Terzo, quarto e quinto riscontro
Presenza
di un taglio nella tela della tenda, nella parte posteriore.
Rinvenimento
di n. 8 “bossoli” calibro 22 nello spazio antistante l’apertura principale della
tenda nonché di un altro bossolo all’interno della tenda sul materasso.
Modalità
di fuga e modalità di ferimento del giovane francese a colpi di coltello.
La sentenza dedica ben tre dei
riscontri esterni alla presenza di Giancarlo Lotti sulla scena del crimine dimostrata dalle
informazioni da lui stesso fornite agli inquirenti e in qualche modo ripetute
in dibattimento (vedi). Secondo i giudici “certi particolari e certe modalità dell’azione
omicida […] potevano essere colti e riferiti soltanto da chi aveva avuto modo
di assistere alla materiale esecuzione degli omicidi”. Nonostante
l’immane confusione di mezze frasi, dichiarazioni contraddittorie e spiegazioni
che nulla spiegavano, non si può negare che Lotti fosse molto ben
informato sulla scena del crimine e sulla dinamica del delitto. Tutte notizie
reperibili sui giornali, le sue, ma certo riesce difficile vedere un
personaggio quasi analfabeta come lui che si era documentato per bene. E poi,
perché? Vedremo, in una prossima occasione, che al processo d’appello il
procuratore generale Daniele Propato non avrebbe nascosto i propri dubbi e le proprie perplessità. Il
magistrato non credeva alle parole di Lotti, però così disse nella propria requisitoria (vedi):
“tanti particolari che lui racconta in qualche modo
s’incastrano con gli avvenimenti… e questo rimane per me il mistero Lotti”. In ogni caso, accanto a descrizioni di massima ragionevoli, i racconti del presunto pentito
contenevano anche grosse incertezze e abbagli, in una mistura per la quale
riesce difficile trovare una plausibile spiegazione. Ma i giudici di
primo grado non si posero troppe domande, e ritennero di poter così
giustificare le parti meno convincenti dei suoi racconti:
Va tuttavia precisato che il Lotti, dal punto
in cui è venuto a trovarsi all’atto dell’inizio della materiale esecuzione dei
delitti, non ha potuto oggettivamente vedere e “cogliere” tutto, un po’ per la
distanza, un po’ per l’ora notturna, un po’ per la rapidità dell’azione e un
po’ per impedimento della visuale da parte dell’omicida, come appunto è
accaduto in occasione del ferimento e dell’uccisione del giovane a coltellate
durante la fase di tentativo di fuga verso il bosco. Si spiegano così alcune sue
“incertezze” o “imprecisioni”, come quella in ordine al tipo di arma bianca
usata dal Pacciani in occasione dell’inseguimento del giovane.
Riguardo le condizione di luce, è
senz’altro vero che non erano ottimali, ma è bene precisarle un po’ meglio,
prima di proseguire. Lotti affermò di essere arrivato sul posto alle 23, e che
l’aggressione sarebbe avvenuta quasi subito, il tempo di salire fino alla tenda
a prendersi i rimproveri di Pacciani, quindi entro cinque, dieci minuti. In
quei momenti la piazzola era avvolta nella più profonda oscurità, poiché la
luna, all'ultimo quarto e quindi neppure troppo luminosa, sorgeva alle 0.14 ora legale (in vigore fino al 29 settembre). Secondo Lotti gli assassini non si erano avvalsi
di alcuna fonte luminosa (a parte la non ritrovata luce da campeggio delle
vittime, la quale, a suo dire, avrebbe illuminato l’interno della tenda), quindi sia
l’azione omicidaria sia le sue osservazioni si sarebbero svolte in un buio pesto,
il che va tenuto ben presente quando se ne valutano i racconti. Peraltro, sulla
presenza della luna, sia lui che Pucci mentirono, anche in dibattimento: per
Lotti “c'era un
po' di luna”, per Pucci addirittura “c'era la luna, si vedeva proprio bene”.
Torniamo però ai tre “riscontri
esterni”, partendo dal taglio nella tenda. I giudici ritennero di grande
rilevanza probatoria il fatto che sia Pucci che Lotti avessero dimostrato di
essere al corrente della sua esistenza, descrivendo Vanni mentre lo produceva
con un coltello. Dimenticarono però di domandarsi il perché, in istruttoria, da
quel taglio lo avessero anche fatto entrare, cosa del tutto impossibile, sia
per la dimensione insufficiente sia per la presenza del telo interno rimasto
intatto. Nel serrato controinterrogatorio di Filastò, dovendo far fronte a
quelle sue prime dichiarazioni assurde, Lotti incespicò più volte, dicendo e poi
negando ciò che aveva appena detto, e sostenne che forse si era sbagliato: “Sarà stato uno
sbaglio che... lì per lì non ho visto bene se gli era entrato”.
Aveva visto bene però il movimento del coltello, nonostante il buio profondo,
quindi doveva trovarsi vicinissimo a Vanni. Naturalmente in sentenza non c’è
alcuna traccia di queste inquietanti discrepanze.
Per il secondo riscontro, la
posizione dei bossoli, possono farsi considerazioni del tutto analoghe. Per i
giudici quei bossoli a terra sarebbero stati una conferma al racconto di Lotti
sulle modalità della sparatoria, dall’ingresso della tenda verso l’interno. Con
il solito lavoro di taglia e cuci la sentenza mette in bocca al presunto
pentito queste parole: “"Pacciani… quando gli è sortito questo francese gli è
andato dietro, li unn'ha sparato, gli ha sparato innanzi, prima di sortire... gli
spari li sentii... prima che sortisse dalla tenda, questo ragazzo”.
Peccato però che in fase d’incidente probatorio (19 febbraio 1997, vedi) Lotti avesse escluso
spari verso la tenda, parlando invece di spari verso il ragazzo in fuga:
Lotti: Vidi che l'aveva
preso qui dal collo, poi scappa e si lascia. Insomma andò via, e poi cominciò a
sparare.
PM: Lei vide che lo
prese per il collo mentre il ragazzo era in piedi?
Lotti: Poi sarà stato
disivincolato per andare via, e a quel punto ho sentito che gli sparava.
PM: Ma ha sentito
sparare?
Lotti: Si, s'è
svincolato, s'è liberato e ho sentito che sparava.
PM: Aveva sentito
spari anche in precedenza?
Lotti: No no. Senti'
quando andò via... dietro dalla tenda e andò fuori.
PM: Cioè gli spari li
sentì quando questo usciva dalla tenda?
Lotti: Si... dopo che
l'aveva preso ho sentito degli spari e che andava via.
Avvocato
S. Franchetti: Pacciani gli sparò, al ragazzo, sulla porta?
Lotti: No... gli dette
dietro e poi lo prese per il braccio e cominciò a sparare.
Avvocato
S. Franchetti: Sparava correndo?
Lotti: Sì.
Avvocato
S.Franchetti: Lei non ha visto o sentito spari verso la tenda?
Lotti: Io ho sentito gli
spari quando è fuori... quando c'era quell'altro, il ragazzo che scappava.
Sappiamo già qual’era la chiave
interpretativa dei giudici per gli aggiustamenti di Lotti, visti come dei tentativi
di ridimensionare le proprie responsabilità poi via via abbandonati, ma in
questo caso quella chiave non è applicabile, poiché, rispetto a essa, le modalità
della sparatoria erano del tutto neutre. Viene piuttosto da pensare che
all’epoca dell’incidente probatorio ancora Lotti collocava Vanni nella
tenda, quindi Pacciani non poteva spararvi dentro. In dibattimento aveva invece
messo in forse questa versione, e con essa aveva anche cambiato la dinamica
degli spari. Di questo “travaglio”, per il quale sarebbe stata necessaria una
plausibile spiegazione, nella sentenza non c’è traccia. Eppure i giudici
dovevano esserne informati, poiché le dichiarazioni rilasciate durante un
incidente probatorio hanno il medesimo valore di quelle del dibattimento, e
vengono sempre e comunque allegate agli atti.
Anche sul terzo riscontro, le
modalità di fuga e ferimento del ragazzo, le perplessità non mancano. C’è da
dire che la descrizione dell’accoltellamento risultava assai compatibile con la
dinamica ricostruita dai periti, e questo era senz’altro un grosso punto a
favore della presenza di Lotti sulla scena del crimine. Ma per aver visto così bene i
movimenti delle braccia dell’aggressore, l’individuo doveva essersi trovato
molto vicino. Michel era stato ucciso dentro una specie di corridoio, una parte
di piazzola separata dalla principale da una fitta fila di cespugli alti quasi
quanto una persona. L’assassino lo aveva colpito al culmine di un inseguimento,
quindi Lotti, per poter cogliere l’azione nel buio completo, a sua volta
avrebbe dovuto inseguire i due, il che pare francamente improbabile e
grottesco. E poi, come in molti altri casi, a un particolare veritiero Lotti
ne affiancò uno sbagliato, affermando che Michel sarebbe stato nudo soltanto
dalla cintola in su, mentre in realtà lo era del tutto. Ma i giudici gli
concessero ampie giustificazioni:
[…] il particolare della completa nudità non è
stato colto in quegli attimi dal Lotti, essendo l’azione di fuga del giovane
avvenuta in pochi attimi ed essendo stata poi l’attenzione dello stesso Lotti
attratta dalla condotta dell’omicida che cercava di raggiungere e colpire il
giovane nella parte superiore del tronco della persona, che non è quindi
sfuggita all’attenzione dell’imputato, a differenza di quella inferiore sulla
quale non ha invece avuto il tempo di soffermarsi con lo sguardo.
Pare evidente che qualsiasi
castronata avesse raccontato Lotti, i giudici avrebbero comunque escogitato
il modo di neutralizzarne gli effetti negativi sulla sua credibilità, o
ignorandola o trovandole una spiegazione. Dopo un esempio del secondo caso,
possiamo fornirne subito uno del primo. Lotti disse che quando Pacciani si era
riavvicinato alla tenda dopo l’inseguimento, lì accanto c’era Vanni. A quel
punto i due sarebbero entrati per mutilare la donna. “Ci vuol raccontare come li ha visti entrare
dentro la tenda, in che modo?”, chiese Filastò. “Camminando. Come
una persona che cammina normale, un so io”, rispose Lotti.
Sull’altezza della tenda c’è una certa confusione, si va da un minimo di 110 cm
a un massimo di 140, ma anche prendendo per buona la misura massima, avremmo
una cerniera di apertura alta non più di 120 cm, dalla quale quindi non si
poteva passare neppure chinandosi: si doveva entrare carponi. Dopo
l’inevitabile e veemente contestazione di Filastò, intervenne il Presidente a
cercare un punto d’incontro: “L'avvocato voleva dire questo: la tenda non consente di
stare in piedi, la persona non può entrare in piedi”, ma Lotti
rigido: “Se sono
entrati abbassando, no. Io l'ho visti in piedi così”. Naturalmente
niente di tutto questo compare in sentenza.
Sesto riscontro
Ora del duplice omicidio, accertata con perizia,
“prima della mezzanotte”, tra domenica 8 e lunedì 9 settembre 1985, a due ore
circa dal termine dell’ultimo pasto.
Secondo la sentenza,
costituirebbe un riscontro esterno alle dichiarazioni di Lotti l’affermazione,
contenuta nella perizia autoptica di Mauro Maurri, secondo la quale i due
francesi sarebbero stati uccisi “nettamente prima della mezzanotte” di domenica 8
settembre. È vero che anche Lotti aveva collocato il duplice omicidio in quel
giorno e in quell’orario, si deve però osservare che si tratta di un “riscontro
esterno” tirato per i capelli. La data ufficiale dell’omicidio era un’informazione
macroscopica, accessibile a tutti in mille modi, quindi che anche Lotti la
conoscesse non vuol dire proprio niente. Riguardo invece l’ora, l’averla
collocata a mezza sera sembra un fatto del tutto normale. Del resto era stato
lo stesso Vigna a fornire al presunto pentito le due informazioni, proprio all’inizio
dell’interrogatorio durante il quale egli avrebbe ammesso la sua presenza a
Scopeti: “Signor
Lotti, la sua auto, la Fiat 128 coupé, quella domenica è stata vista in via
degli Scopeti dopo le undici di sera”.
Prima di chiudere vale la pena fare una considerazione sulla data. Lasciamo perdere le successive risultanze
delle valutazioni entomologiche sulle fotografie, delle quali i giudici non erano a conoscenza, che la collocano
uno o due giorni prima della domenica. Però già allora si sarebbe dovuto
ragionare di più sulla questione della rigidità cadaverica, invocata per dimostrare
l’ora della morte e con la quale invece la sentenza si dà la zappa sui piedi. La
perizia Maurri, scaricabile qui,
è contraddittoria sull’argomento, e in altra occasione si avrà modo di
discuterne, tuttavia in questa sede interessa quanto ne avevano recepito i
giudici. Ebbene, in sentenza si afferma che nelle due salme la rigidità
cadaverica si era “risolta del tutto” alla mezzanotte di lunedì,
quindi a distanza di circa 25 ore dal momento in cui sarebbero avvenuti gli
omicidi. I manuali di medicina legale affermano però che di norma il
fenomeno scompare tra le 48 e le 72 ore dopo la morte, e se sotto certe
condizioni tale risoluzione può anche anticiparsi, ciò non avviene mai prima di
36 ore, un limite peraltro raggiungibile soltanto in presenza di temperature
molto alte (non era il caso di quei giorni di fine estate, dove la temperatura
media nella zona non superava di molto i 20 gradi). Possiamo quindi concludere
che l’osservazione dei giudici sull’argomento, lungi dal costituire un riscontro
al racconto di Lotti, al contrario lo contraddice, poiché, anche nell’ipotesi
teorica più favorevole, il delitto non avrebbe potuto collocarsi dopo le
ore 12 della mattina di domenica!
Settimo riscontro
Presenza
dell’auto Ford Fiesta del Pacciani, nella notte del delitto, sulla stradina
accanto al cancello che porta ad una villa, nella zona dirimpetto alla strada
sterrata che, dalla strada asfaltata per San Casciano, porta alla piazzola del
delitto.
Cominciamo con l’osservare che
nessuna perplessità ebbero i giudici nell’accettare il fatto che gli assassini
avessero parcheggiato la propria auto in quella posizione così a rischio di
avvistamenti, per di più proprio nella zona dove risiedevano. Eppure almeno
qualche parola avrebbero dovuto spenderla, tanto più che i loro colleghi del
processo Pacciani avevano ragionato in modo del tutto opposto:
Esiste poi un'altissima probabilità se non
addirittura l'assoluta certezza che l'assassino, o gli assassini, quella sera
abbiano percorso proprio quei sentieri attraverso il bosco per giungere, non visti,
fin sotto la piazzola ove erano attendati i francesi. Il motivo di ciò è abbastanza intuitivo: posto
che chi aveva intenzione di commettere il crimine non poteva che usufruire di
un mezzo motorizzato, per raggiungere e per allontanarsi più facilmente dalla zona
operativa, ben difficilmente egli avrebbe percorso quella sera la via degli
Scopeti. Questa infatti, pur avendo un accesso diretto alla piazzola, era
strada di notevole traffico di giorno e di notte, in quanto unica arteria di
collegamento, in alternativa alla Autopalio, tra la via Cassia e S.Casciano,
come dire quindi tra quest'ultima importante località ed il comprensorio
fiorentino, per di più poi la domenica sera quando vi era il rientro dalle gite
in città. In tali condizioni sarebbe stato quanto mai arrischiato transitare
con un mezzo motorizzato, meno che mai con un'auto, che avrebbe dovuto poi essere
posteggiata in qualche punto lungo la strada, ed avrebbe potuto facilmente
essere avvistata o comunque dare nell'occhio a più di una persona. Molto più
sicuro sarebbe stato invece lasciare il mezzo, e dunque anche l'eventuale auto,
a congrua distanza lungo la via di Faltignano, in una zona solo apparentemente
distante dall'obbiettivo e di lì scendere agevolmente a piedi verso il vasto
bosco.
L’opinione di quei giudici
certamente non sorprende, poiché loro intento era quello di avvalorare
l’avvistamento dell’auto di Pacciani da parte di Lorenzo Nesi all’incrocio tra
via Scopeti e via Faltignano; in ogni modo la loro ipotesi pare del tutto
ragionevole. D’altra parte la testimonianza Nesi non s’incastrava affatto nello
scenario descritto da Lotti, almeno così com’era stata interpretata dai giudici
del processo Pacciani. Allora, infatti, si era ipotizzato che la Ford Fiesta
stesse tornando verso San Casciano dopo l’omicidio, che quindi doveva essere
stato compiuto tra le 20 e le 21, considerando l’orario dell’avvistamento
(21.30-22.30) e l’ora e più necessaria per attraversare il bosco fino al punto
dove sarebbe stata parcheggiata l’auto. Ma per Lotti le cose erano andate in
modo del tutto differente; e allora, perché Vanni e Pacciani, tra un’ora e mezza
e mezz’ora prima dell’omicidio, avrebbero percorso via Faltignano per poi
dirigersi verso il paese? Naturalmente la sentenza non rinuncia affatto alla
testimonianza Nesi, senza la quale la nuova inchiesta neppure sarebbe partita,
ma con estrema disinvoltura la reinterpreta:
Tale presenza del Pacciani all’incrocio con
via Faltignano, in un’ora prossima al delitto, è quindi quanto mai
significativa, rivelando che lo stesso si stava aggirando con un complice “in
zona” in attesa dell’ora dell’appuntamento sul posto fissato con il Lotti per
le ore 23.
Né può trarre in inganno il fatto che in quel
momento il Pacciani si stesse dirigendo con l’auto verso San Casciano e non
verso la piazzola, come ha ancora riferito il Nesi, perché la cosa può
ragionevolmente spiegarsi o con la necessità di far passare in qualche modo il
tempo che ancora lo separava all’ora del delitto (senza tuttavia farsi vedere
troppo vicino al luogo della piazzola) o con la necessità di andare
effettivamente verso San Casciano per prendere la pistola e quant’altro,
operazione che poteva essere chiaramente compiuta solo all’ultimo momento, onde
evitare qualunque rischio connesso alla circolazione con l’arma in ore lontane
dal delitto.
Secondo i giudici, dunque, invece
di partire poco prima dell’ora stabilita, per passare il tempo Vanni e Pacciani
si sarebbero aggirati inutilmente e pericolosamente nella zona del delitto,
tanto da finire per essere avvistati dal Nesi; però, almeno, avrebbero avuto
l’accortezza di non portarsi appresso la pistola, casomai fossero stati fermati
dalla polizia e perquisiti! La logica perversa di tale ragionamento si commenta
da sola, e confrontata con quella della sentenza Pacciani fa riflettere una
volta di più su quanto mutevole possa diventare la verità processuale piegata
dalle convinzioni (e convenienze) dei giudici.
Oltre a quella del Nesi
opportunamente riciclata, per dimostrare la presenza dell’auto di Pacciani
sotto la piazzola di Scopeti la sentenza fa appello alla testimonianza della
signora americana Sharon Stepman, della quale abbiamo già visto qui.
La rilettura dell’articolo convincerà facilmente che si tratta di un riscontro
del tutto fasullo.
Sull’argomento ci sono poi le
enormi contraddizioni nei racconti di Lotti e Pucci. Intervenendo durante la
deposizione di Pucci, Lotti aveva affermato che quando lui e l’amico erano
giunti sotto la piazzola, Vanni e Pacciani si trovavano ancora nella loro auto,
parcheggiata dentro lo slargo d’ingresso alla proprietà Rufo, tantoché li aveva
visti scendere, attraversare la strada e salire fino alla tenda. Ma quando fu
lui a sedere sul banco dei testimoni, Mazzeo gli ricordò che all’incidente
probatorio aveva detto che i due si trovavano già su (“Poi ci si ferma…e vidi loro che erano lassù,
vicino alla macchina”), ottenendo una conferma. Al Presidente non
sfuggì l’evidente e grave contraddizione, e poco dopo gliene chiese conto; al
che Lotti si giustificò affermando d’essersi espresso male al tempo, e che
valeva quanto aveva appena detto (“… un mi sono espresso bene io… gl'è... questo preciso... che
dico ora. Li ho visti lassù, gl'erano arrivati da allora, però gl'eran
di già nella piazza”). Ebbene, la sentenza ignora del tutto sia
l’incidente probatorio, sia lo scambio con il Presidente, e prende per buone le
parole di Lotti pronunciate al momento della deposizione di Pucci!
prima di scendere dalla propria auto aveva
visto Pacciani e Vanni attraversare la strada asfaltata, dal punto dove era
parcheggiata la Ford Fiesta, e dirigersi verso la tenda: “… loro scesero prima
di noi… Vanni e Pacciani… andettero su verso la tenda… noi s’era sempre dentro
la macchina, si scese dopo, dopo un pochino…”
Già un appuntamento dato dai due
assassini al loro “palo” direttamente sul luogo e all’ora del delitto era una
circostanza davvero poco credibile, e infatti, più logicamente, nei racconti
sui precedenti delitti i tre si erano sempre mossi assieme (Mazzeo chiese
spiegazioni sul perché della differenza, ma Lotti non fornì alcuna risposta
sensata: “Mah, a
quello, ritornavan sempre innanzi anche come... anche come quegli altri. Cioè
si scese, l'è sempre la solita cosa”). Se in più si fosse aggiunto
che Vanni e Pacciani erano già saliti alla piazzola ancor prima dell’arrivo di
chi avrebbe dovuto fare da “palo”, il racconto da poco sarebbe diventato per
nulla credibile. Come in molti altri casi, la sentenza non si pone alcuna
domanda sul perché Lotti si fosse contraddetto, ignorandone del tutto l’ultima
dichiarazione, anche se era stato lo stesso Presidente a raccoglierla.