con sotto una camicia, mi pare, non ricordo se avesse i jeans ed i mocassini. Preciso che verso le ore 14,?? il Narducci telefonò a mia moglie per sapere se la barca era ancora al lago perché normalmente nel mese di Ottobre vengono tolte e ricoverate in un piazzale; invece quell'anno era molto caldo e la barca era ancora ormeggiata nella darsena. Mi salutò cordialmente ed appariva del tutto normale; mi disse che usciva con la barca ed io gli chiesi se avesse bisogno del carburante e lui mi disse che era sufficiente quello che aveva, contando sul fatto che comunque il serbatoio di scorta era mezzo pieno di benzina, contenendo 10 - 12 litri. Quel motore consumava circa 1,5 lt per chilometro; quando ii Dr. Narducci salì sull'imbarcazione non aveva niente in mano, e partì verso l'isola Polvese e comunque verso il centro del lago. Ricordo che non prestai attenzione alla sua partenza perché dovevo andare dal commercialista.
Il racconto passa quindi alla fase in cui Trovati si accorse del mancato rientro e dopo un po’ iniziò a preoccuparsi.
Quando tornai dal commercialista, verso le ore 19,00 circa, e comunque quando era già notte, notai che il motoscafo non era rientrato. La moto era ancora parcheggiata all'interno del terreno della darsena, dove l'aveva lasciata, nei pressi di una pianta. […] Non vedendo il Dr. Narducci ho aspettato una mezz'oretta senza essere eccessivamente preoccupato, sia perché il Narducci era particolarmente esperto sia perché il lago era completamente calmo. […] Verso le ore 19,30 telefonai a casa dei genitori e mi rispose suo fratello. Lo informai che il Dr. Francesco non era ancora rientrato con il motoscafo e lui mi rispose che sarebbero arrivati. Verso le ore 21,30 - 22,00 arrivò il fratello del Dr. Narducci, Dr. Pierluca, insieme al Dr. Ceccarelli, oltre ad altre due persone, fra cui il cognato. Uscirono con il motoscafo a cercare il Dr. Francesco; ricordo che non c'era la luna piena e quindi era buio.
Senza neppure attendere l’arrivo dei parenti, Trovati uscì sul lago. Poi tornò alla darsena e si unì ad altri in una ricerca più organizzata. Alla fine il motoscafo venne ritrovato vuoto tra le canne dell’isola Polvese.
Dopo avere chiamato i familiari, feci un giro con il motoscafo intorno all'isola Polvese e non vidi il motoscafo del Dr. Narducci, dove poi è stato ritrovato, e cioè nel canneto dell'isola Polvese. Quando il motoscafo fu ritrovato, credo che fosse a circa venti metri dall'isola stessa. Dopo aver fatto il giro dell'isola, tornai alla darsena e vidi che i familiari erano già arrivati. Escludo di avere chiamato i Carabinieri e ricordo che c'erano i mezzi della provincia ma non mi pare che vi fosse la motovedetta dei Carabinieri, se ben ricordo. Il motoscafo con cui avevo fatto il giro dell'isola aveva un faretto non molto potente e le canne in mezzo a cui fu ritrovata l'imbarcazione erano abbastanza alte. Comunque quando tornai alla darsena, i soccorsi erano già stati organizzati dalla Provincia e noi fummo dotati di baracchino con cui comunicavamo a distanza. Io fui mandato verso l'isola Maggiore, dove verso le ore 00,30 mi fu data la notizia che era stata rinvenuta la barca presso l'isola Polvese. […]
Il natante appariva in condizioni assolutamente normali, come se Narducci si fosse tuffato per una nuotata senza più risalire a bordo (in realtà il suo cadavere vestito di tutto punto faceva escludere questa ipotesi; semmai poteva essere caduto in acqua per un malore).
Appena saputa la notizia, rientrai alla darsena, dove era stata portata la barca. La barca presentava la leva del cambio del motore in folle ed il motore spento; c'era anche un pacchetto di sigarette ed un accendino, posti sul sedile anteriore, vicino a quello di guida. La barca era in perfetto ordine; io provai il motore che andò regolarmente in moto. Non controllai il livello del carburante. Quando vidi l'imbarcazione notai che le chiavi erano nel quadro.
Il dado è tratto. Alla fine di quel frenetico 24 ottobre 2001 Mignini ritenne di aver acquisito sufficienti elementi per prendere una decisione. Il lettore sa già quale fu, ma facciamo finta di non saperlo, e cerchiamo di metterci al suo posto. Pare evidente che con la mancata autopsia e tutti gli altri necessari controlli sul cadavere fossero state commesse delle irregolarità, delle quali risultavano responsabili medici e rappresentanti delle forze dell’ordine, peraltro di grado elevato. Alcuni erano presenti nella testimonianza della Seppoloni, come l’autorità che lei ricordava in divisa ma che doveva essere il questore Francesco Trio. E poi i colleghi di Narducci, Antonio Morelli e Ferruccio Farroni, nonché il fratello Pierluca, che le avevano fatto pressione diretta ma la cui responsabilità era soltanto morale. Altri personaggi emergevano dai vecchi e scarni documenti, magistrati, poliziotti e carabinieri che avevano preso visione delle irregolarità senza creare problemi. Tra loro il capo della mobile, Alberto Speroni, e un procuratore e un giudice istruttore che avevano rinunciato a esercitare azione penale.
Si legge in un frammento della requisitoria di Mignini riportato nella sentenza Micheli, dove si parte da uno scambio tra Ugo Narducci, il padre, e una testimone:
“Ugo mi prese in disparte portandomi in un’altra stanza, uno studio, e mi disse: mi sono messo d’accordo con il Questore per non far fare l’autopsia a Francesco”.
Qui siamo al di fuori di qualsivoglia canone giuridico processuale: un privato si accorda con il funzionario che è sì a capo della Polizia della provincia ma che è totalmente privo di qualsivoglia competenza di polizia giudiziaria circa il fatto che un atto che è tipicamente un atto di indagine di competenza dell’Autorità giudiziaria debba o non debba essere fatto.
Ricordo la dizione dell’art. 16, primo comma del R.D. 28.05.1931 n. 602, sulle Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: “Se per la morte di una persona sorge sospetto di reato, il pretore o il procuratore della Repubblica accerta la causa della morte e, se lo ravvisa necessario, ordina o richiede l’autopsia…”. Questa, a sua volta, se non fosse apparsa collegata a ricerche di carattere complesso, si doveva considerare rientrante nelle ipotesi di cui agli artt. 17, primo comma disp. att. c.p.p. previgente e dall’art. 391, secondo comma c.p.p. previgente.
Si doveva, quindi, procedere con istruzione sommaria, con il rischio che, data l’evidente complessità degli accertamenti, il Pubblico Ministero avrebbe dovuto, con ogni probabilità, richiedere l’istruzione formale al Giudice istruttore.
Ma, in questo caso, un privato, cioè il padre del morto, si accorda con il Questore per non compiere un atto che, a norma delle disposizioni allora vigenti, era di competenza del pretore o del procuratore della Repubblica e avrebbe dovuto dar luogo ad un vero e proprio processo penale. Ma dove siamo? Anzi, dove eravamo? In uno sperduto paese del Terzo mondo, con tutto il rispetto per il Terzo Mondo o nella civilissima Europa e nella sua culla del diritto, cioè l’Italia?
Ovviamente, neppure la polizia giudiziaria, presente sul posto il giorno 13, ha fatto alcunché in merito a quelli che erano i precisi doveri che il previgente codice di procedura penale, all’art. 222, faceva carico agli stessi, vale a dire procedere ai necessari accertamenti e, in generale, alla conservazione del corpo e delle tracce del reato.
Senz’altro gravi irregolarità, dunque, che però di per sé non costituivano certo il presupposto per la formulazione di una notizia di reato, poiché, se reati erano stati commessi, dopo 16 anni risultavano prescritti. Per aprire un procedimento sulla morte di Narducci c’era una strada soltanto: ipotizzare che la mancata autopsia avesse avuto lo scopo di nascondere un reato ben più grave, tanto grave da non essere ancora prescritto. Un omicidio. Ma su quali basi poteva essere formulata un’ipotesi tanto grave? Prima di rispondere leggiamo alcune considerazioni di buon senso fatte dal giudice Micheli:
Chi scrive ha lavorato come Sostituto Procuratore della Repubblica, in tre uffici diversi e complessivamente per quasi 10 anni: costituisce esperienza comune, o se si preferisce fatto notorio, che i familiari di chiunque sia stato ritrovato morto per un apparente suicidio o una verosimile disgrazia cerchino molto spesso di sensibilizzare gli inquirenti per far comprendere quanto sarebbe drammatico per i loro affetti non solo ammettere l’idea di un’autopsia, con la necessaria dissezione del cadavere del congiunto, ma anche dover prolungare la sofferenza della perdita fino al momento di vedersi riconsegnata la salma (evenienza che qualunque attività formale, per quanto non cruenta, necessariamente ritarda).
Ergo, è capitato e continua a capitare a tutti, di ricevere la telefonata del comandante la Stazione dei Carabinieri dove vivono i familiari del defunto, con il militare a rappresentare il dolore di un padre o di una madre neppure sfiorati dall’idea che ci siano reati da accertare e che non sanno capacitarsi della necessità di dover attendere che il medico legale faccia il suo lavoro; e può certamente accadere che, se quel padre o quella madre conoscono non un maresciallo dei Carabinieri, ma il comandante della Compagnia o financo il Questore, la telefonata in questione la faccia qualcuno che si potrebbe pensare più autorevole.
Le considerazioni di Micheli paiono del tutto condivisibili. Come per qualsiasi altro familiare di una persona morta, anche a quelli di Narducci non avrebbe certo fatto piacere un’autopsia. E i Narducci non erano una famiglia di operai, era gente che in ambito locale contava moltissimo. Per di più Francesco era sposato con una componente di una famiglia ancora più prestigiosa, in questo caso addirittura a livello nazionale e internazionale, per le industrie dolciarie Perugina e la catena di abbigliamento Spagnoli. Quindi non c’è da stupirsi troppo se le autorità del posto avevano chiuso un occhio di fronte alle richieste di un padre affranto.
Peraltro la famiglia Narducci aveva un motivo in più per temere l’autopsia: il forte sospetto di un suicidio, come del resto era apparso chiaro a tutti fin da subito. Il loro congiunto non era morto per una disgrazia ma si era tolto la vita, riuscendo in qualche modo a reprimere l’istinto di sopravvivenza e ad affogarsi. Avrebbe detto il genero, Gianni Spagnoli, in un’audizione del 21 febbraio 2002, la prima di tante: “Al secondo giorno della scomparsa di Francesco, cioè il 9.10.1985, Pierluca a casa di Francesca mi disse che non si sarebbe meravigliato se Francesco avesse preso una fiala di un farmaco che precisò ma di cui non ricordo il nome e si fosse buttato dalla barca”. I familiari sapevano bene che assieme all’autopsia sarebbe stato effettuato un esame tossicologico, e se il loro congiunto si fosse stordito con un farmaco la notizia sarebbe rimbalzata sui giornali, con tutte le conseguenze del caso.
D’altra parte il racconto di Trovati sulle modalità con le quali Narducci si era diretto verso il suo tragico destino non offriva alcun appiglio all’ipotesi di un omicidio, anzi, favoriva quella di un suicidio. Il poveretto si era allontanato in barca da solo, in un giorno feriale di metà ottobre che, per quanto di bel tempo, non si conciliava affatto con una gita sul lago. Le sue intenzioni dovevano essere state ben più tragiche, e molto probabilmente comprendevano il tentativo di far pensare a una disgrazia, per un gesto di riguardo verso i propri familiari. Riguardo l’ipotesi dell’omicidio, di sicuro in un film sarebbe risultato spettacolare un appuntamento con i propri assassini in mezzo al lago, ma nella realtà molto poco pratico e molto più denso d’incognite rispetto, tanto per fare un esempio, al banale intervento di un sicario in mezzo a una strada, magari di sera.
In realtà in quei giorni a Perugia si voleva partire con l’inchiesta Narducci a tutti i costi, come peraltro viene confermato dallo scenario delle minacce telefoniche. E Mignini, fino a prova contraria in buona fede ma comunque in un modo che non si può non giudicare almeno avventato – e se dietro le telefonate ci fosse stata la misteriosa setta che intendeva depistare? – agì di conseguenza, e il 25 ottobre 2001 iscrisse a modello 44 un nuovo procedimento, il famoso 17899/01. Si legge sul frontespizio del fascicolo:
* NR. 017869/01 * DEL 09/10/2001
– IGNOTI – ISCRITTA IL 25/10/2001
==============================================
P.M. DELEGATO DR. GIULIANO MIGNINI
* NOTIZIE DI REATO *
(001) – CP 0575, CP 0576,
(002) – CP 0577, CP 0061 Num. 02 Num. 04,
PERIODO DAL: IN EPOCA ANTERIORE E PROSSIMA AL 13/10/1985
PERIODO AL: //
IN MAGIONE
* LISTA PARTI OFFESE/RIFERIMENTI *
COGNOME E NOME: NARDUCCI / FRANCESCO
La data del 9 ottobre dovrebbe riferirsi all’apertura del fascicolo provvisorio, il 5202/01/45. Il reato ipotizzato è l’omicidio (CP 0575) con aggravanti (CP 0576, CP 0577, CP 0061). Le aggravanti previste dai tre articoli sono molte, e chi scrive non sa bene quali intendesse Mignini, è interessante però la specifica del capoverso 2 dell’articolo 61, dove l’aggravante è così descritta: “L'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri […] la impunità di un altro reato”. E qui si arriva al nucleo della questione, alla stessa ragion d’essere del procedimento: l’ipotesi che Francesco Narducci fosse stato ucciso dall’organizzazione segreta che avrebbe commissionato i delitti del Mostro, della quale lui stesso avrebbe fatto parte e che avrebbe avuto intenzione di denunciare. Ipotesi tanto audace quanto fantasiosa, ben compatibile con le trame dei romanzi che Giuttari e i suoi editor di lì a un paio d’anni avrebbero cominciato a concepire.
Nella sostanza, con l’apertura del procedimento 17869/01/44, si riconfigurava a Perugia quello scenario dei mandanti che a Firenze aveva appena finito di dimostrare tutta la sua inconsistenza.
Un’inchiesta dura a morire. E qui non possiamo far altro che tornare al tema d’apertura, quello delle “Cattedrali nel deserto”. Dando il via all’inchiesta sulla morte di Francesco Narducci e sui suoi eventuali legami con le vicende dei duplici omicidi di Firenze il pubblico ministero Giuliano Mignini s’incamminò lungo una strada dalla quale non sarebbe più riuscito a tornare indietro, nonostante se ne fosse presto resa evidente la mancanza di sbocchi. A nulla sarebbe servita la costante interpretazione di ogni elemento in chiave malevola (la sentenza Micheli offre numerosissimi esempi al riguardo). Alla fine l’inchiesta si sarebbe aggrovigliata su se stessa, finendo per impiegare le maggiori risorse non più tanto sull’ipotesi di reato iniziale, ma sulla difesa dalle critiche dei giornalisti e dai tentativi delle autorità di porle un freno. Come una belva affamata priva di cibo si sarebbe rivoltata anche contro qualche incolpevole testimone accusandolo di reticenza o intralcio, come nel caso di Donatella Seppoloni e Giuseppe Trovati.
E non dimentichiamo i costi economici. Si legge nella sentenza Micheli:
“È una vicenda complessa, forse la più complessa, la più dirompente e la più tormentata che la cronaca giudiziaria di questa sede perugina ricordi.”
Il Procuratore della Repubblica, nella requisitoria depositata per atto scritto e che verrà riportata di seguito per ampi stralci, ha usato queste parole per definire il processo che viene definito con la presente sentenza. Prescindendo in questa fase introduttiva dalle cause che hanno portato a tale situazione concreta, ma è un punto su cui si dovrà almeno implicitamente tornare, si può essere senz’altro d’accordo sulla conclusione: di rado gli atti trasmessi dal P.M. al Giudice dell’Udienza Preliminare per corredare una richiesta di rinvio a giudizio hanno una mole anche lontanamente assimilabile agli oltre 100 faldoni di carte che qui sono stati raccolti; e forse mai (ma il forse è un eufemismo) questo Ufficio è stato chiamato a pronunciarsi su fatti storici che trovano antecedenti – e, secondo l’impianto accusatorio, motivazioni – in episodi risalenti a 25 anni prima.
Si aggiungano tutti i procedimenti collaterali, come quello stralciato per i legami con i delitti di Firenze, poi archiviato per mancanza di elementi su richiesta dello stesso PM. Ma anche l’inchiesta fiorentina sui mandanti si sarebbe presto arenata senza la pista Narducci; invece andò avanti fino a portare in giudizio il povero farmacista Francesco Calamandrei, il quale naturalmente sarebbe stato assolto. E non dimentichiamo il GIDES, la struttura investigativa di Giuttari, nata in seguito all’apertura dell’inchiesta Narducci, che per quattro anni impiegò nove poliziotti a tempo pieno in indagini inutili. Sarà mai disponibile una valutazione dei costi di tale gigantesca attività, che alla fin fine si proponeva di scoprire chi avesse acquistato sei poveri brandelli di carne umana?
Si legge nella sentenza Micheli:
Una prima osservazione, su un piano di inquadramento complessivo della storia di questo processo (“storia” è parola che normalmente non si addice ad atti di indagine o di esercizio dell’azione penale, ma qui sembra pertinente), riguarda il perché di quegli accertamenti: ritiene il giudicante che siano state compiute indagini perché era doveroso farle, pur non essendo condivisibili le conseguenze che oggi il Pubblico Ministero sostiene sia necessario ricavarne.
E non vi sarebbe stato motivo di compierle se 25 anni fa le cose fossero andate diversamente, seguendo un pur minimo standard di completezza nelle acquisizioni istruttorie conseguenti alla morte di Francesco Narducci. In altre parole, che il 13 ottobre 1985 non venne fatta non solo un’autopsia, ma neppure uno straccio di visita esterna degna di questo nome, sulla salma dell’uomo ripescato dalle acque del Lago Trasimeno (si affronterà in seguito il problema se potesse trattarsi di una persona diversa dallo scomparso), è qualcosa di francamente inconcepibile.
Chi scrive trova le considerazioni di Micheli in genere condivisibili. In questo caso però no. Ci saranno anche state delle gravi irregolarità riguardo la tumulazione di Narducci, ma quali elementi potevano farle inquadrare in un’ipotesi di omicidio? Le telefonate di minaccia alla Falso dove il nome di Narducci neppure compariva? Le fantasiose ipotesi di Giuttari sui mandanti dei delitti di Firenze? Le malevole chiacchiere dei perugini su Narducci coinvolto in quei delitti e dei quali poteva quindi divenire un mandante?
Da libero cittadino italiano che vedrebbe volentieri le proprie tasse meglio impiegate da una magistratura sempre in affanno, chi scrive si sente di poter affermare che quel 25 ottobre 2001, giorno di apertura del procedimento giudiziario 17869/01/44, sarebbe stata una fortuna se Giuliano Mignini avesse iniziato a occuparsi di una delle tante vicende di malefatte più ordinarie che probabilmente anche a Perugia, come in tutt’Italia, giacevano in attesa su qualche scaffale.
L'articolo finisce qui. Ma non finisce qui l'interesse di questo blog per la vicenda Narducci. Esamineremo più avanti il modo con il quale le indagini cominciarono a scavare in fatti risalenti a 16 anni prima, con quali difficoltà e con quali rischi di travisamento è facile immaginare. Come nel caso dell'ormai famoso ispettore Luigi Napoleoni.
***********************
Ancora un grazie a Francesca Calamandrei, che ha reso possibile questo nuovo articolo mettendo a disposizione il suo prezioso archivio. È motivo di grande soddisfazione per chi scrive continuare a fornire il suo piccolo contributo alla battaglia che sta ancora conducendo per eliminare gli ottusi sospetti sulla figura del padre, duri a morire nonostante la legge abbia riconosciuto i propri errori assolvendolo per insussistenza del reato.
Una volta provai a scrivere sul noto gruppo facebook che la famiglia della moglie del Narducci era ben più in vista e potente di quella del medico, ma ti lascio immaginare le reazioni. Contro la massoneria esoterica non c'è avversario che tenga. Per quanto ricco e potente possa essere. In realtà cade una delle tante leggende sulla vicenda, quella di una signora sola e indifesa davanti alla prepotenza dei parenti acquisiti, leggenda nata da un famoso romanzo sulla vicenda. Scusa lo sfogo ma era da tempo che volevo fare una riflessione sul tema. Per quanto riguarda il gip e il pm che vanno a pranzo insieme, anche qui, fino a qualche anno fa, ti avrebbero accusato di essere un berlusconiano, e che non è vero che in Italia c'è un problema etico , e pratico, all'interno della magistratura. Quando invece sappiamo benissimo che è così, e la sensibilità politica non c'entra nulla. Essendo politica ed etica due concetti per forza di cose separati, diceva Croce. La separazione delle carriere e una drastica riduzione dei poteri dei pm dovrebbe essere auspicata da ogni vero garantista. Nonché un maggiore rispetto, anche a livello mediatico, dell'articolo 27 cost. (Vedi dichiarazioni di qualche mese fa di PCD). Detto questo Antonio sai già cosa diranno, che le pressioni, certamente inaccettabili, sulla Seppoloni, servivano a nascondere lo scambio di cadavere, che Narducci era già indagato fin dai primi anni '80, anche se non c'è il minimo documento che lo provi. La presenza di un membro delle forze dell'ordine fra i telefonisti, eventualità che era già nota, è un macigno di inquietudine; è davvero difficile restare con i piedi per terra davanti ad una vicenda del genere. Io credo che questa tua opera di ricostruzione storica della vicenda sia davvero meritoria. Con tutte le difficoltà del caso, con stima, e un pizzico di invidia, per la tenacia e la serietà con cui porti avanti quella che ha tutta l'aria di essere una battaglia persa in partenza. Dalla cartuccia nell'orto, alla morte di Narducci, passando per la villa dei misteri (hai citato per esteso il cognome dei proprietari, se non ricordo male non si "poteva" fare su internet). Io non credo che non si arriverà mai ad una verità storica sulla vicenda. Penso che resterà uno dei tanti casi irrisolti di questo paese, dal carteggio Mussolini-Churchill a Ustica, tanto per fare qualche esempio, l'mdf non farà differenza, temo. Ma questo aumenta il valore del tuo lavoro, disinteressato e a proprio rischio e pericolo.
RispondiEliminaGrazie Lorenzo. Io però sono un po' più ottimista. Ciao.
EliminaUn lavoro encomiabile, Antonio, se anche i giornali facessero debunking e domande come le tue forse questo sarebbe un paese più civile e meno dedito a fantasie improbabili ed ipotesi surrettizie.
RispondiEliminaCaro Antonio, ti ringrazio per lo splendido lavoro svolto. Quello che tuttavia a me da medico non torna è la questione del doppio cadavere, cosa che non può essere negata. Probabilmente la strada del Mostro di Firenze non era corretta, ma si doveva indagare comunque. Non penso che tale questione possa semplicisticamente essere spiegata dal desiderio della famiglia di evitare l'autopsia del proprio congiunto. Che cosa ne pensi?
RispondiEliminaMi dispiace daygo, ma non posso credere alla storia del doppio cadavere. Avrebbe avuto un senso se Narducci fosse fuggito, che so, in Sudamerica e al suo posto fosse stato tumulato il cadavere di un'altra persona. Ma Narducci era morto, e al massimo il suo corpo avrebbe avuto un piccolo segno sul collo. Niente fori di proiettile, niente testa fracassata e così via. Sapendo di riuscire a evitare l'autopsia, per quale diavolo di motivo la sua famiglia si sarebbe impelagata in un'assurda storia di sostituzione, peraltro optando per un corpo del tutto differente da quello del loro congiunto?
EliminaSono fermamente convinto che la frattura del corno ecc... si sia prodotta durante il taglio della cravatta, come ho spiegato nel mio articolo apposito, e che dunque quel corpo adagiato sul molo fosse proprio quello riesumato 17 anni dopo.
Ti ringrazio per la rapida risposta. Ma le caratteristiche fisiche del Narducci non corrispondono a quelle del corpo riesumato (aspetto negroide, più basso, ecc.). Come le spieghi? Questa è la cosa che non mi torna soprattutto...
EliminaNon pare che le persone attorno a quel corpo se ne fossero accorte. Anche l'altezza fu valutata ben compatibile. Ricordo Nazareno Morarelli, delle pompe funebri, che la valutò tra 1.75 e 1.85. C'era gente che conosceva bene il morto. Tutti facevano parte della congrega che avrebbe tentato di nascondere l'omicidio?
EliminaIo credo invece che quando si vuol trovare del torbido a tutti i costi alla fine si può anche trovare. Soprattutto avendone i mezzi. Mi chiedo come si possa pensare di valutare l'altezza del cadavere in base alla ben nota foto. Per tanti motivi i margini di approssimazione sono amplissimi, e certo un consulente del PM non si può pretendere che li avesse stirati verso l'alto.
Con la storia delle telefonate all'estetista mi pare di aver dimostrato l'esistenza di una forzatura enorme, dietro la quale c'era qualcuno che aveva interesse a far partire l'inchiesta Narducci. Ebbene, ancor prima di proseguire con le mie analisi, ritengo prudente non fidarmi neppure di quel che è venuto dopo.
Comunque a tempo debito scriverò quel che ne penso anche di questo.
Sugli appunti di Napoleoni (se non ricordo male stai preparando un articolo) ti segnalo questo video
RispondiEliminahttps://youtu.be/p86o0r2Bq5s
Grazie, avevo visto che c'era, non credo però che la dottoressa Antipaticone abbia qualcosa da dire che possa interessarmi. In ogni caso l'articolo per il momento è andato in coda a un'altra inziativa che spero di rendere presto pubblica.
EliminaBene, aspetto gli sviluppi 🙂
EliminaA qualcuno fece comodo intrecciare due aspetti della "vita" attorno alla città: la presenza di un "mostro" inafferrabile e un giro di persone dedite a stranezze (sedute spiritiche, maghi e maghetti, puttanieri più o meno ricchi e organizzati, "sette" che nascondevano solo altro sesso e devianze varie), aspetto che sarà presente in chissà quanti interland italiani, ma se non capita il fattaccio nessuno ne sa niente (vedere Genova...). Il volere un mostro a tutti i costi e il volere dar credito a personaggi vari, intrecciò tutte queste situazioni e nacquero le ipotesi ben note, con tanto di pista perugina nel lago.
RispondiEliminaChe ne pensi della querelle che si sta scatenando intorno al telefilm con Banderas?
RispondiEliminaPenso che, sempre che lo facciano, sarà un brutto film, e che Mignini dovrebbe trovare di meglio da fare.
EliminaRecentemente Mignini ha raccontato che casualmente vide in Perugia quel settembre '85 F.Narducci, che lui già conosceva,si salutarono,dice di aver notato un suo dimagrimento e un arrossamento perioculare...l ex PM ammette di non ricordare se fu prima o dopo l'8 settembre'85... Se non è questo funzionario integro e un uomo onesto...
RispondiEliminaLe telefonate minatorie in questione fanno pensare ma certo quanto quello che è accaduto nell'ottobre 1985
Riporto alcuni passaggi (e note del sottoscritto non così importanti) molto interessanti dal Riepilogo Indagini del dott. G. Mignini sulla morte del dott.F. Narducci (n.04/10/1949- m.8-9/10/1985) * certif. morte con cancellatura e sovrascritto "Magione"
"Non posso avere
certificato che la morte risaliva a cento dieci ore prima e ricordo che redassi il
certificato di morte, di mio pugno, nel quale mi limitavo a constatare la morte
ed a formulare una probabile causa della stessa; anche sulla causa della morte vi
furono identiche forti pressioni perché persone di cui ho parlato non volevano
che la causa della morte fosse “probabile” ma che certificassi senza quella
riserva la morte per annegamento. Mi dicevano continuamente "è chiaro, non ci
sono problemi, QUESTO è morto annegato". Volevo scrivere anche che era
assolutamente necessaria l’autopsia perché l ’ispezione era del tutto carente ma a
questo punto la pressione fu fortissim a da parte del Dr. M. e del fratello del
defunto. Anche i carabinieri si trovavano al centro di queste pressioni e ci
sentivamo come accerchiati e costretti a concludere il tutto rapidamente, COME CI SI DICEVA". Dott.ssa D.S.
-Giuseppe T., si riporta, vide FN tranquillo ma la suocera Maria B.F. riferì che egli gli disse Francesco fosse pallido e agitato
Jacqueline M. disse di aver visto FN con assieme ad altri due ex indagati di S.Casciano VdP e noto che di uno non c'erano allora foto pubbliche....
Eloquenti la intercettazione all'isp. Luigi N.
Il Vampa era pilotato...
Cosa vuole che le dica, secondo lei i milioni di euro pubblici spesi per tale inchiesta sono giustificati dalla mancata autopsia sul cadavere di Narducci e dalle chiacchiere della gente sul fatto che sarebbe stato il Mostro di Firenze. Ne prendo atto.
EliminaAlla fine anche questo articolo risulta una cattedrale nel deserto. Perché dedicare tempo a questioni marginali e non parlare del cadavere doppio? La parte civile del processo era rappresentata dalla moglie di FN, Francesca Spagnoli, quella della moda e della Perugina, non dalla Carlizzi. Trovo inaudito tanto risentimento verso un giudice che ha provato a fare il suo dovere pagandone le conseguenze. Si è fatto un percorso breve tutto a zig zag per sostenere tesi del tutto personali. Come il cosiddetto FLANZ Vinci contro Giuttari. Chissà perché due ricercatori così bravi poi si perdono in vertenze faziose. Ci credo che Mignini non abbia voluto rispondere qui. E' già tanto che abbia risposto. Trovo il tutto infondatamente molto offensivo
RispondiEliminaUn'inchiesta costata milioni e milioni di euro a noi contribuenti partita con le basi che ho illustrato a lei pare una questione marginale. Non posso che prenderne atto. Fortunatamente siamo in un paese libero, e come lei può pensare e dire la sua io posso pensare e dire la mia.
EliminaNiente di personale contro Giuliano Mignini né contro Michele Giuttari, ci mancherebbe altro, neppure li conosco. Soltanto desiderio che sia raggiunta la verità su questa vergognosa e tragica vicenda dei delitti del Mostro di Firenze, dove le sette sataniche e i doppi cadaveri non hanno fatto altro che aggiungere confusione.
Egregio Segnini è ovvio che ognuno la può pensare e dire come vuole non ho mica messo in discussione i suoi diritti. Seguendola da tempo, anzi colgo l'occasione per ringraziarla delle sue ricerche e del suo blog, non mi aspettavo una posizione così rigida e severa sul lavoro di Mignini che stimo altrettanto. Diciamo che sono rimasto deluso e per questo ho sentito di doverle scrivere per la prima volta. Continuerò a seguirla nonostante le visioni diverse tra noi sul caso MdF ormai siano la maggioranza. Nonostante questo anch'io come lei desidero la verità e se un giorno risultasse la sua ne sarei contento, l'importante è che risulti. Non ho interessi editoriali in merito, solo passione civile. I soldi pubblici stanno a cuore anche a me ma mettere in conto milioni e milioni di euro a Mignini mi pare esagerato. Forse si riferisce al totale delle indagini dal GIDES in poi? Beh, se parte dall'idea di Lotti serial killer unico lo posso capire, bastava andare a prenderlo al bar! Però ammetterà che sono veramente tanti i testimoni che dicono cose diverse e hanno portato a piste sui mandanti(sette sataniche è una semplificazione denigratoria forviante) e a vicende molto strane effettivamente confuse. Lo stesso Lotti è tra queste, anzi, è la voce più importante sul dottore di Perugia e il farmacista di S.Casciano. Ammettiamo che il Lotti volesse sviare da se stesso, ma perchè allora il Calamandrei negò oltre ogni ragionevole logica la conoscenza di Francesco Narducci? Anche la sentenza che lo assolve lo marchia come bugiardo in questo senso. Ma dato che il FN non risulta coinvolto con la vicenda MdF il fatto in se diventa ininfluente. Buffa sta cosa ma oggettiva. Allora il doppio cadavere ammazzato accertato a casa Narducci le sembra un fatto da poco e lo analizza come fosse un'occasione sfruttata da Mignini per far quadrare le sue indagini? Ma davvero? Spero proprio di no. Fu un dato ben preciso e inquietante che poteva portare a chiarire molto sul MdF. Ma si fermò tutto e si preferì accusare Mignini salvando gli imputati con la prescrizione. Chi ha speso male i soldi pubblici in questo caso? Ho letto quasi tutti i Gides e riconosco che diverse indagini sono risultate inutili, ma altre, seppur non ancora probanti, molto illuminanti su certe responsabilità interne ed esterne agli inquirenti stessi. Si poteva fare meglio in una situazione tanto compromessa? Lo stop era inevitabile e la verità forse nascosta per sempre
RispondiElimina1. Senza l'inchiesta sul presunto omicidio di Narducci il GIDES non sarebbe nato, quindi i quattro anni in cui una decina di poliziotti e tutti i mezzi messi a loro disposizione vennero pagati da noi contribuenti ne sono emanazione diretta.
Elimina2. Sette sataniche sarebbe una semplificazione denigratoria forviante di "mandanti". Mi dica lei in quali altri contesti si potrebbe parlare di mandanti. Davvero ha senso vedere dei semplici gaudenti sporcaccioni sollazzarsi con i poveri pezzi di carne durante i loro entusiasmanti amplessi? Se non altro si potrebbe ritenere, in via presuntiva, che eventuali sette sataniche potessero officiare cerimonie "sataniche", dove insieme alle pelli di rospo ci potevano stare anche quei poveri brandelli di carne umana.
3. Lo stesso Lotti sarebbe la voce più importante sul dottore di Perugia e il farmacista di San Casciano? Potrebbe dirmi in quale film l'ha visto, che io me lo sono perso? O forse si riferisce alle dichiarazioni della Ghiribelli, dove comparivano gli esperimenti di mummificazione?
4. La sentenza che assolse Calamandrei parla di testimonianze sulla presenza di Narducci a San Casciano affette da "non pochi dubbi". Tali testimonianze me le sono studiate una a una, e non ce n'è una che possa definirsi chiara e lampante. Caso esemplare (e scandaloso) quello della Pellecchia, che venne ascoltata in due tempi, con una cambiamento abnorme tra il primo e il secondo.
Si legga questo articolo, se vuole, e faccia le sue osservazioni:
https://quattrocosesulmostro.blogspot.com/2016/01/lombra-nera-1.html
5. Dove risulterebbe accertato il doppio cadavere? Non esiste una sentenza che lo abbia accertato, con un contraddittorio tra le parti. Esiste solo l'archiviazione De Robertis, dove il parere della giudice, in perfetto accordo con quello di Mignini, non ha alcun valore giuridico, è soltanto personale. Suo compito era stabilire se la richiesta di archiviazione di Mignini era da accettarsi, e lei la accettò. Punto. Il suo parere personale sul doppio cadavere avrebbe potuto risparmiarselo, non essendo richiesto ai fini dell'archiviazione.
La semplice logica dice che la questione del doppio cadavere non avrebbe avuto alcun senso. Una gigantesca messinscena per nascondere che cosa? La salma di Narducci era perfettamente integra, non c'era nulla da nascondere, tantomeno dietro un presunto soggetto negroide venti centimetri più basso e altrettanti più largo, per di più con il volto tumefatto dalle percosse. Questo almeno si sostiene.
Si legga in questo articolo come molto probabilmente si produsse la frattura della cartilagine famosa sul cadavere del molo, che quindi era quello di Narducci, poiché tale frattura venne riscontrata 17 anni dopo. Se non ne ha voglia potrà guardarsi un prossimo video sul tema.
https://quattrocosesulmostro.blogspot.com/2020/05/una-strana-frattura.html
6. Che le indagini del Gides fossero state fermate fu un male per che cosa, per la ricerca della verità sui delitti del Mostro? "Eravamo a un passo...", questa la pantomima di Giuttari, al quale gli anni e i mezzi d'indagine non mancarono certo per trovare quello che diceva di voler trovare. Spese i nostri soldi e non trovò nulla, perché nulla c'era da trovare, questa la semplice verità.
In realtà il Gides neppure doveva nascere, fu la solita soluzione all'italiana, con la quale venne addossata alla comunità il peso di una controversia che impediva a Firenze di avere un capo della mobile che si dedicasse alle tediose attività di contrasto alla criminalità comune, visto che Giuttari non ne voleva sapere di mollare il posto e a lui interessava solo il Mostro.
Abbia pazienza signor Danivivid, mi potrebbe spiegare la dinamica in cui 2,3,4 o forse anche 10 e più persone si sarebbero messe d'accordo per prendere un cadavere tumefatto di un messicano basso, grasso e stempiato per sostituirlo con uno completamente diverso di cui, tra l'altro, era stato ordito un piano a dir poco machiavellico per non eseguire l'autopsia?
Elimina@ Segnini
Elimina1. Questa è una sua idea. C’era la SAM antimostro e poi è venuto il Gides sui delitti seriali. Giuttari era a Firenze dai tempi delle indagini antimafia e si è occupato del MdF più tardi, non penso per decisone sua. Le indagini GIDES sono a 360 gradi e come già detto non del tutto infruttuose. Personalmente sono contento di questa panoramica senza timori di riverenza. Quale secondo fine poteva avere visto l’alto rischio che comportava indagare anche gli stessi procuratori di Firenze se non quello di finire la carriera sotto processo? Magari i soldi pubblici fossero sempre spesi per la verità e la giustizia
2. Ma pensa di prendermi in giro? Non ho mai detto niente di quanto mi attribuisce e non penso sia così settario a sua volta da non concepire altro tipo di eventuali mandanti, intesi come collaboratori, organizzatori anche eventualmente a sfondo politico se non esoterico sessuale. Che ne sappiamo dell’uso poi fatto dei feticci? Di solito si tirano fuori le cosiddette sette sataniche per chiudere il discorso. Tutto qui
3. Anche qua mi da l’impressione di non prendermi sul serio. Ma allora perché mi ha risposto in modo così copioso? Se lo vuole chiamare film faccia pure, ma io parlo del processo dove Lotti (per questo il più importante,non per me) parla del dottore di Perugia e a parte del Calamandrei e delle visite in casa sua ecc. Che poi siano balle è un altro discorso, il mio era molto più semplice e oggettivo: Calamandrei era bugiardo su Narducci, lo dice il Giudice, non io.
4. Ho già letto più volte il suo articolo che mi ripropone qui a differenza dei libri sul mostro che non ho mai comprato e non mi interessano. A differenza di Luciano Malatesta che invece ascolto sempre molto volentieri a differenza di altri. Per questo resto delle mie idee
5. Vabbè…le sentenze vanno rispettate ma non è detto che ci si debba credere per forza altrimenti nessun caso sarebbe mai stati riaperto. Lei lo sa quanti soldi pubblici spendiamo ogni giorno per risarcire gli esiti di sentenze sbagliate? E quante ne verranno ancora? Penso di si visto come è accorto sulla spesa pubblica. Allora io credo a Mignini e alla logica della sua indagine, mentre non credo affatto al concistoro che si è trovato contro. Impossibile entrare nei dettagli in questa sede, mi scuserà.
6. Su questo punto si è già detto al primo. Certo che per chi ha la verità in tasca ogni indagine è superflua, ma io non ce l’ho in tasca e al di là di Giuttari persona, che non mi torna neppure simpatica, se lui e Mignini non avessero accusato il giudice Nannucci di intralcio alle indagini, se la Procura di Firenze non li avesse messi sotto processo a loro volta (nonostante l’evidente incompatibilità territoriale), se come chiedeva lo stesso Pacciani avessero potuto indagare fino in fondo su FN, allora forse si poteva chiudere un primo importante cerchio che passava anche per la farmacia di San Casciano e per altri uffici e laboratori che di satanico nel vero senso della parola non avevano niente. Basta leggere i Gides appunto
@ Il Collega, non sarà che sto a rispondere alla sua domanda retorica. Resti delle sue idee tranquillamente e non tiri fuori degli improbabili messicani di cui non ho mai parlato (ipotesi superflua remota e superata) e non parli di un ordine, criticato dallo stesso giudice, come una machiavellata che non c'è mai stata. Restiamo alla logica e ognuno ha la sua a quanto pare
Elimina1. Le ricordo che il GIDES nacque per le pressioni concomitanti di Canessa e Mignini, e che la delega della procura di Firenze a Giuttari prevedeva soltanto indagini sui collegamenti di Narducci con l'ambiente fiorentino. In precedenza c'era stata la brutta figura con l'inutile perquisizione della villa di Mercatale. La nota di Giuttari di fine 2001 per la procura, oggi disponibile a tutti, è lo specchio lampante del nulla assoluto che aveva sulla pista dei mandanti. Nessuno dei personaggi da lui indicati venne mai raggiunto da comunicazione giudiziaria, erano soltanto persone oggetto di vecchie chiacchiere e lettere anonime.
Elimina2. Se i mandanti non erano delle sette sataniche, come lei sostiene, cos'erano allora? Mi sembra che nel processo a Calamandrei si parlò di mandanti gaudenti, o mi sbaglio? Lei vede uno scenario differente?
3. Lotti avrebbe parlato del dottore di Perugia? La invito a verificare, poiché si sbaglia di grosso. In un'occasione, mi pare all'incidente probatorio, parlò di medico curante di Pacciani, poi in dibattimento genericamente di "dottore".
6. Mi dica lei se quattro anni di indagini di 10 persone non sarebbero state sufficienti a individuare almeno una traccia, ma CERTA, della presenza dei mandanti, se questi ci fossero stati.
Mi scusi, invece penso proprio che mi dovrebbe rispondere, altrimenti non capisco il motivo per cui scrive su questo blog. Ok, il cadavere non era di un messicano. Mi spieghi quindi quando, come e dove questi pseudo mandanti avrebbero operato per due volte uno scambio di cadaveri, a quale scopo e perché avrebbero dovuto coinvolgere tutte quelle influenti persone. Visto che l'inchiesta non ha portato a nulla mi aspetto che queste sue supposizioni siano fondate su qualcosa di veramente concreto che spero possa condividere con noi.
Elimina@ Segnini
Elimina1. ho già detto tutto
2. gaudenti appunto, non satanici. Gli scenari qui sono ancora tanti purtroppo
3. ok Lotti non ha specificato di quale medico si trattasse ma solo delle commissioni che richiedeva a Pacciani. Ho fatto un'associazione impropria ma non cambia molto per me, anche perché quelle di Lotti potrebbero essere tutte balle. Quello che conta per me è perché F.Calamandrei non ha ammesso di conoscere FN
6. vista da lontano l'operazione risulta senz'altro inutile e costosa, ma come detto più volte, leggendo bene le carte si capisce perché non poterono concludere il loro lavoro
PS: visto il doc RAI 2, anche la Polizia Scientifica potrebbe essere utilizzata in miglior modo
Saluti e buon lavoro
,
2. Ne devo arguire che lei ritiene ragionevole che delle persone interessate a orge a base di sesso - poiché soltanto di questo avrebbe potuto trattarsi, se si escludono le sette sataniche - avrebbero trovato eccitazione nella presenza che so, in un teca, delle parti di donna escisse? Non pensa che l'effetto sarebbe stato piuttosto quello di conati di vomito?
EliminaIn realtà questo scenario di gente interessata a quei poveri brandelli non ha una logica, da qualunque parte lo si guardi, ed è davvero incredibile come dei funzionari della nostra magistratura e delle nostre forze dell'ordine abbiano potuto sprecare impunemente i nostri soldi inseguendo dei soggetti che avrebbero potuto albergare soltanto nella fantasia di un pessimo scrittore di romanzi horror.
3. A parte l'inconsistenza delle testimonianze a riguardo, nate in stanze di questura dove la voglia di trovare almeno qualcosa sui fantomatici mandanti doveva essere al massimo grado, conosco Francesca Calamandrei, e so per certo che suo padre non ebbe mai alcun rapporto con Francesco Narducci. L'uomo diceva il vero, e al di là del rapporto personale che ho con sua figlia, io lo credo perché la logica me lo conferma. Un personaggio come Narducci a San Casciano avrebbe lasciato tracce molto più imponenti delle poche faticosamente e sospettosamente recuperate nelle stanze di questura di cui scrivevo poc'anzi.
6. Le ricordo che a un certo punto questo lavoro di cui lei dice si rivolse a indagare giornalisti e funzionari dello stato, rei i primi di criticare legittimamente l'operato del GIDES, i secondi di voler risparmiare ai cittadini italiani ulteriore spreco di risorse pubbliche. Come si fa a parlare di concludere un lavoro che non aveva dato neppure un embrione di risultato?
A questo proposito è esemplare la recente lettera dell'avvocato Vieri Adriani a Michele Giuttari. Invito lei e tutti gli altri miei lettori a darle un'occhiata. Ne vale davvero la pena.
https://www.avvocatoadriani.it/wp/wp-content/uploads/2021/11/giuttari.pdf
Dell'Avv. Vieri Adriani, che stimo, potrei fornire altre lettere e/o dichiarazioni in cui dice cose diverse, ma questa è recente e ha senz'altro valore seppur sembra dettata più da esasperazione che da analisi lucida. Anche se posso capirlo rispetto gli atteggiamenti di Giuttari, mi sembra sbagliato attribuirgli parole non sue come <<...sul presunto (solo
Eliminada Lei) coinvolgimento dei loro cari in pratiche magiche e in riti esoterici che, a Suo dire, li avrebbe fatalmente portati incontro alla morte..>> Nei documenti GIDES non si parla di tutto ciò, al massimo si cerca di capire cosa può essere successo a Monte Morello viste le precise testimonianze verbalizzate in tempi non sospetti. Per il resto è stato un investigatore tedesco, che era stato a Scopeti, a mettersi in contatto con i parenti dei ragazzi francesi e a riferirgli varie cose che non avevano nulla a che fare con il Diavolo ma bensì con gli Hare Krishna che avevano ed hanno una sede a due passi dalla piazzola di Scopeti ecc.ecc. In verità l'Avv. Vieri Adriani ha più volte smentito anche questo tipo di legame spirituale ma non mi pare corretto capovolgere il senso delle indagini. Dalle parole dell' Avvocato si può pensare che i ragazzi erano in un circolo satanico mentre dai Gides risulta il contrario appunto, persino la possibilità che i due ragazzi volessero denunciare il MdF. Tra l'altro mi pare che lo stesso Avv. creda in parte ai Gides visto che su altra dichiarazione parla lui stesso di seconda Golf, o comunque di auto misteriosamente acquistata poco prima il duplice delitto di Scopeti e rottamata e pressata subito dopo. Quindi capisco l'irritazione di Vieri Adriani ma non si lasci andare a considerazioni ironiche per prendere per i fondelli Giuttari. Se lo si vuol criticare si faccia parlare le carte e si tirino fuori nomi e cognomi visto che ci sono. Anche le considerazioni sulla sentenza Calamandrei mi lasciano perplesso, non credo abbia usato le parole giuste ma ormai ci siamo abituati
Bene...mi pare che molto di recente (2022) l'Avvocato Vieri Adriani e i familiari delle vittime francesi abbiano alzato il tiro. Era ora, spero che almeno loro restino uniti
EliminaFN, assassinato???
RispondiEliminaE dove sarebbero le prove e le certezze in tal senso?!
Non cristallizza ciò nemmeno la "Relazione di Consulenza Tecnica per conto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia sulle circostanze della morte di Narducci Francesco (Proc n.17839/01 E.G.Mod 44)
Relazione che aveva come preciso compito quello di accertare:
- "l'epoca della morte"[cit]
- "la causa della stessa e mezzi che l'hanno prodotta"[cit]
Ossia, due dati (specie il secondo) senza i quali non è proprio possibile dire se una persona sia stata assassinata o no.
Due risposte però alle quali NON fornisce affatto risposta nè certa, nè univoca, nè soddisfacente i quesiti posti.
Infatti,
è sufficiente leggere le "Conclusioni"[cit] di detta perizia, per rendersi conto che la "Relazione"[cit] di parte a firma del dott. Pierucci e della dott. Montagna, NON esprima alcuna certezza.
- "si prospettano DUBBI…"[cit]
- "le INCERTEZZE in tema di identificazione, si ripercuotono pure sulla valutazione dell’EPOCA DI MORTE…"[cit], "con possibilità di una notevole escursione di anni, in più od in meno"[cit]
- "Non si sono riconosciute tracce di annegamento sotto forma di geo- e fitoplancton nei visceri.
Il dato negativo di per sè, comunque, NON ESCLUDE L’ANNEGAMENTO"[cit]
- "i DUBBI identificatori si riflettono PURE sulla precisazione della CAUSA della morte…"[cit]
- "il rinvenimento di mepedrina in diversi organi-tessuti del cadavere PONE IL PROBLEMA del ruolo letifero di tale oppiaceo, O ANCHE quello dell’EVENTUALE influenzamento di MODALITA’ SUICIDIARIE o ACCIDENTALI o ANCHE OMICIDIARIE…"[cit]
- "l’obiettiva frattura del corno superiore sn (parzialmente calcificato/ossificato), che SI RITIENE avvenuta in vita, rende quanto meno PROBABILE che la causa della morte…"[cit]
Insomma solo:
dubbi, incertezze, vaghezze, possibilità, opinioni, non esclusioni, probabilità, condizionali.
Sicuri che questa perizia ci dica che FN sia stato per certo assassinato?
Dove?
I periti non rispondendo in modo certo ai "quesiti"[cit] postigli, lasciano aperte tutte le opzioni:
annegamento,
suicidio
delitto
Delitto, dato dai Periti di parte per "maggiormente probabile"[cit] SOLO perchè (e solo grazie all'arzigogolo di affermare qualcosa e poi far finta di essersi dimenticati di cosa loro stessi hanno detto):
* ad anni di distanza, osservando la rottura di un osso parzialmente calcificato/ossificato, lo si è "RITENUTO"[cit] rotto in vita e quindi in data coerente del delitto
- NONOSTANTE abbiano scritto che "esistono INCERTEZZE"[cit] circa "l’EPOCA DELLA MORTE"[cit], "CON POSSIBILTA' DI UNA NOTEVOLE ESCURSIONE DI ANNI, IN PIU' OD IN MENO"[cit], e che NON abbiano escluso altre modalità di morte (annegamento, suicidio, mepedrina).
FN assassinato???
il corpo del messicano ucciso venne ritrovato nel 1982!!! [come da foto]
RispondiElimina- https://upload.forumfree.net/i/ff10861640/Cadavere_del_messicano_2.jpg
- https://upload.forumfree.net/i/ff10861640/Corpo_del_messicano.jpg
-https://upload.forumfree.net/i/ff12417563/narducci2.jpg
FN scomparve al lago Trasimeno nel 1985!!!
E' semplicemente impossibile che il corpo di quel messicano, morto di morte violenta, non sia stato sottoposto come obbligatorio ad autopsia nel 1982 (subito o a breve) dopo il ritrovamento.
E' semplicemente impossibile l'autopsia (operazione fisica co tagli e prelievi sul corpo, che serve per determinare informazioni utili agli investigatori che ne devono investigarne la morte violenta) non abbia lasciato segni evidenti e visibili dell'operazione
E' semplicemente impossibile che i medici autoptici abbiano 'sfilato' i vestiti che il messicano morto anzichè tagliarli (come è norma e regola per non rischiare di lasciare segni i lesioni sul corpo oltre che per prassi e scomodità di vestizione di un cadavere)
E' semplicemente impossibile che se anche glieli avessero sfilati ( e non si capisce nè perchè nè come), avessero poi potuto rivestire il corpo dopo 3 anni di cella frigorifera ben sotto lo zero (tra i -10° e i -50°)!
E' semplicemente impossibile che il messicano possa essere stato tenuto in cella frigorifera coni vestiti addosso! Una assurdità medica ed investigativa ed igienica vera e propria!
Un corpo tenuto per tre anni tra i -10° e i -50°, quando lo riporti a temperatura ambiente, perde molto velocemente la consistenza, in quanto le particelle di liquidi rompono le (membrane delle) cellule ghiacciandosi per la conservazione in cella frigorifera ed una volta 'scongelato', il corpo non tiene più nel giro di brevissimo.
Quello sul pontile nel 1985:
NON può in alcun modo essere il corpo di quel messicano morto nel 1982.
Senta Signor Hazet, conosco le capacità legali della Famiglia Narducci e non ci provo neppure a confrontarmi ne è il mio compito. Il Dott. Mignini è disponibile a confronti pubblici sul tema, come ha fatto sapere al Sig. Segnini di cui siamo ospiti. Quella potrebbe essere la sede giusta per un chiarimento costruttivo. Semplicemente credo in Mignini e alla logica scientica per la quale è difficile davvero pensare che il corpo sul pontile(chiunque fosse)sia lo stesso ritrovato nella bara. Punto, il resto non tocca a me
Elimina@daniviviv
RispondiEliminaLei "semplicemente crede in Mignini e alla logica scientica"[cit].
Io mi sono semplicemente limitato a constatare:
- cosa (non) c'è scritto nella scientifica Perizia Pierucci-Montagna [nota *0].
- ed il fatto che il 'famoso messicano' era stato ucciso, e ritrovato cadavere, ben 3 anni prima (con tutto c'è che ne consegue in medicina legale, a termini di prassi, di legge e di scienza tanatologica).
[nota *0]:
la Perizia è pubblicamente consultabile in rete, ed anche Lei può leggerne il contenuto e le "conclusioni" dei periti.
@ Hazet e il Collega,
RispondiEliminaribadisco di non avere altro da dire sul caso FN di quanto già depositato dal magistrato Mignini che conoscete benissimo. Ripeto anche che lo stesso dott. Mignini resta disponibile ad un confronto pubblico
saluti
Lei, come chiunque altro ha il sacrosanto diritto di pensarla come vuole. Ma non ci venga a raccontare che l'ipotesi di Mignini risulta provata. Tra l'altro: ma nemmeno questo articolo di Antonio sull'origine delle telefonate le fa venire dei dubbi?
RispondiElimina