“Giuttari torna e pensa al mostro”. Così
s’intitolava un trafiletto di “Repubblica” del 10 agosto 2000 sul ritorno
definitivo del coriaceo poliziotto alla guida della squadra mobile. All’interno
questa sua bellicosa dichiarazione: “Sono pronto a
calarmi in pieno nelle attività investigative […] anche per dare un nuovo
impulso alle indagini legate ai duplici omicidi che stavo seguendo
personalmente su delega del pm Paolo Canessa”. Giuttari aveva dunque
tutte le intenzioni di riprendere a pieno ritmo la ricerca dei misteriosi
mandanti, dopo i due anni di tira e molla con i funzionari del Ministero
dell’Interno che avevano cercato di fermarlo
(Qualcuno fermi Giuttari!).
Ma anche per un superpoliziotto dalle mille risorse come lui era vale il detto “dal dire al fare c’è di mezzo il mare”. Nell’anno e poco più
successivo, infatti, sarebbe riuscito a mettere in piedi soltanto tentativi
confusi, tra illusioni e delusioni, fino al disastro dell’inutile e crudele
perquisizione di una villa dove aveva creduto di poter trovare il sancta sanctorum di una fantomatica
setta che avrebbe commissionato gli omicidi. Questa, infatti, la prevalente
ipotesi di lavoro impostasi pian piano nelle sue ricerche: non un solitario
dottor Jekyll impegnato a collezionare parti di donna, quindi, ma una setta
satanica che le avrebbe usate in misteriose cerimonie segrete.
Compagni di merende: la conclusione. L’appello del procedimento contro i compagni di merende aveva fatto sudare freddo a Giuttari, e non solo a lui. A sorpresa il procuratore generale Daniele Propato aveva chiesto l’assoluzione per Vanni, non avendo ritenute veritiere le confessioni di Lotti, però i giudici erano stati di tutt’altro avviso, e nella sostanza il 31 maggio 1999 avevano confermato il verdetto di primo grado.
Poi, a far tirare ai molti interessati un sospiro di sollievo, il 26 settembre 2000 arrivò il suggello della Cassazione. Si legge sulla “Nazione” del giorno dopo:
«Sono soddisfatto professionalmente e personalmente» ha commentato il capo della squadra mobile di Firenze Michele Giuttari. «In questo momento – ha aggiunto Giuttari – il mio pensiero va ai familiari delle vittime e in particolare a Renzo Rontini: oggi ha avuto giustizia da quello Stato a cui aveva sempre dato la massima fiducia. L’impegno della squadra mobile sui delitti insoluti riconducibili verosimilmente alla vicenda e sul mandante continuerà ad essere massimo».
A quel punto, carico anche del successo conseguito nelle epiche battaglie contro il Ministero, Giuttari non volle privarsi della soddisfazione di mostrare a tutti che era tornato, e più agguerrito che mai. Da Storia delle merende infami:
Il 28 settembre 2000 Mario Vanni è tornato in carcere. Con la sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso, passando in giudicato la condanna all'ergastolo, le porte di Sollicciano si sono riaperte per lui. È cominciata un'altra Via Crucis, che dura tuttora.
Quello che accadde il 28 settembre del 2000 non mi piacque, avvertii come una esibizione ingenerosa il fatto che il postino fosse catturato con il contributo delle auto della polizia, con tanto di sirene spiegate, senza alcuna discrezione. Anzi, per condurlo in carcere si scomodò addirittura lo stesso capo della Squadra Mobile dottor Michele Giuttari. (In genere provvedimenti simili appartengono ai carabinieri, che li eseguono nelle prime ore del mattino, evitando al catturando la vergogna delle manette in vista dei vicini di casa e dei compaesani).
Al seguito della polizia c'era il fotografo d'un quotidiano. Il giorno successivo, "La Nazione" pubblicò la foto di Vanni e quella dell'esecutore della cattura. Quest'ultimo con un'aria molto soddisfatta, e col consueto sigaro toscano fra le dita della destra.
È difficile non trovarsi d’accordo con Filastò, forse una maggior discrezione non avrebbe guastato. Comunque Giuttari andò avanti per la propria strada senza guardare in faccia nessuno, godendosi il suo momento di trionfo proseguito anche nelle settimane successive. Il presidente del tribunale che aveva condannato Pacciani in primo grado, Enrico Ognibene, il 16 ottobre prese carta e penna e scrisse una lettera (vedi) indirizzata al ministro dell’interno Enzo Bianco, al capo della polizia Giovanni De Gennaro, al questore di Firenze Vincenzo Boncoraglio e al prefetto di Firenze Achille Serra:
In occasione della recente sentenza con cui la Corte Suprema di Cassazione […] ha confermato le condanne inflitte a VANNI Mario e LOTTI Giancarlo […], sento il dovere di esprimere, come cittadino e come magistrato, alla Squadra Mobile della Questura di Firenze ed in particolare al suo Dirigente dott. Michele GIUTTARI i sensi della mia più alta stima e del mio più vivo apprezzamento per l’eccezionale capacità dimostrata nello svolgimento delle indagini […]. Avendo personalmente diretto […] il processo di primo grado nei confronti di PACCIANI Pietro, […] rammento bene quale fosse la situazione di scoramento e quasi rassegnazione creatasi all’indomani della sentenza di appello che, mandando pienamente assolto il Pacciani […], sembrava aver posto una pietra tombale su quella che deve certamente considerarsi una delle vicende criminose più gravi ed inquietanti del dopoguerra.
Ebbene, in tale contesto, senza perdersi d’animo e dimostrando eccezionali capacità professionali, il dott. GIUTTARI ha ripreso con assoluto fervore l’attività investigativa: si deve al suo eccezionale intuito se non è stata abbandonata la pista che portava ai complici del Pietro Pacciani, complici che, con un rilevantissimo ed accuratissimo lavoro di indagine operato in perfetta sincronia col sost. Proc. dr. Paolo Canessa, sono stati finalmente individuati nelle persone di Vanni Mario e Lotti Giancarlo, a carico dei quali è stato raccolto materiale probatorio di assoluta univocità e concludenza che ha portato alla loro condanna definitiva sanzionata dalla citata sentenza della Suprema Corte.
Nel sottolineare ancora l’eccezionale professionalità del dott. GIUTTARI nel condurre a termine indagini di assoluta complessità e rilevanza, desidero congratularmi con lui per i brillantissimi risultati ottenuti e per aver contribuito in modo determinante a rendere – finalmente – giustizia alle vittime e ai loro familiari.
L’iniziativa di Ognibene è da considerarsi del tutto eccezionale, tanto più che non c’era mai stato un rapporto diretto tra il giudice e Giuttari. Semmai una lettera del genere si addiceva di più a Federico Lombardi, presidente del tribunale che aveva potuto condannare Lotti e Vanni in primo grado proprio grazie alle indagini di Giuttari. Ma era solo una questione di tempo, poiché il 27 novembre anche Lombardi prese analoga iniziativa. Anzi, la sua lettera (vedi), indirizzata alle medesime autorità, risultò ancora più pregna di sperticati elogi:
[…] Dopo la predetta sentenza contro il Pacciani, riprendevano quindi le indagini a tutto campo nel senso indicato dalla Corte di Assise. Ad esse si dedicava con particolare impegno ed abnegazione il dott. Michele GIUTTARI, nella sua qualità di nuovo Dirigente della Squadra Mobile presso la Questura di Firenze dall’ottobre 1995, riuscendo ben presto ad ottenere i primi risultati utili, frutto di grandi intuizioni e di eccezionali capacità investigative. […]
Ciò premesso, sento i1 dovere di segnalare – a vicenda conclusa e nella mia qualità di Presidente delle 2^ CORTE di ASSISE che ha come sopra giudicato in primo grado il VANNI ed il LOTTI – il lavoro paziente ed intelligente svolte dal dott. Michele GIUTTARI che, dopo aver assunto la direzione della Squadra Mobile di Firenze, si è buttato a capo fitto nelle nuove indagini con un entusiasmo fuori dal comune, studiando prima attentamente tutti gli atti relativi ai vari omicidi e ripartendo poi nelle indagini da zero, con nuove piste investigative, senza nulla tralasciare, senza mai desistere e senza comunque mai farsi fuorviare dai risultati delle precedenti indagini.
In tale nuova attività investigativa il dott. GIUTTARI ha mostrato profondo intuito, viva intelligenza ed eccezionali capacità professionali, raggiungendo ben presto i primi risultati utili, pur operando in un ambiente omertoso e contrario, che però non lo ha mai fiaccato o fatto perdere d’animo. Il dott. GIUTTARI ha così dato prova anche di un carattere fermo e deciso, di una spiccata personalità e di una sicurezza nelle proprie intuizioni, propria dei soggetti attenti, preparati e scrupolosi anche nelle cose più insignificanti.
Va ovviamente sottolineato che il dott. GIUTTARI ha potuto coronare con successo la sua azione investigativa anche grazie alla condotta dei suoi colleghi della Squadra Mobile […] Ma ciò non sminuisce minimamente il ruolo avuto dal dott. GIUTTARI, perché la scelta degli uomini da cui farsi affiancare nelle singole operazioni è dipesa soltanto da lui, che ha saputo agire in silenzio e con perfetta scelta di tempo, senza mai farsi tradire dalla bramosia di qualche successo immediato, che avrebbe potuto compromettere tutto.
Tanto segnalo per mia esclusiva iniziativa, al fine di manifestare tutta la mia stima e tutto il mio apprezzamento al dott. GIUTTARI che ha contribuito in modo decisivo a debellare dalla zona di Firenze pericolosi criminali e che costituisce ora un professionista dalle qualità eccezionali, vanto di tutta la Polizia di Stato nella quale opera.
Sono profondamente convinto di tutto ciò, avendo avuto modo di apprezzare la sua attività investigativa nel corso di tutta quella lunga istruttoria dibattimentale avuta nel processo contro VANNI e LOTTI tanto che, anche in sede di motivazione della sentenza, non ho potuto non sottolineare il ruolo decisivo avuto dal dott. GIUTTARI nella fase delle indagini successive al processo Pacciani, dando atto del suo grande impegno (ed è la prima volta che ho fatto una simile citazione in sentenza, essendomi trovato per la prima volta di fronte a un Dirigente di PG dalle qualità veramente “eccezionali”).
Spinto da tali pungoli, il 18 dicembre il questore Vincenzo Boncoraglio propose all’Ufficio centrale per le Ricompense del Ministero dell’Interno la promozione di Giuttari – e del suo braccio destro, il commissario Fausto Vinci – per meriti straordinari, e l’encomio solenne agli agenti suoi collaboratori. La richiesta faceva affidamento su una legge apposita (art. 72 del d.P.R. 335/1982), dove si stabilisce:
La promozione alla qualifica superiore può essere conferita anche per merito straordinario agli assistenti capo, ai vice sovrintendenti, ai sovrintendenti e ai sovrintendenti principali i quali, nell’esercizio delle loro funzioni, abbiano compiuto operazioni di servizio di particolare importanza, dando prova di eccezionale capacità, o abbiano corso grave pericolo di vita per tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica, dimostrando di possedere le qualità necessarie per bene adempiere le funzioni della qualifica superiore ovvero abbiano conseguito eccezionali riconoscimenti in attività attinenti ai loro compiti, dando particolare prestigio all’Amministrazione della pubblica sicurezza.
Come si vede, i casi previsti sono di due differenti tipologie: o aver dato prova di eccezionali capacità o aver corso rischi per gravi pericoli. Chiaramente Giuttari poteva aspirare a rientrare soltanto nella prima categoria, e non a caso l’aggettivo “eccezionale” abbondava negli scritti dei due giudici.
La risposta del Ministero si sarebbe fatta attendere, e non sarebbe stata positiva. Alla vicenda avrebbe fatto cenno lo stesso Giuttari in Confesso che ho indagato, dove si viene a sapere di un suo ricorso al TAR del Lazio accolto favorevolmente addirittura nel 2013. Per soddisfare la legittima curiosità di qualche lettore, a questo punto apriamo una parentesi, e con l’aiuto dei nuovi strumenti di ricerca online delle sentenze amministrative (qui e qui) facciamo un passo avanti con i tempi fino alla conclusione della contrastata vicenda.
Una promozione contestata. Il 25 luglio 2003 il Ministero, tramite l’ufficio di Amministrazione della Pubblica Sicurezza, respinse la proposta di Boncoraglio ritenendo non poi così straordinari i meriti investigativi di Giuttari. Nella seduta del 25 novembre precedente, la Commissione Centrale per le Ricompense aveva espresso parere sfavorevole, ritenendo
alquanto sovradimensionata la proposta. Infatti, pur rilevando la complessità della vicenda e la risonanza che i fatti hanno prodotto sull’opinione pubblica, si osserva che l’attività oggetto della proposta, riguardi il filone di indagine investigativo scaturito dalle dichiarazioni di uno degli indagati. Pertanto, apprezzando il contributo fornito dai singoli operatori, ciascuno nella qualità di appartenenza, vengono concessi l’encomio, ai funzionari proposti per la Promozione per merito straordinario e la Lode al restante personale, in quanto non vengono ravvisati i requisiti previsti dalla normativa vigente per l’attribuzione dei riconoscimenti richiesti”.
In sostanza, per l’Amministrazione, il merito maggiore era stato del pentimento di Lotti, quindi non promozione ma solo encomio per Giuttari e Vinci, e non encomio ma solo lode per gli agenti. Giuttari fece allora ricorso al TAR del Lazio, che l’11 aprile 2013 – quindi con un ritardo incredibile, al quale però non dovettero essere stati estranei gli aspri contrasti e le peripezie giudiziarie di cui era stato protagonista il superpoliziotto – accolse le sue ragioni (vedi). Erano trascorsi ormai 13 anni dalla proposta del questore, e sei da quando Giuttari aveva lasciato la Polizia, in ogni caso il Ministero venne invitato a “riesaminare la proposta di promozione per merito straordinario alla luce dei principi affermati in motivazione”. Riguardo i meriti attribuiti al pentimento di Lotti, i giudici del TAR osservarono:
Dagli atti emerge in modo palese che la collaborazione del Lotti è intervenuta solo dopo che la polizia giudiziaria, e per essa il Dott. Giuttari, ha ricostruito la vicenda rileggendo una massa enorme di atti e documenti, al fine di rilevare se […] i delitti non fossero stati frutto di un serial killer, bensì di un gruppo di persone. […]
Lo studio dei documenti, l’acquisizione di nuove prove testimoniali, tra le quali quella fondamentale di Pucci, hanno condotto – dopo il confronto disposto dalla Procura di Firenze – il Lotti alla collaborazione alla quale si fa cenno nel parere della Commissione.
Pertanto, sebbene le dichiarazioni del Lotti abbiano assunto gran rilievo per la condanna del Vanni e dello stesso Lotti, nondimeno non può non rilevarsi che la collaborazione del Lotti non sia stata ottenuta facilmente (come sembra potersi desumere dalle affermazioni della Commissione in merito alla sopravvalutazione dell’attività di indagine), ma sia stata indotta dall’esistenza di tali elementi di prova a suo carico, acquisiti mediante attività di polizia giudiziaria, da indurlo a collaborare per avere uno sconto di pena (poi ottenuto).
In altre parole, contrariamente a quanto sostenuto nel parere dalla Commissione, il filone investigativo non è scaturito dalle dichiarazioni di uno degli indagati – il Lotti – ma le sue dichiarazioni costituiscono l’esito di una complessa attività investigativa iniziata dalla rilettura degli atti processuali e di quelli di polizia giudiziaria, proseguita nello svolgimento di ulteriori attività di indagine (di cui vi è prova nel rapporto redatto dalla Squadra Mobile di Firenze) e culminata infine nella sua collaborazione, intervenuta solo quando erano stati già acquisiti – mediante le indagini di polizia giudiziaria – seri elementi probatori a suo carico.
Ne consegue che il giudizio di valore reso dalla Commissione è stato emesso sulla base di una distorta rappresentazione della concatenazione dei fatti, nei quali la collaborazione del Lotti, lungi dal costituire l’ultimo tassello dell’iter investigativo, viene assunto come la fonte delle investigazioni […], non rispondente alla reale consistenza e cronologia dei fatti stessi.
Ma il Ministero, sentiti i pareri di vari suoi organi amministrativi, rifiutò per la seconda volta di procedere nel senso indicato dal TAR (6 giugno 2014), ritenendo che “l’incarico ricoperto, Capo della Squadra Mobile in un capoluogo di Regione, preveda di per sé attitudini investigative e operative di elevato livello”, e che “l’attività svolta non sia così eccezionale come potrebbe essere, ad esempio, la direzione e la materiale partecipazione a fasi investigative e operative di indagini che si concludono con l’arresto di pericolosi appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso o ad organizzazioni eversive”. Tra l’altro venne rimarcato il fatto che Giuttari, durante le indagini, non aveva mai corso rischi per la propria incolumità.
Naturalmente Giuttari non si perse d’animo, e presentò un nuovo ricorso al TAR, che lo accolse con sentenza del 30 aprile 2015. Si legge nel documento (vedi):
È evidente che ancora una volta non risulta essere stata eseguita un’adeguata istruttoria, dalla quale sarebbe invece emerso il contributo determinante dato dal ricorrente nell’individuazione di colpevoli di delitti altrettanto efferati, comportanti un altrettanto notevole allarme sociale, “impresa” nella quale non vi era invece riuscita per diverso tempo un’apposita task force investigativa, coadiuvata da esperti criminologi.
Nella specie non risulta essere stato affatto preso in considerazione l’acume investigativo, del tutto straordinario, mostrato dal ricorrente nell’assicurare alla giustizia gli esecutori materiali di almeno alcuni dei delitti in questione; tale acume denota quelle “eccezionali capacità” richieste dalla norma per il riconoscimento della promozione per merito straordinario.
Si ravvisa perciò una chiara elusione del giudicato.
I giudici dettero tempo 90 giorni al Ministero per procedere, pena la nomina di un commissario ad acta che avrebbe provveduto d’ufficio. “Deciderò se rientrare in polizia, la mia seconda famiglia”, questa la dichiarazione a caldo rilasciata ai giornalisti da un soddisfattissimo Giuttari. Ma non era ancora finita, poiché il Ministero dell’Interno ricorse in appello presso il Consiglio di Stato – l’apposito organo giurisdizionale previsto dalla costituzione italiana per i casi di contrapposizione tra i privati e l’Amministrazione pubblica – lamentando lo sconfinamento dei giudici del TAR nel merito discrezionale dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza.
Il caso venne discusso nell’udienza pubblica del 21 gennaio 2016. E i giudici del Consiglio di Stato accolsero l’appello del Ministero, riconoscendo all’Amministrazione la facoltà discrezionale di decidere. Dalla sentenza (vedi):
Risulta evidente che, nel caso di specie, l’Amministrazione si sia attenuta alla regola posta dal giudicato, perché essa, riesaminando tutto il materiale istruttorio alla luce dei principi posti dalla sentenza, ne ha tratto la convinzione che i meriti del dott. Giuttari, pur grandi e indiscutibili, non siano straordinari, anche in considerazione del fatto che le capacità evidenziate, sicuramente elevate, devono considerarsi già insite nell’ambito della funzione di Dirigente di un importante ufficio investigativo, come quello di Dirigente della Squadra Mobile di un capoluogo di una Regione.
Si tratta di motivazione che, dopo aver vagliato le indubbie ed elevate capacità del dott. Giuttari e averne acclarato il grande valore, meritevole di solenne encomio (riconosciutogli, infatti, dal provvedimento emesso dal Capo della Polizia), senza sminuirne l’apporto dato alle investigazioni che hanno condotto all’arresto di Lotti e dei suoi complici, è pervenuta alla conclusione che si tratti, tuttavia, di attività non estranea né superiore al normale bagaglio professionale richiesto ad un Dirigente della Squadra Mobile e ai compiti che a questo competono.
La valutazione della Commissione è rispettosa del giudicato, sia sul piano formale che sostanziale, perché essa, pur avendo tenuto in debito conto e dopo aver riesaminato ex novo l’operato del dott. Giuttari, ha espresso su di esso un giudizio positivo, ma tale da non attingere la soglia dell’eccezionalità per merito straordinario.
Il provvedimento della Commissione, nel rivalutare l’operato del dott. Giuttari, si è conformato al giudicato amministrativo e, nei limiti da esso tracciati, è pervenuto ad una valutazione né manifestamente illogica né gravemente erronea, ove si consideri che l’attività posta in essere dall’Amministrazione nella valutazione dei presupposti che consentono la concessione della promozione alla qualifica superiore per merito straordinario, ai sensi dell’art. 72 del d.P.R. 335/1982, è ampiamente discrezionale e, in quanto tale, è sindacabile in sede di legittimità, davanti al giudice amministrativo, solo se risulti viziata da travisamento dei fatti o da macroscopica illogicità.
Un nuovo ricorso portò a un nuovo pronunciamento del Consiglio di Stato (vedi), il quale, nell’udienza pubblica del 7 luglio 2016, dette ancora una volta torto a Giuttari.
A quanto risulta a chi scrive, dovremmo essere arrivati al capitolo finale di questa lunga e grottesca partita a ping pong. In ogni caso chiudiamo la parentesi, tornando alla ripresa delle indagini successive al reintegro di Giuttari a capo della squadra mobile.
Omicidi collaterali. Poco o nulla era accaduto sul fronte delle indagini durante i due anni di beghe tra Giuttari e Ministero, e poco o nulla accadde anche nei primi mesi successivi al definitivo reintegro del 27 luglio 2000. Evidentemente il superpoliziotto cercava qualche spunto da cui partire. Non sono disponibili a chi scrive documenti che attestino il suo brogliaccio di lavoro, ci sono però delle fonti alternative dalle quali si può tentare di farsene un’idea: il libro Il Mostro e alcuni articoli di giornale. Scriveva il sempre ben informato Gianluca Monastra su “Repubblica” dell’8 settembre 2000:
Dall'ufficio del pm Paolo Canessa sono partite le deleghe dirette al capo della squadra mobile Michele Giuttari. Passo formale che riapre a tutti gli effetti l'inchiesta sui sedici delitti della calibro 22. L'ipotesi dell'accusa dice: c'era un livello superiore a dirigere la banda di esecutori degli omicidi del mostro, personaggi finora senza nome, ma sui quali sono già puntati occhi e attenzioni della squadra mobile. Mandanti che negli anni successivi alla scia di sangue del mostro (otto duplici omicidi dal 1968 all'85) avrebbero agito per coprire, nascondere, chiudere la bocca a testimoni scomodi.
Secondo questa ipotesi, un contributo decisivo potrebbe dunque giungere dalla soluzione di altri delitti commessi fra il 1993 e il 1994 e cioè pochi mesi dopo l'arresto di Pietro Pacciani e durante il suo processo di primo grado. Si tratta degli omicidi di Francesco Vinci e Angelo Vargiu, trovati morti bruciati il 7 agosto 1993 nelle campagne di Chianni, in provincia di Pisa, nel bagagliaio di una Volvo. Di Milva Malatesta e del figlio Mirko, ritrovati anche loro bruciati dentro la Panda della donna, pochi giorni dopo, il 29 agosto 1993, a Barberino Val d'Elsa. E infine di Milvia Mattei, uccisa in casa a San Mauro a Signa.
Strani intrecci legano le vittime di questi omicidi. Francesco Vinci (nell'82 accusato e poi scagionato dall'accusa di essere il mostro) conosceva Pietro Pacciani e Milva Malatesta. Questi ultimi erano in contatto visto che la madre di Milva (Antonietta Sperduto) era amante di Pacciani. Guarda caso, poi, Milvia Mattei aveva avuto relazioni con Fabio Vinci, figlio di Francesco Vinci, e Giuseppe Sgangarella, amico di Francesco Vinci e Pietro Pacciani.
Si legge ne Il Mostro, in un paragrafo dove viene affrontato l’enigma del passaggio della pistola:
E a scioglierlo non possono contribuire in maniera decisiva neppure le notizie raccolte su Francesco Vinci, sospettato e indagato quale correo nel delitto del 1968 e, poi, anche per gli altri delitti del “mostro”, ma alla fine prosciolto completamente da ogni imputazione.
Alcuni particolari della sua vita mi interessano però da altri punti di vista: per esempio il fatto che avesse frequentato negli anni Settanta lo stesso bar di Prato di cui era cliente abituale il mago Salvatore Indovino, con il quale aveva anche condiviso un periodo di detenzione nello stesso carcere. E poi c'è la dichiarazione di un suo amico, Giovanni Calamosca: interrogato al processo sui complici di Pacciani, aveva raccontato alcune confidenze ricevute da Vinci sulla pistola utilizzata nel 1968 che sarebbe appartenuta proprio a lui, che poi l'avrebbe ceduta a chi l'aveva utilizzata nei delitti del “mostro”.
Penso che davvero Francesco Vinci non c'entri con questi delitti: probabilmente era stato ucciso, come aveva dichiarato Calamosca, perché ricattava il possessore dell'arma e non era più affidabile essendo dedito sempre di più all'alcol. Se così fosse, il suo omicidio non potrebbe che essere verosimilmente attribuito ai mandanti dei delitti del “mostro”, tanto più se si tiene conto della data della morte (1993) e dell'assassinio a distanza di pochi giorni di Milva, di cui era stato l'amante e che a sua volta era stata amante di Salvatore Indovino.
Troppi elementi collegano Francesco Vinci a Salvatore Indovino, Vanni e Pacciani. E rimandano a un'altra mano omicida.
Secondo l’ipotesi di Giuttari, quindi, Francesco Vinci, coinvolto nell’omicidio del 1968, avrebbe passato la pistola a Pacciani e compagni, conosciuti poiché frequentatori come lui della stamberga di Salvatore Indovino. Avrebbe poi cercato di ricattare i mandanti, finendo per farsi uccidere assieme alle altre quattro persone in qualche modo a lui collegate. Ipotesi suggestiva e audacissima, priva però di qualsiasi riscontro, se non quello di una assai sospetta dichiarazione di Giancarlo Lotti ben inseribile nel contesto degli “aiuti” che il presunto pentito aveva offerto agli inquirenti durante gli ultimi mesi d’istruttoria.
Per comprendere meglio l’accaduto è necessario partire dal 1991, quando Giuseppe Sgangarella, ergastolano stupratore e uccisore di una bambina, aveva tentato di ottenere qualche beneficio inventandosi di aver ricevuto da Pacciani indicazioni sul nascondiglio della famigerata pistola. Il bluff non poteva durare e non durò, ma con la nuova inchiesta l’individuo si rifece vivo. Da Compagni di sangue:
Da me interrogato il 10 giugno 1996 presso il carcere di Firenze, aveva dichiarato che, durante la propria detenzione, aveva conosciuto sia Pacciani che Francesco Vinci. Da quest'ultimo aveva appreso alcuni fatti che concernevano il Pacciani. Lo Sgangarella all'epoca faceva lo scrivano e aveva modo di parlare con diversi detenuti, era divenuto amico del Vinci, con cui aveva instaurato un rapporto di fiducia. Vinci gli aveva confidato di aver conosciuto, nella zona di San Casciano, circa dieci anni prima del racconto, il Pacciani e altre persone, tra cui un postino, amico del Pacciani, e alcune prostitute. Gli aveva raccontato che erano soliti riunirsi, con Pacciani e con altri amici, in una casa colonica, disabitata, nelle campagne di San Casciano, per fare i tarocchi e predire il futuro. Lui, all'epoca, non aveva ancora conosciuto Pacciani. Vinci, che era accusato per i delitti del “Mostro”, gli aveva riferito che stava pagando per gli amici, dai quali era stato abbandonato. Diceva che se avesse deciso di parlare sarebbe finita male.
Si trattava di clamorose menzogne, non c’è dubbio. Quando Sgangarella aveva raccontato alle forze dell’ordine le fantomatiche confidenze di Pacciani sul nascondiglio della pistola (1991), fin da 7 anni prima Vinci gli avrebbe raccontato le proprie sulla richiesta di un nuovo omicidio per farlo uscire dal carcere (i due avevano condiviso lo stesso carcere di Sollicciano dal maggio all'ottobre 1984). E allora, perché Sgangarella non aveva parlato anche di quelle? Ma un Giuttari alla ricerca di spunti per le nuove indagini sul “secondo livello” prese molto sul serio le parole del malvivente, e due giorni dopo, assieme a Canessa, andò da Lotti a cercarne conferma. Il verbale relativo (vedi), peraltro già commentato nell’articolo La lettera di Pacciani a Vanni, dà un’idea del furbo accodamento del pentito alla scenario che, con metodologia assai discutibile, gli era stato in precedenza descritto.
ADR. Lei mi chiede a questo punto di dire se conosco particolari motivi per cui fu commesso l'omicidio del 1983. Io quel che sapevo l’ho già detto. Lei mi chiede se ho mai sentito dire da Pacciani o da Vanni se l'omicidio del 1983 ai danni dei due uomini tedeschi era stato fatto perché all'epoca c'era qualcuno in carcere. Io di questo non ho sentito parlare.
Si dà atto che l'Ufficio informa il LOTTI che le indagini hanno fornito elementi in proposito.
ADR.Io questa cosa non la so.
Come si vede, Lotti dichiara di non saper nulla dell’argomento, ma i suoi interlocutori gli dicono che invece dovrebbe, poiché “le indagini hanno fornito elementi in proposito”. La qual cosa lo mette in agitazione. Così continua il verbale:
Si dà atto a questo punto che il Lotti si manifesta agitato e dice, come del resto ha fatto più volte sino ad ora, di soffrire di un dolore alla schiena che lo preoccupa da diversi giorni e che gli ha impedito di rispondere all'interrogatorio del 28 Maggio u.s..
Si dà atto a questo punto che l'interrogatorio viene sospeso dalle ore 18.45 alle ore 19.00 ed in tale lasso di tempo il difensore ha chiesto ed ottenuto di parlare con il proprio assistito.
Dopo la quanto mai opportuna pausa vengono riaffrontati alcuni argomenti, dei quali qui interessa quello dell’omicidio di Giogoli.
ADR. Voglio ancora a questo punto precisare qualcosa che non ho spiegato prima con riferimento all'omicidio ai danni dei due uomini tedeschi. Effettivamente il Vanni prima dell'omicidio mi disse che dovevano fare sortire uno dal carcere e che bisognava andare a fare l'omicidio. Mi costrinsero quindi ad andare con loro nei modi che ho già descritto.
ADR. Io non so dire, perché non me lo hanno detto, chi aveva costretto Pacciani e Vanni a fare quell' omicidio.
ADR. Non conosco il motivo per il quale il Pacciani dovette fare quanto gli era stato chiesto. Il Vanni mi diceva che Pacciani doveva fare un omicidio sennò tutti e tre noi eravamo coinvolti ma non spiegò altro.
ADR. Non so dire come Pacciani avesse ricevuto il messaggio e da chi. In sostanza Vanni diceva: "O FACCIAMO SORTIRE QUELLO DI CARCERE O CI ANDIAMO DI MEZZO NOI". Non mi hanno spiegato altro. Io per la verità capivo poco perché dovevo andare sempre con loro ma oramai sapevo che ero anche io coinvolto e quindi andai con loro quando uccisero i due tedeschi seguendoli in macchina come ho detto.
ADR. Vanni non mi ha spiegato ed io non l’ho chiesto, come e perché il Pacciani fosse legato a quello in carcere.
Lei mi chiede a questo punto di spiegare cosa mi disse il Vanni di questa persona dal momento che all'epoca dopo l'omicidio dei due uomini tedeschi fù scarcerato un sardo e che all'epoca parlarono di ciò i mezzi di informazione. Io di questa cosa so solo quello che mi disse il Vanni e che quello che era in carcere che conosceva Pacciani poi fù scarcerato. Di nomi, di circostanze e di fatti precisi non so altro.
Mi vengono a questo punto mostrate quattro foto, di cui due di profilo, raffiguranti VINCI Francesco, che vengono allegate al verbale, e mi viene detto che raffigurano la persona che all'epoca fù scarcerata. Io devo dire che questa foto mi ricorda qualcuno che ho visto ma non sono proprio sicuro. Lei mi chiede di spiegare meglio ed io Le dico che ho la sensazione di avere visto una persona che assomiglia a quella della foto dell'uomo con la barba. Non so dire di più anche se Lei mi invita a riflettere. È una persona che credo assomigli a qualcuno visto in giro a S.Casciano non so dire dove né con chi.
Come si vede, già quei quindici minuti di pausa e il colloquio di Lotti con il proprio avvocato avevano fatto cambiare alquanto la musica. Ma il bello doveva ancora venire (“Ha capito molto bene cosa si attendono da lui i magistrati”, avrebbero scritto Fornari e Lagazzi). Dal verbale riassuntivo (vedi) dell’interrogatorio di un mese dopo, 15 luglio (qui la trascrizione completa):
Si dà atto preliminarmente che il PM è stato avvertito telefonicamente dal Dirigente la Squadra Mobile che il Lotti nel pomeriggio alle ore 18 dopo un colloquio con il proprio difensore di fiducia ha manifestato la volontà di riferire al PM altri particolari importanti a sua conoscenza relativi ai fatti per i quali è indagato.
Si dà atto che in primo luogo il Lotti ha subito dichiarato di essersi ricordato in questi giorni di altri fatti a suo giudizio importanti e relativi ai fatti di indagine e che ha subito riferito di essersi ricordato il nome e cognome della persona che era in carcere quando fu commesso l'omicidio del 1983 che fu eseguito da Pacciani e Vanni nei modi già descritti proprio per scagionare questa persona che nel 1983 era in carcere perché accusata di essere il Mostro di Firenze; tale nome è quello di VINCI FRANCESCO e gli fu fatto dal Vanni.
In proposito ha poi precisato che questa persona il cui nome gli fu poi fatto dal Vanni lui l'ha vista due volte a San Casciano: una volta era da solo e una seconda volta era in compagnia del Vanni.
Ha poi precisato che la prima volta vide quest'uomo in San Casciano nella piazza dell'orologio e vide che proveniva dalla parte della trattoria dirigendosi in giù verso il Comune. Quando vide questa persona il Lotti era seduto di faccia al bar centrale di piazza dell'orologio e non ebbe modo di vedere da dove esattamente questi provenisse nè dove andasse al di fuori delle direzioni indicate. Non ebbe modo di vedere se aveva nei pressi un mezzo di locomozione avendolo visto a piedi.
Ha precisato che questa persona aveva la barba perché la vide di fronte ed è quella raffigurata nelle due foto in alto di profilo e di fronte che già gli erano state mostrate e che erano state allegate nel verbale di interrogatorio del 12 giugno 1996 che vengono allegate in copia al presente verbale redatto in forma riassuntiva.
Possiamo osservare che la telefonata con la quale Giuttari annunciava al PM il desiderio di Lotti di essere interrogato lascia poco tranquilli: il superpoliziotto si era limitato a un passa parola oppure il suo ruolo, nelle ore precedenti il colloquio di Lotti con il proprio difensore, era stato un po’ più incisivo? La domanda è legittima, essendo il presunto pentito a completa disposizione della polizia giudiziaria nel suo rifugio protetto, e anche perché, nella trascrizione dell’interrogatorio, a domanda di Canessa: “Come le è venuto in mente questo nome?”, Lotti rispose: “No, mi è venuto in mente durante il colloquio, mi ha ricordato, mi è venuto in mente... No, mi è venuto in mente oggi...”. Un colloquio di quello stesso giorno, quindi, ma quale, quello delle 18 con il proprio difensore o uno precedente con un funzionario o agente di polizia? Il lettore si risponda da sé.
Ma proseguiamo con il verbale.
Si dà atto che il Lotti non è stato in grado di precisare l'epoca in cui vide questa persona ricordando solo che si trattava di ora diurna. Ha poi aggiunto che la stessa persona la vide dopo circa una settimana sempre di giorno nei pressi del bar centrale in compagnia di Mario Vanni. Ha precisato che in quell'occasione non si avvicinò ai due che camminavano uno accanto all'altro e che si allontanarono senza che il Lotti avesse l'opportunità di parlare con loro.
Si dà ancora atto che il Lotti ha dichiarato che dopo il giorno in cui vide il Vanni insieme a questa persona con la barba in piazza a San Casciano quando successivamente incontrò il Vanni gli chiese chi fosse quella persona con la barba ed in quella occasione il Vanni gli riferì che era colui che avevano fatto uscire dal carcere commettendo l'omicidio del 1983.
Il Lotti è stato invitato a ricordare il periodo in cui vide nelle due occasioni dette la persona poi indicata dal Vanni per Vinci Francesco ma il Lotti ha dichiarato di ricordarsi che ciò avvenne tanto tempo fa dopo l'omicidio del 1983 non sapendo precisare quando dato il lungo tempo trascorso. È stato chiesto al Lotti di precisare se dal Vanni aveva saputo chi fosse veramente e cosa facesse il Vinci Francesco e il Lotti in sintesi ha riferito che il Vanni non voleva dire niente in proposito nonostante che esso Lotti lo scalzasse e che il Vanni alla fine disse solo il nome e cognome Vinci Francesco spiegando che era un sardo e niente altro.
Ecco quindi la versione finale, questa volta ricca di gustosi particolari, uscita dopo un mese durante il quale Lotti aveva avuto tutto il tempo di riflettere sulle sue convenienze di collaboratore di giustizia. Prima nel corso dell’incidente probatorio, poi in dibattimento, gli vennero poste molte domande su questa storia. L’esame delle sue mezze risposte – e dei penosi tentativi di chi tentava di fargli dire qualcosa di significativo – è la dimostrazione inequivocabile che stava mentendo. Tra l’altro si contraddisse su diversi particolari, tra cui quello di chi gli avrebbe fatto il nome di Vinci: Vanni in istruttoria e prima Pacciani poi entrambi in dibattimento.
Sgangarella venne convocato al processo e ascoltato il 20 ottobre 1997. La relativa trascrizione non è tra quelle disponibili in “Insufficienza di prove”, in compenso su Youtube è presente la registrazione dell’audio originale (vedi). Il 10 ottobre precedente era stato ascoltato Giovanni Calamosca (anche in questo caso niente trascrizione ma audio originale, vedi), il pastore amico di Francesco Vinci entrato nella vicenda già fin dal 1982, quando Vinci venne arrestato proprio mentre si trovava a casa sua. Non è il caso di dilungarsi troppo sulle sue “rivelazioni” di passaggi di pistola, ricatti di Vinci ai mandanti e compagnia bella, basti dire che neppure i giudici, così ben disposti verso l’accusa, gli credettero, né a lui né a Sgangarella, come riporta la sentenza:
Ma i predetti Calamosca Giovanni e Sgangarella Giuseppe, che hanno riferito notizie di maggior peso, sono persone di scarsa attendibilità, per l'intrigo delle loro vicende giudiziarie, per la tendenza a fare valutazioni personali su ogni situazione e, comunque, per il loro modo dire e non dire le cose, per cui tutto quanto da loro riferito resta alla fine in una situazione di estrema incertezza. D'altra parte, nessun riscontro è stato possibile acquisire sulle loro dichiarazioni, per la intervenuta morte dello stesso Francesco Vinci (assassinato ne! 1994) e per la mancanza di risultati da parte dei mezzi di prova disposti anche ex art.507 CPP.
Sicché, in relazione a quanto precede e nell'impossibilità di acquisire “aliunde” ogni altro elemento utile, tutto resta nebuloso e vago, per cui la tesi del Lotti, circa la finalità di far uscire Francesco Vinci dal carcere con gli omicidi di “Giogoli”, non può essere né esclusa né confermata.
Nel tentativo di associarle alla vicenda dei delitti del Mostro, sulle morti violente di Francesco Vinci, Angelo Vargiu, Milvia Mattei, Milva Malatesta e il figlioletto Mirko sono state dette e scritte tante sciocchezze. E si continua a dirne e a scriverne (tra le ultime quelle di Luciano Malatesta, fratello di Milva, vedi). Il buonsenso ci dice invece che Vinci e Vargiu furono uccisi per qualche sgarro compiuto nell’ambito della loro endemica attività delinquenziale (vedi), mentre le ragioni delle morti violente di Milvia Mattei (vedi) e Milva Malatesta (vedi) vanno ricercate nel mondo della prostituzione.
Il presunto omicidio di Pacciani. Mentre Giuttari aveva di che riflettere sulla pochezza degli elementi a sua disposizione, i mesi passavano senza eventi di rilievo. Fino alla fine di marzo 2001, quando l’investigatore decise di passare all’azione, riesumando i dubbi già espressi tre anni prima sulla morte di Pacciani.
Pietro Pacciani era uscito dal carcere, da innocente, nel febbraio 1996, senza aver trovato nessuno ad aspettarlo. Le figlie se ne erano andate da tempo, mentre la moglie era stata quasi sequestrata – non si sa bene da quale autorità e in base a quale diritto – e condotta in una struttura a lui sconosciuta. Viveva quindi da solo, nell’abbandono più completo, recluso in una casa piena di sporcizia. Non passò molto tempo prima che le sue già precarie condizioni di salute lo portassero alla morte. Aveva 73 anni. (qui i servizi della “Nazione” sull’evento).
Avvertiti da un vicino, nel primo pomeriggio del 22 febbraio 1998 il maresciallo Arturo Minoliti e il suo collaboratore Andrea Catena, della caserma carabinieri di San Casciano, rinvennero il cadavere di Pacciani disteso sul pavimento di casa sua. Si legge nel relativo verbale: “Dinanzi al tavolino, verso il fondo della camera, all’altezza della porta d’ingresso del vano bagno, posto a sinistra dell’ingresso della camera, ‘bocconi’ si rinveniva una persona di sesso maschile che presentava i pantaloni abbassati fino a sotto i glutei e la maglia parzialmente sollevata”. Il decesso risaliva alla notte stessa, come stabilì l’anatomopatologo Giovanni Marello, intervenuto poco dopo, per il quale era anche ipotizzabile una presunta causa di morte: collasso cardiocircolatorio. “Cause naturali? Mah, aspettiamo gli esami...” commentò Canessa a caldo, e Giuttari dopo l’autopsia che aveva confermato l’infarto: “Andiamoci cauti, qualcosa non torna, come le macchie trovate sulle spalle di Pacciani”. Fu ordinata una perizia tossicologica, del cui esito non si ha notizia, quindi si deve ritenere che non venne trovato nulla riguardo una possibile assunzione di sostanze nocive. In ogni caso per il momento la procura non formulò alcuna ipotesi di reato e non aprì alcun fascicolo. Che però fu aperto tre anni dopo. Da “Repubblica” del 29 marzo 2001:
Pietro Pacciani potrebbe essere stato ucciso. La Procura di Firenze ha aperto oggi un fascicolo contro ignoti per la morte dell'agricoltore accusato degli omicidi del “mostro” di Firenze e morto nel 1998 in attesa del secondo processo d'appello. Testimonianza chiave sarebbe quella di Carmelo Lavorino, uno degli investigatori del pool difensivo di Pacciani, convinto, oggi come due anni fa, che l'uomo fosse stato “portato verso la morte giorno dopo giorno, goccia dopo goccia”.
Lavorino è stato ascoltato oggi dal capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, come persona informata sui fatti. E ha aggiunto nella sua testimonianza che potrebbe essere stata una sostanza, forse un farmaco, assunta nel tempo da Pacciani a provocarne la morte. Ad avallarne l'ipotesi il fatto che il cadavere, trovato nella casa di Mercatale il 22 febbraio 1998, sul pavimento, in posizione prona, avesse le macchie ipostatiche (quelle che si formano sulla parte del cadavere rivolto verso terra) sulla schiena e non solo sull'addome.
Carmelo Lavorino, il vulcanico ed eclettico personaggio – investigatore, criminologo, maestro di karatè e altro – che aveva fatto parte del pool difensivo di Pacciani in appello, non era nuovo a interventi clamorosi e a volte fuori dalle righe; l’apice lo aveva raggiunto nel 1992 con la pubblicazione del libro Il Mostro di Firenze – La teoria finale, dove individuava l’assassino nel povero Natale, che quindi avrebbe compiuto il suo primo delitto, quello del 1974, quando aveva 13 anni! Pare di vederlo, a cavallo della sua bicicletta, raggiungere Borgo San Lorenzo partendo dall’istituto di Firenze dove risiedeva…
Che Pacciani potea essere stato ucciso tramite un veleno Lavorino lo aveva dichiarato ai giornali già all'indomani del fatto. Si legge sulla “Nazione” del 23 febbraio 1998:
La sua morte conviene a qualcuno, in tutto quello che è successo ci vedo lo zampino del vero Mostro. Se è morto per motivi non naturali si tratta di un delitto perfetto.Ora un’autopsia mirata alla ricerca di agenti invasivi esterni è necessaria per sapere tutta la verità. E proprio per ciò ci stiamo muovendo per contattare un nostro esperto in veleni.
Su delega di Canessa, il 29 marzo 2001 Giuttari andò a Roma a sentirlo, ottenendo la conferma dei suoi sospetti e una memoria chiarificatrice di cinque pagine. Considerando il ruolo di consulente della difesa nel processo d’appello e le sempre feroci critiche alle indagini, si deve per forza pensare che il punto di vista di Lavorino sui responsabili del presunto omicidio fosse esattamente opposto a quello di Giuttari. Ma stranamente sembra che i due si fossero trovati molto d'accordo. Ecco le dichiarazioni di Lavorino riportate dal “Corriere della sera” del 31 marzo 2001:
Ieri a Roma ho avuto un incontro col dottor Giuttari. Non posso entrare nei particolari del nostro colloquio, ma sono certo che le indagini seguono una pista che converge con la mia. A mio avviso si è arrivati alla fase finale del secondo livello. Si ritiene che esista un mandante dei duplici delitti e di altre morti rimaste misteriose, una specie di gran sacerdote con personalità e cultura superiori a quella dei "compagni di merende". Si era creata un’organizzazione di guardoni, di personaggi che studiavano i posti dove colpire, di altri che facevano da palo. Erano tutti agli ordini di qualcuno che poi interveniva per uccidere. Questo personaggio frequentava forse la casa colonica di Faltignano, una specie di corte dei miracoli, dove oltre a Pacciani e i "compagni di merende" si davano appuntamento prostitute, guardoni.
Forse fu proprio la testimonianza di Lavorino a fornire a Giuttari e Canessa il principale pretesto per aprire un fascicolo contro ignoti sulla presunta uccisione di Pacciani, nel cui ambito venne subito commissionata una perizia tecnica. Furono pertanto sottoposti ad attento esame tossicologico alcuni reperti prelevati all’epoca dal cadavere, alla ricerca di veleni e farmaci, con un risultato che, secondo i giornali di cinque mesi dopo, pareva inequivocabile: Pacciani era stato ucciso. Ecco che cosa ne scrisse “la Repubblica” del 31 ottobre 2001:
Pacciani ucciso da un farmaco. Non un semplice infarto, ma un omicidio “pulito”, silenzioso e camuffato. Ora non è soltanto un'idea per rileggere in modo diverso la morte di Pietro Pacciani, ma un'ipotesi puntellata da una perizia tecnica richiesta dalla procura e ieri mattina consegnata nelle mani del sostituto procuratore Paolo Canessa, pm dell'inchiesta sui delitti del mostro. Per mesi, i tossicologi forensi Francesco Mari e Elisabetta Bertol hanno analizzato liquidi organici e passato al setaccio la grande quantità di medicine trovate a casa Pacciani. Risultato: ottanta pagine di relazione. Ieri il pm ha ritirato la perizia e imposto il silenzio totale sui risultati. «Vogliamo leggerla con grande attenzione» dicono in procura. Ma dal buio del top secret, qualcosa trapela e quel qualcosa racconta una storia sospetta che spalanca la porta all'ipotesi dell'omicidio. Un mese dopo le anticipazioni di Repubblica sulla perizia, arriva dunque la conferma. Sotto accusa c'è un farmaco, una medicina prescritta a Pacciani nell'ultimo anno di vita che sarebbe stata controindicata per un soggetto come lui, cardiopatico, obeso, piegato dal diabete. Un farmaco che se assunto per troppo tempo ed in quantità eccessiva sarebbe divenuto fatale per un uomo di 73 anni con tre infarti alle spalle. E invece tracce di quella sostanza sarebbero state trovate nei liquidi organici di Pacciani, dando nuovo vigore all'ipotesi di una morte indotta, con passo lento ma inesorabile, pillola dopo pillola.
Una morte naturale. In realtà, nonostante i toni ottimistici trasmessi ai giornali, i risultati della perizia tecnica non portarono ad alcuna clamorosa novità, poiché del presunto omicidio di Pacciani non si sarebbe sentito più nulla, se non nei libri di Giuttari. Da Confesso che ho indagato:
Pacciani è riverso sul pavimento della stanza, con i pantaloni abbassati fin sotto i glutei, la maglia sollevata sul petto e, ai piedi, un paio di scarpe sporche di fango.
Il medico informa il sostituto procuratore che, a suo dire, il decesso risale all'una circa della notte precedente. E che la causa della morte sarebbe un probabile arresto cardiocircolatorio. [...]
Intanto i carabinieri informano il sostituto procuratore di essere accorsi subito dopo aver ricevuto una telefonata da un vicino di casa, di aver trovato completamente spalancate sia le due porte d'ingresso sia le finestre e di aver visto sul pavimento della cucina, dove regna un disordine indescrivibile, un blister di pillole medicinali. Le luci erano tutte spente.
Qualcosa non mi torna. Abbiamo saputo dai vicini e accertato durante le intercettazioni telefoniche che all'imbrunire Pacciani era solito sbarrare porte e finestre e chiudersi all'interno senza ricevere nessuno.
Mi domando perché le luci fossero tutte spente, soprattutto considerando che la morte risalirebbe all'una di notte. Mi sembra strano che Pacciani si sia mosso al buio, e con porte e finestre spalancate.
Continuo a fissare il cadavere soffermandomi sulla maglia arrotolata. È come se qualcuno lo avesse trascinato sul pavimento, una caduta improvvisa per un malore non avrebbe sicuramente quell'effetto su un indumento. Anche il sostituto procuratore s'insospettisce per quel dettaglio e chiede ai carabinieri e al medico se per caso sono stati loro a spostarlo. Nessuno di loro lo ha fatto, quindi il sostituto chiede di girare il corpo. Ci sono macchie ipostatiche dove non avrebbero dovuto esserci, prova inconfutabile che il cadavere è stato spostato dopo la morte.
È ormai quasi certo: non si tratta di morte naturale, avvenuta per caso un sabato notte. Casualmente la giornata della settimana preferita dal Mostro.
Come si vede la fantasia dello scrittore ex investigatore galoppa, purtroppo però contro la logica. Si deve innanzitutto osservare che i molti particolari che nello scenario gli paiono sospetti, in realtà sospetti non lo sono per nulla. Tra i sintomi di un infarto in corso, che il più delle volte non è fulminante, ci sono pressione al petto, mancanza d’aria e sudorazione, i quali ben spiegano il perché Pacciani avesse aperto porte e finestre e avesse tentato di togliersi la maglia, mentre le luci spente possono giustificarsi con la paura che i vicini potessero vederlo, oppure anche soltanto con la difficoltà di trovare gli interruttori mentre stava cercando di raggiungere il bagno. Pacciani, infatti, era stato colto da un episodio di grave diarrea – come dimostravano le numerose tracce di feci riscontrate sugli indumenti e su varie parti del corpo –, importante concausa della morte.
Ci sono poi le macchie ipostatiche trovate sulle spalle, secondo Giuttari incompatibili con la posizione bocconi di rinvenimento del cadavere. Al tempo i giornalisti, messi a conoscenza di tali perplessità, erano andati a chiedere spiegazioni a Marello, che così aveva risposto (“la Repubblica”, 24 febbraio 1998): “C’è una spiegazione, il sangue era molto fluido. La presenza delle macchie ipostatiche è legata a fenomeni cadaverici. Le lievi manipolazioni subite nell’intervento del medico d’urgenza possono esserne la causa”.
A questo punto andiamo a leggere qualche passo della relazione autoptica, consegnata in procura da Marello il 28 aprile 1998. Partiamo dalla descrizione del corpo ancora in loco.
Il cadavere giace prono nella stanza antistante il bagno con la testa rivolta verso la porta del bagno. Gli abiti sono composti, ad eccezione dei pantaloni che appaiono calati al terzo medio superiore delle cosce. Sollevati gli abiti è possibile evidenziare a livello delle ragioni corporee antideclivi la presenza di ipostasi di colore rosso vinoso, improntabili, la rigidità cadaverica è ovunque presente, al termotatto è possibile ancora apprezzare residui di temperatura corporea a livello sotto-ascellare. Ribaltato il cadavere si apprezzano marcate ipostasi nelle regioni declivi, ancora improntabili, il volto appare deformato dalla lunga permanenza in posizione prona.
Le macchie ipostatiche sulle spalle non pare avessero suscitato particolare interesse nell’anatomopatologo, la qual cosa, fossero state rivelatrici di manipolazioni del cadavere, risulterebbe poco comprensibile.
Vediamo adesso l’esame preliminare del corpo la mattina del giorno dopo nel laboratorio di medicina legale.
II cadavere giace supino sul tavolo anatomico ed è rivestito dai seguenti indumenti:
Probabilmente Pacciani era stato colto da malore mentre si trovava disteso sul letto con tutti i vestiti addosso, escluso le scarpe che si era infilato prima del tentativo di raggiungere il bagno.
Si legge ancora nel documento:
L’esame autoptico evidenziava una grave coronarosclerosi con esisti multipli di pregressi infarti miocardici in soggetto con verosimile episodio diarroico. […]
Nel caso in esame ci troviamo di fronte ad una patologia gastrointestinale costituita da diarrea profusa (come evidenziato in corso di sopralluogo) che può avere contribuito e determinare una marcata ipotensione con conseguente deficit cinetico del ventricolo sinistro.
Il deficit cinetico del ventricolo sinistro può provocare una improvvisa congestione ipertensiva nel piccolo circolo, con dispnea parossistica o edema polmonare acuto, spesso mortale e in genere più frequente nel periodo iniziale.
L'abbassamento della pressione arteriosa può essere tale da configurare un proprio collasso cardiaco.
Poiché la circolazione coronarica è prevalentemente diastolica in caso di ipotensione si assiste ad una riduzione del flusso coronarico che non è più in grado di superare le stenosi presenti a livello vasale.
Inoltre in caso di diarrea profusa si determinano delle alterazioni elettrolitiche (riduzione del potassio) che sono spesso causa di aritmie che in corso di infarto rappresentano l’episodio mortale.
In sostanza Marello scrisse che Pacciani era un soggetto già infartuato, con gravi alterazioni delle arterie coronarie, quindi in una condizione di altissimo rischio. L’episodio di diarrea, probabilmente influenzale, era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, causa immediata dell’infarto. Queste le conclusioni sulle cause della morte, fatta risalire circa alle ore 22.30:
La morte è dovuta ad insufficienza cardiaca con edema polmonare in recente infarto del miocardio in soggetto con cardiomegalia per ipertrofia ventricolare sinistra e sfiancamento globale di cuore, affetto da arteriosclerosi polidistrettuale a particolare incidenza a livello coronarico e cerebrale ove è presente una atrofia corticale con dilatazione ventricolare ed edema. Il Pacciani presentava esiti di pregressi infarti ed erano presenti segni di anasarca e di notevole stasi con epatomegalia con aspetto a noce moscata oltre a gastrite emorragica diffusa, cistite ed ipertrofia prostatica.
Torniamo però ai sospetti di un possibile omicidio. I controlli su tutto il contenuto della casa erano stati molto scrupolosi, come aveva confermato lo stesso Giuttari (“La Nazione”, 27 febbraio 1998):
Nella casa di Pacciani abbiamo sequestrato anche il vino, il latte e il cibo affinché tutto sia sottoposto alle analisi di laboratorio. Il dottor Canessa ha disposto prelievi completi sul cadavere proprio per gli esami clinici. Nulla è escluso e nulla verrà trascurato. Tutto sarà fatto con il massimo scrupolo, ma per adesso non è possibile sbilanciarsi. Preferisco che a parlare siano i fatti.
Abbiamo visto che le analisi tossicologiche effettuate nell’immediato non avevano dato risultati. Ma allora, perché tre anni dopo si parlò di “farmaco killer”, con il quale Pacciani era stato avvelenato poco alla volta? In realtà tale farmaco era un semplice antiasmatico, l’Eolus, che Pacciani teneva in casa in forma di bomboletta spray, alla quale probabilmente si era attaccato prima della morte poiché faceva fatica a respirare. Con una ricetta datata 19 aprile 1997, a prescriverglielo era stata la sua dottoressa di base, Anna Maria Gambassini, sentita già il 25 febbraio 1998. Il 31 ottobre 2001 venne convocata di nuovo. Dal relativo verbale:
Mi viene mostrata la fotocopia di una ricetta con la prescrizione del farmaco “Eolus” con due confezioni. La ricetta è a firma mia. La riconosco e quindi sicuramente sono stata io a prescrivere questo medicinale in Spray, che all’epoca prescrivevo spesso ai miei pazienti con problemi di respirazione. Presumo che al Pacciani lo prescrissi per un problema bronchiale.
L’Eolus è stato sempre un farmaco fornito dalla Regione gratuitamente e, come si può vedere sulla confezione, è anche abbastanza caro, essendo il suo prezzo di oltre centomila lire.
Non ricordo questo farmaco come un farmaco solitamente prescritto al Pacciani per cui ritengo che lo abbia prescritto solo quella volta e, comunque, che si sia trattato di una prescrizione occasionale.
Nessun mistero, quindi, su un farmaco che aveva sì controindicazioni per i sofferenti di cuore, ma non certo gravi. Da una semplice ricerca in rete si scopre che viene solo raccomandata “particolare cautela” per l’uso da parte di tali pazienti, senza però rigidi divieti. In ogni caso, ammesso e non concesso che fosse stato l’uso eccessivo dell’Eolus a provocare o facilitare la morte di Pacciani, certamente non c’era dietro alcun delitto premeditato, per il quale un semplice veleno sarebbe stato molto più sicuro ed efficace.
In una recente intervista ha dichiarato Giovanni Marello (vedi qui al minuto 25):
Un altro elemento di folklore è la morte del Pacciani. La morte del Pacciani è stata un po' etichettata da qualcuno come un tentativo di soppressione da parte di terzi, sono stati ipotizzati avvelenamenti e cose del genere. In realtà io ho eseguito l'autopsia del Pacciani e il Pacciani è morto di cause naturali. È morto di cause naturali in quanto aveva un cuore bovino, un'ipertrofia cardiaca massiccia con tutta una situazione correlata di scompenso cardiaco che non è correlabile con una morte per avvelenamento. Questo farmaco che lui assumeva è un farmaco che praticamente non è stato ritrovato nel sangue. Per cui non essendo stato ritrovato nel sangue ma soltanto all'interno del contenuto gastrico non ha nessun tipo di significato dal punto di vista anche di una patogenesi nei confronti della morte.
Ma proviamo a immaginare dove le perplessità di Giuttari riguardo porte e finestre aperte in pieno inverno, luci spente, maglia arrotolata, macchie ipostatiche sulle spalle e infine uso di Eolus potrebbero condurre, disegnando un ipotetico scenario in tal senso.
Qualcuno che lo voleva uccidere avrebbe convinto Pacciani a usare il “pericoloso” farmaco antiasmatico, del quale l’individuo effettivamente aveva richiesto la necessaria ricetta al proprio medico di base. Dopo quasi un anno di inalazioni finalmente Pacciani venne colto dall’auspicato grave infarto. E proprio in quel frangente, nella “giornata della settimana preferita dal Mostro”, lì con lui ci sarebbe stato il suo carnefice, che, non si sa per quali motivi, avrebbe aperto porte e finestre e, a luci spente, trascinato e poi girato bocconi il cadavere. Ma non subito, poiché delle macchie ipostatiche avrebbero avuto il tempo di formarsi sulle spalle.
Il lettore valuti per proprio conto la plausibilità dello scenario.
Epilogo. Se di per sé l’apertura di nuove indagini sulla morte di Pacciani non portò ad alcun risultato, in modo indiretto provocò invece grandi conseguenze. Il 31 marzo del 2001 giunse infatti in questura un fax, che così recitava:
Ill.mo Capo della Squadra Mobile Dott. Michele Giuttari Firenze.
La sottoscritta Gabriella Pasquali Carlizzi chiede alla S.V. di essere ascoltata come persona informata sui fatti, nell’ambito delle indagini relative alle cause della morte di Pacciani Pietro.
Vedremo tutto in un prossimo articolo.
Compagni di merende: la conclusione. L’appello del procedimento contro i compagni di merende aveva fatto sudare freddo a Giuttari, e non solo a lui. A sorpresa il procuratore generale Daniele Propato aveva chiesto l’assoluzione per Vanni, non avendo ritenute veritiere le confessioni di Lotti, però i giudici erano stati di tutt’altro avviso, e nella sostanza il 31 maggio 1999 avevano confermato il verdetto di primo grado.
Poi, a far tirare ai molti interessati un sospiro di sollievo, il 26 settembre 2000 arrivò il suggello della Cassazione. Si legge sulla “Nazione” del giorno dopo:
«Sono soddisfatto professionalmente e personalmente» ha commentato il capo della squadra mobile di Firenze Michele Giuttari. «In questo momento – ha aggiunto Giuttari – il mio pensiero va ai familiari delle vittime e in particolare a Renzo Rontini: oggi ha avuto giustizia da quello Stato a cui aveva sempre dato la massima fiducia. L’impegno della squadra mobile sui delitti insoluti riconducibili verosimilmente alla vicenda e sul mandante continuerà ad essere massimo».
A quel punto, carico anche del successo conseguito nelle epiche battaglie contro il Ministero, Giuttari non volle privarsi della soddisfazione di mostrare a tutti che era tornato, e più agguerrito che mai. Da Storia delle merende infami:
Il 28 settembre 2000 Mario Vanni è tornato in carcere. Con la sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso, passando in giudicato la condanna all'ergastolo, le porte di Sollicciano si sono riaperte per lui. È cominciata un'altra Via Crucis, che dura tuttora.
Quello che accadde il 28 settembre del 2000 non mi piacque, avvertii come una esibizione ingenerosa il fatto che il postino fosse catturato con il contributo delle auto della polizia, con tanto di sirene spiegate, senza alcuna discrezione. Anzi, per condurlo in carcere si scomodò addirittura lo stesso capo della Squadra Mobile dottor Michele Giuttari. (In genere provvedimenti simili appartengono ai carabinieri, che li eseguono nelle prime ore del mattino, evitando al catturando la vergogna delle manette in vista dei vicini di casa e dei compaesani).
Al seguito della polizia c'era il fotografo d'un quotidiano. Il giorno successivo, "La Nazione" pubblicò la foto di Vanni e quella dell'esecutore della cattura. Quest'ultimo con un'aria molto soddisfatta, e col consueto sigaro toscano fra le dita della destra.
È difficile non trovarsi d’accordo con Filastò, forse una maggior discrezione non avrebbe guastato. Comunque Giuttari andò avanti per la propria strada senza guardare in faccia nessuno, godendosi il suo momento di trionfo proseguito anche nelle settimane successive. Il presidente del tribunale che aveva condannato Pacciani in primo grado, Enrico Ognibene, il 16 ottobre prese carta e penna e scrisse una lettera (vedi) indirizzata al ministro dell’interno Enzo Bianco, al capo della polizia Giovanni De Gennaro, al questore di Firenze Vincenzo Boncoraglio e al prefetto di Firenze Achille Serra:
In occasione della recente sentenza con cui la Corte Suprema di Cassazione […] ha confermato le condanne inflitte a VANNI Mario e LOTTI Giancarlo […], sento il dovere di esprimere, come cittadino e come magistrato, alla Squadra Mobile della Questura di Firenze ed in particolare al suo Dirigente dott. Michele GIUTTARI i sensi della mia più alta stima e del mio più vivo apprezzamento per l’eccezionale capacità dimostrata nello svolgimento delle indagini […]. Avendo personalmente diretto […] il processo di primo grado nei confronti di PACCIANI Pietro, […] rammento bene quale fosse la situazione di scoramento e quasi rassegnazione creatasi all’indomani della sentenza di appello che, mandando pienamente assolto il Pacciani […], sembrava aver posto una pietra tombale su quella che deve certamente considerarsi una delle vicende criminose più gravi ed inquietanti del dopoguerra.
Ebbene, in tale contesto, senza perdersi d’animo e dimostrando eccezionali capacità professionali, il dott. GIUTTARI ha ripreso con assoluto fervore l’attività investigativa: si deve al suo eccezionale intuito se non è stata abbandonata la pista che portava ai complici del Pietro Pacciani, complici che, con un rilevantissimo ed accuratissimo lavoro di indagine operato in perfetta sincronia col sost. Proc. dr. Paolo Canessa, sono stati finalmente individuati nelle persone di Vanni Mario e Lotti Giancarlo, a carico dei quali è stato raccolto materiale probatorio di assoluta univocità e concludenza che ha portato alla loro condanna definitiva sanzionata dalla citata sentenza della Suprema Corte.
Nel sottolineare ancora l’eccezionale professionalità del dott. GIUTTARI nel condurre a termine indagini di assoluta complessità e rilevanza, desidero congratularmi con lui per i brillantissimi risultati ottenuti e per aver contribuito in modo determinante a rendere – finalmente – giustizia alle vittime e ai loro familiari.
L’iniziativa di Ognibene è da considerarsi del tutto eccezionale, tanto più che non c’era mai stato un rapporto diretto tra il giudice e Giuttari. Semmai una lettera del genere si addiceva di più a Federico Lombardi, presidente del tribunale che aveva potuto condannare Lotti e Vanni in primo grado proprio grazie alle indagini di Giuttari. Ma era solo una questione di tempo, poiché il 27 novembre anche Lombardi prese analoga iniziativa. Anzi, la sua lettera (vedi), indirizzata alle medesime autorità, risultò ancora più pregna di sperticati elogi:
[…] Dopo la predetta sentenza contro il Pacciani, riprendevano quindi le indagini a tutto campo nel senso indicato dalla Corte di Assise. Ad esse si dedicava con particolare impegno ed abnegazione il dott. Michele GIUTTARI, nella sua qualità di nuovo Dirigente della Squadra Mobile presso la Questura di Firenze dall’ottobre 1995, riuscendo ben presto ad ottenere i primi risultati utili, frutto di grandi intuizioni e di eccezionali capacità investigative. […]
Ciò premesso, sento i1 dovere di segnalare – a vicenda conclusa e nella mia qualità di Presidente delle 2^ CORTE di ASSISE che ha come sopra giudicato in primo grado il VANNI ed il LOTTI – il lavoro paziente ed intelligente svolte dal dott. Michele GIUTTARI che, dopo aver assunto la direzione della Squadra Mobile di Firenze, si è buttato a capo fitto nelle nuove indagini con un entusiasmo fuori dal comune, studiando prima attentamente tutti gli atti relativi ai vari omicidi e ripartendo poi nelle indagini da zero, con nuove piste investigative, senza nulla tralasciare, senza mai desistere e senza comunque mai farsi fuorviare dai risultati delle precedenti indagini.
In tale nuova attività investigativa il dott. GIUTTARI ha mostrato profondo intuito, viva intelligenza ed eccezionali capacità professionali, raggiungendo ben presto i primi risultati utili, pur operando in un ambiente omertoso e contrario, che però non lo ha mai fiaccato o fatto perdere d’animo. Il dott. GIUTTARI ha così dato prova anche di un carattere fermo e deciso, di una spiccata personalità e di una sicurezza nelle proprie intuizioni, propria dei soggetti attenti, preparati e scrupolosi anche nelle cose più insignificanti.
Va ovviamente sottolineato che il dott. GIUTTARI ha potuto coronare con successo la sua azione investigativa anche grazie alla condotta dei suoi colleghi della Squadra Mobile […] Ma ciò non sminuisce minimamente il ruolo avuto dal dott. GIUTTARI, perché la scelta degli uomini da cui farsi affiancare nelle singole operazioni è dipesa soltanto da lui, che ha saputo agire in silenzio e con perfetta scelta di tempo, senza mai farsi tradire dalla bramosia di qualche successo immediato, che avrebbe potuto compromettere tutto.
Tanto segnalo per mia esclusiva iniziativa, al fine di manifestare tutta la mia stima e tutto il mio apprezzamento al dott. GIUTTARI che ha contribuito in modo decisivo a debellare dalla zona di Firenze pericolosi criminali e che costituisce ora un professionista dalle qualità eccezionali, vanto di tutta la Polizia di Stato nella quale opera.
Sono profondamente convinto di tutto ciò, avendo avuto modo di apprezzare la sua attività investigativa nel corso di tutta quella lunga istruttoria dibattimentale avuta nel processo contro VANNI e LOTTI tanto che, anche in sede di motivazione della sentenza, non ho potuto non sottolineare il ruolo decisivo avuto dal dott. GIUTTARI nella fase delle indagini successive al processo Pacciani, dando atto del suo grande impegno (ed è la prima volta che ho fatto una simile citazione in sentenza, essendomi trovato per la prima volta di fronte a un Dirigente di PG dalle qualità veramente “eccezionali”).
Spinto da tali pungoli, il 18 dicembre il questore Vincenzo Boncoraglio propose all’Ufficio centrale per le Ricompense del Ministero dell’Interno la promozione di Giuttari – e del suo braccio destro, il commissario Fausto Vinci – per meriti straordinari, e l’encomio solenne agli agenti suoi collaboratori. La richiesta faceva affidamento su una legge apposita (art. 72 del d.P.R. 335/1982), dove si stabilisce:
La promozione alla qualifica superiore può essere conferita anche per merito straordinario agli assistenti capo, ai vice sovrintendenti, ai sovrintendenti e ai sovrintendenti principali i quali, nell’esercizio delle loro funzioni, abbiano compiuto operazioni di servizio di particolare importanza, dando prova di eccezionale capacità, o abbiano corso grave pericolo di vita per tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica, dimostrando di possedere le qualità necessarie per bene adempiere le funzioni della qualifica superiore ovvero abbiano conseguito eccezionali riconoscimenti in attività attinenti ai loro compiti, dando particolare prestigio all’Amministrazione della pubblica sicurezza.
Come si vede, i casi previsti sono di due differenti tipologie: o aver dato prova di eccezionali capacità o aver corso rischi per gravi pericoli. Chiaramente Giuttari poteva aspirare a rientrare soltanto nella prima categoria, e non a caso l’aggettivo “eccezionale” abbondava negli scritti dei due giudici.
La risposta del Ministero si sarebbe fatta attendere, e non sarebbe stata positiva. Alla vicenda avrebbe fatto cenno lo stesso Giuttari in Confesso che ho indagato, dove si viene a sapere di un suo ricorso al TAR del Lazio accolto favorevolmente addirittura nel 2013. Per soddisfare la legittima curiosità di qualche lettore, a questo punto apriamo una parentesi, e con l’aiuto dei nuovi strumenti di ricerca online delle sentenze amministrative (qui e qui) facciamo un passo avanti con i tempi fino alla conclusione della contrastata vicenda.
Una promozione contestata. Il 25 luglio 2003 il Ministero, tramite l’ufficio di Amministrazione della Pubblica Sicurezza, respinse la proposta di Boncoraglio ritenendo non poi così straordinari i meriti investigativi di Giuttari. Nella seduta del 25 novembre precedente, la Commissione Centrale per le Ricompense aveva espresso parere sfavorevole, ritenendo
alquanto sovradimensionata la proposta. Infatti, pur rilevando la complessità della vicenda e la risonanza che i fatti hanno prodotto sull’opinione pubblica, si osserva che l’attività oggetto della proposta, riguardi il filone di indagine investigativo scaturito dalle dichiarazioni di uno degli indagati. Pertanto, apprezzando il contributo fornito dai singoli operatori, ciascuno nella qualità di appartenenza, vengono concessi l’encomio, ai funzionari proposti per la Promozione per merito straordinario e la Lode al restante personale, in quanto non vengono ravvisati i requisiti previsti dalla normativa vigente per l’attribuzione dei riconoscimenti richiesti”.
In sostanza, per l’Amministrazione, il merito maggiore era stato del pentimento di Lotti, quindi non promozione ma solo encomio per Giuttari e Vinci, e non encomio ma solo lode per gli agenti. Giuttari fece allora ricorso al TAR del Lazio, che l’11 aprile 2013 – quindi con un ritardo incredibile, al quale però non dovettero essere stati estranei gli aspri contrasti e le peripezie giudiziarie di cui era stato protagonista il superpoliziotto – accolse le sue ragioni (vedi). Erano trascorsi ormai 13 anni dalla proposta del questore, e sei da quando Giuttari aveva lasciato la Polizia, in ogni caso il Ministero venne invitato a “riesaminare la proposta di promozione per merito straordinario alla luce dei principi affermati in motivazione”. Riguardo i meriti attribuiti al pentimento di Lotti, i giudici del TAR osservarono:
Dagli atti emerge in modo palese che la collaborazione del Lotti è intervenuta solo dopo che la polizia giudiziaria, e per essa il Dott. Giuttari, ha ricostruito la vicenda rileggendo una massa enorme di atti e documenti, al fine di rilevare se […] i delitti non fossero stati frutto di un serial killer, bensì di un gruppo di persone. […]
Lo studio dei documenti, l’acquisizione di nuove prove testimoniali, tra le quali quella fondamentale di Pucci, hanno condotto – dopo il confronto disposto dalla Procura di Firenze – il Lotti alla collaborazione alla quale si fa cenno nel parere della Commissione.
Pertanto, sebbene le dichiarazioni del Lotti abbiano assunto gran rilievo per la condanna del Vanni e dello stesso Lotti, nondimeno non può non rilevarsi che la collaborazione del Lotti non sia stata ottenuta facilmente (come sembra potersi desumere dalle affermazioni della Commissione in merito alla sopravvalutazione dell’attività di indagine), ma sia stata indotta dall’esistenza di tali elementi di prova a suo carico, acquisiti mediante attività di polizia giudiziaria, da indurlo a collaborare per avere uno sconto di pena (poi ottenuto).
In altre parole, contrariamente a quanto sostenuto nel parere dalla Commissione, il filone investigativo non è scaturito dalle dichiarazioni di uno degli indagati – il Lotti – ma le sue dichiarazioni costituiscono l’esito di una complessa attività investigativa iniziata dalla rilettura degli atti processuali e di quelli di polizia giudiziaria, proseguita nello svolgimento di ulteriori attività di indagine (di cui vi è prova nel rapporto redatto dalla Squadra Mobile di Firenze) e culminata infine nella sua collaborazione, intervenuta solo quando erano stati già acquisiti – mediante le indagini di polizia giudiziaria – seri elementi probatori a suo carico.
Ne consegue che il giudizio di valore reso dalla Commissione è stato emesso sulla base di una distorta rappresentazione della concatenazione dei fatti, nei quali la collaborazione del Lotti, lungi dal costituire l’ultimo tassello dell’iter investigativo, viene assunto come la fonte delle investigazioni […], non rispondente alla reale consistenza e cronologia dei fatti stessi.
Ma il Ministero, sentiti i pareri di vari suoi organi amministrativi, rifiutò per la seconda volta di procedere nel senso indicato dal TAR (6 giugno 2014), ritenendo che “l’incarico ricoperto, Capo della Squadra Mobile in un capoluogo di Regione, preveda di per sé attitudini investigative e operative di elevato livello”, e che “l’attività svolta non sia così eccezionale come potrebbe essere, ad esempio, la direzione e la materiale partecipazione a fasi investigative e operative di indagini che si concludono con l’arresto di pericolosi appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso o ad organizzazioni eversive”. Tra l’altro venne rimarcato il fatto che Giuttari, durante le indagini, non aveva mai corso rischi per la propria incolumità.
Naturalmente Giuttari non si perse d’animo, e presentò un nuovo ricorso al TAR, che lo accolse con sentenza del 30 aprile 2015. Si legge nel documento (vedi):
È evidente che ancora una volta non risulta essere stata eseguita un’adeguata istruttoria, dalla quale sarebbe invece emerso il contributo determinante dato dal ricorrente nell’individuazione di colpevoli di delitti altrettanto efferati, comportanti un altrettanto notevole allarme sociale, “impresa” nella quale non vi era invece riuscita per diverso tempo un’apposita task force investigativa, coadiuvata da esperti criminologi.
Nella specie non risulta essere stato affatto preso in considerazione l’acume investigativo, del tutto straordinario, mostrato dal ricorrente nell’assicurare alla giustizia gli esecutori materiali di almeno alcuni dei delitti in questione; tale acume denota quelle “eccezionali capacità” richieste dalla norma per il riconoscimento della promozione per merito straordinario.
Si ravvisa perciò una chiara elusione del giudicato.
I giudici dettero tempo 90 giorni al Ministero per procedere, pena la nomina di un commissario ad acta che avrebbe provveduto d’ufficio. “Deciderò se rientrare in polizia, la mia seconda famiglia”, questa la dichiarazione a caldo rilasciata ai giornalisti da un soddisfattissimo Giuttari. Ma non era ancora finita, poiché il Ministero dell’Interno ricorse in appello presso il Consiglio di Stato – l’apposito organo giurisdizionale previsto dalla costituzione italiana per i casi di contrapposizione tra i privati e l’Amministrazione pubblica – lamentando lo sconfinamento dei giudici del TAR nel merito discrezionale dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza.
Il caso venne discusso nell’udienza pubblica del 21 gennaio 2016. E i giudici del Consiglio di Stato accolsero l’appello del Ministero, riconoscendo all’Amministrazione la facoltà discrezionale di decidere. Dalla sentenza (vedi):
Risulta evidente che, nel caso di specie, l’Amministrazione si sia attenuta alla regola posta dal giudicato, perché essa, riesaminando tutto il materiale istruttorio alla luce dei principi posti dalla sentenza, ne ha tratto la convinzione che i meriti del dott. Giuttari, pur grandi e indiscutibili, non siano straordinari, anche in considerazione del fatto che le capacità evidenziate, sicuramente elevate, devono considerarsi già insite nell’ambito della funzione di Dirigente di un importante ufficio investigativo, come quello di Dirigente della Squadra Mobile di un capoluogo di una Regione.
Si tratta di motivazione che, dopo aver vagliato le indubbie ed elevate capacità del dott. Giuttari e averne acclarato il grande valore, meritevole di solenne encomio (riconosciutogli, infatti, dal provvedimento emesso dal Capo della Polizia), senza sminuirne l’apporto dato alle investigazioni che hanno condotto all’arresto di Lotti e dei suoi complici, è pervenuta alla conclusione che si tratti, tuttavia, di attività non estranea né superiore al normale bagaglio professionale richiesto ad un Dirigente della Squadra Mobile e ai compiti che a questo competono.
La valutazione della Commissione è rispettosa del giudicato, sia sul piano formale che sostanziale, perché essa, pur avendo tenuto in debito conto e dopo aver riesaminato ex novo l’operato del dott. Giuttari, ha espresso su di esso un giudizio positivo, ma tale da non attingere la soglia dell’eccezionalità per merito straordinario.
Il provvedimento della Commissione, nel rivalutare l’operato del dott. Giuttari, si è conformato al giudicato amministrativo e, nei limiti da esso tracciati, è pervenuto ad una valutazione né manifestamente illogica né gravemente erronea, ove si consideri che l’attività posta in essere dall’Amministrazione nella valutazione dei presupposti che consentono la concessione della promozione alla qualifica superiore per merito straordinario, ai sensi dell’art. 72 del d.P.R. 335/1982, è ampiamente discrezionale e, in quanto tale, è sindacabile in sede di legittimità, davanti al giudice amministrativo, solo se risulti viziata da travisamento dei fatti o da macroscopica illogicità.
Un nuovo ricorso portò a un nuovo pronunciamento del Consiglio di Stato (vedi), il quale, nell’udienza pubblica del 7 luglio 2016, dette ancora una volta torto a Giuttari.
A quanto risulta a chi scrive, dovremmo essere arrivati al capitolo finale di questa lunga e grottesca partita a ping pong. In ogni caso chiudiamo la parentesi, tornando alla ripresa delle indagini successive al reintegro di Giuttari a capo della squadra mobile.
Omicidi collaterali. Poco o nulla era accaduto sul fronte delle indagini durante i due anni di beghe tra Giuttari e Ministero, e poco o nulla accadde anche nei primi mesi successivi al definitivo reintegro del 27 luglio 2000. Evidentemente il superpoliziotto cercava qualche spunto da cui partire. Non sono disponibili a chi scrive documenti che attestino il suo brogliaccio di lavoro, ci sono però delle fonti alternative dalle quali si può tentare di farsene un’idea: il libro Il Mostro e alcuni articoli di giornale. Scriveva il sempre ben informato Gianluca Monastra su “Repubblica” dell’8 settembre 2000:
Dall'ufficio del pm Paolo Canessa sono partite le deleghe dirette al capo della squadra mobile Michele Giuttari. Passo formale che riapre a tutti gli effetti l'inchiesta sui sedici delitti della calibro 22. L'ipotesi dell'accusa dice: c'era un livello superiore a dirigere la banda di esecutori degli omicidi del mostro, personaggi finora senza nome, ma sui quali sono già puntati occhi e attenzioni della squadra mobile. Mandanti che negli anni successivi alla scia di sangue del mostro (otto duplici omicidi dal 1968 all'85) avrebbero agito per coprire, nascondere, chiudere la bocca a testimoni scomodi.
Secondo questa ipotesi, un contributo decisivo potrebbe dunque giungere dalla soluzione di altri delitti commessi fra il 1993 e il 1994 e cioè pochi mesi dopo l'arresto di Pietro Pacciani e durante il suo processo di primo grado. Si tratta degli omicidi di Francesco Vinci e Angelo Vargiu, trovati morti bruciati il 7 agosto 1993 nelle campagne di Chianni, in provincia di Pisa, nel bagagliaio di una Volvo. Di Milva Malatesta e del figlio Mirko, ritrovati anche loro bruciati dentro la Panda della donna, pochi giorni dopo, il 29 agosto 1993, a Barberino Val d'Elsa. E infine di Milvia Mattei, uccisa in casa a San Mauro a Signa.
Strani intrecci legano le vittime di questi omicidi. Francesco Vinci (nell'82 accusato e poi scagionato dall'accusa di essere il mostro) conosceva Pietro Pacciani e Milva Malatesta. Questi ultimi erano in contatto visto che la madre di Milva (Antonietta Sperduto) era amante di Pacciani. Guarda caso, poi, Milvia Mattei aveva avuto relazioni con Fabio Vinci, figlio di Francesco Vinci, e Giuseppe Sgangarella, amico di Francesco Vinci e Pietro Pacciani.
Si legge ne Il Mostro, in un paragrafo dove viene affrontato l’enigma del passaggio della pistola:
E a scioglierlo non possono contribuire in maniera decisiva neppure le notizie raccolte su Francesco Vinci, sospettato e indagato quale correo nel delitto del 1968 e, poi, anche per gli altri delitti del “mostro”, ma alla fine prosciolto completamente da ogni imputazione.
Alcuni particolari della sua vita mi interessano però da altri punti di vista: per esempio il fatto che avesse frequentato negli anni Settanta lo stesso bar di Prato di cui era cliente abituale il mago Salvatore Indovino, con il quale aveva anche condiviso un periodo di detenzione nello stesso carcere. E poi c'è la dichiarazione di un suo amico, Giovanni Calamosca: interrogato al processo sui complici di Pacciani, aveva raccontato alcune confidenze ricevute da Vinci sulla pistola utilizzata nel 1968 che sarebbe appartenuta proprio a lui, che poi l'avrebbe ceduta a chi l'aveva utilizzata nei delitti del “mostro”.
Penso che davvero Francesco Vinci non c'entri con questi delitti: probabilmente era stato ucciso, come aveva dichiarato Calamosca, perché ricattava il possessore dell'arma e non era più affidabile essendo dedito sempre di più all'alcol. Se così fosse, il suo omicidio non potrebbe che essere verosimilmente attribuito ai mandanti dei delitti del “mostro”, tanto più se si tiene conto della data della morte (1993) e dell'assassinio a distanza di pochi giorni di Milva, di cui era stato l'amante e che a sua volta era stata amante di Salvatore Indovino.
Troppi elementi collegano Francesco Vinci a Salvatore Indovino, Vanni e Pacciani. E rimandano a un'altra mano omicida.
Secondo l’ipotesi di Giuttari, quindi, Francesco Vinci, coinvolto nell’omicidio del 1968, avrebbe passato la pistola a Pacciani e compagni, conosciuti poiché frequentatori come lui della stamberga di Salvatore Indovino. Avrebbe poi cercato di ricattare i mandanti, finendo per farsi uccidere assieme alle altre quattro persone in qualche modo a lui collegate. Ipotesi suggestiva e audacissima, priva però di qualsiasi riscontro, se non quello di una assai sospetta dichiarazione di Giancarlo Lotti ben inseribile nel contesto degli “aiuti” che il presunto pentito aveva offerto agli inquirenti durante gli ultimi mesi d’istruttoria.
Per comprendere meglio l’accaduto è necessario partire dal 1991, quando Giuseppe Sgangarella, ergastolano stupratore e uccisore di una bambina, aveva tentato di ottenere qualche beneficio inventandosi di aver ricevuto da Pacciani indicazioni sul nascondiglio della famigerata pistola. Il bluff non poteva durare e non durò, ma con la nuova inchiesta l’individuo si rifece vivo. Da Compagni di sangue:
Da me interrogato il 10 giugno 1996 presso il carcere di Firenze, aveva dichiarato che, durante la propria detenzione, aveva conosciuto sia Pacciani che Francesco Vinci. Da quest'ultimo aveva appreso alcuni fatti che concernevano il Pacciani. Lo Sgangarella all'epoca faceva lo scrivano e aveva modo di parlare con diversi detenuti, era divenuto amico del Vinci, con cui aveva instaurato un rapporto di fiducia. Vinci gli aveva confidato di aver conosciuto, nella zona di San Casciano, circa dieci anni prima del racconto, il Pacciani e altre persone, tra cui un postino, amico del Pacciani, e alcune prostitute. Gli aveva raccontato che erano soliti riunirsi, con Pacciani e con altri amici, in una casa colonica, disabitata, nelle campagne di San Casciano, per fare i tarocchi e predire il futuro. Lui, all'epoca, non aveva ancora conosciuto Pacciani. Vinci, che era accusato per i delitti del “Mostro”, gli aveva riferito che stava pagando per gli amici, dai quali era stato abbandonato. Diceva che se avesse deciso di parlare sarebbe finita male.
Si trattava di clamorose menzogne, non c’è dubbio. Quando Sgangarella aveva raccontato alle forze dell’ordine le fantomatiche confidenze di Pacciani sul nascondiglio della pistola (1991), fin da 7 anni prima Vinci gli avrebbe raccontato le proprie sulla richiesta di un nuovo omicidio per farlo uscire dal carcere (i due avevano condiviso lo stesso carcere di Sollicciano dal maggio all'ottobre 1984). E allora, perché Sgangarella non aveva parlato anche di quelle? Ma un Giuttari alla ricerca di spunti per le nuove indagini sul “secondo livello” prese molto sul serio le parole del malvivente, e due giorni dopo, assieme a Canessa, andò da Lotti a cercarne conferma. Il verbale relativo (vedi), peraltro già commentato nell’articolo La lettera di Pacciani a Vanni, dà un’idea del furbo accodamento del pentito alla scenario che, con metodologia assai discutibile, gli era stato in precedenza descritto.
ADR. Lei mi chiede a questo punto di dire se conosco particolari motivi per cui fu commesso l'omicidio del 1983. Io quel che sapevo l’ho già detto. Lei mi chiede se ho mai sentito dire da Pacciani o da Vanni se l'omicidio del 1983 ai danni dei due uomini tedeschi era stato fatto perché all'epoca c'era qualcuno in carcere. Io di questo non ho sentito parlare.
Si dà atto che l'Ufficio informa il LOTTI che le indagini hanno fornito elementi in proposito.
ADR.Io questa cosa non la so.
Come si vede, Lotti dichiara di non saper nulla dell’argomento, ma i suoi interlocutori gli dicono che invece dovrebbe, poiché “le indagini hanno fornito elementi in proposito”. La qual cosa lo mette in agitazione. Così continua il verbale:
Si dà atto a questo punto che il Lotti si manifesta agitato e dice, come del resto ha fatto più volte sino ad ora, di soffrire di un dolore alla schiena che lo preoccupa da diversi giorni e che gli ha impedito di rispondere all'interrogatorio del 28 Maggio u.s..
Si dà atto a questo punto che l'interrogatorio viene sospeso dalle ore 18.45 alle ore 19.00 ed in tale lasso di tempo il difensore ha chiesto ed ottenuto di parlare con il proprio assistito.
Dopo la quanto mai opportuna pausa vengono riaffrontati alcuni argomenti, dei quali qui interessa quello dell’omicidio di Giogoli.
ADR. Voglio ancora a questo punto precisare qualcosa che non ho spiegato prima con riferimento all'omicidio ai danni dei due uomini tedeschi. Effettivamente il Vanni prima dell'omicidio mi disse che dovevano fare sortire uno dal carcere e che bisognava andare a fare l'omicidio. Mi costrinsero quindi ad andare con loro nei modi che ho già descritto.
ADR. Io non so dire, perché non me lo hanno detto, chi aveva costretto Pacciani e Vanni a fare quell' omicidio.
ADR. Non conosco il motivo per il quale il Pacciani dovette fare quanto gli era stato chiesto. Il Vanni mi diceva che Pacciani doveva fare un omicidio sennò tutti e tre noi eravamo coinvolti ma non spiegò altro.
ADR. Non so dire come Pacciani avesse ricevuto il messaggio e da chi. In sostanza Vanni diceva: "O FACCIAMO SORTIRE QUELLO DI CARCERE O CI ANDIAMO DI MEZZO NOI". Non mi hanno spiegato altro. Io per la verità capivo poco perché dovevo andare sempre con loro ma oramai sapevo che ero anche io coinvolto e quindi andai con loro quando uccisero i due tedeschi seguendoli in macchina come ho detto.
ADR. Vanni non mi ha spiegato ed io non l’ho chiesto, come e perché il Pacciani fosse legato a quello in carcere.
Lei mi chiede a questo punto di spiegare cosa mi disse il Vanni di questa persona dal momento che all'epoca dopo l'omicidio dei due uomini tedeschi fù scarcerato un sardo e che all'epoca parlarono di ciò i mezzi di informazione. Io di questa cosa so solo quello che mi disse il Vanni e che quello che era in carcere che conosceva Pacciani poi fù scarcerato. Di nomi, di circostanze e di fatti precisi non so altro.
Mi vengono a questo punto mostrate quattro foto, di cui due di profilo, raffiguranti VINCI Francesco, che vengono allegate al verbale, e mi viene detto che raffigurano la persona che all'epoca fù scarcerata. Io devo dire che questa foto mi ricorda qualcuno che ho visto ma non sono proprio sicuro. Lei mi chiede di spiegare meglio ed io Le dico che ho la sensazione di avere visto una persona che assomiglia a quella della foto dell'uomo con la barba. Non so dire di più anche se Lei mi invita a riflettere. È una persona che credo assomigli a qualcuno visto in giro a S.Casciano non so dire dove né con chi.
Come si vede, già quei quindici minuti di pausa e il colloquio di Lotti con il proprio avvocato avevano fatto cambiare alquanto la musica. Ma il bello doveva ancora venire (“Ha capito molto bene cosa si attendono da lui i magistrati”, avrebbero scritto Fornari e Lagazzi). Dal verbale riassuntivo (vedi) dell’interrogatorio di un mese dopo, 15 luglio (qui la trascrizione completa):
Si dà atto preliminarmente che il PM è stato avvertito telefonicamente dal Dirigente la Squadra Mobile che il Lotti nel pomeriggio alle ore 18 dopo un colloquio con il proprio difensore di fiducia ha manifestato la volontà di riferire al PM altri particolari importanti a sua conoscenza relativi ai fatti per i quali è indagato.
Si dà atto che in primo luogo il Lotti ha subito dichiarato di essersi ricordato in questi giorni di altri fatti a suo giudizio importanti e relativi ai fatti di indagine e che ha subito riferito di essersi ricordato il nome e cognome della persona che era in carcere quando fu commesso l'omicidio del 1983 che fu eseguito da Pacciani e Vanni nei modi già descritti proprio per scagionare questa persona che nel 1983 era in carcere perché accusata di essere il Mostro di Firenze; tale nome è quello di VINCI FRANCESCO e gli fu fatto dal Vanni.
In proposito ha poi precisato che questa persona il cui nome gli fu poi fatto dal Vanni lui l'ha vista due volte a San Casciano: una volta era da solo e una seconda volta era in compagnia del Vanni.
Ha poi precisato che la prima volta vide quest'uomo in San Casciano nella piazza dell'orologio e vide che proveniva dalla parte della trattoria dirigendosi in giù verso il Comune. Quando vide questa persona il Lotti era seduto di faccia al bar centrale di piazza dell'orologio e non ebbe modo di vedere da dove esattamente questi provenisse nè dove andasse al di fuori delle direzioni indicate. Non ebbe modo di vedere se aveva nei pressi un mezzo di locomozione avendolo visto a piedi.
Ha precisato che questa persona aveva la barba perché la vide di fronte ed è quella raffigurata nelle due foto in alto di profilo e di fronte che già gli erano state mostrate e che erano state allegate nel verbale di interrogatorio del 12 giugno 1996 che vengono allegate in copia al presente verbale redatto in forma riassuntiva.
Possiamo osservare che la telefonata con la quale Giuttari annunciava al PM il desiderio di Lotti di essere interrogato lascia poco tranquilli: il superpoliziotto si era limitato a un passa parola oppure il suo ruolo, nelle ore precedenti il colloquio di Lotti con il proprio difensore, era stato un po’ più incisivo? La domanda è legittima, essendo il presunto pentito a completa disposizione della polizia giudiziaria nel suo rifugio protetto, e anche perché, nella trascrizione dell’interrogatorio, a domanda di Canessa: “Come le è venuto in mente questo nome?”, Lotti rispose: “No, mi è venuto in mente durante il colloquio, mi ha ricordato, mi è venuto in mente... No, mi è venuto in mente oggi...”. Un colloquio di quello stesso giorno, quindi, ma quale, quello delle 18 con il proprio difensore o uno precedente con un funzionario o agente di polizia? Il lettore si risponda da sé.
Ma proseguiamo con il verbale.
Si dà atto che il Lotti non è stato in grado di precisare l'epoca in cui vide questa persona ricordando solo che si trattava di ora diurna. Ha poi aggiunto che la stessa persona la vide dopo circa una settimana sempre di giorno nei pressi del bar centrale in compagnia di Mario Vanni. Ha precisato che in quell'occasione non si avvicinò ai due che camminavano uno accanto all'altro e che si allontanarono senza che il Lotti avesse l'opportunità di parlare con loro.
Si dà ancora atto che il Lotti ha dichiarato che dopo il giorno in cui vide il Vanni insieme a questa persona con la barba in piazza a San Casciano quando successivamente incontrò il Vanni gli chiese chi fosse quella persona con la barba ed in quella occasione il Vanni gli riferì che era colui che avevano fatto uscire dal carcere commettendo l'omicidio del 1983.
Il Lotti è stato invitato a ricordare il periodo in cui vide nelle due occasioni dette la persona poi indicata dal Vanni per Vinci Francesco ma il Lotti ha dichiarato di ricordarsi che ciò avvenne tanto tempo fa dopo l'omicidio del 1983 non sapendo precisare quando dato il lungo tempo trascorso. È stato chiesto al Lotti di precisare se dal Vanni aveva saputo chi fosse veramente e cosa facesse il Vinci Francesco e il Lotti in sintesi ha riferito che il Vanni non voleva dire niente in proposito nonostante che esso Lotti lo scalzasse e che il Vanni alla fine disse solo il nome e cognome Vinci Francesco spiegando che era un sardo e niente altro.
Ecco quindi la versione finale, questa volta ricca di gustosi particolari, uscita dopo un mese durante il quale Lotti aveva avuto tutto il tempo di riflettere sulle sue convenienze di collaboratore di giustizia. Prima nel corso dell’incidente probatorio, poi in dibattimento, gli vennero poste molte domande su questa storia. L’esame delle sue mezze risposte – e dei penosi tentativi di chi tentava di fargli dire qualcosa di significativo – è la dimostrazione inequivocabile che stava mentendo. Tra l’altro si contraddisse su diversi particolari, tra cui quello di chi gli avrebbe fatto il nome di Vinci: Vanni in istruttoria e prima Pacciani poi entrambi in dibattimento.
Sgangarella venne convocato al processo e ascoltato il 20 ottobre 1997. La relativa trascrizione non è tra quelle disponibili in “Insufficienza di prove”, in compenso su Youtube è presente la registrazione dell’audio originale (vedi). Il 10 ottobre precedente era stato ascoltato Giovanni Calamosca (anche in questo caso niente trascrizione ma audio originale, vedi), il pastore amico di Francesco Vinci entrato nella vicenda già fin dal 1982, quando Vinci venne arrestato proprio mentre si trovava a casa sua. Non è il caso di dilungarsi troppo sulle sue “rivelazioni” di passaggi di pistola, ricatti di Vinci ai mandanti e compagnia bella, basti dire che neppure i giudici, così ben disposti verso l’accusa, gli credettero, né a lui né a Sgangarella, come riporta la sentenza:
Ma i predetti Calamosca Giovanni e Sgangarella Giuseppe, che hanno riferito notizie di maggior peso, sono persone di scarsa attendibilità, per l'intrigo delle loro vicende giudiziarie, per la tendenza a fare valutazioni personali su ogni situazione e, comunque, per il loro modo dire e non dire le cose, per cui tutto quanto da loro riferito resta alla fine in una situazione di estrema incertezza. D'altra parte, nessun riscontro è stato possibile acquisire sulle loro dichiarazioni, per la intervenuta morte dello stesso Francesco Vinci (assassinato ne! 1994) e per la mancanza di risultati da parte dei mezzi di prova disposti anche ex art.507 CPP.
Sicché, in relazione a quanto precede e nell'impossibilità di acquisire “aliunde” ogni altro elemento utile, tutto resta nebuloso e vago, per cui la tesi del Lotti, circa la finalità di far uscire Francesco Vinci dal carcere con gli omicidi di “Giogoli”, non può essere né esclusa né confermata.
Nel tentativo di associarle alla vicenda dei delitti del Mostro, sulle morti violente di Francesco Vinci, Angelo Vargiu, Milvia Mattei, Milva Malatesta e il figlioletto Mirko sono state dette e scritte tante sciocchezze. E si continua a dirne e a scriverne (tra le ultime quelle di Luciano Malatesta, fratello di Milva, vedi). Il buonsenso ci dice invece che Vinci e Vargiu furono uccisi per qualche sgarro compiuto nell’ambito della loro endemica attività delinquenziale (vedi), mentre le ragioni delle morti violente di Milvia Mattei (vedi) e Milva Malatesta (vedi) vanno ricercate nel mondo della prostituzione.
Il presunto omicidio di Pacciani. Mentre Giuttari aveva di che riflettere sulla pochezza degli elementi a sua disposizione, i mesi passavano senza eventi di rilievo. Fino alla fine di marzo 2001, quando l’investigatore decise di passare all’azione, riesumando i dubbi già espressi tre anni prima sulla morte di Pacciani.
Pietro Pacciani era uscito dal carcere, da innocente, nel febbraio 1996, senza aver trovato nessuno ad aspettarlo. Le figlie se ne erano andate da tempo, mentre la moglie era stata quasi sequestrata – non si sa bene da quale autorità e in base a quale diritto – e condotta in una struttura a lui sconosciuta. Viveva quindi da solo, nell’abbandono più completo, recluso in una casa piena di sporcizia. Non passò molto tempo prima che le sue già precarie condizioni di salute lo portassero alla morte. Aveva 73 anni. (qui i servizi della “Nazione” sull’evento).
Avvertiti da un vicino, nel primo pomeriggio del 22 febbraio 1998 il maresciallo Arturo Minoliti e il suo collaboratore Andrea Catena, della caserma carabinieri di San Casciano, rinvennero il cadavere di Pacciani disteso sul pavimento di casa sua. Si legge nel relativo verbale: “Dinanzi al tavolino, verso il fondo della camera, all’altezza della porta d’ingresso del vano bagno, posto a sinistra dell’ingresso della camera, ‘bocconi’ si rinveniva una persona di sesso maschile che presentava i pantaloni abbassati fino a sotto i glutei e la maglia parzialmente sollevata”. Il decesso risaliva alla notte stessa, come stabilì l’anatomopatologo Giovanni Marello, intervenuto poco dopo, per il quale era anche ipotizzabile una presunta causa di morte: collasso cardiocircolatorio. “Cause naturali? Mah, aspettiamo gli esami...” commentò Canessa a caldo, e Giuttari dopo l’autopsia che aveva confermato l’infarto: “Andiamoci cauti, qualcosa non torna, come le macchie trovate sulle spalle di Pacciani”. Fu ordinata una perizia tossicologica, del cui esito non si ha notizia, quindi si deve ritenere che non venne trovato nulla riguardo una possibile assunzione di sostanze nocive. In ogni caso per il momento la procura non formulò alcuna ipotesi di reato e non aprì alcun fascicolo. Che però fu aperto tre anni dopo. Da “Repubblica” del 29 marzo 2001:
Pietro Pacciani potrebbe essere stato ucciso. La Procura di Firenze ha aperto oggi un fascicolo contro ignoti per la morte dell'agricoltore accusato degli omicidi del “mostro” di Firenze e morto nel 1998 in attesa del secondo processo d'appello. Testimonianza chiave sarebbe quella di Carmelo Lavorino, uno degli investigatori del pool difensivo di Pacciani, convinto, oggi come due anni fa, che l'uomo fosse stato “portato verso la morte giorno dopo giorno, goccia dopo goccia”.
Lavorino è stato ascoltato oggi dal capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, come persona informata sui fatti. E ha aggiunto nella sua testimonianza che potrebbe essere stata una sostanza, forse un farmaco, assunta nel tempo da Pacciani a provocarne la morte. Ad avallarne l'ipotesi il fatto che il cadavere, trovato nella casa di Mercatale il 22 febbraio 1998, sul pavimento, in posizione prona, avesse le macchie ipostatiche (quelle che si formano sulla parte del cadavere rivolto verso terra) sulla schiena e non solo sull'addome.
Carmelo Lavorino, il vulcanico ed eclettico personaggio – investigatore, criminologo, maestro di karatè e altro – che aveva fatto parte del pool difensivo di Pacciani in appello, non era nuovo a interventi clamorosi e a volte fuori dalle righe; l’apice lo aveva raggiunto nel 1992 con la pubblicazione del libro Il Mostro di Firenze – La teoria finale, dove individuava l’assassino nel povero Natale, che quindi avrebbe compiuto il suo primo delitto, quello del 1974, quando aveva 13 anni! Pare di vederlo, a cavallo della sua bicicletta, raggiungere Borgo San Lorenzo partendo dall’istituto di Firenze dove risiedeva…
Che Pacciani potea essere stato ucciso tramite un veleno Lavorino lo aveva dichiarato ai giornali già all'indomani del fatto. Si legge sulla “Nazione” del 23 febbraio 1998:
La sua morte conviene a qualcuno, in tutto quello che è successo ci vedo lo zampino del vero Mostro. Se è morto per motivi non naturali si tratta di un delitto perfetto.Ora un’autopsia mirata alla ricerca di agenti invasivi esterni è necessaria per sapere tutta la verità. E proprio per ciò ci stiamo muovendo per contattare un nostro esperto in veleni.
Su delega di Canessa, il 29 marzo 2001 Giuttari andò a Roma a sentirlo, ottenendo la conferma dei suoi sospetti e una memoria chiarificatrice di cinque pagine. Considerando il ruolo di consulente della difesa nel processo d’appello e le sempre feroci critiche alle indagini, si deve per forza pensare che il punto di vista di Lavorino sui responsabili del presunto omicidio fosse esattamente opposto a quello di Giuttari. Ma stranamente sembra che i due si fossero trovati molto d'accordo. Ecco le dichiarazioni di Lavorino riportate dal “Corriere della sera” del 31 marzo 2001:
Ieri a Roma ho avuto un incontro col dottor Giuttari. Non posso entrare nei particolari del nostro colloquio, ma sono certo che le indagini seguono una pista che converge con la mia. A mio avviso si è arrivati alla fase finale del secondo livello. Si ritiene che esista un mandante dei duplici delitti e di altre morti rimaste misteriose, una specie di gran sacerdote con personalità e cultura superiori a quella dei "compagni di merende". Si era creata un’organizzazione di guardoni, di personaggi che studiavano i posti dove colpire, di altri che facevano da palo. Erano tutti agli ordini di qualcuno che poi interveniva per uccidere. Questo personaggio frequentava forse la casa colonica di Faltignano, una specie di corte dei miracoli, dove oltre a Pacciani e i "compagni di merende" si davano appuntamento prostitute, guardoni.
Forse fu proprio la testimonianza di Lavorino a fornire a Giuttari e Canessa il principale pretesto per aprire un fascicolo contro ignoti sulla presunta uccisione di Pacciani, nel cui ambito venne subito commissionata una perizia tecnica. Furono pertanto sottoposti ad attento esame tossicologico alcuni reperti prelevati all’epoca dal cadavere, alla ricerca di veleni e farmaci, con un risultato che, secondo i giornali di cinque mesi dopo, pareva inequivocabile: Pacciani era stato ucciso. Ecco che cosa ne scrisse “la Repubblica” del 31 ottobre 2001:
Pacciani ucciso da un farmaco. Non un semplice infarto, ma un omicidio “pulito”, silenzioso e camuffato. Ora non è soltanto un'idea per rileggere in modo diverso la morte di Pietro Pacciani, ma un'ipotesi puntellata da una perizia tecnica richiesta dalla procura e ieri mattina consegnata nelle mani del sostituto procuratore Paolo Canessa, pm dell'inchiesta sui delitti del mostro. Per mesi, i tossicologi forensi Francesco Mari e Elisabetta Bertol hanno analizzato liquidi organici e passato al setaccio la grande quantità di medicine trovate a casa Pacciani. Risultato: ottanta pagine di relazione. Ieri il pm ha ritirato la perizia e imposto il silenzio totale sui risultati. «Vogliamo leggerla con grande attenzione» dicono in procura. Ma dal buio del top secret, qualcosa trapela e quel qualcosa racconta una storia sospetta che spalanca la porta all'ipotesi dell'omicidio. Un mese dopo le anticipazioni di Repubblica sulla perizia, arriva dunque la conferma. Sotto accusa c'è un farmaco, una medicina prescritta a Pacciani nell'ultimo anno di vita che sarebbe stata controindicata per un soggetto come lui, cardiopatico, obeso, piegato dal diabete. Un farmaco che se assunto per troppo tempo ed in quantità eccessiva sarebbe divenuto fatale per un uomo di 73 anni con tre infarti alle spalle. E invece tracce di quella sostanza sarebbero state trovate nei liquidi organici di Pacciani, dando nuovo vigore all'ipotesi di una morte indotta, con passo lento ma inesorabile, pillola dopo pillola.
Una morte naturale. In realtà, nonostante i toni ottimistici trasmessi ai giornali, i risultati della perizia tecnica non portarono ad alcuna clamorosa novità, poiché del presunto omicidio di Pacciani non si sarebbe sentito più nulla, se non nei libri di Giuttari. Da Confesso che ho indagato:
Pacciani è riverso sul pavimento della stanza, con i pantaloni abbassati fin sotto i glutei, la maglia sollevata sul petto e, ai piedi, un paio di scarpe sporche di fango.
Il medico informa il sostituto procuratore che, a suo dire, il decesso risale all'una circa della notte precedente. E che la causa della morte sarebbe un probabile arresto cardiocircolatorio. [...]
Intanto i carabinieri informano il sostituto procuratore di essere accorsi subito dopo aver ricevuto una telefonata da un vicino di casa, di aver trovato completamente spalancate sia le due porte d'ingresso sia le finestre e di aver visto sul pavimento della cucina, dove regna un disordine indescrivibile, un blister di pillole medicinali. Le luci erano tutte spente.
Qualcosa non mi torna. Abbiamo saputo dai vicini e accertato durante le intercettazioni telefoniche che all'imbrunire Pacciani era solito sbarrare porte e finestre e chiudersi all'interno senza ricevere nessuno.
Mi domando perché le luci fossero tutte spente, soprattutto considerando che la morte risalirebbe all'una di notte. Mi sembra strano che Pacciani si sia mosso al buio, e con porte e finestre spalancate.
Continuo a fissare il cadavere soffermandomi sulla maglia arrotolata. È come se qualcuno lo avesse trascinato sul pavimento, una caduta improvvisa per un malore non avrebbe sicuramente quell'effetto su un indumento. Anche il sostituto procuratore s'insospettisce per quel dettaglio e chiede ai carabinieri e al medico se per caso sono stati loro a spostarlo. Nessuno di loro lo ha fatto, quindi il sostituto chiede di girare il corpo. Ci sono macchie ipostatiche dove non avrebbero dovuto esserci, prova inconfutabile che il cadavere è stato spostato dopo la morte.
È ormai quasi certo: non si tratta di morte naturale, avvenuta per caso un sabato notte. Casualmente la giornata della settimana preferita dal Mostro.
Come si vede la fantasia dello scrittore ex investigatore galoppa, purtroppo però contro la logica. Si deve innanzitutto osservare che i molti particolari che nello scenario gli paiono sospetti, in realtà sospetti non lo sono per nulla. Tra i sintomi di un infarto in corso, che il più delle volte non è fulminante, ci sono pressione al petto, mancanza d’aria e sudorazione, i quali ben spiegano il perché Pacciani avesse aperto porte e finestre e avesse tentato di togliersi la maglia, mentre le luci spente possono giustificarsi con la paura che i vicini potessero vederlo, oppure anche soltanto con la difficoltà di trovare gli interruttori mentre stava cercando di raggiungere il bagno. Pacciani, infatti, era stato colto da un episodio di grave diarrea – come dimostravano le numerose tracce di feci riscontrate sugli indumenti e su varie parti del corpo –, importante concausa della morte.
Ci sono poi le macchie ipostatiche trovate sulle spalle, secondo Giuttari incompatibili con la posizione bocconi di rinvenimento del cadavere. Al tempo i giornalisti, messi a conoscenza di tali perplessità, erano andati a chiedere spiegazioni a Marello, che così aveva risposto (“la Repubblica”, 24 febbraio 1998): “C’è una spiegazione, il sangue era molto fluido. La presenza delle macchie ipostatiche è legata a fenomeni cadaverici. Le lievi manipolazioni subite nell’intervento del medico d’urgenza possono esserne la causa”.
A questo punto andiamo a leggere qualche passo della relazione autoptica, consegnata in procura da Marello il 28 aprile 1998. Partiamo dalla descrizione del corpo ancora in loco.
Il cadavere giace prono nella stanza antistante il bagno con la testa rivolta verso la porta del bagno. Gli abiti sono composti, ad eccezione dei pantaloni che appaiono calati al terzo medio superiore delle cosce. Sollevati gli abiti è possibile evidenziare a livello delle ragioni corporee antideclivi la presenza di ipostasi di colore rosso vinoso, improntabili, la rigidità cadaverica è ovunque presente, al termotatto è possibile ancora apprezzare residui di temperatura corporea a livello sotto-ascellare. Ribaltato il cadavere si apprezzano marcate ipostasi nelle regioni declivi, ancora improntabili, il volto appare deformato dalla lunga permanenza in posizione prona.
Le macchie ipostatiche sulle spalle non pare avessero suscitato particolare interesse nell’anatomopatologo, la qual cosa, fossero state rivelatrici di manipolazioni del cadavere, risulterebbe poco comprensibile.
Vediamo adesso l’esame preliminare del corpo la mattina del giorno dopo nel laboratorio di medicina legale.
II cadavere giace supino sul tavolo anatomico ed è rivestito dai seguenti indumenti:
- maglioncino azzurro con imbrattamento a livello della faccia ventrale di entrambi gli avambracci;
- camicia scozzese con imbrattamenti fecali nel bordo posteriore;
- camiciola lana;
- pantaloni grigi imbrattati di feci, con patta sbottonata e cintura di cuoio agganciata al quarto foro;
- presenza di due boxer legati fra loro mediante una stringa con imbrattamenti fecali;
- a sinistra, calza di colore azzurro;
- a destra, calza di colore verde marcio;
- presenza di scarpe in cuoio slacciate.
Probabilmente Pacciani era stato colto da malore mentre si trovava disteso sul letto con tutti i vestiti addosso, escluso le scarpe che si era infilato prima del tentativo di raggiungere il bagno.
Si legge ancora nel documento:
L’esame autoptico evidenziava una grave coronarosclerosi con esisti multipli di pregressi infarti miocardici in soggetto con verosimile episodio diarroico. […]
Nel caso in esame ci troviamo di fronte ad una patologia gastrointestinale costituita da diarrea profusa (come evidenziato in corso di sopralluogo) che può avere contribuito e determinare una marcata ipotensione con conseguente deficit cinetico del ventricolo sinistro.
Il deficit cinetico del ventricolo sinistro può provocare una improvvisa congestione ipertensiva nel piccolo circolo, con dispnea parossistica o edema polmonare acuto, spesso mortale e in genere più frequente nel periodo iniziale.
L'abbassamento della pressione arteriosa può essere tale da configurare un proprio collasso cardiaco.
Poiché la circolazione coronarica è prevalentemente diastolica in caso di ipotensione si assiste ad una riduzione del flusso coronarico che non è più in grado di superare le stenosi presenti a livello vasale.
Inoltre in caso di diarrea profusa si determinano delle alterazioni elettrolitiche (riduzione del potassio) che sono spesso causa di aritmie che in corso di infarto rappresentano l’episodio mortale.
In sostanza Marello scrisse che Pacciani era un soggetto già infartuato, con gravi alterazioni delle arterie coronarie, quindi in una condizione di altissimo rischio. L’episodio di diarrea, probabilmente influenzale, era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, causa immediata dell’infarto. Queste le conclusioni sulle cause della morte, fatta risalire circa alle ore 22.30:
La morte è dovuta ad insufficienza cardiaca con edema polmonare in recente infarto del miocardio in soggetto con cardiomegalia per ipertrofia ventricolare sinistra e sfiancamento globale di cuore, affetto da arteriosclerosi polidistrettuale a particolare incidenza a livello coronarico e cerebrale ove è presente una atrofia corticale con dilatazione ventricolare ed edema. Il Pacciani presentava esiti di pregressi infarti ed erano presenti segni di anasarca e di notevole stasi con epatomegalia con aspetto a noce moscata oltre a gastrite emorragica diffusa, cistite ed ipertrofia prostatica.
Torniamo però ai sospetti di un possibile omicidio. I controlli su tutto il contenuto della casa erano stati molto scrupolosi, come aveva confermato lo stesso Giuttari (“La Nazione”, 27 febbraio 1998):
Nella casa di Pacciani abbiamo sequestrato anche il vino, il latte e il cibo affinché tutto sia sottoposto alle analisi di laboratorio. Il dottor Canessa ha disposto prelievi completi sul cadavere proprio per gli esami clinici. Nulla è escluso e nulla verrà trascurato. Tutto sarà fatto con il massimo scrupolo, ma per adesso non è possibile sbilanciarsi. Preferisco che a parlare siano i fatti.
Abbiamo visto che le analisi tossicologiche effettuate nell’immediato non avevano dato risultati. Ma allora, perché tre anni dopo si parlò di “farmaco killer”, con il quale Pacciani era stato avvelenato poco alla volta? In realtà tale farmaco era un semplice antiasmatico, l’Eolus, che Pacciani teneva in casa in forma di bomboletta spray, alla quale probabilmente si era attaccato prima della morte poiché faceva fatica a respirare. Con una ricetta datata 19 aprile 1997, a prescriverglielo era stata la sua dottoressa di base, Anna Maria Gambassini, sentita già il 25 febbraio 1998. Il 31 ottobre 2001 venne convocata di nuovo. Dal relativo verbale:
Mi viene mostrata la fotocopia di una ricetta con la prescrizione del farmaco “Eolus” con due confezioni. La ricetta è a firma mia. La riconosco e quindi sicuramente sono stata io a prescrivere questo medicinale in Spray, che all’epoca prescrivevo spesso ai miei pazienti con problemi di respirazione. Presumo che al Pacciani lo prescrissi per un problema bronchiale.
L’Eolus è stato sempre un farmaco fornito dalla Regione gratuitamente e, come si può vedere sulla confezione, è anche abbastanza caro, essendo il suo prezzo di oltre centomila lire.
Non ricordo questo farmaco come un farmaco solitamente prescritto al Pacciani per cui ritengo che lo abbia prescritto solo quella volta e, comunque, che si sia trattato di una prescrizione occasionale.
Nessun mistero, quindi, su un farmaco che aveva sì controindicazioni per i sofferenti di cuore, ma non certo gravi. Da una semplice ricerca in rete si scopre che viene solo raccomandata “particolare cautela” per l’uso da parte di tali pazienti, senza però rigidi divieti. In ogni caso, ammesso e non concesso che fosse stato l’uso eccessivo dell’Eolus a provocare o facilitare la morte di Pacciani, certamente non c’era dietro alcun delitto premeditato, per il quale un semplice veleno sarebbe stato molto più sicuro ed efficace.
In una recente intervista ha dichiarato Giovanni Marello (vedi qui al minuto 25):
Un altro elemento di folklore è la morte del Pacciani. La morte del Pacciani è stata un po' etichettata da qualcuno come un tentativo di soppressione da parte di terzi, sono stati ipotizzati avvelenamenti e cose del genere. In realtà io ho eseguito l'autopsia del Pacciani e il Pacciani è morto di cause naturali. È morto di cause naturali in quanto aveva un cuore bovino, un'ipertrofia cardiaca massiccia con tutta una situazione correlata di scompenso cardiaco che non è correlabile con una morte per avvelenamento. Questo farmaco che lui assumeva è un farmaco che praticamente non è stato ritrovato nel sangue. Per cui non essendo stato ritrovato nel sangue ma soltanto all'interno del contenuto gastrico non ha nessun tipo di significato dal punto di vista anche di una patogenesi nei confronti della morte.
Ma proviamo a immaginare dove le perplessità di Giuttari riguardo porte e finestre aperte in pieno inverno, luci spente, maglia arrotolata, macchie ipostatiche sulle spalle e infine uso di Eolus potrebbero condurre, disegnando un ipotetico scenario in tal senso.
Qualcuno che lo voleva uccidere avrebbe convinto Pacciani a usare il “pericoloso” farmaco antiasmatico, del quale l’individuo effettivamente aveva richiesto la necessaria ricetta al proprio medico di base. Dopo quasi un anno di inalazioni finalmente Pacciani venne colto dall’auspicato grave infarto. E proprio in quel frangente, nella “giornata della settimana preferita dal Mostro”, lì con lui ci sarebbe stato il suo carnefice, che, non si sa per quali motivi, avrebbe aperto porte e finestre e, a luci spente, trascinato e poi girato bocconi il cadavere. Ma non subito, poiché delle macchie ipostatiche avrebbero avuto il tempo di formarsi sulle spalle.
Il lettore valuti per proprio conto la plausibilità dello scenario.
Epilogo. Se di per sé l’apertura di nuove indagini sulla morte di Pacciani non portò ad alcun risultato, in modo indiretto provocò invece grandi conseguenze. Il 31 marzo del 2001 giunse infatti in questura un fax, che così recitava:
Ill.mo Capo della Squadra Mobile Dott. Michele Giuttari Firenze.
La sottoscritta Gabriella Pasquali Carlizzi chiede alla S.V. di essere ascoltata come persona informata sui fatti, nell’ambito delle indagini relative alle cause della morte di Pacciani Pietro.
Vedremo tutto in un prossimo articolo.
Magari se non avessero, non so quale termine usare, "invitato", la povera Angiolina ad andare via di casa, magari Pacciani sarebbe sopravvissuto. E ci saremmo risparmiati l'ennesima grottesca indagine sul nulla. Tra l'altro sarebbe interessante capire con quale diritto, e per ordine di chi, la donna venne allontanata dalla sua casa. Spero che almeno la affidarono alle figlie.
RispondiEliminaGiusto. Si tratta di una storia poco chiara, della quale non ho trovato documentazione.
EliminaE una donna che vuole andare via di casa perché non vuole più vivere con il marito viene fatta sparire nel nulla dalle forze dell'ordine, su palese ordine della procura tra l'altro? Se non ricordo male nemmeno gli avvocati di Pacciani riuscirono a scoprire dove fosse la donna, con tanto di denuncia per rapimento, o scoparsa, presentata dal marito. Conosce dei casi analoghi Marletti? A me sembra sinceramente una vendetta per l'assoluzione, sacrosanta, di Pacciani.
EliminaX Lorenzo Franciotti. Erroneamente ho eliminato la tua risposta. Riscrivila.
EliminaNiente di grave Antonio. Semplicemente mi chiedevo come mai una donna che, a quanto ne sappiamo, non ha sporto denuncia nei confronti del marito, venga fatta sparire nel nulla dagli inquirenti. Se voleva andare via di casa poteva tranquillamente andarsene prima della sentenza, per precauzione. Non è affatto credibile che gli inquirenti temessero per l'incolumità della donna, visto che non aveva danneggiato Pacciani in alcun modo. Fosse stato cosi, non avrebbe avuto senso lasciarla insieme al marito dopo la scarcerazione di questi per la questione delle figlie. Se fossero stati così comprensivi per le violenze subite in passato, vere o presunte, avrebbero cercato di proteggerla, invece di organizzare quella sceneggiata terribile in Tribunale.
RispondiEliminaSpero abbia ragione. Ma ne dubito. Non ebbero scrupoli quando portarono a testimoniare una donna totalmente inferma di mente che non ricordava nemmeno quanti anni avesse. A me sembra solo l'ennesima forzatura contro Pacciani. Certo, ovviamente non la più grave.
RispondiEliminaBuona sera Antonio. La seguo da tanto e apprezzo molto il suo lavoro. Le avevo mandato un messaggio qualche settimana fa ma forse non lo ha visto. Riguardo all'argomento in questione l'altra sera nella trasmissione La notte del mistero il figlio dell'avvocato Fioranvanti ha smetito con decisione l'esistenza della ricetta per l'Eolos cosa che, con mia grande sorpresa, ha fatto anche il prof. Marello in uno speciale andato in onda su Nove poco tempo fa. Dove sta la verità?
RispondiEliminaNon dispongo della fotocopia della ricetta, ma ho quella del verbale qui trascritto firmato dalla dott.ssa Gambassini, dove se ne parla, quindi mi riterrei sicuro della sua esistenza.
EliminaNon ho presente il suo precedente messaggio, se l'ho ricevuto l'ho anche pubblicato, cestinando soltanto quei pochi offensivi che ricevo ogni tanto.
In ogni caso la prego di mettere una sigla dentro il messaggio per farsi riconoscere, visto che il suo account google è "unknown".
Grazie della risposta. Scusi ma non bazzico i social quindi non sono molto esperto, francamente non so nemmeno dove devo scriverlo. Mi può chiamare "Il collega". Il Collega è il titolo del mio libro che non c'entra nulla con il mostro. Ma siccome ho dovuto cambiare i nomi delle strade della città nel quale è ambientato ho usato i cognomi dei protagonisti della storia del mostro. Se può divertirla c'è anche via Segnini... E' una storia molto divertente che parla di manie di persecuzioni nel mondo del lavoro e lo può trovare su tutti gli store digitali. "Lanonimo Operaio - Il Collega". Comunque tornando al nostro argomento non capisco proprio perché Marello si sia contradetto.
RispondiEliminaUna volta su una carta geografica dell'Elba vidi "poggio Segnini", mi fa piacere che adesso ci sia anche una via, seppure in un romanzo.
EliminaRiguardo Marello e Fioravanti non so che dirle, questa è una storia dove succede di tutto.
Provvederò a breve per il mio nome, smettendo di vivere nell' età della pietra. A dir la verità, la prima volta che ho provato a contattarla era per ringraziarla perché quando ho partecipato, in qualità di scrittore, alla trasmissione radio "La notte del mistero" ho paragonato il protagonista del mio libro a Mariella Ciulli e ovviamente ho preso tutti i particolari della storia proprio da questo blog. Francamente, di lei, non mi stupisce solo le sempre dettagliatissime e minuziose informazioni che ci descrive ma adoro il modo (a parere di chi scrive molto sarcastiche) in cui le espone. Tornando al Mostro e al post sulle salme di Careggi: ma possibile che anche in questo caso Marello sia stato così contraddittorio?! Ps: proprio per il sarcasmo la invito a leggere il mio libro...
EliminaLa vicenda giudiziaria dei compagni di merenda, oltre ad evidenziare molti limiti strutturali e culturali della giustizia italiana è figlia anche del contesto storico, penso: erano gli anni in cui, dopo Tangentopoli e Palermo (inchieste di ben altra serietà, rigore e consistenza), i magistrati ed i pm erano visti da molti come i grandi demiurghi e purificatori della società. Anche l'idea di esecutori materiali e mandanti, oltre ad essere una teoria surrettizia fragile in questo caso specifico, pare una copiaincolla meccanico e forzato dei clan mafiosi, che ovviamente hanno ben altre finalità e genesi rispetto all'unicum mondiale dei compagni di merende.
RispondiEliminaGiuttari forse non ha capito che i tempi sono cambiati e che quindi le sue teorie ed i suoi rumores (eufemismo) ormai non attecchiscono più. Considerando che gli è andata di gran lusso con i compagni di merende forse gli converrebbe tenersi in disparte senza rimediare altre figuracce.