Segue dalla prima parte
Quasi sei anni fa – i file sono datati 25 agosto 2013 – iniziò a circolare in rete la trascrizione PDF quasi completa dei due rapporti investigativi del colonnello Nunziato Torrisi, summa delle indagini condotte su Salvatore Vinci negli anni 1984-86. Da quel momento schiere di appassionati si lasciarono rapire dalla vena iper colpevolista dell’autore, con il conseguente ampliamento della platea di chi identificava il Mostro nell’intrigante fantasista del sesso a 360 gradi che il militare aveva descritto. Si ricordano dei “Quaderni di approfondimento”, circolati sul mai troppo rimpianto forum di Ale, tanto pieni di entusiasmo quanto ostici da leggere. Sia in questi, sia nelle discussioni in rete, la clamorosa assoluzione di Vinci per la morte della moglie veniva considerata nient’altro che un piccolo neo del quadro generale da respingere senza troppi rimorsi.
Quasi sei anni fa – i file sono datati 25 agosto 2013 – iniziò a circolare in rete la trascrizione PDF quasi completa dei due rapporti investigativi del colonnello Nunziato Torrisi, summa delle indagini condotte su Salvatore Vinci negli anni 1984-86. Da quel momento schiere di appassionati si lasciarono rapire dalla vena iper colpevolista dell’autore, con il conseguente ampliamento della platea di chi identificava il Mostro nell’intrigante fantasista del sesso a 360 gradi che il militare aveva descritto. Si ricordano dei “Quaderni di approfondimento”, circolati sul mai troppo rimpianto forum di Ale, tanto pieni di entusiasmo quanto ostici da leggere. Sia in questi, sia nelle discussioni in rete, la clamorosa assoluzione di Vinci per la morte della moglie veniva considerata nient’altro che un piccolo neo del quadro generale da respingere senza troppi rimorsi.
L’improbabile
ipotesi di Torrisi sul presunto omicidio di Barbarina Steri come origine della
futura attività di serial killer di Salvatore Vinci è oggi più viva che mai. In
chi scrive la tentazione di confutare questa ennesima “leggenda” è sempre stata
forte, ma il rischio di trovarsi invischiato in infinite e sterili polemiche dovute
a interpretazioni critiche – e quindi soggette a contestazione – degli schieratissimi
rapporti Torrisi, ancora più forte. Sul processo del 1988, che nella loro parte
riguardante l’omicidio della Steri quei rapporti aveva respinto, c’erano soltanto
le cronache giornalistiche, dalle quali appariva evidente la pessima figura
rimediata dal colonnello dei carabinieri in aula, ma che comunque costituivano
materiale insufficiente. Serviva nuova documentazione.
Una visita dello
scorso anno nell’archivio dell’avvocato Vieri Adriani ha procurato diversi
verbali delle testimonianze raccolte nel 1960, e soprattutto il prezioso
rapporto giudiziario dei carabinieri. In più, nella medesima occasione, sono
stati rinvenuti il mandato di cattura del 1986 e il successivo rinvio a
giudizio. Mancava però la sentenza, unico documento dal quale si sarebbe potuto
capire quali erano stati i ragionamenti dei giudici nell’escludere l’omicidio, che
quindi si è deciso di richiedere al tribunale di Cagliari. Le sentenze sono atti
pubblici, e in linea teorica è sempre possibile ottenerne copia dagli appositi
uffici, ai quali bisogna inoltrare una richiesta motivata, che però non è detto
venga soddisfatta, sia per ragioni pratiche, tipo documenti che non si trovano
o insufficienza di risorse umane del tribunale, sia per insindacabili ragioni
di opportunità (non a caso è il presidente che deve dare l’autorizzazione
finale). Lo scrivente, dopo alcune telefonate esplorative, il 19 novembre dello
scorso anno tale richiesta l’ha inoltrata via email. E finalmente il 23 gennaio
il PDF della sentenza è arrivato. Un grazie doveroso quindi alla gentilezza
della dirigente preposta all’archivio, la dottoressa Luisa Porra, e soprattutto
al lavoro della sua collaboratrice, la signora Efisietta Orrù. Il prezioso
documento è scaricabile qui.
In questa
seconda parte di articolo utilizzeremo sia le informazioni sia i ragionamenti
contenuti in sentenza per dimostrare che la decisione dei giudici di assolvere
Salvatore Vinci per il presunto omicidio della moglie fu ben motivata, con la
conseguenza che lo storico deve considerare l’individuo innocente per quel
delitto – che poi delitto non fu –, indipendentemente dagli eventi successivi.
Le risultanze medico-legali. Attraverso
quali elementi la morte di Barbarina Steri poteva essere attribuita a un
omicidio e non a un suicidio? Abbiamo già visto che i carabinieri intervenuti
nelle ore successive al decesso non avevano rilevato macroscopici segni di
violenza sul corpo, potendo così ipotizzare nel loro rapporto giudiziario che
la donna si fosse tolta la vita lasciandosi soffocare dal gas. Lasciarono però
la porta aperta alla possibilità di una differente valutazione sulla base del parere
di chi aveva effettuato l’autopsia. Tale parere fu rilasciato in apposita
perizia dal prof. Raffaele Camba (deceduto alla riapertura del caso), che la
sentenza così riassume:
Dava atto il medico
legale nella descrizione esterna del cadavere che lo stesso presentava rigidità
in tutti i distretti di elezione, con macchie ipostatiche piuttosto abbondanti,
di colore rosso bluastro, alle regioni declivi del dorso.
All’attenta
disamina dei distretti corporei il perito rilevava piccole escoriazioni, a tipo
di unghiatura, con concavità rivolta verso il labbro superiore, situate sullo
zigomo destro. Nella regione mastoidea destra una piccola soffusione da
pressione, foggiata a virgola. Null’altro di rilevante osservava il perito.
Nella relazione
peritale si affermava che la morte era stata determinata da “sincope
respiratoria” conseguente ad inalazione di gas liquido per azione suicidaria.
A tale conclusione
il perito giungeva sulla base del dato anatomo-istologico che evidenziava
elementi caratteristici della morte asfittica anossiemica senza alterazioni
tossiche particolari e di dati storici desunti dagli atti e da un riferito
accertamento di P.G. circa l’acquisto della bombola di gas effettuato da pochi
giorni, con la conseguenza appunto che la bombola stessa dovesse ritenersi al
momento del fatto praticamente colma.
In particolare il
perito, rammentato che la miscela di gas propano e butano, utilizzata per le
bombole di gas liquido in commercio, non è tossica ma produce in ambiente
chiuso una progressiva sostituzione di ossigeno presente nell’aria con il gas
stesso e che ciò comporta dapprima effetti narcotici e poi anossemia, riteneva
di potere spiegare i graffi al volto della Steri, la lesività riscontrata in
regione mastoidea destra e la presenza di frammenti di epidermide rilevati
sotto la cavità ungueale di due dita della mano sinistra della donna con
l’irrequietezza motoria di costei, allorché s’era manifestato il primo effetto
della marcata presenza nell’ambiente del gas, ed agli stessi fenomeni motori
disordinati riportava anche il presunto tentativo della donna di raggiungere,
chiavi in mano, la porta della stanza. Tentativo non riuscito per l’instaurarsi
di fenomeni di atassia, o, comunque, per perdita di coscienza o per caduta al
suolo.
Gli inquirenti
fiorentini fecero esaminare la perizia Camba e tutti gli atti a essa connessi
da un loro perito di fiducia, Maurizio Fallani, il cui parere non si discostò
poi molto da quello del suo collega di allora. Anche per Fallani, infatti, la
causa della morte doveva identificarsi nell’asfissia dovuta a inalazione di
gas, ma non respirato attraverso l’ambiente – data la bassa concentrazione che esso
avrebbe potuto raggiungere, calcolati i volumi e le quantità in gioco – ma inalato
direttamente tramite la canna della bombola introdotta in bocca. Per Fallani,
una simile meccanica risultava compatibile sia con un suicidio sia con un
omicidio, ritenendo quest’ultimo maggiormente probabile. Il motivo stava nella
presenza delle “unghiature” riscontrate sul volto, certamente prodottesi
durante il soffocamento – poiché chi aveva vista la donna in precedenza non le
aveva notate, sia i genitori nel pomeriggio, sia il vicino Raimondo Steri dove
era andata a scaldare il latte per il bambino e a consumare un piatto di
minestra quella stessa sera – e attribuite all’azione violenta di chi aveva
tenuto in mano la canna.
Cominciamo col
notare un fatto importante: in base ai dati rilevati dalla documentazione
autoptica e come già aveva fatto all’epoca il suo collega Camba, anche Maurizio
Fallani escluse modalità della morte differenti da quella dell’inalazione di
gas, liberando in questo modo il campo dalle illazioni di Torrisi su una
possibile asfissia meccanica causata dall’azione violenta del marito (“[…] è d'obbligo
ipotizzare che le escoriazioni al volto siano state prodotte dalla stessa donna
nel vano tentativo di liberarsi da una mano che le tappa la bocca ed il naso,
mentre l'ematoma al collo può verosimilmente essere stato prodotto dallo stesso
aggressore durante l'azione di pressione al volto e di immobilizzazione della
vittima”).
Dalla sentenza:
Ciò significa
l’esclusione di un meccanismo asfittico differente da quello del soffocamento o
dello strozzamento (ipotesi formulate dal P.M. di Firenze – vol. 11 – nelle sue
richieste allorché parla di “compromissione violenta delle prime vie respiratorie
in modo da impedire la respirazione”) e non già sulla scorta dei dati storici
(il rinvenimento della bombola di gas) tenuti presenti dal primo perito, ma
sulla base dell’osservazione medico-legale e delle risultanze autoptiche.
Infatti l’asfissia da strozzamento lascia dei segni caratteristici nelle
regioni interessate dall’azione facilmente riscontrabili in sede autoptica (quali
emorragie dei fasci muscolari del collo, nella tiroide, nelle ghiandole
sottomascellari, nel laringe e talvolta fratture della cartilagine tiroide) ed
allo stesso esame esterno del cadavere, segni che non possono in alcun modo
essere identificati nella “piccola” soffusione da pressione, foggiata a
virgola, rilevata in regione mastoidea destra sul corpo della Steri. Se così
fosse stato il perito avrebbe preso in considerazione una tale ipotesi (uno dei
quesiti postigli era quello di accertare se la morte fosse dovuta ad omicidio)
ed anche il prof. Fallani, che ha svolto un esame critico della prima perizia,
non avrebbe mancato di sottolineare una tale eventualità che invece non è stata
adombrata. Né pare ragionevole, alla stregua sempre di dati medico-legali,
ipotizzare una asfissia da soffocamento (c.d. soffocazione esterna) giacché
tale azione omicida, secondo i più diffusi insegnamenti medico-legali nei
confronti di vittima adulta e valida non dà quasi possibilità pratica di
attuazione a meno che la vittima stessa non sia prima stata stordita o legata,
in altri termini salvo il caso in cui non vi sia stata possibilità di difesa.
Ed allorché tale possibilità vi sia stata, non mancano mai vistosi segni di colluttazione
sulla vittima e sull’autore dell’azione criminale, come si vedrà del tutto
assenti in misura significativa nel fatto in esame.
Nell’ambito di
una obbligata causa di morte per inalazione di gas, Fallani cercò di soddisfare
come meglio poteva le esigenze dei propri committenti, escludendo la possibilità che
la Steri fosse deceduta per aver respirato l’ambiente saturo e ipotizzando
invece che le fosse stata infilata a forza la canna della bombola in bocca. È evidente,
infatti, che soltanto se la poveretta fosse stata prima stordita oppure colta
in un sonno profondo sarebbe stato possibile ucciderla con la semplice
diffusione di gas nella stanza. Ma entrambe le eventualità erano da escludersi,
poiché tangibili segni di violenza sul corpo non ce n’erano, e i tempi
ristretti disponibili al marito per l’azione – dalle 21:30 alle 22:30 –
rendevano impossibile immaginare la donna che si era già addormentata in modo
talmente profondo da non svegliarsi durante le necessarie attività di
preparazione dell’omicidio.
Ciò su cui pare
incentrata la perizia in questione è l’esclusione della possibilità che la
morte sia conseguita a saturazione col gas liquido dell’ambiente ove si trovava
la Steri, sulla scorta di calcoli che la Corte ritiene validi. Per il resto, da
un canto, il perito afferma di convenire con il prof. Camba sulla causa della
morte identificata in una sindrome anossica a rapida evoluzione, dall’altro
sostiene che “è possibile che la morte sia stata dovuta alla inalazione del GPL
direttamente dal tubo erogatore e che in tal caso un simile meccanismo avrebbe
potuto essere realizzato sia dalla donna stessa sia da terzi restando tale
ultima ipotesi più plausibile per la presenza di segni di unghiatura”. Quanto a
questi ultimi, sottolineandosi come l’ipotesi di autoproduzione da parte della
Steri non potesse ritenersi confermata dalla riscontrata presenza di lembetti
di pelle sotto il letto ungueale della mano sinistra della donna giacché non
erano state eseguite le ricerche per dimostrare la provenienza umana dei lembi
cutanei ed il gruppo di appartenenza.
Non sono noti i
calcoli di Fallani sulla valutazione della percentuale di gas che poteva aver
impregnato l’aria della stanza – secondo lui non sufficiente a uccidere la
poveretta –, in ogni caso è chiaro dove loro tramite il perito voleva arrivare:
al collegamento tra l’ipotesi di introduzione forzata della canna in bocca e i
segni di unghiatura sul volto della vittima, ipotizzando quindi un tentativo
della stessa di resistere all’azione violenta del marito. Secondo Camba era
stata invece la stessa donna a graffiarsi, per un fenomeno di irrequietezza
motoria conseguente ai primi sintomi della mancanza d’aria. E francamente tale
spiegazione è di gran lunga la più logica delle due.
Le unghiature
erano sullo zigomo destro, con concavità rivolta verso il labbro superiore,
quindi perfettamente compatibili con l’azione della mano sinistra della donna che
si era graffiata facendola scorrere dall’alto verso il basso; non a caso, sotto
le unghie dell’indice e del medio proprio della mano sinistra erano stati trovati
frammenti di epidermide. Vero è che all’epoca non erano stati fatti esami per
controllare, per quanto possibile attraverso il gruppo sanguigno,
l’appartenenza di quei frammenti alla pelle della vittima, ma sembra davvero
difficile che così non fosse stato. Leggiamo la sentenza:
Sicuramente, appare
ben strano, se si parte dalla ipotesi accusatoria che il Vinci sia il solo
autore del fatto, che, se la donna si fosse difesa sino al punto di graffiarlo,
asportandogli frammenti di epidermide, su costui, poi, non siano state
riscontrate lesività conseguenti a una tale azione. Si era d’inverno, di notte,
in una casa fredda, il Vinci ragionevolmente doveva avere scoperte solo le mani
ed il volto ed i Carabinieri, che il sospetto di reato avevano formulato, tanto
da richiedergli un alibi e da verificarlo, se avessero riscontrato segni di
unghiatura sul viso o sulle mani del Vinci ne avrebbero sicuramente dato atto.
Pensiamo poi a
che cosa avrebbe comportato per l’aggressore tenere la donna ferma con la canna
in bocca fino al momento in cui avrebbe perso le forze, con una mano impegnata
a tenere la canna e l’altra a bloccare la testa. Anche nell’ipotesi di una
posizione a cavalcioni sul corpo la lotta sarebbe stata comunque strenua, e i
segni sul corpo di entrambi consistenti. Questo ritennero anche i giudici.
Altrettanto strana
appare poi un’ipotesi omicida in cui l’azione venga realizzata utilizzando una
bombola di gas ed introducendo violentemente il tubo erogatore nella bocca
della vittima. Ciò per le difficoltà che un’azione del genere avrebbe
comportato, per le reazioni della vittima che avrebbero dovuto determinare
consistenti segni di una lotta nell’ambiente e lesioni da difesa (non certo
solo due piccoli frammenti di epidermide sotto l’unghia del dito indice e del
medio della mano sinistra e le piccole lesività riscontrate).
Infine, anche se
la sentenza non ne fa cenno, bisogna considerare la presenza dei vicini di
casa. Nell’appartamento attiguo viveva Raimondo Steri. A dividere le sue stanze
dalla camera in cui morì la povera Barbarina c’era una porta di legno, non
certo a tenuta acustica, come si desume dalla relativa descrizione riportata nel
verbale di sopralluogo:
Nella parete di destra,
per chi accede alla camera da letto, si nota un'apertura di porta larga m.0,65
x 2; la stessa si affonda nel muro ed a circa 60 cm. si trova una porta in
legno fissata al telaio con chiodo ed un chiavistello in ferro dalla parte di
altro vano di proprietà di Steri Raimondo. Detto spazio è adibito ad armadio
che attraverso due sostegni in legno conservano valigie, scarpe cassette ed
oggetti vari. Per non essere posto in vista tale materiale, vi è stata
applicata una tenda in nylon; la porta predetta presenta ampie fessure da cui
potrebbero facilmente disperdersi eventuali gas.
L’uomo dichiarò
che la sua camera da letto era dall’altro lato dello stabile, separata
dall’appartamento di Vinci da quattro vani, quindi forse fuori portata
acustica, però il presunto delitto sarebbe avvenuto tra le 21:30 e le 22:30, appena
dopo che la Steri aveva consumato in casa sua un piatto di minestra, quindi mentre
di sicuro era ancora sveglio. L’altro vicino di cui si ha notizia, Francesco
Usula, alle 20 aveva notato Salvatore Vinci uscire di casa, quindi abitava
anche lui nei pressi (tra l’altro l’indirizzo suo e di Raimondo Steri, e anche di Vinci, era il medesimo: via Iglesias 91). Ora, pare davvero
improbabile che, nel silenzio della sera, né l’uno né l’altro avessero udito i
rumori della lotta ipotizzata dall’accusa.
Leggiamo ancora
la sentenza:
A tal punto,
escluso che dalla perizia Fallani sia lecito inferire con un ragionevole grado
di certezza l’esistenza di un fatto omicida, ed escluso, dunque, che la c.d.
prova della “generica” sia desumibile dai dati medico-legali (chiaramente i
primi da esaminarsi in un omicidio), occorrerà procedere all’esame degli altri
elementi di fatto sulla scorta dei quali è stata formulata la contestazione.
I giudici
quindi, dopo aver escluso che la perizia Fallani avesse fatto emergere la
sussistenza di prove medico-legali di un omicidio, passarono a valutare tutti
gli altri elementi che l’accusa aveva addotto a sostegno della propria tesi,
nella quale, accanto al supposto ma non dimostrato omicidio, si collocavano
indizi di una messa in scena che voleva simulare un suicidio.
Comportamento di Vinci. Abbiamo visto
che Torrisi considerò non plausibile la reazione dell’imputato di fronte alla
porta chiusa della camera da letto, dalla quale filtrava la luce, e al silenzio
della moglie al suo bussare e al suo richiamo. Secondo il racconto da lui
stesso reso ai carabinieri, Vinci sarebbe corso a chiamare cognato e suocero, lasciando
che fosse quest’ultimo ad aprire la porta con uno spintone, adducendo come
motivo il sospetto della presenza all’interno dell’amante Antonio Pili e del
timore di essere da lui aggredito.
La sentenza non
si addentra né in una valutazione critica della spiegazione di Vinci, né nella
ricerca di eventuali altre motivazioni da lui taciute. Dopo aver fatto notare
che anche il padre della donna, di fronte alla porta chiusa, aveva preferito
chiamare qualcuno – il vicino di casa Francesco Usula –, e aver respinto ogni
sospetto di possibile complicità dell’uomo nel presunto delitto, i giudici scrissero:
Se ne deve
concludere che la massima di esperienza sulla scorta della quale si vorrebbe
risalire al fatto ignoto dal comportamento dell’imputato è talmente poco
codificata, almeno sul piano della valutazione probatoria, da costituire più
un’intuizione che un veicolo di interpretazione rigoroso del dato noto e di
dimostrazione di quello ignoto.
Proviamo in
questa sede a cercare quella spiegazione alla quale i giudici rinunciarono.
Abbiamo visto che poco più di un mese prima Barbarina Steri era stata sorpresa
in compagnia di Antonio Pili. Il ragazzo si era scontrato più volte con Vinci,
tantoché, a suo dire per difendersi, si era procurato illegalmente una pistola,
motivo per il quale era stato poi arrestato e condannato a sei mesi di carcere
(Addendum: in realtà venne arrestato per rapina, il 18 novembre 1960; la pistola l'aveva comprata il 10 ottobre 1959).
Si aggiunga che la dimora di Vinci era composta di due sole stanze, con l’unica
fonte di calore costituita dal caminetto in cucina, quindi in inverno la porta
della camera doveva essere di norma sempre aperta. Vinci la trovò chiusa con la
luce che filtrava e la moglie che non rispondeva ai suoi richiami, per una
situazione ragionevolmente sospetta, considerando il recente episodio di
infedeltà. Appare anche plausibile l’asserita paura per uno scontro con il
rivale, vista la disponibilità che questi aveva di una pistola.
Ma probabilmente
il vero motivo per cui Vinci era andato a chiamare il fratello e soprattutto il
padre della moglie era un altro. Si legge nel verbale d’interrogatorio di
quest’ultimo (19 gennaio 1960, vedi):
Sono padre di Steri
Barbarina, già moglie di Vinci Salvatore. Ricordo che recentemente sono
intervenuto per sedare i discrezi sorti fra mia figlia e mio genero poiché, la
condotta che questi due mantenevano lasciava alquanto a desiderare in considerazione,
che gli stessi, non andavano d'accordo. Infatti recentemente mio genero Vinci
mi informava di essere ricorso verso la locale caserma per denunciare mia
figlia siccome era stata trovata col presunto amante certo Pili e pertanto, ho
cercato di far luce sul fatto in modo da riunirli e pacificarli, questa volta, definitivamente.
Ho appreso dalla
povera mia figlia che costei soffriva la fame ed era poco benvoluta da parte
del marito, però per dire la verità che io non andavo d'accordo con
quest'ultimo e pertanto non ero troppo a conoscenza di quello che giornalmente
accadeva nella loro abitazione.
Una volta tolto
di mezzo l’assurdo sospetto di Torrisi che Francesco Steri avesse partecipato
al presunto delitto della figlia – con quali motivazioni? per intransigenza e
condanna del tradimento? siamo davvero alla faziosità più gretta – si deve
pensare che l’uomo invece ne avesse preso le parti negli scontri con il marito.
Quindi dietro l’immediata corsa di Vinci che era andato a chiamarlo – per un
percorso di circa 600 metri, con l’uomo che giunse trafelato – è ragionevole
intravederne la volontà di dimostrare al suocero le proprie ragioni, facendogli
cogliere la figlia mentre ancora una volta s’intratteneva con l’amante, dopo
quanto era già accaduto in precedenza. Lo Steri affermò nella propria
testimonianza di essere stato chiamato “babbo”, termine evidentemente non usuale, se
meritevole di tale precisazione, la qual cosa è indicativa di quale fosse in
quel momento l’obiettivo di Salvatore Vinci: portare il suocero dalla propria
parte.
Infine l’odore
di gas, che avrebbe dovuto filtrare attraverso la porta non a chiusura
ermetica, e che Vinci avrebbe dovuto avvertire. In effetti lo avvertì Francesco
Steri, però era probabilmente trascorsa un’altra mezz’ora, e in ogni caso è
possibile che Vinci fosse stato talmente agitato dalla situazione da non farci
caso. In fin dei conti, con le cucine a bombola di una volta, piccole fughe di
gas e relativi odori in cucina non erano affatto inusuali.
La scena del presunto crimine. Si legge
nel rapporto Torrisi:
La donna, secondo
la versione concorde dei tre, stringe in mano la chiave della porta della
stanza, come a farle indicare che essa, prima di mettere in atto l'insano
gesto, ha avuto cura di chiudere la serratura della porta stessa.
Tale operazione avrebbe
potuto essere considerata credibile qualora la porta fosse stata chiusa
dall'interno, senza possibilità di entrare se non forzando la serratura o
abbattendo la porta medesima. Invece, come già evidenziato, i due battenti
della porta che avrebbero dovuto assicurarla al pavimento ed al telaio sono
disinseriti ed il chiavistello, con due mandate, è avanzato nella serratura.
Alla luce di queste considerazioni, qualsiasi persona, evidentemente
interessata, avrebbe potuto dare due mandate alla serratura, facendo avanzare a
vuoto il chiavistello, lasciare la chiave nella mano della donna, richiudersi
la porta dietro, priva dei saliscendi, accostando le due ante in modo da far
entrare il chiavistello nell'apposito alloggiamento, e poi con una leggera
trazione riportare la porta nella posizione di chiusura.
Per Torrisi,
quindi, il mancato inserimento dei fermi che assicuravano uno dei due battenti
della porta al pavimento sarebbe indicativo di una messa in scena, poiché la
Steri, per impedire l’accesso ad altri, vi avrebbe invece provveduto. Ma, se è
senz’altro vero che la manovra di chiusura dall’esterno descritta dal militare
sarebbe stata possibile soltanto senza il battente bloccato, è anche vero che il
bloccarlo non pare dovesse essere per forza nelle preoccupazioni della Steri. Questo
il parere del tutto condivisibile dei giudici:
La chiusura della
porta da parte della Steri intenzionata al suicidio non ha infatti
necessariamente il significato di impedire ad altri l’ingresso nella stanza, ma
può assai più ragionevolmente, essere stata dettata unicamente dall’intento di
rendere assai ridotta l’emissione di gas nella adiacente camera ove aveva
riposto il figlioletto. Tale scopo, infatti, non richiedeva, anche,
l’inserimento dei passanti negli appositi alloggiamenti.
Come si è già
detto, l’unica fonte di calore del piccolo appartamento era il camino posto in
cucina, quindi in inverno la porta di accesso alla camera doveva essere sempre
spalancata, compreso il battente in questione. Quando la povera donna aveva
chiuso la porta, a tutto stava pensando fuorché a mettere in opera i fermi del
battente.
Per l’accusa, tornavano
poco anche la posizione del tubo erogatore del gas, trovato sul cuscino, la
Steri bocconi sul pavimento con la testa rivolta verso l’uscita e infine la
chiave o stretta in una mano o raccolta da terra nelle vicinanze, tutti
elementi ritenuti parte di una studiata messa in scena. Osservarono però i
giudici:
Altrettanto poco
dimostrativo è il fatto che sia stato trovato il tubo erogatore del gas
poggiato sul cuscino. Non si vede per quale ragione un simile dato debba essere
incompatibile o solo poco ragionevolmente compatibile con l’ipotesi del
suicidio. Nessuna massima d’esperienza può dirci che quel tubo poteva essere
poggiato in quel modo solo da chi avesse realizzato una messa in scena del
suicidio. Neanche se si accetti la prospettazione accusatoria del prof. Camba
di una fase di agitazione motoria nella asfissia prodotta da inalazione di GPL,
può dirsi significativamente certo che quella agitazione dovesse comportare la
caduta dal cuscino del tubo erogatore. A ciò si aggiunga come non sia oggi
possibile accertarsi della esatta lunghezza di tale tubo (che il Pretore
descrisse genericamente come corto), della consistenza del materiale con cui
era realizzato e come tutto ciò renda le inferenze argomentative che si
vorrebbero trarre sfornite anche di un minimo possibile riscontro.
Possiamo
aggiungere alle argomentazioni dei giudici un elemento da loro non preso in
esame: la presenza in cima al tubo di gomma del regolatore di pressione
metallico, che con la propria massa rendeva la posizione del tubo stesso molto
meno sensibile a possibili urti.
Continua la sentenza:
Non pare ugualmente
che possa attribuirsi un significato indiziante al fatto che il cadavere della
Steri sia stato rinvenuto bocconi sul pavimento, col capo rivolto verso la
porta e con accanto alla mano la chiave della stanza. […] appare quantomeno
arbitrario pretendere di sapere quali possano essere, in una persona che ponga
in atto il suo intento suicida, le reazioni allorché sta per raggiungerlo: se
tenti di alzarsi dal letto, se voglia raggiungere la porta, se abbia perdita di
coscienza in condizioni che la portino a sollevarsi e poi a cadere a terra. E
quanto alla chiave che il Pretore nel verbale di sopralluogo attestò trovarsi
accanto al cadavere, deve ritenersi vicino alla mano, come affermato dal padre
di costei che ebbe a toccarle il polso per vedere se fosse morta allorché entrò
nella stanza, e che Vinci Salvatore disse invece essere in quella circostanza
scivolata dalla mano della moglie e Steri Salvatore essersi trovata sotto la
mano della sorella, ancora una volta il dato, di per sé incerto e dunque di
scarsa utilizzabilità nella prova indiziaria, è privo di capacità dimostrativa
del fatto ignoto e non può in via univoca dare prova della messa in scena del
suicidio. La donna può benissimo aver avuto con sé la chiave poggiata, magari,
sul comodino ed averla presa con l’intento di salvarsi; può essere la chiave
caduta dalla toppa della porta allorché Steri Francesco con uno spintone l’aprì
andando a finire accanto alla mano della figlia riversa al suolo. Non
necessariamente può dirsi in altri termini che colà l’abbia riposta il Vinci
dopo avere ucciso la moglie, prima di tirare dietro di sé le ante della porta
avendo cura che il passante della serratura cui aveva fatto fare due mandate si
inserisse nel suo alloggiamento.
Secondo chi
scrive, il colpo di grazia all’ipotesi della messa in scena di un suicidio
viene da questa ovvia considerazione dei giudici:
Certo è che appare
su un piano di verosimiglianza scarsamente plausibile che un omicida che
insceni un suicidio per asfissia da gas faccia ritrovare il cadavere non
accanto al tubo erogatore, riverso sul letto, ma per terra rivolto verso
l’uscita.
La bombola. Grande importanza venne
assegnata dall’accusa agli indizi che avrebbero fatto ritenere vuota la bombola
di gas presente la sera del fatto in casa Vinci, in particolare le dichiarazioni dello stesso Vinci e il fatto che la Steri fosse andata due volte dal vicino di casa a scaldare il latte per il bambino. Ecco le conseguenti deduzioni di Torrisi:
È necessario,
quindi, chiedersi da dove possa provenire la bombola "Liquigas"
rinvenuta nella camera da letto, circostanza che non risulta sia stata
verificata all'epoca presso i distributori del paese. Quindi, non si ritiene
possibile che dopo le 21:30, questa è pressappoco l'ora di rientro in casa della
donna proveniente dall'abitazione dello STERI Raimondo, questa abbia potuto
procurarsi un'altra bombola piena, dal momento che in quell'orario tutti gli
esercizi pubblici erano chiusi. […]
Alla stregua delle
risultanze acquisite e delle considerazioni su espresse si può affermare senza
pericolo di essere smentiti, che la bombola rinvenuta nella camera da letto non
può essere che quella asportata dalla cucina e la presenza del tubo di gomma e
del regolatore non sono dovuti a mera casualità, ma fanno parte di un ben
preciso piano criminoso che prevede la collocazione del tubo con il regolatore
proprio sul guanciale del letto, per rafforzare la credibilità del suicidio
della donna.
La logica del
militare è ancora una volta difficile da comprendere, se non alla luce della
sua infinita convinzione della colpevolezza di Salvatore Vinci. Si può
innanzitutto osservare che sarebbe stato davvero stupido da parte
dell’individuo affermare di fronte ai carabinieri che, per quanto ne sapeva
lui, quando era uscito di casa la bombola di gas doveva essere vuota, se
proprio suo tramite aveva organizzato l’omicidio. Poi, se davvero la bombola
fosse stata vuota, in che modo Vinci avrebbe potuto procurarsene una piena?
Nell’appartamento
venne rinvenuta una sola bombola, quella in camera da letto, evidentemente la
medesima che prima stava in cucina; e vuota non era, visto che aveva saturato
la stanza di gas e ancora ne stava erogando al momento dell’apertura della
porta. Se poche ore prima quella bombola fosse stata vuota, quando Vinci,
attorno alle 20 (testimonianza Usula), era uscito di casa sarebbe dovuto andare
a procurarsene una piena portandosi dietro quella vuota, che però né Usula né
altri avevano visto. In effetti Barbarina Steri, secondo le testimonianze
rilasciate dal fratello Salvatore nel 1985, aveva chiesto al marito di passare
a ordinare una bombola di gas; però il negozio era chiuso, come pare logico
vista l’ora.
In realtà quella
bombola non era affatto vuota. Anche se – come Torrisi scrive nel proprio
rapporto – la relativa documentazione era assente, le indagini del tempo
avevano stabilito che l’ultima fornitura era avvenuta pochi giorni prima, la
qual cosa era stata tenuta presente e anche citata da Raffaele Camba a conferma
della ipotizzata causa di morte da inalazione di gas attraverso l’aria satura
della stanza. Si può a ragion veduta immaginare che Barbarina Steri, covando
già propositi suicidi, l’avesse smontata e spostata dalla sua collocazione
naturale fin dalla mattina, non trovando subito l’occasione o il coraggio di
usarla, e quindi nascondendola da qualche parte, probabilmente sotto il letto. Forse
non a caso a pranzo aveva mangiato con il marito a casa dei propri genitori,
dove di bombola vuota si era parlato, come da testimonianza delle sorelle.
Quando poi Salvatore Steri il pomeriggio era entrato in casa Vinci aveva notato
la mancanza della bombola in cucina, attribuita dalla sorella al fatto che il
fornitore era passato a prendere quella vuota senza portarne una piena, il che
appare poco comprensibile. L’aver chiesto al marito, a orario ormai troppo
tardo, di recarsi da detto fornitore a richiederla può spiegarsi con la volontà
di non destare sospetti riguardo ai propri propositi.
Stefano Mele. È quasi inutile
specificare che i giudici non dettero alcun valore alle accuse di Stefano Mele,
la cui deposizione le rese ancor più nebulose di quanto già non fossero state
nel 1968 e dopo. La sentenza così le riassume e le liquida:
Mele Stefano,
autore del duplice omicidio della moglie Locci e di Lo Bianco Antonino,
allorché venne tratto in arresto per tale delitto, oltre ad accusare il Vinci
Salvatore di averlo istigato a commetterlo, consegnandogli anche l’arma usata
in quella circostanza, affermò altresì d’aver ricevuto da costui la confidenza
d’avere ucciso la moglie, lasciando di proposito la bombola del gas aperta,
riuscendo a salvare il figlio. Il Mele stesso modificò il contenuto di tale
confidenza quando venne sentito dal P.M., il giorno successivo, affermando che
il Vinci si era limitato a dirgli che aveva lasciato in quella circostanza la
bombola del gas aperta, senza precisargli altro, “cosicché potrebbe anche
essersi trattato di una disgrazia”.[…]
Il Mele poi, udito
il 16 gennaio 1984 dal G.I. di Firenze riaffermò che la moglie del Vinci era
morta in Sardegna “con il gas”, ma che con ciò non voleva dire niente contro il
Vinci stesso e che in tale sua affermazione non vi era alcuna “allusione”.
Venne infine sentito il Mele in modo informale dal Ten. Col. Torrisi il
12.9.1986 e il relativo colloquio venne registrato. Dalla relativa trascrizione
risulta che il Mele spontaneamente rinnovò le accuse di correità nel duplice
omicidio Locci-Lo Bianco al Vinci Salvatore, affermando poi, per quanto
interessa in questa sede, che egli all’epoca di tale duplice omicidio “aveva
già scoperto che lui in Sardegna aveva ammazzato la sua signora… con il gas e
però salvato il bambino” e “allora lui era già abituato a fare questo, questi
omicidi” […]
Al dibattimento il
Mele ha dapprima riferito che la moglie del Vinci era morta per una disgrazia,
con il gas, ed a specifica contestazione ha precisato che nella sostanza è una disgrazia anche una
morte cagionata da terzi con il gas e che così aveva detto Vinci.
La corte ritiene
che le dichiarazioni del Mele posseggano un ben scarso valore in primo luogo
per la mancanza di linearità che evidenziano per le ripetute modifiche ed
imprecisioni, in secondo luogo perché non rispondenti alle risultanze sulla
morte asfittica desumibili dalla perizia Fallani, infine perché provenienti da
un soggetto di ben scarsa affidabilità intrinseca.
L’alibi caduto. Abbiamo visto che, dopo
il ricevimento di una comunicazione giudiziaria relativa alle indagini per la
morte della sorella, Salvatore Steri aveva preso le distanze dal vecchio amico
di una volta, dicendosi non più tanto sicuro di averlo sempre tenuto
sott’occhio prima di entrare nel bar Cadoni, alle 22:30. Il fatto lasciava
aperta una finestra di un’ora per una possibile azione omicidaria di Vinci. In
più Steri aveva raccontato di una strana insistenza dell’amico di essere
accompagnato a casa in fine di serata, dando in questo modo corpo al sospetto
che questi volesse utilizzarlo come testimone della messa in scena del
suicidio. Gli inquirenti di Cagliari lo avevano per questo premiato,
concedendogli un ruolo di complice inconsapevole, ingannato dalla scaltrezza di
Vinci, e quindi prosciogliendolo in istruttoria. Vediamo quello che ne scrissero
i giudici:
Non può del pari annettersi
un serio valore indiziario alle dichiarazioni rese da Steri Salvatore,
coimputato prosciolto in istruttoria, a notevole distanza di tempo dal fatto ed
in palese contrasto con quanto asserito pochi giorni dopo lo stesso, in
aggiunta interessato a fornirle di un certo contenuto per svalutare quelli che
gli inquirenti ritenevano gli elementi a suo carico.
È stato posto in
evidenza dal G.I. (pag. 2 mandato di cattura) come lo Steri abbia fatto venire
meno l’alibi del Vinci riguardo l’ora della morte della moglie e come, inoltre,
abbia reso conto adeguato del perché avesse reso iniziali diverse dichiarazioni
col rammentare come fosse stato lo stesso Vinci a raccomandargli di dire di
essere stato tutta la sera insieme con lui mentre si recavano dai Carabinieri
per essere sentiti in merito alla morte di Barbarina.
Parlare di
fallimento di alibi presuppone che si conosca con adeguato grado di certezza
l’ora della morte della Steri, ciò che al contrario non è provato.
Valga solo por mente
al fatto che il dott. Vacca la fece risalire a circa due ore e mezza prima
della sua constatazione del decesso avvenuta alle ore 01,20 del 15 gennaio e
dunque intorno alle ore 22,40 del giorno prima. Ora per la quale, sia detto per
inciso, il Vinci non gode solo dell’alibi dello Steri ma anche di quello,
preciso ed ancorato a specifici ricordi, del teste Cadoni.
Il prof. Camba, a
sua volta, afferma che la morte della Steri, sulla scorta delle osservazioni
fatte in sede autoptica, doveva risalire all’incirca alle ore 24 del 14
gennaio.
Il prof. Fallani,
infine, premesse delle considerazioni critiche sulle valutazioni fatte dal
dott. Vacca e dal prof. Camba per non avere costoro tenuto presente alcuni dati
quali la temperatura ambientale e dello stesso cadavere, riporta l’ora della
morte tra le 24 del 14 gennaio ed il momento del rinvenimento del cadavere. […]
A ciò si aggiunga
come lo Steri si sia limitato ad affermare di non aver notato se durante la
sosta alla sala biliardi il Vinci si fosse anch’egli trattenuto nel locale e
non l’abbia quindi escluso e come, dunque, non già di venir meno dell’alibi si
tratti, ma di una mera mancanza di esso per un certo lasso di tempo.
È chiaro che i
giudici erano interessati a valutare i possibili indizi di un omicidio, quindi
la finestra temporale resasi disponibile dopo le nuove dichiarazioni di
Salvatore Steri non li interessò troppo, essendo incerta l’ora della morte,
anzi, collocandosi semmai al di fuori nei pareri dei tre professionisti che
l’avevano ipotizzata. Chi invece ritiene Vinci con grande probabilità colpevole
trova grande giovamento dal cambio di versione di Steri. Però dovrebbe tener
conto di queste ulteriori considerazioni dei giudici.
Tali argomenti
dovrebbero di per sé già rendere inconferenti le dichiarazioni dello Steri, ma
a esse se ne aggiungono altri che le rendono, comunque, prive di credibilità.
In via del tutto
generale può già sottolinearsi come essendo stata l’imputazione a carico dello
Steri di concorso nell’omicidio formulata proprio riguardo all’affermazione da
costui fatta di essere stato tutta la sera col Vinci, non potesse che avere lo
Steri un consistente interesse a rendere una dichiarazione che lo “distaccasse”
dal Vinci per un certo periodo di tempo. Ciò che sul piano della valutazione
probatoria – anche a non voler considerare quanto da dottrina e più recente
giurisprudenza sottolineato riguardo alla ridotta efficacia probatoria delle
dichiarazioni del coimputato (che infatti non può testimoniare) – non può che
avere il significato di scarsa affidabilità delle sue dichiarazioni sul punto.
Dato questo ancor più convalidato dal fatto che allorché lo Steri venne sentito
come testimone non fece cenno a questa possibile separazione dal Vinci nel
corso della sera del 14 gennaio e come una tale affermazione giunga solo
allorché nei suoi confronti viene elevata una imputazione. E di tale
atteggiamento interessato danno adeguato conto anche le intercettazioni
telefoniche. In data 19.11.1985 lo Steri parlando con la sorella Emilia dice “a
me mi vogliono arrestare, io cerco di salvarmi… a me non importa nulla”.
Il biglietto d’addio. Abbiamo già visto
che Francesco Steri aveva trovato un biglietto autografo della figlia su un
comodino, consegnato poi al pretore. La sentenza ne riporta una trascrizione
leggermente differente da quella del rapporto giudiziario dell’epoca, riportata
nella prima parte dell’articolo:
Avevo un grande
cuore ma nell’ansia tutto me svanito ed ecco che non resisto più, tutto mi è
insopportabile nel vivere sotto degli occhi oscuri. Ansiosamente penso e
ripenso di essere amata ed che invidiata epure nello spasimo pregho al bambino.
E buona fortuna.
Anche se
contiene delle espressioni non del tutto chiare, lo scritto poteva ben sembrare,
e all’epoca sembrò, un addio compatibile con la volontà di uccidersi (“tutto mi è
insopportabile nel vivere”), ma l’accusa non la pensava affatto
così; nel rinvio a giudizio si sottolinea infatti
l’estrema
equivocità del biglietto fatto trovare quale “prova” di suicidio, il cui contenuto
(verosimilmente redatto dalla donna per altro motivo e tanto abilmente quanto
cinicamente utilizzato e sfruttato dal marito per quanto sopra) non si addice a
quello che dovrebbe essere l’ultimo messaggio lasciato da una persona che ha
deciso di togliersi la vita.
Per l’accusa,
quindi, il biglietto era stato scritto sì dalla donna, ma in altra occasione, e
sfruttato poi dal marito per la messa in scena del suicidio. Si tratta però di
uno scenario poco plausibile, per giunta contraddetto da alcuni elementi
desumibili dalla documentazione rimasta. Sul medesimo comodino dove era stato
rinvenuto il foglio c’erano un quaderno e una penna, tanto che i carabinieri
avevano scritto nel loro rapporto: “Detto biglietto è stato ricavato da un foglio di quaderno
avente la copertina color nero trovato sul piano dello stesso comodino scritto
con penna “biro” rinvenuta accanto al quaderno”. Tale quaderno
conteneva altri scritti della donna, come si legge nel verbale di sopralluogo:
“Un quaderno con
fogli scritti contenente diarii e racconti vari avente la copertina di color
nero”. Per completare il quadro si aggiunga quanto scritto in
sentenza:
È un foglio a righe
doppio, scritto su una sola facciata con penna biro ed appare staccato dal
centro di un quaderno, non può sapersi se quello rinvenuto sul comodino della
camera da letto e se scritto con la penna che ivi si trovava perché tali
oggetti furono restituiti dopo l’originaria archiviazione del G.I.
Non si può che
essere d’accordo con i giudici sull’impossibilità di poter stabilire con
certezza se il foglio fosse stato staccato dal quaderno e scritto con la penna
ritrovati sul comodino, quindi poco prima della messa in atto del gesto
suicida, ma la logica dice di sì. Del resto questo avevano stabilito i
carabinieri, che il foglio, il quaderno e la penna avevano potuto esaminare.
Anche il fatto che detto foglio fosse composto delle due pagine centrali di un
quaderno contenente altri scritti depone per la sua redazione al momento.
Del resto, che
in quel periodo lo stato d’animo di Barbarina Steri potesse essere gravemente
depresso appare comprensibile, data l’infelicità del rapporto con il marito e
il brutto episodio di poco tempo prima che le era costato, oltre alla vergogna
di fronte a tutto il paese, una denuncia per atti osceni. Questa era stata l’impressione
ricevuta da Amerigo Cadoni, come risulta dalla sua testimonianza del giorno
successivo al tragico fatto: “Ricordo infine che verso le ore 12 dello stesso giorno 14
vidi la Steri Barbarina mentre si recava dalla sua casa a quella dei genitori
ed aveva il bambino in braccio. Infatti la donna nella circostanza mi è
sembrata molto triste e depressa”.
La lettera dal brefotrofio. L’accusa
riteneva di avere in mano una grossa arma con la quale poter dimostrare che
Barbarina Steri non aveva alcuna intenzione di uccidersi: una lettera che le
offriva l’opportunità di trasferirsi a Cagliari con il proprio bambino. Di tale
lettera, allegata agli atti ma non disponibile a chi scrive, così si legge nel
rapporto giudiziario del 19 gennaio 1960:
Dai suddetti
militari è stata rinvenuta una lettera proveniente da Suor Maria Gabriella –
Borfatrofio Cagliari –, datata 24.12.1959, con la quale la Steri Barbarina
veniva invitata a recarsi presso detto istituto in qualità di donna di fatica
per la somma di L. 120.000 annue ed era attesa colà entro il 15 gennaio 1960.
Dal rapporto
Torrisi:
[…] dal
comportamento della donna antecedente alla sua morte non si rileva alcuna
volontà o proposito suicida, anzi tutto il contrario, in quanto essa manifesta
la volontà di separarsi dal marito ed allontanarsi da casa per essere assunta
come donna di fatica – portandosi anche il bambino – presso un befatrofio di
Cagliari, come si rileva da una lettera rinvenuta in casa, a lei indirizzata,
in cui le si comunica che proprio il 15 gennaio, cioè il giorno dopo, essa può
presentarsi presso il predetto Istituto, per iniziare il suo rapporto di
lavoro.
La lettera viene
descritta anche dalla sentenza, con un’importante precisazione: si trattava di
una risposta a una richiesta della stessa Steri.
Veniva altresì
allegata una lettera datata 24.12.1959 indirizzata alla Steri da tale suor
Maria Gabriella del Brefotrofio di Cagliari nella quale in risposta a richiesta
precedente della donna si precisavano le condizioni di una retribuita
ospitalità per lei e per il bambino e che si concludeva con la frase “quindi
l’attendiamo il 15 di gennaio con ansia”.
Ma quella
lettera era autentica? Nemmeno un po'. Dalla sentenza:
Che la Steri non
avesse motivo per essere depressa e potere giungere ad un gravissimo passo
quale quello di porre fine ai suoi giorni è circostanza che non pare così certa
come si vorrebbe. Il G.I. richiama a sostegno di tale convincimento il fatto
che la donna l’indomani avrebbe dovuto iniziare, in sostanza, una nuova vita,
trasferendosi col bambino nel brefotrofio di Cagliari ove avrebbe ricevuto
ospitalità retribuita dietro la prestazione di servizi collaborativi. Tale,
infatti, è il tenore di una lettera dattiloscritta indirizzata alla Steri
trovata sul comodino della sua camera da letto. Ma tale lettera, sulla cui
autenticità non vennero né all’epoca del fatto né in istruttoria compiuti accertamenti,
riporta – secondo quanto dalla P.G. accertato su incarico della Corte e su
richiesta del P.M. – un indirizzo ed un numero telefonico del mittente
inesistente, non è firmata ed il dattiloscritto nome del mittente (suor Maria
Gabriella, Brefotrofio di Cagliari) non corrisponde a quello di persona che
prestasse servizio all’epoca del fatto al Brefotrofio di Cagliari.
Non c’era alcuna
suor Maria Gabriella che lavorava nel Brefotrofio di Cagliari all’epoca dei
fatti, questo scoprirono gli agenti di polizia incaricati dai giudici. Nella
loro tronfia convinzione della colpevolezza di Vinci, gli inquirenti non si
erano preoccupati di condurre alcuna verifica; eppure ne avrebbero avuto tutti
i motivi. Prosegue la sentenza:
La lettera,
inoltre, evidenzia errori di ortografia e grammaticali così macroscopici da
fare, comunque, ragionevolmente sospettare che non possa provenire da una suora
che non sia neanche in grado di conoscere l’esatta ortografia del termine
brefotrofio (berfettroffio è la grafia del testo), di quell’ente cioè da cui
dipendeva.
Cercare oggi di
scoprire quale origine abbia questa lettera appare pressoché impossibile e per
certo può dirsi che chi la fece avere alla Steri (escluso che costei se la sia
scritta) dovette avere l’intenzione di farle del male o forse di illuderla,
forse di prendersi gioco di lei.
Di sicuro quella
lettera apocrifa non era stata scritta da Salvatore Vinci, nota giustamente la
sentenza, il quale non avrebbe avuto alcun interesse a squalificare la propria
messa in scena di un suicidio dando alla moglie la speranza di una vita nuova.
La lettera ad Antonio Pili. Chi aveva
scritto quella lettera che aveva dato false speranze alla poveretta?
Probabilmente lei lo sapeva, o lo aveva sospettato, come si desume da un suo
scritto del 10 dicembre 1959, esattamente una settimana dopo essere stata
sorpresa e fotografata in intima compagnia di Antonio Pili. Si legge in
sentenza.
E che taluno, il
Pili, fosse sospettato di non avere serie intenzioni nei suoi riguardi, di
profittare di lei, che pure l’amava, lo si ricava dal tenore dell’altra lettera
di costei allegata agli atti e non di molto precedente il fatto.
La donna scrive di
scherzi da lei subiti, del sospetto che il sordomuto (tale Aresti, utilizzato
come tramite per i contatti epistolari e gli appuntamenti con l’amante, e che
afferma di aver avuto con la Steri un rapporto sessuale a pagamento) fosse d’accordo
col Pili, dell’intenzione di sapere la verità.
Una lettera anche
questa angosciata che lascia ragionevolmente supporre l’accadimento di fatti
offensivi per la donna, dell’intento di taluno di prendersi gioco di lei.
Una possibile
origine della lettera apocrifa trovata sul comodino della camera da letto può
essere dunque questa.
Ed il tenore di
quella scritta da Barbarina e trovata dal padre sul comodino della camera da
letto, può ben adattarsi alla vicenda che traspare da quella indirizzata al
Pili ed a quanto era accaduto allorché la donna venne col Pili sorpresa durante
un rapporto sessuale dal sordomuto e da tale Pilleri armato di una macchina
fotografica e che viene descritto in una nota del 20.11.1984 del Col. Torrisi
come un individuo che all’epoca del fatto “amava scattare delle fotografie
compromettenti e servendosi di queste ricattare le donne per indurle a
prostituirsi”.
A questo punto appare ragionevole immaginare che l’equivoco personaggio Gesuino Pilleri si fosse
trovato sì non a caso dove la Steri e Pili stavano intrattenendosi, ma non per
un accordo con Vinci, bensì per uno con lo stesso Pili, che teneva in
pugno la donna innamorata pretendendo da lei non si sa bene che cosa, forse di
accontentare anche altri, e forse a pagamento. Cade così in modo clamoroso la
figura di Antonio Pili innamorato adolescente accreditata da alcuni libri, in primis Dolci colline di sangue di Spezi. Eppure
già nelle cronache giornalistiche del processo erano comparsi giudizi piuttosto
severi sul personaggio, definito ad esempio da “L’Unità” del 20 aprile 1988 “amante cinico e
spregiudicato”.
Anche se non lo
scrissero in modo diretto in sentenza, certamente i giudici ritennero che
l’origine della decisione di Barbarina Steri di togliersi la vita fosse da
ricercarsi nella delusione seguita alla scoperta della vera natura
dell’interesse di Antonio Pili verso di lei. E probabilmente la goccia che
aveva fatto traboccare il vaso era stata nella falsa lettera del brefotrofio,
scritta cinicamente da qualcuno a conoscenza della precedente richiesta della
Steri, quindi a lei vicino. Dalla sentenza:
L’essere apocrifa
la lettera potrebbe anche essere stato scoperto dalla donna (il numero di
telefono posto in calce alla stessa potrebbe infatti averla spinta in
prossimità della data indicata in cui avrebbe dovuto prendere servizio a
telefonare, scoprendo l’inganno) e ciò non potrebbe che essere stata
un’ulteriore gravissima delusione per lei.
Conseguenze. Il presente articolo si
proponeva di approfondire e se possibile chiarire la vicenda dell’assoluzione
di Salvatore Vinci per la morte della moglie. Lo scrivente ritiene di aver
dimostrato che quell’assoluzione era stata giusta, anche nella sua forma di non
sussistenza del fatto. Barbarina Steri si era uccisa, e neppure a causa dell’infelice
rapporto con il marito, o almeno non principalmente per quello. Ci si potrebbe
fermare qui, però la tentazione di dare una brevissima occhiata alle vicende
future, alla luce di questa certezza, è troppo forte.
È indubbio che
l’estraneità di Vinci alla morte della moglie tolga un tassello
importantissimo alla bizzarra ipotesi di Torrisi sulle motivazioni che
avrebbero indotto lo stesso prima a uccidere la Locci con l’amante, poi altre
sette coppie appartate. Per il militare alla base ci sarebbero state infatti la
gelosia e il desiderio di vendetta, che però nelle vicende di contorno alla
morte di Barbarina Steri paiono stati d’animo del tutto assenti nell’individuo.
Dopo il clamoroso tradimento della moglie con addirittura la sua denuncia per
atti osceni, Vinci rimase con lei a condurre la propria vita di giovane
sfaticato, andandosene in giro per bar senza provare alcuna vergogna, almeno
questo si deduce dalle testimonianze dell’epoca. E quando poi aveva creduto di
averla sorpresa di nuovo in atteggiamento intimo, non si era affatto lasciato
prendere da propositi aggressivi, ma aveva cercato di sfruttare la situazione
per portare dalla sua parte il suocero, che non a caso nell’occasione aveva
chiamato “babbo”.
In realtà, come
dimostreranno anche le vicende successive, Salvatore Vinci era un erotomane a
forte componente omosessuale; andava anche con le donne ma più che altro le
sfruttava per raggiungere altri uomini da coinvolgere in entusiasmanti rapporti
multipli. Personaggi di tal genere sono immuni da sentimenti quali la gelosia,
e quando covano desideri di vendetta non è certamente come conseguenza di un
tradimento sessuale, che, anzi, quasi sempre costituisce esso stesso motivo di
eccitazione.
E allora, caduta
la già irragionevole ipotesi della vendetta contro le donne ipotizzata da
Torrisi, per quale motivo l’individuo si sarebbe reso protagonista prima
dell’uccisione di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, poi addirittura dei feroci delitti
attribuiti al Mostro di Firenze?