Eccomi
ancora qui a dover replicare a un nuovo intervento di Giuliano Mignini, pubblicato
il 21 febbraio scorso dal blog “Mostro di Firenze – Un caso ancora aperto”
(vedi;
per sicurezza il testo è salvato in pdf qui)
relativo ai miei ultimi articoli sull’inchiesta Narducci. Il lavoro non mi è troppo simpatico,
non piacendomi per nulla contraddire un magistrato in pensione che difende con
così grande veemenza il suo storico lavoro. Non sono contento neppure per i
miei pochi fidati lettori, che di questo botta e risposta ne avranno di sicuro le scatole
piene. Ma si tratta di un’incombenza alla quale sono costretto, altrimenti non
terrei fede ai propositi dichiarati anni fa all’apertura di questo blog
(vedi),
e da allora sempre onorati. Sarà però l’ultima mia replica sul tema, semmai ulteriori
considerazioni le inserirò a suo tempo in un futuro articolo, dove ripercorrerò
i primi mesi dell’inchiesta, affrontando tra l’altro l’ormai mitica figura
dell’ispettore Napoleoni.
Entriamo dunque nel vivo di questa replica, esaminando lo scritto dell’ex PM suddiviso
secondo i tre capisaldi dell’articolo cui fa diretto riferimento
(Telefonate
minatorie e notizie di reato).
Narducci nelle telefonate.
Scrive Giuliano Mignini:
Ecco la mancanza di competenza. Lei ha visto la consulenza svolta dal dr. Calzoni,
nominato ausiliario di pg più o meno nella primavera del 2002 e, con molta
disinvoltura, ha desunto che quelle fossero le uniche trascrizioni delle
telefonate registrate e allora ha concluso che non potevo avere le
registrazioni un anno prima quando ho aperto il procedimento. Ma le pare che
avrei aperto il procedimento nell’ottobre 2001, utilizzando trascrizioni
sopraggiunte solo nella primavera del 2002? E che di questo si sia “accorto”
solo un tecnico informatico come lei? E nulla abbia osservato il collega
Canessa e tanti altri.
Mi segua. Io la informo di fatti, non di giudizi. L’estetista riceveva le
telefonate minacciose (prima aveva anche subito danneggiamenti) e cominciò a
registrarle su consiglio della Polizia, dapprima il Commissariato di Foligno
poi la Squadra mobile di Perugia. La Polizia, dovendo subito informare il
magistrato delle minacce, ha provveduto a operare una trascrizione urgente e
sommaria delle registrazioni e a trasmetterle di volta in volta, nonché a fare
le indagini. Mi trasmetteva anche le registrazioni che ho ascoltato più volte
insieme ai poliziotti della Mobile. Quindi, le trascrizioni operate in via
d’urgenza dalla Polizia furono fatte proprio nel 2001. Ad esse seguirono, nella
primavera del 2002, le trascrizioni operate dal Consulente dr. Calzoni.
Diamo la parola alle carte, valide di per sé, indipendentemente dalla presunta competenza
di chi le stia esibendo. Come dimostrano i due documenti riuniti in
questo
pdf, l’estetista consegnò le prime due cassette alla questura di Perugia il 29
settembre 2001, e la relativa trascrizione venne ultimata il 23 ottobre
successivo, due giorni prima dell’apertura del procedimento sul presunto omicidio
di Narducci. Non si trattava affatto di una trascrizione “urgente e sommaria”, ma di quella definitiva
allegata agli atti, effettuata dall’ispettore Furio Fantauzzi, dal
sovrintendente Stefano Savelli e dall’ausiliare Giovanni Calzoni (il quale quindi si mise all’opera molto prima
della primavera 2002, come invece affermato erroneamente dall’ex PM). Riguardo il contenuto, il
lettore curioso – nonché maggiorenne – può leggerselo per intero, quello
frettoloso può invece consultare il
seguente
documento, datato 16 giugno 2004, riportante la ricerca dei termini (o meglio: frammenti)
più significativi contenuti nelle prime 18 cassette. Ebbene, nella numero uno –
la due era soltanto una copia parziale di questa – i termini sono: “Pacciani”
e “colline del
Mugello”. Di Narducci neppure l’ombra.
I due documenti riuniti in
questo
secondo pdf attestano invece la consegna delle cassette 3 e 4, sempre in questura, il
giorno 15 novembre 2001, e la relativa trascrizione il giorno 15 dicembre successivo.
A trascrivere furono gli stessi tre poliziotti, compreso l’ausiliare Giovanni
Calzoni, con l’aggiunta dell’assistente capo Salvatore Emili. Tra i termini
significativi emerge soltanto “Pacciani”,
mentre Narducci continua a latitare.
Delle cassette 5 e 6 chi scrive non ha la disponibilità della trascrizione. In ogni
caso non dovevano essere state ritenute utili alle indagini, come dimostra la
loro assenza nel documento di ricerca dei termini significativi.
Prendiamo adesso in esame la cassetta numero 7.
Questo
pdf ne colloca la consegna al 21 maggio 2002 e la trascrizione – operata ancora da Fantauzzi,
Emili e Calzoni – al giorno dopo, 22 maggio. Finalmente, in aggiunta al solito
“Pacciani”,
vi si leggono i primi termini in qualche modo riconducibili a Narducci:
“il dottore”,
“lago”,
“lago Trasimeno”.
È il caso di riportare anche le relative frasi:
“Verrai uccisa e seppellita come l’amico di Pacciani del lago Trasimeno”,
“Guarda il tuo bambino e finirai nel lago uccisa”,
“Tu ricorda il dottore amico di Pacciani”.
Dal verbale di consegna risulta che la Falso
aveva iniziato a ricevere tali telefonate il giorno 18 maggio 2002.
A questo punto abbiamo quindi un dato di
fatto inconfutabile: quando nelle telefonate comparvero i primi riferimenti a
Narducci, erano trascorsi già sette mesi dall’apertura del procedimento
giudiziario riguardante il suo presunto omicidio.
Ma proseguiamo. Dopo una cassetta non significativa, arrivò la numero 9
(vedi),
consegnata il 27 giugno e trascritta il 15 luglio sempre da Fantauzzi, Emili e Calzoni. Qui i
termini significativi aumentano, e tra di essi compare anche quello più
importante,
“Narducci”.
Gli altri sono:
“il grande medico”,
“il dottore”,
“il grande dottore”,
“ammazzato”,
“ucciso”,
“lago”
e infine l’immancabile
“Pacciani”.
La
successiva
cassetta, la 10, venne consegnata il 17 luglio e trascritta il 24 agosto. Frammenti
significativi sono
“come i morti di Firenze”
e vari con radice
“sfregi”.
Questa volta Pacciani fu lasciato a riposo.
Fermiamoci qua, avendo dimostrato ad abundantiam
che le telefonate all’estetista nulla avrebbero dovuto aver a che fare con la
partenza dell’inchiesta Narducci. Che per quella partenza il relativo
procedimento fosse stato preso a semplice pretesto è dunque un fatto storico,
sul quale ognuno può elaborare il proprio personale giudizio. Quello di chi
scrive, che si sente preso in giro, è particolarmente severo.
I telefonisti.
Scrive Giuliano Mignini:
Poi c'è un “capitolo” dal contenuto caotico e pressoché incomprensibile in cui lei
si perde, letteralmente, sui “telefonisti”. Il procedimento si è concluso
definitivamente con la condanna patteggiata di Pietro Bini, un disoccupato di
Foligno o Cannara che, secondo me, si è assunto la piena paternità delle
telefonate, per chiudere la questione nella quale era rimasto coinvolto,
diciamo, un poliziotto.
Sono rimasto sempre perplesso da questa
storia, tutti lo sanno e, a un certo punto, mi sono concentrato sulle indagini
collegate con Firenze e ho lasciato che le ultime udienze le trattasse una vice
procuratrice onoraria. […]
Lei parla di un “toscano” che era
presente nelle telefonate. Io ho sentito solo una voce “appenninica” dell’area
di Foligno e una “piemontese”. Di toscani in quelle telefonate neppure l’ombra.
E se anche ci fosse stata e fosse stata trascurata che rilevanza avrebbe?
L’ex PM parla di
“contenuto caotico e pressoché incomprensibile”.
Di sicuro per lui l’argomento
è molto più chiaro, e le ragioni sono ovvie, ma la documentazione della quale dispone
chi scrive non consente di redigere una cronaca più precisa. In essa rimangono
molti buchi, riempibili soltanto con delle ipotesi; la qual cosa non è per
nulla facile, e fa buon gioco a chi preferisce buttare tutto in caciara. Ma
quel che ne emerge è comunque un quadro assai inquietante. Innanzitutto è bene
sia stabilito un fatto certo: ad affermare che in quelle telefonate c’era un
toscano non sono io, ma i poliziotti che le trascrissero: Fantauzzi, Savelli,
Emili e Calzoni. Nei relativi documenti, fino alla cassetta 9 si legge di un
interlocutore maschile dall’accento toscano (per comodità riporto ancora i
link:
cassette 1 e 2,
cassette 3 e 4,
cassetta 7,
cassetta 9).
Per la cassetta 1 si parla addirittura di
“<H> aspirata tipica toscana”, intendendo probabilmente il "ch".
Poi dalla
cassetta 10
l’accento toscano sparisce, e, per il motivo che ho già spiegato (la doppia “B” di
“subbito”)
probabilmente entra quello denominato “appenninico” dal dottor Mignini.
Edit 1/9/2021.
Da un controllo più accurato è emerso che l'indicazione di accento toscano sparì dalle trascrizioni
con la cassetta 11 – data verbale 19/11/2002 – e che la parola “subbito” nella cassetta precedente
era stata pronunciata dalla voce femminile.
Si dovrebbe dunque pensare che i tre poliziotti incaricati delle trascrizioni – in un caso
quattro – avessero tutti preso un abbaglio? Si tratta di uno scenario francamente
improbabile. C’è piuttosto da chiedersi il perché nessuna telefonata con
quell’accento toscano avesse fatto parte delle 20 del CD fornito ai due esperti
ai quali, il 19 luglio 2005, venne commissionata la perizia fonica
(vedi).
Ce n’erano 6 della donna con accento piemontese e 14 dell’uomo con accento di Cannara,
senz'altro Bini. Evidentemente non interessava indagare su chi ci fosse
dietro quell’accento toscano, la qual cosa porta a sospettare che lo si sapesse
già.
Ci sono altre questioni sulle quali chi finanziò quella perizia fonica e tutte le altre
indagini avrebbe diritto di saperne di più. Quale era stato il ruolo del poliziotto
indagato, un dirigente di buon livello che adesso ha una posizione di grande
responsabilità? Quali le sue motivazioni, e quali i suoi rapporti con i
colleghi fiorentini?
Infine Bini, che non risulta neppure interrogato nell'ambito del procedimento
sul presunto omicidio di Narducci. Non interessava chiedergli se ne sapeva qualcosa?
Tra l'altro gli fu concesso il patteggiamento, a quanto pare
senza pretendere che rivelasse i nomi dei suoi complici. Si tratta di normale amministrazione nei tribunali
italiani? E qual era stato il suo compenso per essersi preso tutta
la colpa? Soldi? Uno scambio di favori?
La notizia di reato.
Scrive Giuliano Mignini:
Lei non ha capito che la notitia criminis per l’apertura del procedimento
17869/01/44 furono le dichiarazioni del medico legale prof.ssa Francesca Barone
che riferì delle lesioni di cui le parlò lo Zoppitelli, mi pare che si
chiamasse così (che era sul pontile) a proposito del cadavere ripescato che, nel
2001, non dubitavamo coincidesse col Narducci.
E che il cadavere (dell’uomo ripescato) presentasse segni di lesioni lo dice anche
l’appuntato dei carabinieri Aurelio Piga che tentò di richiamare l’attenzione
dei presenti ma fu subito bloccato dal questore. […]
Perché, consapevole della sua incompetenza, lei si avventura in un terreno così
“tecnico”? Io non la capisco proprio.
Prima di andare avanti mi si consenta di aprire una parentesi, mettendo da parte
Zoppitelli e prendendo in esame Piga. Ma insomma, la famiglia Narducci avrebbe
avuto la bella pensata di sostituire il cadavere del congiunto con quello
di un uomo di colore 20 centimetri più basso, altrettanti più largo e per di
più con evidenti lesioni? Il tutto al fine di nascondere un omicidio che sarebbe
stato compiuto con la pressione di un pollice sul collo, quindi senza produrre
ferite evidenti? Qui non si tratta di competenza ma di semplice logica, per
la quale non serve una laurea in legge. Peraltro, come anche le
sentenze Pacciani e Vanni dimostrano, non pare che ai magistrati ne venga
richiesta una troppo ferrea.
Ma torniamo a bomba. Nel mio scritto mi pare di aver dimostrato di aver capito
bene che cosa sia una notitia criminis,
in caso contrario mi si dovrebbero indicare gli errori. Sia come sia, a questo
punto conviene comunque ripartire dalla attuale affermazione dell’ex PM:
la notitia criminis del presunto omicidio di Narducci sarebbe nata
dalle dichiarazioni della professoressa Francesca Barone
(vedi).
Su questo argomento ho già scritto, quindi devo purtroppo ripetermi. Leggiamo allora le
dichiarazioni della Barone che avrebbero fatto ipotizzare l’omicidio di
Narducci. Siamo al 22 ottobre 2001:
Per pura casualità incontrai dei pescatori, uno dei quali, di cui non ricordo il
nome, aveva partecipato al recupero del cadavere; quest'uomo […] mi disse che
il cadavere di Francesco Narducci presentava delle macchie rosse, come se
avesse sbattuto contro qualcosa o che comunque avesse subito colpi violenti. Le
macchie erano presenti soprattutto sul volto; il pescatore aggiunse che il
cadavere aveva le mani ed i piedi legati dietro la schiena. Il pescatore mi disse
che dovevano avergli dato tantissime botte per come era ridotto il volto.
Gli eventi narrati si riferiscono al giorno del ripescaggio del cadavere, il 13
ottobre 1985. Il dottor Mignini avrebbe dunque elaborato la notitia criminis sulla base di questo
racconto, sono le sue testuali parole (in effetti il relativo procedimento
venne aperto tre giorni dopo). Ma come, senza neppure verificare chi fosse
questo pescatore e tantomeno interrogarlo? Una scommessa molto azzardata. Se infatti
lo avesse identificato e interrogato, avrebbe anche scoperto che non aveva
visto un bel niente, come ammesso da lui stesso cinque mesi più tardi, dopo un
confronto con la Barone. Si trattava di Giancarlo Zoppitelli, non pescatore ma
imbianchino. Dal verbale del 13 marzo 2002
(vedi):
Ora che ho visto la Prof.ssa Barone ricordo che effettivamente nel pomeriggio del
13.10.1985 riferii a quest'ultima che il cadavere aveva il volto tumefatto, il
naso rotto e le mani legate, ma questo non l'ho visto di persona. L'ho sentito
dire quel giorno da molta gente sul pontile, nel momento del ritrovamento da
persone del paese che hanno ripetuto queste affermazioni anche nel bar
“Menconi”, gestito da tale Menconi, non ricordo se il padre o il figlio. Mi
dispiace di essermi infilato in questo impiccio.
Era dunque questa l’origine della notitia
criminis che avrebbe fatto partire un’inutile inchiesta costata chissà
quanti milioni di euro di noi poveri contribuenti e la sofferenza di tanta
gente? E il cui unico risultato giuridico è la sentenza di archiviazione De
Robertis, nella quale – questo lo si deve riconoscere – la sintonia con il collega
PM risultò perfetta?
Come
mi ero ripromesso, pur disponendo di poco tempo, eccomi qui ad approfondire la
risposta provvisoria
(vedi) alle recenti
rimostranze di Giuliano Mignini riguardanti i miei ultimi articoli sull’inchiesta
Narducci. Nel frattempo l’ex PM è intervenuto ancora
(vedi) con uno
scritto che riporto qui sotto.
Gentile dr. Segnini, la sua risposta mi conferma quello che ho sempre detto. Lei ha una
concezione tutta sua del processo penale e, soprattutto, della sua genesi e
sono costretto a cercare di chiarirlo fermo restando che, di fronte a qualcuno
che ha fatto il magistrato, lei ascolti con la volontà
di capire quello che le sto dicendo del processo visto che lei
non è assolutamente competente in materia giudiziaria come io non lo sono in
ambito medico o ingegneristico. Per mia scelta culturale, mi interesso invece
personalmente di storia, locale e non solo.
Detto questo e riservandomi di risponderle più dettagliatamente in seguito, io le
rispondo subito sui tre punti che lei ha creduto di individuare come critici
nelle indagini da me condotte.
Allora, cominciamo con la genesi delle indagini, un
argomento di cui ho sentito parlare in relazione alle indagini da me condotte
mentre generalmente si parla dell’esito dei processi.
L’inquirente deve partire da qualcosa che è la notizia di reato. C’è una notizia che può
essere riferita dalla polizia giudiziaria, o appresa direttamente dal
magistrato o emersa in altro procedimento e che dà luogo ad un procedimento
distinto.
Il magistrato non sa nulla di questa notizia. Può anche saperne dalle voci
correnti che sono più o meno determinate ma, come tali, non valgono finché non
siano confermate.
La notizia è all’inizio, più o meno circostanziata ma va verificata e le indagini
servono a questo. E deve essere verificata perché in Italia vige il principio
dell’obbligatorietà dell’azione penale.
E allora il magistrato fa le indagini che possono portare alla conferma della
fondatezza della notizia o alla sua negazione.
Quando io dico che è indiscutibilmente indifendibile
quello che è stato fatto sul pontile aggiungo che, per di più, non si trattava
di bazzecole ma di una vicenda che, in ipotesi (per allora), c’era di mezzo la
vicenda del Mostro di Firenze per la quale il Narducci era sospettato sin da
prima della morte come riferito, tra gli altri, dall’App. CC. Pasquale Pierotti.
L’isp. Napoleoni, presente sul pontile, è quello che aveva svolto indagini
relative al Narducci sin dal delitto degli Scopeti.
Ho fatto le indagini e il procedimento principale, quello De Robertis, si è
concluso con l’ordinanza irrevocabile che ha recepito integralmente l’assunto
accusatorio. E questo provvedimento è rimasto in piedi a differenza di quello
Micheli che è stato definitivamente travolto dalla Cassazione che ha salvato il
capo sull’associazione solo per discutibili ragioni di opportunità ma aveva
riconosciuto la fondatezza del mio ricorso anche sull’associazione. Poi i
ritardi gravissimi, sottolineo gravissimi, verificatisi non certo per colpa mia
hanno determinato la prescrizione di tutti i reati meno uno.
E allora ? Di che stiamo discutendo?
Quanto all’aspetto linguistico e, aggiungo, storico, non ha alcuna rilevanza sulle
telefonate Falso. Quanto all’Umbria, esisteva al tempo di Augusto ma non
comprendeva Perugia che era una delle capitali dell’Etruria e andava, l’Umbria
o Sexta Regio, da Assisi fino all’Adriatico. Comunque, a quanto ricordo, le
voci delle telefonate erano tutte dell’Umbria orientale e, quella femminile,
era piemontese ma i dialetti o parlate non seguono quasi mai i confini
amministrativi odierni.
Passiamo alla competenza. Le assicuro che l’inquirente ed io nella fattispecie sono
stato sempre animato dalla ricerca della verità che non è un’opinione.
Per questo, ho pagato, insieme all’amico Giuttari, un prezzo altissimo ma ne sono
uscito vincitore e ora è in piedi una causa di responsabilità civile contro
magistrati della Procura ma soprattutto del Tribunale di Firenze.
Chi non ha fatto il suo dovere, invece, non ha subito danni di sorta. Questa è una
certa Italia.
Chi è competente, ha titolo per parlare di un certo argomento. Chi non lo è, non ha
titolo giuridico.
La saluto.
Perugia 8 febbraio 2021
Egregio dottor Mignini, nel suo precedente intervento lei mi ha rimproverato “la confusione, la
prolissità e la conseguente mancanza di chiarezza dell’esposizione. Scrivere
tanto non serve a nulla”. Non è lo stesso giudizio di altri, ma prendo
comunque atto del suo legittimo punto di vista, di conseguenza in questa sede farò
quanto è nelle mie possibilità per migliorarmi, condensando in un paio di
pagine di Word, o poco più, i miei scritti sulle telefonate minatorie e la partenza
dell’inchiesta Narducci. A beneficio suo, che se vorrà potrà fare le sue
osservazioni, e di tutti quei lettori che non hanno voglia di addentrarsi in una
vicenda narrativamente poco gradevole, nondimeno storicamente significativa. Ma prima sento il bisogno di una
replica sulla questione della competenza in materia giudiziaria, che lei mi
rimprovera di non possedere bocciandomi sul nascere ogni velleità di
analizzare la sua inchiesta. Ne devo arguire che il suo lavoro
possa essere giudicato soltanto da un collega? Mi sembra una pretesa un po’ eccessiva, neppure fosse un trattato di fisica quantistica!
Che io non sia competente in materie giudiziarie è vero, solo però quando per
competenza s’intenda la capacità di esercitare il mestiere di magistrato. Per la
ricostruzione storica che sto cercando di portare avanti, infatti, una laurea
in legge non mi è necessaria, come non mi è mai stata necessaria – mi si
perdoni la digressione – una conoscenza specialistica delle varie materie che in
una ormai lunghissima attività di professionista nel campo del software
applicativo sono stato costretto ad affrontare. Davanti alla necessità di
produrre strumenti di lavoro per le tipologie di committenza più varie mi sono sempre
rimboccato le maniche e ho studiato la materia. Non sono divenuto né un assicuratore,
né un contabile, né un agente letterario, né un amministratore di condomini,
neppure un investitore di valori mobiliari e tantomeno un progettista di cavi
elettrici – potrei continuare ancora per po’ – ma ho imparato il linguaggio di
tutti, anzi, ho dovuto imparare il
linguaggio di tutti, pena il cambio di mestiere.
Lo studio della vicenda del Mostro di Firenze è per me una semplice passione, non
un lavoro, ma in esso applico la medesima metodologia, cercando sempre di
acquisire le informazioni necessarie prima di affrontarne i vari aspetti. Nel
caso di specie – la partenza dell’inchiesta Narducci – sono andato a
documentarmi su come viene aperto un procedimento giudiziario, potrà
verificarlo leggendo qui.
Mi sono soffermato sui cinque registri, e, avvalendomi di questo
testo, anche sulla notitia criminis,
sulla quale lei mi ha recitato la sua lezione, e la ringrazio. Non
avevo capito nulla? Può darsi, però chi intende sostenerlo lo deve dimostrare,
trovandomi in quel caso più che disponibile a ogni rettifica che si renda
necessaria.
Ancora una premessa prima di andare sul concreto. Lei mi rimprovera la mancanza di
chiarezza, ma dove sta la chiarezza nei suoi due scritti? In essi ha bocciato
il mio lavoro senza rispondere su nessuna delle questioni che vi vengono
sollevate, disquisendo di tutt’altro. Argomenti importanti, beninteso, ma fuori
tema, e sui quali avrò modo di esprimere il mio parere in altra sede. Scrive
giustamente un mio lettore, riferendosi al suo primo intervento:
Più che rileggo l'intervento di Mignini più che mi sembra veramente fuori fuoco,
forse hai ragione e magari l'ha letto di fretta. Di tutto quello che hai
scritto si è indignato per la storia degli accenti? Io, francamente aspettavo
sì delle risposte, ma su cose ben più importanti come la telefonata minatoria
partita da un commissariato umbro o il fatto che oggi, grazie a questi
documenti, possiamo affermare con certezza che l'inchiesta Narducci partì prima
delle telefonate alla Falso.
Nel secondo intervento parla di tre punti che, secondo lei, avrei creduto di
individuare come critici nelle indagini ma poi non li elenca né tantomeno li
affronta. In verità, pur molto sbrigativamente, uno sì, quello della notizia di
reato, ma gli altri? Spero non abbia voluto intendere l’aspetto linguistico e
l’identificazione dell’Umbria storica…
Ma adesso è davvero arrivato il momento di andare sul concreto, con l’esposizione
sintetica in tre capisaldi del mio lavoro di ricerca sulle telefonate e sulla
partenza dell’inchiesta Narducci. Va da sé che la lettura dei due articoli
originali
(qui
e qui)
risulta comunque necessaria se si pretendono le relative dimostrazioni.
Narducci nelle telefonate.
Per anni si è creduto che l’inchiesta Narducci fosse stata innescata dalle
telefonate minatorie a un’anonima estetista di Foligno, la signora Dorotea
Falso: “Ricorda
il dottore amico di Pacciani... traditori di Satana... I traditori Pacciani e
il grande medico... Narducci... finito nel lago strangolato”. A
sostenerlo, oltre a Giuttari nei suoi libri – invero non sempre rispettosi
della verità – era stato anche lo stesso pubblico ministero, come in un
frammento della sua requisitoria leggibile qui.
Pertanto mi stupii moltissimo scoprendo, una volta entrato in possesso delle
trascrizioni di quelle telefonate, che Francesco Narducci vi veniva nominato
per la prima volta – come “l'amico di Pacciani… del lago Trasimeno” – il 18
maggio 2002 alle ore 12:36! Quindi ben sette mesi dopo l’apertura del
procedimento giudiziario sul suo presunto omicidio (25 ottobre 2001) e il successivo
ascolto di qualche decina di testimoni, nonché il presumibile completamento
della perizia sugli atti del professor Pierucci (giorno di consegna ufficiale:
22 maggio 2002).
E allora cosa diavolo c’entrano le ridicole minacce telefoniche all’anonima
estetista di Foligno con la partenza dell’inchiesta Narducci, la quale, alle
ore 12:36 del 18 maggio 2002, non soltanto era partita, ma aveva già percorso
chilometri e chilometri?
I telefonisti.
Le sorprese nate dall’esame della documentazione non erano affatto finite, anzi, ne emergeva una
parte ancora più inquietante. Chi erano questi telefonisti e perché avevano
fatto riferimento a Pacciani e in seguito anche a Narducci? Sappiamo che l’unico
condannato – con patteggiamento – è stato un certo Pietro Bini, di Cannara, un individuo
che dai documenti sembra non avesse avuto nulla a che spartire con Dorotea Falso.
E con la questione Narducci c’entrava qualcosa? Parrebbe di no, poiché in
nessuno dei relativi procedimenti risulta mai essere stato interrogato, il che
francamente appare strano, visto che proprio grazie alle sue minacce quei
procedimenti sarebbero partiti. Viene da chiedersi: e se avesse fatto parte
della setta che stava dietro ai delitti del Mostro e le sue telefonate fossero
state un depistaggio?
In realtà lo studio della documentazione porta a ritenere Bini un
personaggio dietro il quale è rimasto nascosto il gioco di chi ha tramato per spingere
la pista Narducci attraverso le telefonate. Per un anno e più a minacciare
l’estetista erano stati il fratello del marito e la moglie di questi, dei cognati
insomma, per motivi che non travalicavano il campo delle beghe familiari, con
anche l’incendio di un fienile, il taglio delle gomme di un’auto e un foglietto
intimidatorio lasciato in giardino. Dopo varie denunce presentate al
commissariato e ai carabinieri di Foligno, il 29 settembre 2001 avviene un
fatto nuovo: Dorotea Falso consegna alla questura di Perugia due cassette dove
ha registrato le ultime telefonate minatorie. E al fatto nuovo delle cassette
se ne accompagnano almeno altri due, con una concomitanza francamente sospetta.
Innanzitutto in alcune telefonate, cosa mai successa prima, viene fatto
riferimento a Pacciani. Poi il cambio dei due telefonisti. A dircelo sono le
questioni linguistiche. Chi trascrisse le telefonate rilevò nella voce maschile
un accento toscano, mentre una perizia fonica di qualche anno dopo avrebbe individuato
in quella femminile un accento piemontese; entrambi i cognati della Falso erano nativi di
Foligno e ivi residenti.
Bisogna a questo punto chiedersi di chi fosse stata l’iniziativa di registrare le
telefonate; poco credibile della Falso, soprattutto per le concomitanze sopra
indicate. E viene anche da chiedersi che cosa avesse avuto a che fare con
questa faccenda il dirigente di polizia che risultò indagato e poi prosciolto.
Indagato perché e prosciolto perché? Il sospetto che qualcuno si fosse inserito
in una questione personale della Falso introducendovi le vicende fiorentine è
legittimo, come è legittimo il sospetto che in qualche modo questo qualcuno avesse
avuto a che fare con le forze dell’ordine. Va anche detto che indagata e
prosciolta risulta pure la baby sitter del figlioletto della Falso, il cui
marito era un poliziotto fratello di altri due poliziotti. Una coincidenza?
Dopo la consegna delle prime due cassette le telefonate continuarono, poi ebbero un
momento di stasi. Fino a quando, nel maggio 2002, l’inchiesta non cambiò passo,
con la consegna della perizia sugli atti da parte del professor Pierucci, la
conseguente decisione di riesumare la salma e l’uscita del tutto sui giornali. Con
un sospetto anticipo di pochi giorni – accesso a informazioni riservate? – le
telefonate ricominciarono e finalmente entrò Narducci.
Dopo questa ripresa le telefonate andarono avanti, e, come si desume dai verbali di
trascrizione, ancora per un po’ con la voce maschile dall’accento toscano. Poi,
a partire dalla trascrizione della cassetta 10 datata 24 agosto 2002, l’accento
toscano sparì e probabilmente entrò quello umbro, in seguito rilevato dalla
perizia fonica. Il trascrittore, infatti, non scrisse più di accento toscano,
in compenso evidenziò la parola “subbito”, con un raddoppio della “b”, molto
probabilmente compatibile con la parlata di Cannara. Se così fosse si potrebbe associare
tale cambiamento all’arrivo di Pietro Bini, quello stesso Bini che si sarebbe
dichiarato colpevole ottenendo un patteggiamento che si fa fatica a
comprendere, non avendo denunciato i suoi complici.
Edit 1/9/2021.
Da un controllo più accurato è emerso che l'indicazione di accento toscano sparì dalle trascrizioni
con la cassetta 11 – data verbale 19/11/2002 – e che la parola “subbito” nella cassetta precedente
era stata pronunciata dalla voce femminile.
La notizia di reato.
Non è questa la sede per disquisire attorno alla locuzione “notizia di reato”,
che il codice penale usa senza definirla. Basti il suo significato intuitivo, e
la consapevolezza che una notizia di reato sta alla base di ogni procedimento
giudiziario: non può esserci procedimento giudiziario senza notizia di reato, e
data una notizia di reato (s'intenda: della quale sia stato verificato il fondamento)
deve esserci un procedimento giudiziario, lo impone
la legge con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ma una
notizia di reato è anche una notizia in senso generico, e non tutte le notizie
sono anche notizie di reato, nonostante una loro eventuale vicinanza all'ambito giudiziario.
Immagino che per un magistrato distinguere non sia
sempre facile, non a caso esiste il registro modello 45.
La notizia di reato con la quale venne aperto il procedimento giudiziario
17869/01/44, il 25 ottobre 2001, era quella del presunto omicidio di Francesco
Narducci (art 575 e relative aggravanti). Ebbene, faccio fatica a comprendere il
modo in cui, fra i tre elencati nell’intervento di Giuliano Mignini, tale
notizia fosse nata. Riferita dalla polizia giudiziaria? No, poiché l’informativa
dove Angeloni chiedeva di poter procedere non parlava affatto di presunto
omicidio, ma di presunto suicidio (vedi)
e comunque si trattava soltanto di voci di popolo.
Emersa in un altro procedimento? Non si comprende quale, a meno che non si
voglia intendere quello delle minacce telefoniche, dove però di Narducci non
c’era neppure l’ombra. Appresa direttamente dal magistrato? Si tratta dell’unica
strada percorribile, previa la necessaria sostituzione del termine “appresa” con il più appropriato “ipotizzata”.
Allora percorriamola, questa strada, come fossimo stati noi il PM che doveva decidere.
Vediamo gli elementi in gioco. Sopra il tavolo c’erano le irregolarità sulla tumulazione
della salma, la cui più ovvia origine andava però ricercata nel desiderio di
una famiglia potente di evitare l’autopsia e nello zelo con cui alcune autorità
locali si erano messe a sua disposizione. Con il che non c’era alcuna notizia
di reato, comunque non tale da consentire l’apertura di un procedimento
giudiziario, poiché eventuali reati risultavano ormai prescritti. L’unica era guardare
dietro le quinte e chiedersi il perché: perché la famiglia Narducci aveva voluto
evitare l’autopsia? Anche in questo caso c’era una risposta ovvia: se il loro
congiunto si fosse suicidato, come era sempre parso probabile – lo aveva scritto lo stesso Angeloni nella sua informativa – l’autopsia e
l’esame tossicologico lo avrebbero fatto emergere. Per i familiari un’eventualità
da evitare a ogni costo, data la notorietà del cognome Narducci in ambito locale:
tutti ne avrebbero parlato, i giornali ne avrebbero scritto, e il loro dolore
non avrebbe potuto far altro che crescere.
Sul tavolo c’erano però anche i sospetti sul coinvolgimento di Narducci
nelle vicende del Mostro di Firenze. Sospetti sui quali in verità la procura
aveva già indagato, giungendo alla conclusione che erano
ingiustificati, sia per la mancanza di elementi a sostegno sia e soprattutto
perché il soggetto era impossibilitato a compiere almeno il delitto di
Calenzano, trovandosi in quel periodo negli Stati Uniti. In ogni caso, se anche
Narducci fosse stato il Mostro, il suo suicidio avrebbe già chiuso la questione,
quindi all’orizzonte ancora nessuna notizia di reato.
Ma qui entra un elemento del tutto nuovo: l’ipotesi di Giuttari che i delitti del
Mostro di Firenze fossero delitti su commissione, eseguiti dalla scalcagnata
banda dei compagni di merende per conto di una fantomatica setta satanica che avrebbe
ucciso Narducci per impedirgli di parlare. Nel nuovo scenario poteva quindi configurarsi
la notizia di reato dell’omicidio, costruita a tavolino sulla base di tre
elementi tutti molto deboli, dei quali due ipotetici e un terzo reale ma
spiegabile in modi assai più semplici. Quello spiegabile riguardava le
irregolarità di tumulazione, delle quali si è già detto. Il primo degli ipotetici
poggiava sulle chiacchiere della gente. Ma chiacchiere simili avevano colpito
molte altre persone innocenti, e non si vede perché a quelle su Narducci si
sarebbe dovuto attribuire maggior spessore. Il secondo è l’ipotesi dei delitti
su commissione, basata su una valutazione malevola e sbagliata dei soldi di
Pacciani – mi è bastato far due conteggi e incrociare qualche data per
dimostrarlo (vedi)
– e sul labilissimo e sospettosissimo accenno di Lotti al dottore
(vedi),
peraltro respinto dalla sentenza di secondo grado.
Del resto, pur ostacolato dai tentativi dei superiori di porgli un freno
(vedi),
sui mandanti Giuttari aveva già indagato a lungo, non rimediando null'altro se non la brutta
figura alla villa dei C. a San Casciano.
Dove si è arrivati partendo da questa notizia di reato costruita in un modo quanto meno artificioso, alla
quale non credo si potesse applicare il principio dell’obbligatorietà
dell’azione penale? A nessun risultato processualmente valido. I presunti uccisori
di Narducci, come anche i mandanti dei delitti del Mostro di Firenze, sono rimasti dei fantasmi
alla cui esistenza oggi come ieri è davvero difficile credere, sia per una questione di semplice buonsenso,
sia perché non hanno lasciato neppure una traccia. In compenso si
sono spesi milioni di euro che di sicuro il contribuente avrebbe avuto maggior
interesse a vedere impiegati in inchieste più ordinarie. Esclusa forse qualche
decina di appassionati, felici di potersi baloccare all’infinito con i misteri
delle sette e dei doppi cadaveri.
Sono stato avvertito della pubblicazione di un intervento
(vedi)
del “solito sig. Mignini” – al quale ricordo che dottore sono anch’io – in risposta al mio
ultimo articolo (vedi).
Devo dire innanzitutto che non comprendo il perché l’ex PM non si sia avvalso della
possibilità di un dialogo diretto. In ogni caso pubblico qui il suo scritto,
con una breve replica, ripromettendomi, con la dovuta calma, di preparare un
approfondimento successivo.
Gentili lettori, più volte sono intervenuto in forum e blog, di fronte ad affermazioni
di persone la cui incompetenza in ambito giudiziario e investigativo balza
all’evidenza sulla base delle loro stesse affermazioni. Quello che colpisce è
la presunzione di parlare senza la necessaria preparazione e cognizione dei
fatti. E quello che colpisce specie nell’ultimo intervento di cui sono stato
informato, del solito Sig. Segnini è la confusione, la prolissità e la
conseguente mancanza di chiarezza dell’esposizione. Scrivere tanto non serve a
nulla. Bisogna andare al cuore dei problemi e cercare di fare la sintesi di
vicende complesse.
Come si fa a tentare di difendere quello che fecero le Autorità il 13 ottobre 1985 sul
pontile di Sant’Arcangelo del Trasimeno? Come si fa? Quello che è stato fatto,
o meglio non è stato fatto, non si può in alcun modo difendere. C’è stata una
messinscena incredibile destinata a perpetuarsi nel tempo.
Niente autopsia, niente foto, niente regolare visita esterna, niente medico legale,
nulla osta al seppellimento intervenuto qualche giorno dopo i funerali, da
parte del solito magistrato di allora… e a monte non c’erano bazzecole ma la
vicenda del Mostro di Firenze. E ora Segnini si avventura sulle telefonate il
cui processo si è concluso con una condanna patteggiata e addirittura si mette
a disquisire, ho intravisto inorridito, sul dialetto “umbro” che non esiste
perché, a semplificare, ce ne sono almeno cinque, diversissimi tra loro. Ma
questo è solo un esempio della superficialità che traspare da certi interventi.
Anche il più volte citato e osannato gup ternano sabino ha scritto tantissimo.
Dimostrando un singolare interesse, in negativo, alla vicenda. Ha scritto tanto
e ha impiegato qualche anno tra tutto. La conclusione è che si è prescritto
tutto. E ora che rimane di quella “monumentale” sentenza annullata dalla IV
sezione della cassazione?
Nessuno ricorda l’unico provvedimento che nessuno è riuscito a smontare, l’ordinanza De
Robertis nel procedimento sull’omicidio, n. 1845/08/21.
Se qualcuno organizzerà un incontro in cui questi sostenitori della messinscena di
Sant’Arcangelo possano mettere a confronto i loro argomenti con i miei, io lo
invito a farlo.
Grazie.
Perugia 8 febbraio 21
Egregio dottor Mignini, vedo che ha evitato di entrare nel merito del mio articolo, nel
quale vengono espresse molte perplessità sulla partenza dell’inchiesta
Narducci, alcune delle quali assai inquietanti, e che è legittimo chiedersi
quanto possano essersi riflesse su quello che è accaduto dopo. Se lei ha letto
in fretta, magari con impeto, le consiglio di farlo adesso con più calma,
poiché sono molte le domande alle quali le chiederò risposta, qui e in un
eventuale dibattito pubblico al quale, con le dovute garanzie, non ho certo
intenzione di sottrarmi. Le preannuncio, per esempio, che dovrà spiegarmi come
faceva a sapere che, riguardo le irregolarità sulla tumulazione di Narducci,
“a monte non c’erano bazzecole ma la vicenda del Mostro di Firenze”.
Aveva non dico le prove, ma almeno qualche indizio migliore delle chiacchiere dei perugini e
delle ipotesi tutte da verificare di Giuttari e Canessa sui mandanti? Questo, tra l'altro, il
mio articolo ha inteso evidenziare, senza affatto disconoscere quelle
irregolarità, ma attribuendole più banalmente a un desiderio comprensibile,
seppur illecito, di una famiglia affranta. Del resto processualmente la sua inchiesta non è arrivata a nulla,
se non ad alimentare le chiacchiere e trasferirle su internet.
Come ho scritto, le risponderò in modo approfondito più avanti, intanto però mi
consenta di ribattere su due punti che mi sta a cuore affrontare subito. Il
primo. Non ho scritto “dialetto umbro”, ma “parlata umbra”, il che tra l’altro
mi conferma la sua eccessiva fretta nel leggere. Come specifica ad esempio il
vocabolario online Treccani (vedi),
il termine parlata “ha significato più generico e meno preciso che dialetto”.
Non so se “parlata umbra” sia una locuzione frequente, di sicuro frequente è la locuzione
“parlata toscana”, nonostante nella mia regione un fiorentino e un grossetano
parlino in modo sensibilmente differente. In ogni caso non mi pare proprio che
la sua osservazione sia in grado di confutare quello che ho affermato nell’articolo:
la parlata di un umbro e la parlata di un toscano non si possono confondere, di qualsiasi zona essi siano.
Quindi nessuna telefonata di quel toscano che minacciava l’estetista di Foligno
poteva essere tra le 20 che sono state periziate.
Veniamo al secondo punto, “la presunzione di parlare senza la necessaria preparazione”.
Seppur non illudendomi di valere neanche un millesimo del personaggio di cui si
dice, ma rivendicando comunque il diritto di tentare e la speranza di riuscire
a veder più chiaro in una vicenda nella quale la magistratura italiana ha
fallito, lascio parlare Arthur Schopenhauer, con le parole inserite da
C.W.Ceram nel libro Civiltà sepolte
riferendole al grandissimo archeologo dilettante Heinrich Schliemann, lo
scopritore di Troia e Micene:
Dilettanti! Dilettanti! Così vengono chiamati con disprezzo coloro che si occupano di una
scienza o di un’arte per amore di essa e per la gioia che ne ricevono, per il
loro diletto, da quanti si sono dedicati agli stessi studi per il proprio
guadagno, poiché costoro si dilettano solo del denaro che con tali studi si
procurano. Un tale disprezzo deriva dalla meschina convinzione che nessuno
possa prendere qualcosa sul serio senza lo sprone della necessità, del bisogno
e dell’avidità. Il pubblico ha lo stesso atteggiamento e la stessa opinione: e
di qui nasce il suo rispetto per gli “specialisti” e la sua sfiducia verso i
dilettanti. La verità è, al contrario, che per il dilettante la ricerca diventa
uno scopo, mentre per il professionista rappresenta solo un mezzo, ma solo chi
si occupa di qualcosa con amore e con dedizione può condurla al termine in
piena serietà. Da tali individui, e non da servi mercenari, sono sempre nate le
grandi cose.
L’Italia
è piena di cosiddette “Cattedrali nel deserto”. Si tratta di opere pubbliche
che sono costate fior di quattrini, ma che non hanno mai funzionato. Rovine di
fabbriche, ospedali, centri sportivi, dighe rimangono a testimoniare degli
enormi sprechi di danaro che hanno contribuito a rendere quasi insostenibile il
nostro debito pubblico. Da questo punto di vista anche tante ambiziose inchieste
della magistratura possono essere considerate “Cattedrali nel deserto”. Nate su
presupposti che non sempre avevano adeguata giustificazione nella ricerca di
giustizia, si sono via via avvinghiate su loro stesse producendo soltanto
danni.
Con
l’istituzione del giudice per l’udienza preliminare (GUP), il nuovo codice ha cercato
per quanto possibile di evitare che inchieste nate male finiscano per intasare
i tribunali, ma prima dell’intervento del GUP passano anni durante i quali i
pubblici ministeri (PM) possono far di tutto. Il nuovo codice ha assegnato loro
poteri molto ampi, purtroppo calmierati in modo spesso insufficiente dal
giudice per le indagini preliminari (GIP), il quale dovrebbe controllarne l’operato.
Non è questa la sede per affrontare un problema annoso come quello della
separazione delle carriere, ma il lettore provi a immaginarsi un GIP e un PM
che lavorano negli stessi uffici e magari pranzano assieme, poi si metta nei
panni dell’indagato che dal GIP pretenderebbe imparzialità. Imparzialità che a
dire il vero la legge impone anche al PM, il quale invece s’innamora quasi
sempre della propria inchiesta, ancor di più se mediaticamente esposta, facendola
diventare una questione personale e dimenticando nel contempo che le indagini preliminari
dovrebbero essere svolte anche nell’interesse dell’indagato. Lo dice l’articolo
358 del codice penale: “Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai
fini indicati nell'articolo 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e
circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Questo
non avviene praticamente mai, anzi, i PM spesso e volentieri tendono a
nascondere gli elementi a discarico per evidenziare maggiormente quelli a
carico. Il peggio avviene quando elementi a carico non se ne trovano, essendo le
indagini partite su presupposti sbagliati. E allora si finisce per crearli,
interpretando in modo malevolo elementi che di per loro non avrebbero alcun
significato probatorio.
Nell’inchiesta
che cercava di trovare i fantomatici mandanti dei delitti attribuiti al Mostro
di Firenze, e in quella collaterale sul presunto omicidio di Francesco Narducci
– che di quei mandanti sarebbe stato parte – è facile intravedere tutte le negatività sopra
elencate. Dopo dieci e più anni di inutili interrogatori, intercettazioni,
perizie e processi – e quindi montagne di danaro pubblico buttato al vento –
nulla è rimasto, se non tanta confusione sulla quale si baloccano gli
appassionati in interminabili discussioni su Internet, dove ancora si evocano
assurdi scenari di sette sataniche delle quali non è mai stata trovata traccia.
In
questa sede prenderemo in esame la partenza dell’inchiesta Narducci, fino
all’istituzione del noto procedimento giudiziario 17869/01/44 che ne
costituisce l’origine formale. Cercheremo di capire il modo in cui, inseguendo
un’ipotesi priva di validi riscontri – a giudizio di chi scrive, ma anche di
personalità ben più prestigiose – fosse stato aperto un rubinetto dal quale
sarebbe uscito soltanto un oceano di melma, senza alcun beneficio per la
risoluzione dei misteri inerenti i duplici omicidi di Firenze, anzi,
aggravandone la confusione.
Ma prima di cominciare riprendiamo l’argomento dell’articolo Firenze –
Perugia andata e ritorno, con il quale si era illustrato il sorprendente
scenario delle telefonate minatorie all’estetista di Foligno fatte apposta per
stimolare la partenza delle indagini su Narducci.
Un documento inquietante.
Dopo la pubblicazione dell’articolo sulle minacce telefoniche – che è
necessario leggere prima di procedere con questo – sono pervenuti nella
disponibilità di chi scrive altri documenti che consentono ulteriori riflessioni.
Partiamo da una comunicazione di Giuliano Mignini a Paolo Canessa, datata 12
maggio 2004. Eccone il testo, con i cognomi e i dati anagrafici omessi:
Si trasmettono le copie delle trascrizioni delle telefonate ricevute da Falso
Dorotea, di interesse per le indagini collegate, unitamente a copia della nota
della Squadra Mobile della Questura di Perugia in data 24.01.2003.
Per il procedimento relativo alle minacce telefoniche, contraddistinto con il n.
9144/2001 R.G.N.R. (da cui è stato stralciato quello n. 17869/01 R.G. Mod. 44),
è stato emesso avviso ex art. 415 bis c.p.p., nei confronti delle sottoindicate
persone:
- B. Francesco [omissis: nato e residente a Foligno]
- F. Roberta [omissis: nata a Foligno, residente a Trevi]
- C. Nadia [omissis: nata a Foligno, convivente di B. Francesco]
- N. Tania [omissis: nata a Terni, residente a Foligno]
- Dr. X.X. [omissis: nato a Foligno, domiciliato presso il commissariato di Foligno]
Continuano in ogni caso, nel procedimento n. 17869, le indagini per accertare eventuali
rapporti esistenti tra la vicenda delle minacce telefoniche e il Prof.
Francesco Narducci.
In sostanza Mignini avverte Canessa della fine delle indagini preliminari per
cinque soggetti – questo è il significato della locuzione “ex art. 415 bis c.p.p.” –
nell’ambito del procedimento sulle minacce telefoniche a Dorotea Falso, il
9144/01/21. Nell’occasione invia anche una nota della questura di Perugia,
risalente al 24 gennaio 2003, alla quale erano allegate le relative
trascrizioni (fino alla cassetta 13; sappiamo però che erano state consegnate
altre cinque cassette, l’ultima attorno al 18 luglio 2003).
È opportuno riflettere con grande attenzione sull’elenco degli indagati.
Innanzitutto va rilevata la presenza dei due cognati di Dorotea Falso, Francesco B. e la
moglie Nadia C.. C’è poi tale Roberta F., la stessa persona nominata nell’articolo
uscito sulle pagine umbre della “Nazione” del 30 marzo 2006
(vedi).
A dire il vero in tale articolo c’era confusione tra Roberto e Roberta, ma doveva
intendersi Roberta, visto che le età coincidono. In ogni caso in detto articolo
si dice che questi tre soggetti vennero rinviati a giudizio.
Ci dovette invece essere proscioglimento per Tania C., il cui nome nell’articolo
citato non c’è, ed è mancante anche dal resto della documentazione attualmente
nella disponibilità di chi scrive. Stessa cosa per il dr. X.X., sul quale
bisogna soffermarsi. Riprendiamo un frammento del libro Setta di stato, di Francesco Pini e Duccio Tronci:
Dall'analisi dei tabulati della Telecom, il 30% circa di queste telefonate non risultano.
Ufficialmente mai effettuate. In un caso la chiamata arriva non da una cabina,
ma da un cellulare. Il numero dell'utenza non è però registrato: come se fosse
inesistente. Una telefonata di minacce proviene addirittura dal commissariato
di Foligno, un’altra da un’utenza riconducibile ad un poliziotto.
Con grande probabilità il dr. X.X. è proprio il poliziotto cui si riferisce il
libro. Chi scrive ha deciso di non fornire alcun dato che possa consentire di
identificarlo, è comunque il caso di osservare che oggi ha una posizione di
grande rilievo. Qual è stato il suo ruolo in questa torbida vicenda? Il lettore
può dare libero sfogo alla propria immaginazione. In base agli elementi emersi,
chi scrive ha il forte sospetto che qualcuno, nell’ambito delle forze
dell’ordine, avesse avuto grande interesse a far partire l’inchiesta sulla
morte di Narducci e sui suoi eventuali collegamenti con i delitti del Mostro.
Per far questo approfittò di una preesistente vicenda di ridicole minacce
telefoniche a un’anonima estetista, facendo in modo che vi entrassero Pacciani
e le sette sataniche, entrambi argomenti caldi sul fronte fiorentino. Non per niente
quell’estetista abitava a Foligno, e le sue denunce erano state presentate
al commissariato di Foligno.
Lo si è già osservato nel precedente articolo, ma vale la pena ribadirlo: non
pare un caso se le registrazioni delle telefonate da parte della Falso fossero iniziate
proprio quando in esse era comparsa la figura di Pacciani. La coincidenza rende
improbabile che l’iniziativa fosse stata della donna, qualcuno interno alle
forze dell’ordine doveva averglielo suggerito. Forse quello stesso personaggio
che quando l’inchiesta cambiò passo con la riesumazione del cadavere di
Narducci vi introdusse anche la figura dello stesso. La qual cosa avvenne due
giorni prima del momento topico corrispondente al deposito della perizia di
Pierucci sugli atti – 20 maggio 2002 – quindi si deve presumere che le sue
informazioni fossero state di prima mano.
Il documento ci dice ancora qualcosa: non vi si menziona Pietro Bini, che sarà poi
l’unico soggetto condannato. Dal momento dell’apertura del procedimento 9144 (
attorno al 1° ottobre 2001) erano trascorsi due anni e mezzo; due sarebbero
dovuti ancora trascorrere prima dell’inizio del processo (29 marzo 2006), nel
quale era presente Bini, la cui richiesta di patteggiamento, lo abbiamo visto,
sarebbe stata rifiutata. Quando entrò nell’inchiesta tale personaggio, se ai
primi di maggio 2004 le indagini erano terminate? Che fossero terminate lo dice
il documento precedente, e la controprova la troviamo nella sentenza Micheli,
dove è lo stesso PM ad affermarlo nella sua requisitoria:
Nel frattempo, nel procedimento n. 9144/01/21 erano cessate le indagini ed era
stato notificato l’avviso ex art. 415 bis c.p.p. da cui emergeva che le
telefonate ricevute dalla FALSO provenivano da sedicenti appartenenti ad una
sorta di setta satanica e riguardavano proprio il Narducci (e il Pacciani). Il
quotidiano “La Nazione” pubblicava tali notizie e il Brizioli, con due
telegrammi del 5 e dell’11.05.04, intimava alla giornalista Erika Pontini,
autrice dell’articolo, di non pubblicare più notizie del genere sotto pena di
azioni legali. Il giornalista Pino Rinaldi, nell’esame in data 5.05.05, ha
ammesso di aver letto l’articolo della Pontini.
Ma allora Pietro Bini?
Edit: Dopo una rilettura della documentazione ritengo di poter affermare con
una certa sicurezza che Tania C. altro non fosse che la baby sitter di Dorotea Falso,
da lei nominata nelle dichiarazioni alla questura di Perugia del 29 settembre 2001.
Tra l'altro moglie di un poliziotto.
La perizia fonica.
Il lettore non se la prenda se si sente confuso, poiché risulta davvero
difficile districarsi in questo incredibile guazzabuglio. Abbiamo visto nel precedente articolo
(qui)
che nel gennaio 2003 Bini era già stato segnalato al PM come elemento sospetto, ma non
si sa se fosse anche stato iscritto nel registro degli indagati. Un tassello
ulteriore ci viene offerto dalla perizia fonica ordinata il 18 agosto 2005 dal
PM su 20 delle telefonate tratte dalle cassette della Falso. Tra l’altro ci si sarebbe
aspettato che tale perizia fosse stata richiesta nell’ambito del procedimento
17869, quello sulla morte di Narducci, visto che sul 9144 le indagini erano
terminate da più di un anno. E invece no, poiché nell’intestazione si legge che
il procedimento è proprio il 9144. Si tratta dell’ennesima stranezza di questa
inchiesta, forse un ripensamento del PM, forse una richiesta degli indagati. La
legge consente infatti ulteriori investigazioni anche dopo la fine delle
indagini preliminari, ma qui l’enorme ritardo – più di 15 mesi – non può non lasciare
perplessi. È lecito chiedersi il perché tale perizia non fosse stata ordinata prima.
In ogni caso eccone gli obiettivi:
Previo esame delle trascrizioni e della fonia delle telefonate per cui è processo, accerti
il C.T.U. tutte le caratteristiche delle voci degli anonimi interlocutori di
Falso Dorotea (in relazione all'avviso ex art. 415 c.p.p.), caratteristiche
atte ad identificarli, vale a dire:
- Sesso ed età degli interlocutori; timbro delle voci; caratteristiche
'linguistiche' delle voci; individuazione dell'aerea geografica di provenienza
alla luce dell'inflessione dialettale, specie in relazione alle note distintive
fonetiche, all'andamento della tonalità e a particolarità lessicali e/o
morfologiche;
- Comparazione dei risultati raggiunti con le caratteristiche linguistiche
generali delle aree di Foligno (PG) e Cannara (PG), specie in relazione agli
aspetti di cui all'ultima parte del punto 1;
- Ulteriori particolarità espressive, atte a riferire le voci a particolari
ambienti socio-culturali;
- Eventuali anomalie di pronunzia e loro origine.
Il fatto che si suggerisse una possibile provenienza dei telefonisti da Cannara ci
conferma i sospetti su Bini, il quale a Cannara era nato e a Cannara risiedeva.
Questi i risultati:
- Il supporto ottico esaminato contiene la registrazione di 20 conversazioni
telefoniche, numerate dai periti progressivamente da 1 a 20 secondo l'ordine di
presentazione;
- Le prove di ascolto e l'analisi linguistica individuano come autori delle
telefonate: un medesimo interlocutore maschile presente nelle conversazioni nn
2, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 18, 19, 20 e un medesimo locutore
femminile nelle restanti conversazioni nn 1, 3, 4, 5, 6 e 17;
- Il tema trattato, i termini impiegati e altre peculiarità insolite (come p.e. il
modo di sghignazzare) sono in comune a entrambi i parlatori anonimi: la
circostanza implica che l'uno sia al corrente delle modalità attuate dall'altro
in fase di conduzione della conversazione (è ragionevole pensare quindi che
sussista un tentativo di emulazione);
- Le particolarità espressive rilevate manifestano per entrambi i locutori in
verifica un lessico informale corretto, tecnico-settoriale che porterebbe a
ipotizzare l'appartenenza a una setta o congregazione (per il tema trattato -
esoterico) e una estrazione culturale medio-alta;
- Il parlatore anonimo pone in essere una artefazione della propria naturale
fonazione mediante laringalizzazione con conseguente voce arrochita e forzata.
La voce della parlatrice anonima è verosimilmente priva di artefazione e
pertanto utile a eventuali futuri confronti basati anche su analisi di tipo
strumentale;
- Dall'analisi linguistica (fonetico-articolatoria) si individua verosimilmente
come zona di origine:
per la voce maschile compatibile con quella di Cannara;
per la voce femminile compatibile con quella piemontese.
Dunque la voce maschile era proprio quella di Pietro Bini, di Cannara, ma la voce
femminile? L’inflessione piemontese ci dice che non apparteneva a nessuna delle
tre donne presenti nel documento di chiusura delle indagini preliminari, tutte
nate e residenti in Umbria. Quindi tale soggetto non venne individuato, almeno
non fino all’udienza del 29 marzo 2006, nella quale il PM e l’avvocato di Bini
avevano concordato una pena per il patteggiamento. Tra l’altro appare strano il
fatto che si volesse concedere il patteggiamento a chi non aveva reso una
confessione completa, tacendo l’identità della sua complice.
Tra i telefonisti non individuati, oltre a una donna di origini piemontesi ci
doveva essere anche un uomo di origini toscane. La sua presenza risulta dalle
trascrizioni delle prime cassette, dove si parla di
“accento toscano” e di
“-H- aspirata tipica toscana”.
Quindi di sicuro non Bini, visto che è impossibile confondere parlata umbra e parlata toscana.
Evidentemente le telefonate di questo soggetto non erano tra le 20 selezionate
per la perizia fonica, che a questo punto si deve ritenere che avesse avuto più
lo scopo di mettere la parola fine alla grottesca vicenda che quello
d’individuare i telefonisti.
Sulla questione delle minacce telefoniche per adesso fermiamoci qui, restando in
attesa di nuova documentazione – il massimo sarebbe la sentenza con la
condanna di Bini – che possa portare chiarezza.
La notizia di reato.
L’apertura di ogni procedimento giudiziario viene effettuata sulla base di almeno
una “notizia di reato”– detta anche notitia
criminis – attraverso la quale il magistrato ha preso atto di un reato da perseguire.
Le fonti dalle quali tale notizia gli arriva possono essere molteplici, ma
nella grande maggioranza dei casi si riducono a due tipologie: la denuncia, da
parte delle forze dell’ordine o anche di comuni cittadini e il referto, segnalato
dal sistema sanitario dopo l’esame di un soggetto offeso. A quel punto il
magistrato deve iscrivere tale notizia in un apposito registro di cinque,
ricevendo un numero progressivo annuale che, assieme all’anno e al tipo di
registro, contraddistinguerà il relativo procedimento (per esempio
12345/20/21).
Dei cinque registri qui ne interessano tre. Nel registro detto “modello 21” vengono
inserite le notizie di reato per le quali sono già state individuate una o più
persone da indagare (registro delle notizie di reato a carico di persone note).
Nel registro detto “modello 44” vengono inserite le notizie di reato per le
quali tali persone non sono state ancora individuate (registro delle notizie di
reato a carico di persone ignote).
Prima di parlare del terzo registro, è il caso di affrontare un tema spinoso, una
delle fonti di possibili malfunzionamenti della giustizia italiana. Quando il
reato è evidente di per sé la sua iscrizione in uno dei due registri citati è
una logica conseguenza, anzi, la legge ne prevede l’obbligo. Saranno poi le
indagini preliminari e il successivo processo a perseguire i responsabili,
quando noti. In molti casi invece il reato non è evidente: potrebbe esserci
stato ma anche no. L’esempio più eclatante è quello dell’abuso sessuale, i cui
confini in certi casi sono davvero indefiniti. E quando il procedimento
giudiziario viene aperto per un reato inesistente, il rischio è che tale reato,
intercettazione dopo intercettazione, interrogatorio dopo interrogatorio, perizia
dopo perizia, finisca per configurarsi davvero, con tutte le conseguenze
negative che si possono immaginare. Soltanto l’esperienza e la sensibilità del
magistrato possono risparmiare a persone innocenti l’ingresso in questi tunnel,
evitando nel contempo che le risorse tutt’altro che illimitate di forze
dell’ordine e magistratura vengano distolte dal perseguimento di reati reali.
Quando la sussistenza del reato non è certa, il magistrato può aprire un procedimento
provvisorio avvalendosi del registro degli atti che non costituiscono notizia di
reato (modello 45), senza avvertire il giudice per le indagini preliminari.
Dopodiché procede con le proprie valutazioni, cercando di acquisire
informazioni maggiori anche attraverso una limitata attività investigativa, che
la legge non consentirebbe ma che appare evidente rendersi necessaria (per
esempio sentire la persona offesa e il presunto responsabile). Alla fine di
tale breve percorso, il magistrato deve quindi decidere se aprire un
provvedimento a modello 21 o 44, oppure soprassedere semplicemente chiudendo il
procedimento provvisorio.
Questo breve riassunto di una materia non troppo semplice servirà al lettore per
seguire meglio gli eventi che dettero origine all’apertura delle indagini sulla
morte di Francesco Narducci. Inevitabilmente sarà necessario sopportare qualche
ripetizione di notizie già fornite dal precedente articolo.
Dal 9144/01/21 al 5202/01/45.
Dopo la consegna alla questura di Perugia, il 29 settembre 2001, delle prime
due cassette di minacce – dove compariva Pacciani – con una nota di due giorni
dopo il capo della mobile Angeloni comunicò la notizia a Mignini, suggerendo
come sospettato Francesco B., cognato della Falso. Il procedimento riferito è 1’11674/00/21,
citato in varie occasioni dal magistrato come relativo a una vicenda di usura,
nella quale evidentemente Francesco B. doveva risultare coinvolto. Ma scritto a
penna compare anche il numero di un procedimento nuovo, il 9144/01/21, quello
per le minacce telefoniche, che probabilmente fu aperto quel giorno stesso a
carico del soggetto in questione e forse già della moglie, Nadia C.
Il 9 ottobre Angeloni inviò a Mignini il documento dal quale si può dire che
sarebbe partita l’intera inchiesta Narducci (vedi).
Dopo aver fornito inequivoca dimostrazione che nelle telefonate a Dorotea Falso non c’era stato alcun
riferimento al medico umbro, appare ancor più sorprendente la richiesta di
poter acquisire il “fascicolo processuale inerente la persona del dr. Narducci
Francesco, perito a seguito di probabile suicidio”, con la seguente
motivazione: “Come
è ormai noto, voci insistenti avevano indicato il Dr. Narducci quale materiale
esecutore dei ‘tagli’ di parti del corpo, effettuati dal mostro di Firenze, e
che per di più avrebbe conservato in modo e luoghi adatti”. Nello
stesso documento Angeloni chiedeva “delega all’acquisizione di sommarie informazioni da parte
della professoressa Barone, impiegata quale medico legale presso l’istituto di
Medicina legale di Perugia”. Questo perché “sembra che la Professoressa Barone sia al
corrente di diversi particolari inerenti chiaramente la morte del Narducci, ma
anche fatti specifici sulla sua vita, forse in considerazione anche del fatto
che erano comunque colleghi”. Il tutto “al fine di stabilire se le persone autrici del
reato [le minacce telefoniche], allo stato degli atti ancora non identificate, facciano
parte o meno della setta satanica a cui fanno riferimento nelle conversazioni
telefoniche, nonché siano interessate o coinvolte nella morte di Pacciani e/o
comunque legate all’attività della persona che fu definita ‘il mostro di
Firenze’”.
Sfugge davvero il nesso tra l’identificazione delle persone autrici delle minacce
telefoniche e le chiacchiere su Narducci che da una quindicina d’anni
circolavano nella zona, e sulle quali già la procura di Firenze aveva messo una
pietra sopra giudicandole inconsistenti. Semmai in una prima fase delle indagini
ci si sarebbe dovuti preoccupare dell’identificazione in sé, per capire cosa ci
fosse dietro. Ma di fatto, come appare evidente, l’interesse per quelle minacce
non era altro che un pretesto per iniziare a indagare sulla morte di Narducci.
In ogni caso le richieste di Angeloni ricevettero positiva accoglienza da parte di
Mignini, il quale gli concesse le deleghe e nel contempo aprì un procedimento
per atti che non costituiscono notizia di reato: il 5202/01/45. Chi scrive non
ha la data precisa di tale apertura, ma un documento che tra breve vedremo fa
presumere fosse avvenuta quello stesso 9 ottobre, assieme al recupero della
scarna documentazione dell’epoca. In ogni caso poco cambia: per una
ricostruzione storica è importante osservare che in quei giorni il magistrato
stava riflettendo sugli eventi che avevano accompagnato la morte di Francesco
Narducci, alla ricerca di una possibile notizia di reato, e per questo si era
avvalso del registro a modello 45.
Francesca Barone.
Lunedì 22 ottobre 2001 iniziò la settimana decisiva per la futura inchiesta su
Narducci: Mignini doveva decidere se farla partire oppure no, cominciando col
mettere in forse la causa ufficiale di morte, “asfissia da annegamento da
probabile episodio sincopale” (in sostanza Narducci, provetto nuotatore,
sarebbe affogato in seguito a un malore che lo aveva fatto cadere in acqua dal suo motoscafo). Abbiamo
visto che sui procedimenti a modello 45 non sono consentite indagini, anche se spesso
queste vengono svolte comunque, seppur in modo molto limitato. In ogni caso il
magistrato scelse una strada alternativa e, per ascoltare i primi testimoni, si
avvalse del procedimento 9144, che in verità con Narducci nulla aveva a che
fare.
Alle 16:20 di quel lunedì 22 ottobre Francesca Barone, professoressa dell’Istituto
di Medicina Legale di Perugia, era di fronte a Mignini. Come già emergeva dai
documenti, la donna confermò di non essere stata interpellata in occasione del
rinvenimento del cadavere, come invece riteneva fosse necessario. Dal verbale:
Ricordo che quella settimana ero di turno all'istituto di medicina legale per la sala
settoria e che non fui interpellata in occasione del rinvenimento del cadavere
di Francesco Narducci, che peraltro conoscevo di persona, essendo mio collega.
Seppi subito che fu trovato il suo cadavere nel lago e mi allertai pensando di
dovere intervenire per il sopralluogo ma non venni chiamata dalla Procura come
è consuetudine. Ricordo in particolare che vi erano stati annegamenti di
pescatori nel lago di Corbara ed io fui chiamata per il sopralluogo e
l'autopsia. In questi casi venivamo sempre chiamati dalla Procura ma in
quell'occasione, come ho detto, nessuno mi interpellò. Seppi che una
dottoressa, le cui funzioni potrebbero oggi essere assimilate a quelle della
guardia medica, era intervenuta, redigendo un certificato di morte per
annegamento; a quanto mi risulta non fu eseguita la perizia autoptica e il
cadavere non fu portato all'obitorio ma affidato direttamente ai familiari.
Francesca Barone disse anche altro. In effetti, se Angeloni voleva stimolare i sospetti di
Mignini verso scenari inquietanti aveva suggerito la persona giusta. Vediamo le
dichiarazioni inerenti il giorno in cui era stato ritrovato il cadavere:
Per pura causalità incontrai dei pescatori, uno dei quali, di cui non ricordo il
nome, aveva partecipato al recupero del cadavere; quest'uomo […] mi disse che
il cadavere di Francesco Narducci presentava delle macchie rosse, come se
avesse sbattuto contro qualcosa o che comunque avesse subito colpi violenti. Le
macchie erano presenti soprattutto sul volto; il pescatore aggiunse che il
cadavere aveva le mani ed i piedi legati dietro la schiena. Il pescatore mi
disse che dovevano avergli dato tantissime botte per come era ridotto il volto.
Ecco invece qualche notizia sulla figura di Narducci:
Domanda: ricorda quali erano le abitudini del Dr. Narducci Francesco?
Risposta: solo per sentito dire, ricordo che il
Narducci era una persona dal carattere difficile, molto ansioso ed estremamente
chiuso e che frequentava una ristretta cerchia di amici. Nell'ambito
dell'ospedale la sua cerchia di amici era quella della vecchia clinica medica.
Mi risulta, per sentito dire, che avesse una casa in Toscana, dove si recava
frequentemente.
Domanda: con chi viveva il Dr. Narducci Francesco?
Risposta: non lo so, so soltanto che era separato
dalla moglie. Non si parlava nemmeno di suoi rapporti con altre donne, cosa che
si sarebbe risaputo in clinica dove si conoscevano subito questi pettegolezzi.
Quando si parlava del Narducci, si diceva subito che era introverso e che aveva
una vita molto riservata. Ho sentito dire anche che Narducci aveva interessi
verso l'esoterismo.
Molte notizie gustose, dunque, ma tutte per sentito dire – tra l’altro anche
inesatte, come il fatto che Narducci fosse separato dalla moglie – e che peraltro
la Barone aveva già avuto modo di raccontare, negli anni precedenti, a
giornalisti che proprio a lei erano andati a chiedere lumi.
Domanda: quali erano le condizioni di salute del Narducci?
Risposta: nulla so in proposito, però posso dire
che era giovane ed aveva un fisico atletico. Vorrei aggiungere che diversi anni
fa durante il meeting di Comunione e Liberazione di Rimini, un giornalista toscano,
di cui non ricordo il nome mi telefonò e poi mi fece delle domande su Francesco
Narducci, ricollegandolo alla vicenda del cosiddetto “Mostro di Firenze”. Non
ricordo a quale giornale appartenesse questa persona ma sapeva tantissime cose
sulla vicenda del mostro di Firenze e sapeva anche che il Dr. Narducci aveva
una casa in Toscana. Mi indicò il luogo preciso ma non ricordo se fosse Firenze
o un'altra località. Un'altra inchiesta giornalistica fu fatta da Luigi Amicone
del settimanale “Tempi” di Milano; anche Amicone venne da me e mi chiese di
Narducci ma non era così informato come l'altro. Il giornalista di cui non
ricordo il nome mi disse che Narducci aveva una pistola.
Domanda: ha più visto il giornalista toscano?
Risposta: no, non l'ho più visto. Voglio
specificare che il giornalista, dopo l'incontro a Rimini venne a Perugia un
paio di volte per parlare con me sempre di Narducci.
È il caso di fare qualche precisazione sul racconto del pescatore che aveva
riferito alla Barone di aver visto il cadavere di Narducci con mani e piedi
legati dietro la schiena. Tempo dopo sarebbe stato identificato per Giancarlo
Zoppitelli, non pescatore ma imbianchino, il quale dapprima cadde dalle nuvole,
poi, dopo un confronto con la Barone, il 13 marzo 2002 dichiarò:
Ora che ho visto la Prof.ssa Barone ricordo che effettivamente nel pomeriggio del
13.10.1985 riferii a quest'ultima che il cadavere aveva il volto tumefatto, il
naso rotto e le mani legate, ma questo non l'ho visto di persona. L'ho sentito
dire quel giorno da molta gente sul pontile, nel momento del ritrovamento da
persone del paese che hanno ripetuto queste affermazioni anche nel bar “Menconi”,
gestito da tale Menconi, non ricordo se il padre o il figlio. Mi dispiace di
essermi infilato in questo impiccio.
A questo punto si provi a immaginare i colloqui della Barone con i due
giornalisti, e si avrà un’idea di massima di come la vicenda Narducci si sia
nutrita di chiacchiere della cui origine non si è mai saputo nulla: sul pontile
e al bar Zoppitelli avrebbe sentito dire delle condizioni sospette del cadavere
(ma forse se le era inventate lui), poi lo aveva detto alla Barone. Si può
immaginare che a sua volta la Barone lo avesse riferito ai due giornalisti, i
quali lo avranno senz’altro riportato nei loro servizi.
A proposito della scelta della Barone come primo testimone in scaletta si legge
nella sentenza Micheli:
È emblematico constatare come già la prima persona escussa per valutare se fosse il caso di
vederci più chiaro sui fatti del 13 ottobre 1985 si trovi a dare contezza della
voce corrente sul coinvolgimento del Narducci nelle questioni fiorentine, sulla
disponibilità in capo a lui di una casa nella zona di Firenze e addirittura
sugli interessi esoterici del defunto.
È anche singolare prendere atto che, in un congresso di qualche anno prima, un
giornalista toscano – si capirà in seguito trattarsi del Licciardi – avesse
pensato di chiedere notizie sulla vicenda proprio alla prof.ssa Barone, e che
sempre da lei, ben prima del ritorno di interesse degli inquirenti su quella
storia, si fossero recati altri giornalisti.
Per la cronaca, Pietro Licciardi è un giornalista pisano, autore a quattro mani di
due libri in argomento, entrambi pessimi: Gli affari riservati del Mostro di Firenze,
assieme a Gabriella Carlizzi e La strana morte del dr. Narducci,
assieme a Luca Cardinalini. Di ben altra caratura Luigi Amicone, il cui servizio
su Narducci non è purtroppo nella disponibilità di chi scrive.
Nella documentazione dell’epoca comparivano i nomi dei funzionari che si erano
interessati al caso, in massima parte ancora in vita (il maresciallo dei
carabinieri Lorenzo Bruni, il dirigente della mobile Alberto Speroni, il
questore Francesco Trio, tanto per citarne alcuni), quindi perché non chiedere
spiegazioni a loro? Evidentemente si cominciava già a considerarli parte in
causa nelle presunte malefatte, mentre la scelta della Barone era funzionale
alla ricerca di motivi di sospetto. Sia come sia, il colloquio con lei dovette risultare
molto convincente. Quel giorno stesso, infatti – pare logico ritenere: appena
dopo averla ascoltata – Mignini inviò alla procura di Firenze un documento
nel quale dichiarava la sua intenzione di partire con le indagini: “Si fa presente che
questo Ufficio procede in ordine alle circostanze relative alla scomparsa e al
rinvenimento del Dr. Francesco Narducci”. Il procedimento indicato in
capo al documento è il 9144, ma nel testo si legge: “Oggetto: procedimento n. 5202/01 R.G. Mod. 45”,
quindi il provvisorio aperto con la ricezione dell’informativa di Angeloni del
9 precedente, la quale veniva allegata.
Riguardo questa fin troppo solerte comunicazione – perché non attendere fino
all’apertura del procedimento definitivo? – si deve osservare come alimenti i sospetti che a Firenze non si fosse
affatto all’oscuro di quel che si stava preparando a Perugia, e che anzi, si
attendesse con ansia l’apertura di un nuovo fronte sulle moribonde indagini
alla ricerca dei mandanti. È il caso di ricordare la brutta situazione in cui
si trovavano in quei giorni Giuttari e la procura, reduci dal clamoroso
fallimento della perquisizione nella villa dei C. a San Casciano
Avanti con le deleghe.
A testimoniare la decisione oramai già presa c’è un documento del giorno
successivo, 23 ottobre 2001, nel quale Mignini chiede ad Angeloni di partire
con approfondite indagini, concedendogli amplissime deleghe.
Pregasi procedere alle indagini relative ai fatti rappresentati nell'allegata notizia
di reato, assumendo informazioni ex artt. 362 e 370 c.p.p., da tutte le persone
che possono comunque fornire notizie utili in ordine a quanto emerso nel corso
dell'attività di indagine, in ordine agli ultimi giorni di vita del Narducci e,
soprattutto, in relazione all'ultimo e, in particolare, al viaggio da Perugia
al Lago Trasimeno e all'eventuale sosta nell'isola Polvese, nonché in ordine ad
eventuali appuntamenti del defunto con sconosciuti.
Pregasi, in particolare, di accertare, anche attraverso l'ausilio di persone idonee, ex
art. 348, ult.mo comma c.p.p., le seguenti circostanze:
- La presenza e l'individuazione di eventuali visitatori nell'isola Polvese, nel
pomeriggio dell'8.10.1985;
- La presenza di reti (nasse) nel tratto lacustre tra l'isola Polvese e il luogo del
ritrovamento del cadavere;
- Le condizioni metereologiche e la presenza e la direzione di eventuali correnti
nel periodo compreso tra l'8 e il 13.10.1985, nonché le caratteristiche della
fauna e della vegetazione lacustre nel tratto di Lago suindicato;
- I movimenti subiti dai cadaveri di persone annegate nel tratto lacustre in questione;
- Il livello di carburante necessario all'imbarcazione del Narducci per portarsi
all'isola Polvese e ritornare;
- Dove si trovi la moto utilizzata dal Narducci;
Di tutte le persone assunte a s.i. dovranno essere indicati generalità complete e residenza
o domicilio e dovranno essere identificati e assunti a s.i. coloro che verranno
indicati dalle persone interrogate.
Si fa presente che, qualora le persone informate sui fatti si riferiscano, a loro
volta, ad altre persone che siano a conoscenza dei fatti per cui si procede,
sarà indispensabile che le stesse vengano assunte a s.i. ex art. 351 c.p.p.,
nel rispetto della norma di cui all'art. 13 della l. n. 63/2001, o che, almeno,
siano esattamente identificate.
La delega è estesa a tutte le attività che, durante lo svolgimento delle indagini,
si rivelassero necessarie.
Con facoltà di subdelega al corrispondente organo di Polizia Giudiziaria territorialmente
competente che dovrà svolgere con sollecitudine le indagini delegate e
restituire gli atti direttamente a questa Procura, dandone comunicazione
all'Autorità delegante entro e non oltre il termine di scadenza delle indagini
stesse.
Anche in questo caso venne utilizzato l’escamotage d’inserire l’attività richiesta
nell’ambito del procedimento sulle minacce telefoniche alla Falso. Si parla
però di “allegata
notizia di reato”, una parte del documento non in possesso di chi
scrive, ma che è facile immaginare cosa contenesse. Non a caso tra le
disposizioni ad Angeloni c’era anche quella d’indagare sulla “presenza e
l'individuazione di eventuali visitatori nell'isola Polvese, nel pomeriggio
dell'8.10.1985”, visitatori che avrebbero potuto essere i responsabili
del reato da perseguire.
Donatella Seppoloni.
Nonostante la comunicazione ai colleghi di Firenze e le disposizioni ad Angeloni,
anche il giorno dopo Mignini non aprì un procedimento definitivo, preferendo
ascoltare qualche altra testimonianza nell’ambito del solito 9144. Alle 10:25
di mercoledì 24 ottobre Donatella Seppoloni, all’epoca medico della USL del
Lago Trasimeno, si trovava di fronte a lui. La mattina di domenica 13 ottobre
1985 la dottoressa era stata chiamata sul pontile dove giaceva il corpo di
Narducci appena recuperato dal lago, e in quella circostanza aveva redatto il
certificato di morte con la diagnosi “asfissia da annegamento da probabile
episodio sincopale”.
Dal lungo colloquio emerse innanzitutto che l’intervento era avvenuto secondo una
prassi di assoluta normalità:
Domanda: nell'attività di medico strutturato
aveva compiti di interventi di urgenza, quali visite di urgenza o come visite
esterne di cadavere e comunque attività di medico legale?
Risposta: non era il mio lavoro ordinario ma lo
svolgevo in condizioni di reperibilità per il pomeriggio, per le notti e per i
periodi festivi.
[…] fui chiamata dal centralinista dell'ospedale di Castiglion del Lago nel primo
pomeriggio, forse intorno alle ore 14,30 - 15,00 di un giorno di Ottobre di
molti anni fa; mi venne detto dal centralinista che c'era una chiamata urgente
dal molo di S. Arcangelo in quanto era stato rinvenuto un cadavere nel lago.
Sono arrivata sul molo di S. Arcangelo e vi trovai il Dr. Trippetti giovane,
che non aveva potuto fare la certificazione perché non poteva più esercitare le
funzioni di medico necroscopo. L'unico medico abilitato ad effettuare attività
di necroscopia ero io.
Dunque la dottoressa Seppoloni era effettivamente la persona da chiamare (il suo ricordo
dell’orario risultava però sbagliato, l’intervento era infatti della mattina). Quel
che invece non appariva normale erano le forti pressioni fattele per redigere
il certificato di morte in base a un’ispezione sommaria e soprattutto senza disporre
la necessaria autopsia.
Domanda: la visita fu effettuata tutta
all'esterno o il cadavere fu portato in qualche luogo chiuso?
Risposta: io dovevo fare solo una constatazione di
morte e redigere il conseguente verbale; ricordo che la visita si svolse sul
molo, dove avevo visto per la prima volta il cadavere. Il cadavere non fu
spogliato perché non serviva ai fini della constatazione di morte. Ricordo che
sia il fratello, che il Dr. Morelli ed il Dr. Farroni o Ferroni, mi giravano
continuamente intorno e questo mi dava piuttosto fastidio, tant’è che chiesi ai
vigili di tenermi lontano queste persone, fra cui vi erano anche i giornalisti
con macchine fotografiche. Ricordo che ad un certo punto sopraggiunse una
Autorità, non so se della Questura o della Procura, che mi chiese di fare una
ispezione cadaverica; intorno a me c'erano i Carabinieri credo della Stazione
di Magione. […]
Domanda: Lei di solito faceva le ispezioni o si
limitava a redigere i certificati di morte?
Risposta: io di solito redigevo solo i certificati
di morte perché non avevo la competenza professionale per effettuare le
ispezioni cadaveriche. Questa persona comunque mi chiese di fare
quest'ispezione ed io dissi che non ero in condizioni di poterla fare sul molo
e quindi il cadavere doveva essere trasportato nella camera mortuaria
dell'ospedale di Castiglion del Lago, che era la più vicina. Qui iniziarono
purtroppo delle insistenze e delle pressioni per fare immediatamente
l'ispezione sul posto poiché si trattava di un caso urgente, vi erano i
familiari affranti e comunque non si poteva attendere il trasporto alla camera
mortuaria. Vi fu un minimo di contraddittorio, perché io insistevo ad avere un
ambiente adeguato che non ottenni perché mi si ribadì la necessità e l’urgenza
di effettuare l’ispezione, senza sapere se questo fosse disposto dall'Autorità
Giudiziaria; quindi mi rimboccai le maniche e grazie all'ausilio dei Vigili del
fuoco che mi aiutarono anche nell'ispezione, mi accinsi a questa operazione,
dopo aver invitato i Carabinieri ad allontanare la gente. Feci comunque
presente alla persona in divisa che la mia ispezione sarebbe stata del tutto
sommaria perché non avevo né i mezzi né la competenza professionale per
procedere ad ispezioni di quel tipo.
Antonio Morelli e Ferruccio Farroni, colleghi di Francesco Narducci, furono i firmatari
del certificato di riconoscimento. Il personaggio indicato come “autorità” si
sarebbe appurato poi trattarsi del questore Francesco Trio. Alla fine le loro
pressioni sortirono l’effetto desiderato: la Seppoloni effettuò un’ispezione
sommaria sul posto e certificò che la causa di morte era l’annegamento,
rendendo quindi non indispensabile l’autopsia, che in effetti non sarebbe stata
eseguita. Nella documentazione si legge anche il momento del decesso, risalente
a 110 ore prima dell’ispezione. Su questo importante dettaglio la Seppoloni
cadde dalle nuvole:
Il verbale fu redatto materialmente in un locale, credo della cooperativa dei
pescatori di S. Arcangelo, dove mi recai assieme ai Carabinieri i quali
provvidero a redigere il verbale che io firmai nella parte relativa alla
ricognizione del cadavere, ma non ricordo che mi vennero fatte domande circa
l’orario della morte od altro, anche perché non potevo stabilire l’orario della
morte del Dr. Narducci ed escludo di avere detto che era morto da 110 ore
perché non avevo un minimo di competenza per affermarlo. Voglio aggiungere che
c’erano delle forti pressioni intorno a me perché più io allontanavo le
persone, con l’ausilio dei Carabinieri, più la gente mi pressava anche
all’interno del locale.
Evidentemente chi aveva redatto il verbale aveva fatto un semplice conteggio di ore dal momento della scomparsa.
Baiocco e Trovati.
Subito dopo la Seppoloni, alle 12:55, toccò alla persona che aveva rinvenuto il
cadavere, il pescatore Ugo Baiocco.
Domanda: ricorda di avere ritrovato il cadavere del Dr. Narducci?
Risposta: sì, ricordo che lo ritrovai insieme a
mio cognato […] annegato quest'anno nel lago. Sapevo che il Dr. Narducci era
sparito nella zona del lago […]. Come tutte le mattine, anche il giorno del
ritrovamento […] eravamo io e mio cognato in barca, diretti verso l'Arginone,
che si trova in un luogo situato in direzione di Castiglion del Lago, con
l'intenzione di porre le reti […].
Ricordo perfettamente che quel giorno vi erano molte alghe che affioravano dall'acqua e
vi era vento da ponente; io dissi a mio cognato, guardando quel cumulo di
alghe, “ma non sarà mica il professore quello?” E quando ci avvicinammo,
rallentando con il motoscafo, vidi il corpo di un uomo sfigurato, a pancia
all'aria, vestito con cravatta, camicia e mi pare un giacchetto, calzoni e
scarpe, con il volto tumefatto, nero e gonfio, e non si vedevano nemmeno gli
occhi.
Ricordo che la testa era rivolta verso Castiglion del Lago, a favore di vento, ricordo
anche che sulla testa vi erano molte alghe che formavano come una specie di
capannella in cui era immerso il corpo. Aveva il braccio sinistro poggiato
sullo stomaco e il braccio destro lungo il corpo; appena lo vidi svenni e mi
ripresi dopo pochi minuti. Ricordo che in quei giorni il vento era di ponente
un po' sostenuto, in sostanza veniva da Castiglion del Lago ed andava verso S.
Arcangelo; ricordo anche che la mano sinistra, quella poggiata sullo stomaco,
era particolarmente gonfia, deforme e scura, mentre l'altra mano era sott’acqua.
Dopo quel fatto facemmo chiamare i Carabinieri di Castiglion del lago che hanno
portato il cadavere al molo, dove è arrivato il Procuratore. Io, dopo essere
andato al molo, me ne andai. Ricordo che quando il cadavere fu poggiato nel
motoscafo dai Carabinieri, si aprì un qualcosa nel corpo del morto, non so se
dal ventre o dalla bocca, e vi fu una puzza indescrivibile, tanto che i
Carabinieri dovettero mettersi una garza alla bocca ed al naso.
Come abbiamo già visto, niente mani e piedi legati dietro la schiena, dunque. In
quel momento però Mignini non aveva ancora avuto modo di sapere chi fosse il
pescatore che aveva raccontato la scena alla Barone, quindi neppure di
interrogarlo. E allora ci si deve chiedere se sospettò che magari anche Ugo
Baiocco avesse partecipato ai misfatti!
L’ultimo testimone della giornata, alle 16, fu Giuseppe Trovati, detto Peppino, proprietario
della darsena di San Feliciano dove era ricoverato il motoscafo dei Narducci.
Era stato lui a vedere Francesco mentre partiva per il suo ultimo viaggio,
quindi il suo racconto assume particolare rilevanza.
Domanda: che cosa notò l'ultima volta che vide il Dr. Narducci in vita?
Risposta: arrivò verso 1e 15,00 - 15,30 circa di
un giorno di ottobre a bordo di una moto che già avevo visto altre volte e mi
pare che il colore del serbatoio fosso di colore oro, ed il tipo della moto
fosse quello tradizionale, con il manubrio alto. Ricordo che indossava un
giubbotto di pelle di camoscio, con sotto una camicia, mi pare, non ricordo se
avesse i jeans ed i mocassini. Preciso che verso le ore 14,?? il Narducci
telefonò a mia moglie per sapere se la barca era ancora al lago perché
normalmente nel mese di Ottobre vengono tolte e ricoverate in un piazzale;
invece quell'anno era molto caldo e la barca era ancora ormeggiata nella
darsena. Mi salutò cordialmente ed appariva del tutto normale; mi disse che
usciva con la barca ed io gli chiesi se avesse bisogno del carburante e lui mi
disse che era sufficiente quello che aveva, contando sul fatto che comunque il
serbatoio di scorta era mezzo pieno di benzina, contenendo 10 - 12 litri. Quel
motore consumava circa 1,5 lt per chilometro; quando ii Dr. Narducci salì
sull'imbarcazione non aveva niente in mano, e partì verso l'isola Polvese e
comunque verso il centro del lago. Ricordo che non prestai attenzione alla sua
partenza perché dovevo andare dal commercialista.
Il racconto passa quindi alla fase in cui Trovati si accorse del mancato rientro e
dopo un po’ iniziò a preoccuparsi.
Quando tornai dal commercialista, verso le ore 19,00 circa, e comunque quando era già
notte, notai che il motoscafo non era rientrato. La moto era ancora
parcheggiata all'interno del terreno della darsena, dove l'aveva lasciata, nei
pressi di una pianta. […] Non vedendo il Dr. Narducci ho aspettato una
mezz'oretta senza essere eccessivamente preoccupato, sia perché il Narducci era
particolarmente esperto sia perché il lago era completamente calmo. […] Verso
le ore 19,30 telefonai a casa dei genitori e mi rispose suo fratello. Lo
informai che il Dr. Francesco non era ancora rientrato con il motoscafo e lui
mi rispose che sarebbero arrivati. Verso le ore 21,30 - 22,00 arrivò il
fratello del Dr. Narducci, Dr. Pierluca, insieme al Dr. Ceccarelli, oltre ad
altre due persone, fra cui il cognato. Uscirono con il motoscafo a cercare il
Dr. Francesco; ricordo che non c'era la luna piena e quindi era buio.
Senza neppure attendere l’arrivo dei parenti, Trovati uscì sul lago. Poi tornò alla
darsena e si unì ad altri in una ricerca più organizzata. Alla fine il
motoscafo venne ritrovato vuoto tra le canne dell’isola Polvese.
Dopo avere chiamato i familiari, feci un giro con il motoscafo intorno all'isola
Polvese e non vidi il motoscafo del Dr. Narducci, dove poi è stato ritrovato, e
cioè nel canneto dell'isola Polvese. Quando il motoscafo fu ritrovato, credo
che fosse a circa venti metri dall'isola stessa. Dopo aver fatto il giro
dell'isola, tornai alla darsena e vidi che i familiari erano già arrivati.
Escludo di avere chiamato i Carabinieri e ricordo che c'erano i mezzi della
provincia ma non mi pare che vi fosse la motovedetta dei Carabinieri, se ben
ricordo. Il motoscafo con cui avevo fatto il giro dell'isola aveva un faretto
non molto potente e le canne in mezzo a cui fu ritrovata l'imbarcazione erano
abbastanza alte. Comunque quando tornai alla darsena, i soccorsi erano già
stati organizzati dalla Provincia e noi fummo dotati di baracchino con cui comunicavamo
a distanza. Io fui mandato verso l'isola Maggiore, dove verso le ore 00,30 mi
fu data la notizia che era stata rinvenuta la barca presso l'isola Polvese. […]
Il natante appariva in condizioni assolutamente normali, come se Narducci si fosse
tuffato per una nuotata senza più risalire a bordo (in realtà il suo cadavere vestito di tutto punto faceva escludere questa ipotesi; semmai poteva essere caduto in acqua per un malore).
Appena saputa la notizia, rientrai alla darsena, dove era stata portata la barca. La
barca presentava la leva del cambio del motore in folle ed il motore spento;
c'era anche un pacchetto di sigarette ed un accendino, posti sul sedile
anteriore, vicino a quello di guida. La barca era in perfetto ordine; io provai
il motore che andò regolarmente in moto. Non controllai il livello del
carburante. Quando vidi l'imbarcazione notai che le chiavi erano nel quadro.
Il dado è tratto.
Alla fine di quel frenetico 24 ottobre 2001 Mignini ritenne di aver acquisito sufficienti
elementi per prendere una decisione. Il lettore sa già quale fu, ma facciamo
finta di non saperlo, e cerchiamo di metterci al suo posto. Pare evidente che
con la mancata autopsia e tutti gli altri necessari controlli sul cadavere
fossero state commesse delle irregolarità, delle quali risultavano
responsabili medici e rappresentanti delle forze dell’ordine, peraltro di grado
elevato. Alcuni erano presenti nella testimonianza della Seppoloni, come
l’autorità che lei ricordava in divisa ma che doveva essere il questore
Francesco Trio. E poi i colleghi di Narducci, Antonio Morelli e Ferruccio
Farroni, nonché il fratello Pierluca, che le avevano fatto pressione diretta ma
la cui responsabilità era soltanto morale. Altri personaggi emergevano dai
vecchi e scarni documenti, magistrati, poliziotti e carabinieri che avevano
preso visione delle irregolarità senza creare problemi. Tra loro il capo della
mobile, Alberto Speroni, e un procuratore e un giudice istruttore che avevano
rinunciato a esercitare azione penale.
Si legge in un frammento della requisitoria di Mignini riportato nella sentenza
Micheli, dove si parte da uno scambio tra Ugo Narducci, il padre, e una
testimone:
“Ugo mi prese in disparte portandomi in un’altra stanza, uno studio, e mi disse: mi
sono messo d’accordo con il Questore per non far fare l’autopsia a Francesco”.
Qui siamo al di fuori di qualsivoglia canone giuridico processuale: un privato si
accorda con il funzionario che è sì a capo della Polizia della provincia ma che
è totalmente privo di qualsivoglia competenza di polizia giudiziaria circa il
fatto che un atto che è tipicamente un atto di indagine di competenza
dell’Autorità giudiziaria debba o non debba essere fatto.
Ricordo la dizione dell’art. 16, primo comma del R.D. 28.05.1931 n. 602, sulle
Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: “Se per la morte di
una persona sorge sospetto di reato, il pretore o il procuratore della
Repubblica accerta la causa della morte e, se lo ravvisa necessario, ordina o
richiede l’autopsia…”. Questa, a sua volta, se non fosse apparsa collegata a
ricerche di carattere complesso, si doveva considerare rientrante nelle ipotesi
di cui agli artt. 17, primo comma disp. att. c.p.p. previgente e dall’art. 391,
secondo comma c.p.p. previgente.
Si doveva, quindi, procedere con istruzione sommaria, con il rischio che, data
l’evidente complessità degli accertamenti, il Pubblico Ministero avrebbe
dovuto, con ogni probabilità, richiedere l’istruzione formale al Giudice
istruttore.
Ma, in questo caso, un privato, cioè il padre del morto, si accorda con il Questore
per non compiere un atto che, a norma delle disposizioni allora vigenti, era di
competenza del pretore o del procuratore della Repubblica e avrebbe dovuto dar
luogo ad un vero e proprio processo penale. Ma dove siamo? Anzi, dove eravamo?
In uno sperduto paese del Terzo mondo, con tutto il rispetto per il Terzo Mondo
o nella civilissima Europa e nella sua culla del diritto, cioè l’Italia?
Ovviamente, neppure la polizia giudiziaria, presente sul posto il giorno 13, ha fatto
alcunché in merito a quelli che erano i precisi doveri che il previgente codice
di procedura penale, all’art. 222, faceva carico agli stessi, vale a dire
procedere ai necessari accertamenti e, in generale, alla conservazione del
corpo e delle tracce del reato.
Senz’altro gravi irregolarità, dunque, che però di per sé non costituivano certo il
presupposto per la formulazione di una notizia di reato, poiché, se reati erano
stati commessi, dopo 16 anni risultavano prescritti. Per aprire un procedimento
sulla morte di Narducci c’era una strada soltanto: ipotizzare che la mancata
autopsia avesse avuto lo scopo di nascondere un reato ben più grave, tanto
grave da non essere ancora prescritto. Un omicidio. Ma su quali basi poteva
essere formulata un’ipotesi tanto grave? Prima di rispondere leggiamo alcune
considerazioni di buon senso fatte dal giudice Micheli:
Chi scrive ha lavorato come Sostituto Procuratore della Repubblica, in tre uffici
diversi e complessivamente per quasi 10 anni: costituisce esperienza comune, o
se si preferisce fatto notorio, che i familiari di chiunque sia stato ritrovato
morto per un apparente suicidio o una verosimile disgrazia cerchino molto
spesso di sensibilizzare gli inquirenti per far comprendere quanto sarebbe
drammatico per i loro affetti non solo ammettere l’idea di un’autopsia, con la
necessaria dissezione del cadavere del congiunto, ma anche dover prolungare la
sofferenza della perdita fino al momento di vedersi riconsegnata la salma
(evenienza che qualunque attività formale, per quanto non cruenta,
necessariamente ritarda).
Ergo, è capitato e continua a capitare a tutti, di ricevere la telefonata del
comandante la Stazione dei Carabinieri dove vivono i familiari del defunto, con
il militare a rappresentare il dolore di un padre o di una madre neppure
sfiorati dall’idea che ci siano reati da accertare e che non sanno capacitarsi
della necessità di dover attendere che il medico legale faccia il suo lavoro; e
può certamente accadere che, se quel padre o quella madre conoscono non un
maresciallo dei Carabinieri, ma il comandante della Compagnia o financo il
Questore, la telefonata in questione la faccia qualcuno che si potrebbe pensare
più autorevole.
Le considerazioni di Micheli paiono del tutto condivisibili. Come per qualsiasi
altro familiare di una persona morta, anche a quelli di Narducci non avrebbe
certo fatto piacere un’autopsia. E i Narducci non erano una famiglia di operai,
era gente che in ambito locale contava moltissimo. Per di più Francesco era
sposato con una componente di una famiglia ancora più prestigiosa, in questo
caso addirittura a livello nazionale e internazionale, per le industrie
dolciarie Perugina e la catena di abbigliamento Spagnoli. Quindi non c’è da
stupirsi troppo se le autorità del posto avevano chiuso un occhio di fronte
alle richieste di un padre affranto.
Peraltro la famiglia Narducci aveva un motivo in più per temere l’autopsia: il forte
sospetto di un suicidio, come del resto era apparso chiaro a tutti fin da
subito. Il loro congiunto non era morto per una disgrazia ma si era tolto la
vita, riuscendo in qualche modo a reprimere l’istinto di sopravvivenza e ad
affogarsi. Avrebbe detto il genero, Gianni Spagnoli, in un’audizione del
21 febbraio 2002, la prima di tante: “Al secondo giorno
della scomparsa di Francesco, cioè il 9.10.1985, Pierluca a casa di Francesca
mi disse che non si sarebbe meravigliato se Francesco avesse preso una fiala di
un farmaco che precisò ma di cui non ricordo il nome e si fosse buttato dalla
barca”. I familiari sapevano bene che assieme all’autopsia sarebbe
stato effettuato un esame tossicologico, e se il loro congiunto si fosse
stordito con un farmaco la notizia sarebbe rimbalzata sui giornali, con tutte
le conseguenze del caso.
D’altra parte il racconto di Trovati sulle modalità con le quali Narducci si era
diretto verso il suo tragico destino non offriva alcun appiglio all’ipotesi di
un omicidio, anzi, favoriva quella di un suicidio. Il poveretto si era allontanato
in barca da solo, in un giorno feriale di metà ottobre che, per quanto di bel
tempo, non si conciliava affatto con una gita sul lago. Le sue intenzioni
dovevano essere state ben più tragiche, e molto probabilmente comprendevano il
tentativo di far pensare a una disgrazia, per un gesto di riguardo verso i
propri familiari. Riguardo l’ipotesi dell’omicidio, di sicuro in un film
sarebbe risultato spettacolare un appuntamento con i propri assassini in mezzo
al lago, ma nella realtà molto poco pratico e molto più denso d’incognite
rispetto, tanto per fare un esempio, al banale intervento di un sicario in
mezzo a una strada, magari di sera.
In realtà in quei giorni a Perugia si voleva partire con l’inchiesta Narducci a
tutti i costi, come peraltro viene confermato dallo scenario delle minacce
telefoniche. E Mignini, fino a prova contraria in buona fede ma comunque in un modo
che non si può non giudicare almeno avventato – e se dietro le telefonate ci fosse stata
la misteriosa setta che intendeva depistare? – agì di conseguenza, e il 25
ottobre 2001 iscrisse a modello 44 un nuovo procedimento, il famoso 17899/01.
Si legge sul frontespizio del fascicolo:
* NR. 017869/01 * DEL 09/10/2001
– IGNOTI – ISCRITTA IL 25/10/2001
==============================================
P.M. DELEGATO DR. GIULIANO MIGNINI
* NOTIZIE DI REATO *
(001) – CP 0575, CP 0576,
(002) – CP 0577, CP 0061 Num. 02 Num. 04,
PERIODO DAL: IN EPOCA ANTERIORE E PROSSIMA AL 13/10/1985
PERIODO AL: //
IN MAGIONE
* LISTA PARTI OFFESE/RIFERIMENTI *
COGNOME E NOME: NARDUCCI / FRANCESCO
La data del 9 ottobre dovrebbe riferirsi all’apertura del fascicolo provvisorio,
il 5202/01/45. Il reato ipotizzato è l’omicidio (CP 0575) con aggravanti (CP
0576, CP 0577, CP 0061). Le aggravanti previste dai tre articoli sono molte, e
chi scrive non sa bene quali intendesse Mignini, è interessante però la
specifica del capoverso 2 dell’articolo 61, dove l’aggravante è così descritta:
“L'aver commesso
il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o
assicurare a sé o ad altri […] la impunità di un altro reato”. E qui
si arriva al nucleo della questione, alla stessa ragion d’essere del
procedimento: l’ipotesi che Francesco Narducci fosse stato ucciso dall’organizzazione
segreta che avrebbe commissionato i delitti del Mostro, della quale lui stesso
avrebbe fatto parte e che avrebbe avuto intenzione di denunciare. Ipotesi tanto
audace quanto fantasiosa, ben compatibile con le trame dei romanzi che Giuttari
e i suoi editor di lì a un paio d’anni avrebbero cominciato a concepire.
Nella sostanza, con l’apertura del procedimento 17869/01/44, si riconfigurava a
Perugia quello scenario dei mandanti che a Firenze aveva appena finito di
dimostrare tutta la sua inconsistenza.
Un’inchiesta dura a morire.
E qui non possiamo far altro che tornare al tema d’apertura, quello delle
“Cattedrali nel deserto”. Dando il via all’inchiesta sulla morte di Francesco Narducci
e sui suoi eventuali legami con le vicende dei duplici omicidi di Firenze il
pubblico ministero Giuliano Mignini s’incamminò lungo una strada dalla quale
non sarebbe più riuscito a tornare indietro, nonostante se ne fosse presto resa
evidente la mancanza di sbocchi. A nulla sarebbe servita la costante
interpretazione di ogni elemento in chiave malevola (la sentenza Micheli offre
numerosissimi esempi al riguardo). Alla fine l’inchiesta si sarebbe
aggrovigliata su se stessa, finendo per impiegare le maggiori risorse non più
tanto sull’ipotesi di reato iniziale, ma sulla difesa dalle critiche dei
giornalisti e dai tentativi delle autorità di porle un freno. Come una belva
affamata priva di cibo si sarebbe rivoltata anche contro qualche incolpevole
testimone accusandolo di reticenza o intralcio, come nel caso di Donatella
Seppoloni e Giuseppe Trovati.
E non dimentichiamo i costi economici. Si legge nella sentenza Micheli:
“È una vicenda complessa, forse la più complessa, la più dirompente e la più
tormentata che la cronaca giudiziaria di questa sede perugina ricordi.”
Il Procuratore della Repubblica, nella requisitoria depositata per atto scritto e
che verrà riportata di seguito per ampi stralci, ha usato queste parole per
definire il processo che viene definito con la presente sentenza. Prescindendo
in questa fase introduttiva dalle cause che hanno portato a tale situazione
concreta, ma è un punto su cui si dovrà almeno implicitamente tornare, si può
essere senz’altro d’accordo sulla conclusione: di rado gli atti trasmessi dal
P.M. al Giudice dell’Udienza Preliminare per corredare una richiesta di rinvio
a giudizio hanno una mole anche lontanamente assimilabile agli oltre 100
faldoni di carte che qui sono stati raccolti; e forse mai (ma il forse è un
eufemismo) questo Ufficio è stato chiamato a pronunciarsi su fatti storici che
trovano antecedenti – e, secondo l’impianto accusatorio, motivazioni – in
episodi risalenti a 25 anni prima.
Si aggiungano tutti i procedimenti collaterali, come quello stralciato per i
legami con i delitti di Firenze, poi archiviato per mancanza di elementi su
richiesta dello stesso PM. Ma anche l’inchiesta fiorentina sui mandanti si
sarebbe presto arenata senza la pista Narducci; invece andò avanti fino a
portare in giudizio il povero farmacista Francesco Calamandrei, il quale
naturalmente sarebbe stato assolto. E non dimentichiamo il GIDES, la struttura
investigativa di Giuttari, nata in seguito all’apertura dell’inchiesta
Narducci, che per quattro anni impiegò nove poliziotti a tempo pieno in
indagini inutili. Sarà mai disponibile una valutazione dei costi di tale
gigantesca attività, che alla fin fine si proponeva di scoprire chi avesse
acquistato sei poveri brandelli di carne umana?
Si legge nella sentenza Micheli:
Una prima osservazione, su un piano di inquadramento complessivo della storia di
questo processo (“storia” è parola che normalmente non si addice ad atti di
indagine o di esercizio dell’azione penale, ma qui sembra pertinente), riguarda
il perché di quegli accertamenti: ritiene il giudicante che siano state
compiute indagini perché era doveroso farle, pur non essendo condivisibili le
conseguenze che oggi il Pubblico Ministero sostiene sia necessario ricavarne.
E non vi sarebbe stato motivo di compierle se 25 anni fa le cose fossero andate
diversamente, seguendo un pur minimo standard di completezza nelle acquisizioni
istruttorie conseguenti alla morte di Francesco Narducci. In altre parole, che
il 13 ottobre 1985 non venne fatta non solo un’autopsia, ma neppure uno
straccio di visita esterna degna di questo nome, sulla salma dell’uomo
ripescato dalle acque del Lago Trasimeno (si affronterà in seguito il problema
se potesse trattarsi di una persona diversa dallo scomparso), è qualcosa di
francamente inconcepibile.
Chi scrive trova le considerazioni di Micheli in genere condivisibili. In questo
caso però no. Ci saranno anche state delle gravi irregolarità riguardo la
tumulazione di Narducci, ma quali elementi potevano farle inquadrare in
un’ipotesi di omicidio? Le telefonate di minaccia alla Falso dove il nome di
Narducci neppure compariva? Le fantasiose ipotesi di Giuttari sui mandanti dei
delitti di Firenze? Le malevole chiacchiere dei perugini su Narducci coinvolto
in quei delitti e dei quali poteva quindi divenire un mandante?
Da libero cittadino italiano che vedrebbe volentieri le proprie tasse meglio
impiegate da una magistratura sempre in affanno, chi scrive si sente di poter
affermare che quel 25 ottobre 2001, giorno di apertura del procedimento
giudiziario 17869/01/44, sarebbe stata
una fortuna se Giuliano Mignini avesse iniziato a occuparsi di una delle tante
vicende di malefatte più ordinarie che probabilmente anche a Perugia, come in
tutt’Italia, giacevano in attesa su qualche scaffale.
L'articolo finisce qui. Ma non finisce qui l'interesse di questo blog per la vicenda
Narducci. Esamineremo più avanti il modo con il quale le indagini cominciarono
a scavare in fatti risalenti a 16 anni prima, con quali difficoltà e con quali
rischi di travisamento è facile immaginare. Come nel caso dell'ormai famoso ispettore Luigi Napoleoni.
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Ancora un grazie a Francesca Calamandrei, che ha reso possibile questo nuovo articolo
mettendo a disposizione il suo prezioso archivio. È motivo di grande soddisfazione per
chi scrive continuare a fornire il suo piccolo contributo alla battaglia che sta ancora
conducendo per eliminare gli ottusi sospetti sulla figura del padre, duri a morire
nonostante la legge abbia riconosciuto i propri errori assolvendolo per insussistenza del reato.