martedì 9 ottobre 2018

Il dottore di Lotti e il patrimonio di Pacciani (1)

Qualcuno avrebbe dato soldi a Pietro Pacciani in cambio delle parti mutilate, anzi, di più, per ottenere quelle parti avrebbe anche commissionato i delitti. Questo era il presupposto della cosiddetta “pista esoterica”, il filone d’indagine, aperto già pochi mesi dopo l’ingresso di Giancarlo Lotti nella vicenda, che si proponeva di individuare gli eventuali mandanti. A tutt’oggi non si sa bene se tutti i suoi numerosi rami germinati nel tempo si siano chiusi, da recenti notizie giornalistiche parrebbe di no, in ogni caso possiamo individuarne la fine reale nel pronunciamento sugli ultimi scampoli dell’inchiesta Narducci, 16 luglio 2014. Si tratta quindi di ben 18 anni di sforzi che non solo non hanno portato alla scoperta di alcun mandante, ma neppure hanno chiarito se mai mandanti vi siano stati. In compenso la forsennata e spesso impietosa attività investigativa ha messo in croce decine di persone, causando ad alcune di loro danni devastanti. In più, quanti milioni di euro appartenenti alla collettività sono stati spesi inutilmente? Qualcuno si sarà preso o si prenderà mai la briga di calcolarli? Chi scrive ha studiato a lungo la documentazione disponibile riguardo gli eventi accaduti in questo lunghissimo periodo, facendo spesso enorme fatica a orizzontarsi. Nonostante la disponibilità di due fondamentali sentenze in quel momento non ancora pronunciate – De Luca su Calamandrei, Micheli su Narducci – rimane valido quanto aveva scritto con mano felice Mario Spezi nel 2006 nel suo Dolci colline di sangue:

Il problema maggiore a raccontare quest’ultima parte della storia è che ogni capitolo sembra diverso da quello precedente e non si capisce se devono essere tenuti tutti in vita o se l’ultimo sostituisce quanto detto prima. Tutti insieme mettono a dura prova la capacità di sintesi di chiunque, perché la scena è molto affollata, i personaggi assai diversi e spesso senza apparenti rapporti tra loro. Le storie di ognuno sono complicatissime e non solo sono slegate l’una dall’altra, ma a volte sembrano contraddirsi.

Insomma, un vero e proprio minestrone, diventato alla fine, a forza di aggiungere ingredienti, una brodaglia indigesta dal sapore indefinibile, della quale si proverà in questa sede a isolarne almeno le parti fondamentali. Partiremo esaminando la consistenza, o meglio, l’inconsistenza, dei due elementi che ne costituiscono i presupposti: il “dottore” di Giancarlo Lotti e il patrimonio di Pietro Pacciani.

Nasce il “dottore”. Il punto d’origine della pista esoterica potrebbe essere individuato nella ormai ben nota “lettera spontanea” di Giancarlo Lotti, dove il presunto pentito scrisse di un “dottore” che avrebbe acquistato da Pacciani le parti di donna escisse. Il condizionale però è d’obbligo, lo vedremo più avanti. Intanto diamo un’occhiata alla lettera, trasmessa dalla Polizia Giudiziaria al PM il 15 novembre 1996 e pubblicata molti anni dopo da Giuttari ne Il Mostro:

Sono venuti a casa via Lucciano, ano pichito a la porta. Chi e. Siamo noi. Chi. Mario. Pietro Pacciani. Che volete da me. Devi venire con noi. Perché devo venire. Se no si parla. Che vacevi in quella piazzetta che la strada. verso il bardella. Ti inculavi Fabrizio. Sono andato con loro.

La strada che va a Giovoli. Siamo arivati vicino ale piazetta dove avenuto omicidio. Io sono ceso da la machina. Mario e Pacciani erano gia cesi e andavano il fulgone. Poi mi a chiamato. Vieni qui. Perche. Vieni devi sparare tu. Io. Allora mi a dato la pistola in mano. Spara e o sparato diverse colpi. Se li o presi bene. Poi mia presa la pistola di mano. Andate verso la parte sinistra. Altri spari. Poi aperto lo sportelo. A visto che erano due omini. Allora sie incazzato come una bestia. Allora io mi sono alotanato verso la machina. Pietro mi a detto va via. Si vado via. Perche vai via. Poi sono salito in machina. Sono andato a casa.

Andato a letto. Ma no mi riuciva dormire. Dove li date queste cose della donna. Il seno vagina o fica Mario volio sapere chi le date dottore che si serviva Pietro Pacciani. Vi pagava in soldi. Ma quello no mi voleva dire per che ne faceva di vagina e se perche fate cose mostrose. Ma io no. Le altri fatte. Non avete rimorsi. A me mi fato schifo e co bestie come voi Mario e Pacciani per me vi farrei sparire per sempre dalla circlazino.


La sgrammaticatissima lettera va divisa in tre parti ideali, quelle che nella trascrizione soprastante risultano separate. Con la prima Lotti cerca una giustificazione, fino a quel momento mai fornita in modo plausibile, al suo andare con Vanni e Pacciani­: dopo averlo visto mentre si intratteneva in macchina con un uomo, i due avrebbero minacciato di “parlare” se non fosse andato con loro. Nella seconda racconta il delitto di Giogoli, confessando la propria diretta partecipazione alla sparatoria, pur costretto da Pacciani.
Nella terza parte esce fuori il “dottore” che avrebbe acquistato le parti escisse da Pacciani. Era la prima volta in cui Lotti affrontava il tema, almeno a quanto risulta dagli atti. L’interrogatorio conseguente, condotto il 16 novembre da Vigna e Canessa, fu videoregistrato e nella parte relativa al “dottore” secretato, come si vede anche dalla trascrizione OCR disponibile su questo blog (qui). Ne avrebbe scritto Giuttari ne Il Mostro:

«E il dottore che si serviva di Pietro Pacciani cosa vuol dire, signor Lotti?»
Dice di aver saputo che le parti asportate dal corpo delle ragazze uccise venivano consegnate da Pacciani a un dottore che gliele pagava.
«Chi è questo dottore?»
Afferma di non saperlo, ma che una volta era stato nella piazza di San Casciano. Era buio e si era fermata una macchina, racconta. L'autista aveva fatto un cenno con la mano e Vanni gli si era avvicinato mentre lui era rimasto distante a osservare. I due avevano discusso un po'. Poi, quando Vanni era tornato, su sua richiesta gli aveva spiegato che era il dottore a cui Pietro consegnava quelle cose e che stava andando proprio a casa di Pietro. Vanni non aveva voluto aggiungere altro.
Siamo allibiti, quasi increduli.
È la prima volta che Lotti parla di un suo pieno e diretto coinvolgimento nell'esecuzione di un delitto, e questo, più o meno coscientemente, ci aspettavamo che prima o poi accadesse. Ma è anche la prima volta che accenna a un "committente", un "dottore" che avrebbe pagato Pacciani per ottenere i macabri feticci.


Una menzogna colossale. Questa vicenda del “dottore” altro non era che una menzogna bella e buona, come moltissimi elementi inducono a supporre. Innanzitutto non si comprende per quale motivo il presunto pentito avrebbe atteso mesi e mesi prima di raccontare il fatto. In questo caso non è possibile invocare la motivazione di un tentativo di nascondere le proprie responsabilità, come fecero i giudici di primo grado in varie altre occasioni, poiché si trattava di un argomento per lui del tutto neutro. Anzi, il parlarne non avrebbe fatto altro che migliorare il suo status di collaboratore di giustizia. E invece la prima spiegazione fornita sull’utilizzo dei “feticci”, nell’interrogatorio dell’11 marzo 1996, era stata questa:

Mario mi disse che le parti della donna che lui aveva asportato li aveva portati a casa Pietro per nasconderli nel garage mettendoli in un involto. Mario mi disse che Pacciani voleva farli mangiare alle figliole ma non so se effettivamente lo abbia fatto.

Ma come, non si trattava forse dello stesso Mario che Lotti aveva anche visto incontrare il “dottore” in piazza, Vanni, insomma? Quando ascoltò la “dolorosa confessione”, Giuttari gliene chiese conto? Forse Lotti a marzo non se lo era ricordato, oppure, più probabilmente, non lo aveva ancora inventato. In ogni caso in aula sia il PM sia, e soprattutto, gli avvocati di parte civile – comprensibilmente interessati a un argomento che prometteva una lunga prosecuzione del loro mandato – avevano cercato di ottenere maggiori informazioni; senza successo, però. Il “dottore” Lotti lo aveva visto da lontano e seduto dentro un’auto, quindi non poteva descriverlo nemmeno un po’ (“Un l'ho vista per bene, la persona come l'era”, “Gl'era a sedere. Se gl'era calvo o no, un lo so”), non sapeva che tipo di dottore fosse, se medico oppure no (“A me m'hanno detto un dottore. Come fo’ a capirlo se gl'era un dottore di medicina, o di coso”), né da dove provenisse (“A me un m’hanno mica detto se gl'era di Firenze, o se gl'era di Prato, o di coso”). Mentre l’avvocato Curandai si dannava per ottenere qualche informazione in più, a un certo punto era intervenuto il presidente, anche lui disperato. Vale la pena leggere il frammento (vedi):

Curandai: Coraggio, coraggio, coraggio. Bisogna tirarla fuori, questa verità. Questo è il momento opportuno. Mi scusi, io insisto perché rappresento una delle parti...
Presidente: L'avvocato vuol sapere se sa qualcosa di questo dottore, di questo medico.
Lotti: Mah, a me m'aveva detto un dottore, però le altre cose non le so io.
Curandai: Ma io ho l'impressione che le sappia le cose, lei, invece. Le dica, le dica, è il momento opportuno.
Presidente: Ora, senza volermi inserire nelle domande che poi arriverà il mio turno, ma possibile che una persona come il Vanni, come il Pacciani, vengano a parlare a lei di tante cose e lei non ha, neanche per curiosità, dice, non fa nessuna domanda? Si limita così. Perché lei ha confessione di tutti. Abbia pazienza, eh.
Lotti: Ma se un me l'hanno detto...
Presidente: Lei le cose le sa molte di più, caro Lotti. Eh, se non le vuol dire è un altro discorso e non gliele possiamo strappare con le mani, con le tenaglie. Però qualcosa in più dovrebbe dire. Per suo interesse, interesse di tutti, per la Giustizia.
Curandai: Se sa qualcosa di più, ce lo dica, serenamente.
Presidente: Com'è la domanda, allora. Se non vuol rispondere, che si può fare? Andiamo.
Curandai: No, ma sta riflettendo. Forse...
Lotti: No, non sto riflettendo. Se dico una cosa e io non so altro, i' che devo dire cose che un so?

(Audio)

Era giustificata la convinzione di presidente e avvocato che Lotti stesse nascondendo qualcosa? Si può esser sicuri di sì, visto il suo comportamento, ma di sicuro non ulteriori informazioni sul “dottore”, che se avesse posseduto non si capisce per quale motivo avrebbe dovuto tenere per sé, poiché il tirarle fuori gli sarebbe stato soltanto di beneficio. Vale la pena ricordare che la battaglia del suo avvocato per fargli ottenere la pena minima contava principalmente sui vantati meriti di collaboratore di giustizia. Si può poi senz’altro concordare con la perplessità del presidente sul fatto che Lotti non avesse mai chiesto nulla a Vanni riguardo il fantomatico personaggio, se non altro per semplice e legittima curiosità. Queste considerazioni amplificano il sospetto che dietro il racconto del “dottore” si nascondesse soltanto una menzogna. Anche perché durante l’interrogatorio del 16 novembre 1996 aveva detto qualcosa in più, come dimostra l’immagine successiva, dove viene riportata la parte di verbale fino a oggi mancante.


Quindi Vanni avrebbe identificato il personaggio come “un dottore che curava Pietro”, e ne avrebbe anche fatto il nome, che però Lotti non ricordava. Ecco spiegata l’insistenza di Curandai in dibattimento, di fronte a un Lotti che stava dicendo ancora meno di quel poco che aveva detto in istruttoria. Che cosa era successo, il presunto pentito non ricordava più che Pacciani aveva venduto i “feticci” al proprio medico curante? Oppure aveva intuito che non era il caso di insistere su una strada poco gradita ai suoi interlocutori? Di sicuro la storia del “dottore che curava Pietro” non era piaciuta a Giuttari, che forse non a caso la tace nel resoconto su Il Mostro, poiché poco si sarebbe accordata con tutte le sue indagini successive.
Torniamo all’incontro con il fantomatico “dottore”, e concentriamoci sull’automobile che l’uomo avrebbe guidato. Lotti era un appassionato di automobili, che cambiava spesso e dentro le quali trascorreva gran parte del proprio tempo libero. In varie occasioni aveva dimostrato di masticare assai bene la materia, in termini di modelli e cilindrate. Crediamo pure al fatto che non avesse potuto vedere bene il “dottore” seduto dentro, l’auto però l’aveva vista, quindi ci si sarebbe aspettati che almeno quella l’avesse identificata, o almeno descritta. E invece no. Ecco il punto del dibattimento nel quale il PM aveva cercato di farsi dire qualcosa al riguardo:

PM: Che macchina era lo ricorda, l'ha vista, è in grado di spiegarcelo? Se lei l'ha vista che era a 10 metri...
Lotti: Le macchine le conosco però... mi pare un'Alfa.
PM: Un'Alfa era? Cioè un'Alfa Romeo? Mi sa che un'Alfa Romeo è una marca, quindi bisognerebbe...
Presidente: Il tipo, il tipo.
PM: Lei ricorda... Era un'Alfa Romeo grossa, piccola, chiara, scura?
Lotti: Tanto piccola no.
PM: "Tanto piccola no", scusi, era grossa, o media? Ci sa indica... Se lei le conosce, dovrà pure indicarci...
Lotti: Sì, le conosco, però mica tutte...
PM: Un'Alfa, scusi, c'ha in mente qualche tipo di Alfa che poteva essere quella?
Lotti: Non mi ricordo se era a quattro porte, o tre porte.
PM: Cioè, tre porte... o un coupé, o una berlina non ce lo sa dire?
Lotti: Di preciso no.
PM: Le sembrò grossa?
Lotti: Grossa, sì.
PM: Grossa. Chiara, o scura?
Lotti: Mi pare sullo scuro.
PM: Lo scuro per lei, scusi, cos'è? Nera, blu, marrone?
Lotti: Scura... Può essere anche nera o un altro colore.
PM: Nera, blu,marrone. Colori di questo genere?
Lotti: Su un colore così.
PM: Lei ha presente l'Alfetta dell'Alfa Romeo? Una macchina così?
Lotti: Dell'Alfa ce n'è diverse.
PM: Ho capito. Io ho provato a dirgliene una che mi è venuta in mente. L'ha vista lei, io non c'ero.
Lotti: Mi pareva a quattro porte.

(Audio)

È del tutto pacifico che Giancarlo Lotti non avesse visto alcuna auto, non è possibile dubitarne dopo aver letto la trascrizione dell’avvilente confronto. Si tenga presente peraltro che in istruttoria Lotti l’aveva collocata a una distanza di tre o quattro metri (“Ero a qualche metro di distanza, saranno stati tre o quattro metri”), e non dei dieci indicati dal PM.
Le perplessità riguardo il “dottore” aumentano ancora quando si riflette sulle modalità con le quali il fantomatico personaggio avrebbe incontrato Vanni. Perché si era fermato in piazza? Disse Lotti in risposta a Colao: “Per chiedere a uno di noi per andare da Pietro a Mercatale, e andette il Vanni”. Sembra insomma che il “dottore” avesse chiesto indicazioni per trovare la casa di Pacciani, come poi aveva confermato Lotti a domanda di Mazzeo: “Voleva indicazioni sull'abitazione del Pacciani. Dico bene?”, “”. Ma la scena appariva del tutto inverosimile e grottesca. Che si fosse trattato o no del suo medico curante, come compratore abituale delle parti escisse – anzi, secondo le successive ipotesi investigative, come mandante dei delitti commessi al fine di ottenerle – il personaggio avrebbe dovuto conoscere bene Pacciani. E invece, dopo l’ultima scellerata impresa dei suoi prezzolati complici, tale individuo ancora avrebbe ignorato dove abitava il capo della scalcagnata banda. Si tratta di un’eventualità davvero improbabile, ma prendiamola pure per vera e proseguiamo. Lotti non aveva spiegato il motivo per il quale il “dottore” stava cercando Pacciani – forse per ritirare i feticci, forse per pagarli avendoli già dissepolti dalla buca in cui sarebbero stati nascosti, oppure per programmare nuove imprese –, in ogni modo era la prima volta che si recava a casa sua, visto che non sapeva dov'era. È credibile che fosse arrivato a San Casciano senza saper bene dove andare, avesse incontrato Mario Vanni – non si sa se per caso o per un precedente accordo, scenari entrambi del tutto assurdi – e avesse rischiato di farsi vedere assieme a lui in una piazza centrale del paese soltanto per chiedere informazioni sul percorso?
Come ben si comprende, il racconto di Giancarlo Lotti risulta ridicolo, inverosimile da qualunque parte lo si guardi, e quindi la figura del “dottore” va ritenuta una pura invenzione. Eppure proprio quella avrebbe costituito il pretesto principale per tutte le indagini successive, il che fa inevitabilmente venire il sospetto che dietro la menzogna di Lotti ci fosse il tentativo di compiacere le esigenze degli inquirenti.

La vera partenza della pista esoterica. Riprendiamo il racconto che Giuttari fa ne Il Mostro della clamorosa rivelazione di Lotti sul “dottore”. Si tenga presente che si tratta di eventi della metà di novembre 1996.

Non ci sono abbastanza elementi investigativi per poterla seriamente affrontare, ma la dolorosa confessione, frutto forse anche della pressione di don Fabrizio su un animo indebolito e stanco di nascondersi, travolto dal suo stesso stillicidio di parziali ammissioni, mi mette inevitabilmente la fatidica pulce nell'orecchio.
A scanso di equivoci chiedo alla Procura l'autorizzazione a eseguire accertamenti di natura patrimoniale e finanziaria nei confronti di Pacciani, Vanni e Lotti.


Il libro di Giuttari contiene tanti adattamenti dei fatti reali, magari anche soltanto per esigenze letterarie, e questo è uno. Il riferimento non è alla “dolorosa confessione” e a tutto quel che segue, il leitmotiv solito per spiegare il contraddittorio comportamento di Lotti, ma agli “accertamenti di natura patrimoniale e finanziaria nei confronti di Pacciani”. Quando l’ex investigatore afferma di averne chiesto l’autorizzazione in seguito al clamoroso racconto sul “dottore” – che gli avrebbe messo “la fatidica pulce nell'orecchio” – di sicuro sta dimenticando qualcosa, poiché quell’autorizzazione l’aveva già chiesta sei mesi prima, come si evince dal seguente documento, datato 20 maggio 1996.


Due giorni dopo Canessa rispondeva in modo positivo concedendo le deleghe richieste:


In più il PM prese carta e penna e scrisse ai direttori di vari uffici postali per richiedere la documentazione riguardante i risparmi di Pacciani. Ecco le tre lettere relative a Scandicci (22 maggio), Cerbaia (25 maggio) e San Casciano (25 maggio):


Seguirono a ruota vari interrogatori dei soggetti coinvolti nelle operazioni di natura economica di Pacciani, per il danaro guadagnato, per quello risparmiato e per quello speso. Tra i primi, il 27 maggio, i precedenti proprietari delle due case acquistate nel 1979 (piazza del Popolo) e 1984 (via Sonnino), dei quali furono anche acquisiti gli estratti conto bancari.
Il 12 giugno Giuttari inviò a Canessa un prospetto riepilogativo di tutte le sue ricerche, dal quale il patrimonio mobiliare di Pacciani risultava ammontare a lire 152.740.380. Andremo più avanti a guardare dentro l’interessante documento, per adesso teniamolo in sospeso (il lettore può scaricarlo qui).
Anche in Compagni di sangue Giuttari aveva posticipato la data dei controlli sul patrimonio di Pacciani, ma soltanto di un mese o poco più.

Gli accertamenti nei confronti di Pacciani erano stati eseguiti ancor prima delle dichiarazioni riguardanti il mandante. Prendevano le mosse dal sequestro di buoni postali effettuato nel corso di una perquisizione domiciliare a carico di Suora Elisabetta, la suora laica dell'ordine "Figlie della Carità", che aveva seguito, durante la detenzione, il Pacciani e che aveva continuato a seguirlo fino alla sua morte.

Si ammetteva che i controlli avevano preceduto la “lettera spontanea”, ma anche questa non era la verità, come dimostrano i documenti prima presentati. In ogni caso il sequestro dei buoni postali custoditi da suor Elisabetta costituisce un altro tassello della sconcertante vicenda, che vale la pena approfondire. Leggiamo ancora Il Mostro, dove Giuttari racconta che il 28 giugno era stata registrata una per lui “interessante” conversazione telefonica tra suor Elisabetta e Pacciani, nella quale si parlava di buoni postali affidati dall’uomo alla religiosa.

Quando Pacciani accenna a Lotti e a Vanni, lo invita alla prudenza dicendo: «Se loro hanno il telefono sotto controllo, prendono i provvedimenti».
Concetto ribadito poco più avanti: «Bisogna stare attenti a dire tutte queste cose per telefono, Pietro, perché senz'altro ha il telefono sotto controllo».[…]
E la telefonata si fa ancor più interessante verso la fine, quando suor Elisabetta gli dice che dovranno incontrarsi presto per andare all'ufficio postale a rinnovare i «fondi» di Pacciani che lei ha in deposito.
«Poi presto ci vediamo per andare alla posta... riprendo tutto... mettiamo a posto le cose, se lei vuole lasciarli a me questi fogli li riprendo io.»
Pacciani le risponde che si metteranno d'accordo per andare la prossima settimana.
Non è il primo riferimento ai fondi. Già in altre telefonate, registrate nei giorni immediatamente precedenti, la suora ha chiesto a Pacciani quando sarebbero andati alla posta ricevendo in risposta vaghe assicurazioni che avrebbero sistemato tutto in seguito.
La ripetizione mi insospettisce, perché se si tratta di piccoli risparmi, come abbiamo immaginato in un primo momento, tanta insistenza non sarebbe forse giustificata.


Giuttari sapeva bene però che non si trattava affatto di “piccoli risparmi”, ma erano i 152 milioni e rotti calcolati dai suoi uomini un paio di settimane prima, quindi non fu certamente l’intercettazione in oggetto a insospettirlo. Del resto già ai tempi di Perugini, durante la maxi perquisizione dell’aprile-maggio 1992, erano stati ritrovati buoni e libretti postali in rilevante quantità – per un totale di circa 120 milioni di lire, dettagliati dallo stesso Giuttari nella sua richiesta del 20 maggio – ma non si era provveduto ad alcun sequestro. Dopo il rientro di Pacciani in carcere, quei documenti – in gran parte buoni postali – erano finiti in custodia presso i carabinieri di San Casciano, dai quali suor Elisabetta si era recata a ritirarli su regolare delega del proprietario. Rinnovare dei buoni postali scaduti o non più convenienti è un’operazione del tutto normale, e la religiosa quella intendeva fare, ma Giuttari ci volle vedere del torbido, e richiese e ottenne un decreto di perquisizione (vedi).
In sostanza suor Elisabetta veniva sospettata di complicità, se non per aver partecipato ai delitti, almeno per averne gestito i proventi! Alle 7 di mattina del 3 luglio gli uomini di Giuttari frugarono in lungo e in largo il centro di accoglienza “Il Samaritano”, dove operava la religiosa e dove anche Pacciani era stato ospite per un breve periodo dopo la sua assoluzione. Suor Elisabetta, ancora in gamba ma pur sempre una donna di 62 anni, fu poi portata in Questura e torchiata per ben 13 ore. Dal “Corriere della Sera” del 5 luglio 1996:

"Sono allibita”, si è sfogata, “finalmente ho avuto l’opportunità di toccare con mano l’incapacità totale degli investigatori a seguire un filo logico nelle loro domande". Non ha voluto aggiungere altro e il resto dello sfogo lo ha raccolto l’avvocato Nino Marazzita, il legale che assiste Pacciani. "Immagino che tutto quel tempo trascorso in Questura”, ha detto Marazzita, “servisse agli inquirenti per intimorirla. Forse si aspettavano che alla fine crollasse e dicesse «il mostro di Firenze sono io»”. L’avvocato ha aggiunto che qualche giorno fa la suora era stata derubata per strada della borsetta nella quale c’era la sua agenda. "Ovviamente questo non vuol dire che ci siano legami con la perquisizione", ha concluso.[…]
Cercavano, gli inquirenti, il "tesoro" che il contadino di Mercatale ha affidato alla religiosa. Si tratta di 150 milioni in buoni postali e libretti di risparmio intestati a Pacciani e alla moglie che sarebbero stati versati tra l’80 e l’85, il periodo in cui il mostro compì sei duplici omicidi. Con gli accertamenti su quel capitale gli uomini della squadra mobile fiorentina cercano di verificare se esiste nel giallo del mostro un misterioso personaggio che avrebbe pagato per far commettere i delitti e per assistervi. Da una prima analisi sui documenti sequestrati, risulterebbe che le somme di denaro sarebbero state versate in contanti e frazionate presso uffici postali di Mercatale, della Rufina e di Firenze.


La legittima curiosità del lettore per l’episodio del furto della borsetta può essere soddisfatta, almeno in parte, dalla seguente gustosa intercettazione di una telefonata del 4 luglio tra la suora e Marazzita:

Suora: Comunque le volevo dire anche questo, che ho l’impressione che questo scippo che mi è stato fatto due giorni fa… troppo dolcemente mi è stato fatto...
Marazzita: Le è stato fatto uno scippo di cosa, della borsetta?
Suora: Della borsa, sì, che avevo con me. C’era dentro un taccuino con tutti i telefoni.
Marazzita: Ah beh… allora non è occasionale questo scippo…
Suora: Io credo che l’hanno fatto loro, poi una macchina che arriva… dolcemente… carica questo. Se ne vanno tranquillamente… troppo calma la cosa.
Marazzita: E che cosa c’era nella borsa?
Suora: Avevo il taccuino con segnato tutti gli indirizzi, telefoni… poi avevo un milione e cinquecentomila lire che ero andata a ritirare la pensione della mia mamma… Non è tanto per i soldi, mi interessava avere i miei indirizzi, i miei numeri di telefono… ma io sono convinta… e questa convinzione è venuta anche ad altre persone… che loro…
Marazzita: La coincidenza… la coincidenza è molto sospetta, no? Si attaccano a tutto ormai, mi guardo i giornali e poi la richiamo.
Suora: Va bene grazie… eh sì, questi sono disperati, non sanno a che attaccarsi…


Torniamo però alla perquisizione. Oltre ad appunti, agende, memoriali e lettere, fu sequestrato il discreto gruzzolo, intestato a Pacciani e famiglia, di 157,890,039 lire, corrispondenti a 81,543 euro nominali e 119 mila circa rivalutati a oggi (2018). Discuteremo tra breve della possibilità che quel danaro fosse stato frutto di oneste o nascoste attività, adesso interessa mettere bene in evidenza il fatto che gli inquirenti avevano cominciato a metterlo in relazione a un eventuale compenso per la vendita dei “feticci” già molti mesi prima della “lettera spontanea” di Lotti, come si è dimostrato. Il che, assieme a certe perplessità che suscita la genesi di tale lettera, rende più che probabile l’inversione di causa ed effetto: non fu l’accenno di Lotti al “dottore” a provocare la partenza delle indagini sui soldi di Pacciani, ma furono quelle indagini già iniziate da molti mesi a indurre il falso pentito a offrire il proprio aiuto agli inquirenti inventandosi il “dottore”.

Una lettera molto poco spontanea. Che l’iniziativa di scrivere la “lettera spontanea” fosse stata tutta di Giancarlo Lotti non è da credere neppure un po’. Cominciamo con l’indagare sulla sua strana genesi, partendo da questa nota di Canessa del 7 novembre.


Quindi Lotti, che alloggiava in un appartamento segreto presso la questura di Arezzo, l’8 novembre venne trasferito a Firenze, e non per un giorno soltanto. Il 15 successivo, con la nota seguente, la PG trasmise al PM la sua “lettera spontanea”.


Dalla nota si deduce che Lotti era stato sistemato in una struttura alberghiera di pertinenza della questura di Firenze, dove ancora il 15, quindi da una settimana, continuava ad alloggiare. Quali erano stati i motivi che avevano indotto gli inquirenti a tale cambio di residenza? Che cosa aveva inteso Canessa con la locuzione “incombenti relativi alle indagini in corso” della sua nota? Non suona un po’ strano che proprio in quella settimana al presunto pentito fosse venuta l’ispirazione per scrivere la famosa e densa di conseguenze “lettera spontanea”? Si tenga presente che nello scriverla di sicuro non aveva consultato il proprio legale, in quel momento Alessandro Falciani, il quale anzi, proprio per il contenuto della lettera sarebbe giunto alla grave decisione di rinunciare all’incarico. Si tratta di una vicenda inquietante, che vale la pena approfondire per quel poco che ne consentono le tracce contenute nelle cronache dei giornali.
Abbiamo visto che nella lettera Lotti aveva ammesso di aver sparato a Giogoli, costretto da Pacciani: “Vieni devi sparare tu. Io. Allora mi a dato la pistola in mano. Spara e o sparato diverse colpi.”. Il 16 novembre, davanti a Vigna e Canessa, aveva poi spiegato meglio, confermando il grave episodio. Il suo difensore c’era? A leggere il verbale parrebbe proprio di sì: “Si dà atto che è presente l'avv. Alessandro FALCIANI del Foro di Firenze, difensore di fiducia del LOTTI”. Ma allora non si spiega il contenuto di questo articolo uscito sulla “Nazione” del 3 gennaio 1997, dove per la prima volta si raccontava dell’ammissione di Lotti di aver sparato anche lui.

Secondo l’avvocato Falciani, che è difensore del Lotti dal maggio 1996, in nessuno degli interrogatori ufficiali il pentito avrebbe ammesso di aver sparato in occasione di uno dei duplici omicidi del “mostro”. Anche l’avvocato Neri Pinucci, primo difensore di Lotti, non ha memoria di confessioni di questo tipo.
Il dubbio appare lecito: la procura potrebbe aver interrogato Lotti senza avvocato? “No, non credo proprio”, replica l’avvocato Falciani. “Lotti è un pentito, inserito nel programma di protezione, che ha ammesso le sue responsabilità. È un indagato, quindi non può essere sentito come informatore o persona informata sui fatti. Quando rilascia dichiarazioni che devono essere messe a verbale, deve farlo alla presenza di un legale. Fa parte delle regole del gioco”.
Ma si parla anche di un interrogatorio al quale Lotti sarebbe stato sottoposto il 23 dicembre, due giorni prima di Natale. “Non ne so niente”, replica Falciani. Gli unici interrogatori del pentito ai quali l’avvocato ha partecipato risalgono al giugno e al luglio scorsi. In entrambi Lotti fece molte ammissioni circa i delitti del “mostro”, ai quali disse di aver partecipato in qualità di “palo”. Ma mai ha confessato di aver sparato.
Il sospetto, dunque, è che Lotti possa aver cambiato avvocato. Un’ipotesi che però Falciani tende ad escludere. “Io sono il suo legale di fiducia, se mi avesse sostituito avrei ricevuto una revoca, cosa che non è avvenuta”.


In base all’articolo, mai smentito, sembra proprio di poter concludere che Lotti fu interrogato senza l’assistenza di un legale, sia il 16 novembre sia il 23 dicembre, nonostante la legge lo imponesse essendo indagato. Ma in entrambi i verbali è dichiarata la presenza di Falciani, quindi, dove sta la verità? È comunque un fatto che Falciani si dimise. Dalla “Nazione” del 5 gennaio 1997:

Giancarlo Lotti […] è rimasto senza difensore. L’avvocato Alessandro Falciani […] se ne è andato sbattendo la porta. Ha rinunciato all’incarico per essersi trovato in mezzo al guado delle polemiche seguite alla fuga di notizie, nonostante avesse coerentemente e correttamente mantenuto il segreto sulla clamorosa confessione di “Katanga” che ha segnato la nuova svolta delle indagini. La rinuncia all’incarico è stata comunicata sia al procuratore Vigna, il quale ha espresso il suo rammarico e riconosciuto il “comportamento esemplarmente corretto dell’avvocato Falciani”, sia alla direzione del servizio centrale di protezione dei pentiti cui è affidato Lotti. Già martedì, comunque, la difesa di “Katanga” sarà affidata a un altro penalista.

Sarà vero che Falciani si era arrabbiato soltanto per la fuga di notizie, e non perché non era stato presente alla confessione del suo assistito? Bisognerebbe chiedere a lui.
Torniamo però a quello strano trasferimento di Lotti a Firenze. A parere di chi scrive c’era dietro la nota perizia Fornari-Lagazzi. I colloqui dei due consulenti con Giancarlo Lotti, in totale cinque, erano terminati con quello del 29 ottobre, quindi, nonostante la data della perizia sia 20 novembre, si può ritenere certo che i risultati ufficiosi del lavoro fossero stati presentati già a cavallo tra ottobre e novembre. Il documento è ormai ben noto, tutti possono leggerlo e trarre le loro conclusioni; a chi scrive pare che gli elementi principali di novità che gli inquirenti avevano potuto desumere dal lavoro dei due periti fossero questi: Lotti aveva latenti tendenze omosessuali (“sicuramente presenta pesantissime istanze di carattere omosessuale”) e, soprattutto, stava nascondendo qualcosa.

Quali consulenti del P.G., dobbiamo mettere in luce come si sia ricavata la netta impressione che egli sia in grado di dare molte più risposte ed informazioni di quanto finora fornite, ma che giochi con astuzia nel centellinare il suo dire; infatti non dice più di tanto e, al contempo, gode di tutti i vantaggi di una persona inserita in un programma di protezione; di qui il ferreo, impenetrabile, non scalfibile suo atteggiamento di chiusura e di rifiuto ad “andare oltre”.

Considerando il lavoro che avevano fatto sui soldi di Pacciani, la convinzione dei periti dovette sembrare agli inquirenti la miglior dimostrazione della bontà delle loro intuizioni. Quindi non ci vuole molto a ipotizzare un colloquio informale dei primi di novembre in cui Lotti venne posto davanti alle conclusioni dei periti, durante il quale, con l’aiuto di qualche inconsapevole suggerimento – nato magari anche dalle notizie giornalistiche sul tema – fece capolino l’ammissione che sì, quei troppi soldi di Pacciani nascondevano un “dottore” che lo pagava. E per rendere più credibile il clamoroso ma fin troppo tardivo racconto Lotti si rassegnò a pagare un prezzo, che poi poteva anch’esso risultare parte di quanto avrebbe nascosto fino a quel momento: a Giogoli aveva sparato anche lui. Infine, nell’intento di limitare i danni, venne buona la storia dell’omosessualità, con la quale tentò di trovare una pur maldestra giustificazione, alla quale comunque Giuttari parve credere (da Il Mostro: “Si spiega così la minaccia, il ricatto subito, la necessità di ubbidire che prima aveva solo giustificato limitandosi a dire «lo sanno loro». Il quadro ambientale si completa sempre più. Lotti ha tendenze omosessuali.”; e non è certo un caso che in nota venga richiamata proprio la conclusione della perizia Fornari-Lagazzi sulla presunta omosessualità di Lotti).
L’abbozzo di tali argomenti in possibili colloqui informali ben giustificherebbe il successivo trasferimento di Lotti a Firenze, dove questi vennero meglio definiti nella “lettera spontanea” e nel successivo interrogatorio. È pensare troppo male? Forse, ma a chi scrive pare lecito che si possa anche pensar male, almeno a fronte di elementi poco chiari come in questo caso, e soprattutto ben ammettendo che si tratta soltanto di ipotesi, sulle quali ognuno è libero di formulare un proprio giudizio. In ogni caso le perplessità suscitate dallo scenario in cui nacque la “lettera spontanea” di Lotti lasciano molti dubbi sul “dottore”, una figura già di per sé poco credibile. Ma non per i giudici di primo grado del processo Vanni, che su quella figura chiesero di indagare, anche perché

le indagini di carattere finanziario, eseguite dalla PG sul conto di Pacciani, hanno portato ad una situazione economica del tutto incompatibile con la sua condizione di contadino, che lavorava i terreni altrui e che guadagnava appena il sufficiente per vivere, essendo risultato che lo stesso Pacciani ha acquistato in quegli anni un immobile urbano in Mercatale Val di Pesa per il prezzo di £. 35.000.000 milioni di allora (anno 1984) ed ha poi investito la somma di £.157.890.038 in "buoni postali", disseminandoli tra i vari uffici del circondario (Mercatale, Montefiridolfi, San Casciano, Cerbaia e Scandicci), chiaramente per tener nascosta tanta provenienza di denaro, non sicuramente di fonte lecita.

È arrivato dunque il momento di guardare dentro i risparmi di Pacciani, per valutarne l’effettiva entità e scoprire se davvero poteva esserci stata correlazione tra i prelievi degli organi dalle donne uccise e il danaro da lui investito. Ma prima il lettore si goda un’ultima chicca: la copia manoscritta della “lettera spontanea” di Lotti, fino a oggi mai pubblicata.


Come si vede, una parte del documento allegato agli atti risultava censurata, e, di certo non a caso, era proprio quella relativa al “dottore”, di gran lunga la più importante e clamorosa.

Segue

domenica 23 settembre 2018

La dinamica di Scopeti

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Siamo finalmente giunti alla ricostruzione del delitto degli Scopeti, da alcuni miei lettori attesa con grande impazienza. Premetto che non mi dilungherò sulla descrizione delle condizioni al contorno, sulle quali non potrei dire (quasi) nulla più del moltissimo che già è stato detto. A questo proposito segnalo due fondamentali documenti: lo studio liberamente scaricabile Il delitto degli Scopeti, di Vieri Adriani, legale delle famiglie, e il libro Delitto degli Scopeti – Giustizia mancata, dello stesso Adriani, Francesco Cappelletti e Salvatore Maugeri, quest’ultimo amico di gioventù della vittima maschile. Mi concentrerò invece sulla dinamica vera e propria, dove ritengo di poter presentare degli elementi in grado di aggiungere chiarezza o almeno di  stimolare la riflessione. E a questo proposito devo segnalare almeno quattro precedenti tentativi di proporne una ragionevole: i due ufficiali, contenuti nelle perizie di Mauro Maurri e collaboratori (una trascrizione incompleta è scaricabile qui) e Francesco De Fazio e collaboratori (qui), peraltro poco convincenti, soprattutto il secondo; quello contenuto nel libro sopra citato, assai migliore anche se su alcuni particolari chi scrive dissente; infine quello generoso e per alcuni aspetti piuttosto riuscito (il documento è scaricabile qui) di un forumista, Vigneron.
Nadine Mauriot, 36 anni, madre separata di due figli, e Jean Michel Kraveichvili, 25 anni, suo compagno, partirono dalla Francia mercoledì 4 settembre 1985 a bordo di una Volkswagen Golf bianca. Si erano portati dietro una tenda, nella quale dormirono a campeggio libero per due notti sulla costa toscana. Giunsero a San Casciano nel primo pomeriggio di venerdì 6, dove furono visti da un testimone attendibile montare la tenda sulla piazzola degli Scopeti. Un’altra testimonianza certa li colloca quella stessa sera a cena alla festa dell’Unità di Cerbaia, da dove non c’è motivo di dubitare che fossero poi tornati alla loro tenda. Da quel momento tenda e auto, poste vicinissime l’una all’altra, rimasero sempre nella medesima posizione, senza che nessun testimone attendibile avesse più visto la coppia, né sulla piazzola né da qualsiasi altra parte. Fino al lunedì, quando un ragazzo scoprì il corpo di Michel tra la vegetazione, e poco dopo i carabinieri anche quello di Nadine, all’interno della tenda.
Sono ben note le discussioni nate attorno alla data di morte dei due poveretti, stabilita dall’anatomopatologo Mauro Maurri nella domenica sera, ma in seguito contestata numerose volte con argomenti assai fondati che non è il caso di ripetere in questa sede. È ferma opinione di chi scrive che tale data debba essere retrocessa di due giorni, poiché, al di là di tutte le considerazioni su rigor mortis e larve di mosca, la coppia non aveva alcun motivo di trattenersi sulla degradata piazzola per più di una notte. Nadine e Michel vennero uccisi venerdì 6 settembre 1985, poco dopo il loro ritorno da Cerbaia, quindi a partire dalle ore 23 ma non troppo oltre, come dimostrano i resti di cibo trovati nel loro stomaco, compatibili sia con le pappardelle al sugo di lepre servite alla festa dell’Unità sia con un tempo di digestione valutato in un paio d’ore. Considerando la fuga di Michel cui seguirono gli spari e l’inseguimento del Mostro, che nella circostanza ben difficilmente poteva aver tenuto in mano una fonte di luce, è molto probabile che l’orario sia da collocarsi in vicinanza delle 24, quando la luna – che sorgeva alle 23:29 ed era al suo primo quarto – illuminava pur debolmente la piazzola.
 
Edit 3/12/2020: In realtà, secondo questo sito, la luna sorgeva alle 22:53, vedi. Il dato erroneo delle 23:29 è quello riportato dal libro Delitto degli Scopeti – Giustizia mancata. Questa precisazione in prospettiva di esaminare, ed eventualmente confutare (ma ci vorrà del tempo), le motivazioni che hanno indotto un noto mostrologo a collocare il delitto all'alba di domenica.
  
Ancora un paio di considerazioni, prima di proseguire. Al di là delle sciocchezze raccontate dieci anni dopo da Pucci e Lotti sui due assassini Vanni e Pacciani, ancora oggi c’è chi ipotizza l’intervento di un complice. Senza poter escludere per certo questa eventualità, come vedremo lo studio della dinamica del delitto la rende comunque non necessaria, anzi, del tutto improbabile, in particolare se si intende mettere in mano una pistola anche al secondo individuo (come pure si è fatto con un fantomatico revolver che non avrebbe lasciato bossoli).
Infine, nell’ipotesi di un delitto avvenuto al venerdì sera, è opportuno riflettere sulla residenza dell’assassino. Chi meglio di qualcuno abitante in zona avrebbe potuto accorgersi, passando forse per caso al pomeriggio, della tenda e quindi della possibilità di trovarvi alla sera una coppia da uccidere? Per un residente nel Mugello, distante 50-60 km, sarebbe stata una bella coincidenza il passare di lì proprio al venerdì pomeriggio, ma anche per chi abitava a Firenze. A meno dei momenti in cui i due si stavano preparando alla notte – quindi con qualche luce accesa, ma per quanto tempo? – calato il buio la tenda non era più visibile dalla strada. Con grande probabilità l’assassino era già sul posto quando Nadine e Michel tornarono dalla festa dell’Unità; attese che si ritirassero poi li aggredì.

La scena del crimine. La foto sottostante, che nella sua nota versione a colori è tagliata sulla sinistra e che quindi conviene riportare anche in quella meno nota in bianco e nero, risulta molto più efficace di qualsiasi descrizione riguardante l’auto e la tenda, della quale si nota esternamente il telo argenteo impermeabile sotto cui ce n’era uno giallo.


A completamento, va detto che il lato nascosto della tenda con davanti il marker “E” – rappresentante una macchia di sangue della quale si dirà – era quello d’entrata, con una cerniera verticale sotto cui ce n’era un’altra che chiudeva la zanzariera. Sul lato opposto, con davanti il marker “F”, si apprezza il noto squarcio verticale alto 40 cm. Nella foto in bianco e nero è presente anche l’albero, sul lato dell’entrata, che costituì il riferimento per le misure prese dalla Scientifica. I marker “C” e “D” rappresentano la posizione di due bossoli. Infine la freccia tracciata sul montante sinistro dell’auto indica una macchia di sangue che Michel lasciò durante la sua fuga.
Nella piantina sottostante, redatta dalla Scientifica e pubblicata dal libro di Valerio Scrivo Il Mostro di Firenze esiste ancora, si apprezza la presenza  di una fila di cespugli che divideva la piazzola in due parti, la seconda delle quali, sulla destra, era una specie di corridoio dove andò a infilarsi Michel fuggendo.


Si noti il cadavere del ragazzo sulla destra, rappresentato con le braccia distese verso l’alto a dimostrarne il trascinamento per i piedi, del quale si tratterà più avanti. Va però detto che – incredibile ma vero! – il disegno non rispetta la posizione della tenda, la quale presentava il suo lato anteriore di sghimbescio rispetto alla via Scopeti, e quindi andrebbe ruotato in senso orario di circa 45 gradi.
Nella prossima immagine, tratta dal medesimo libro, la Scientifica riprodusse la planimetria del luogo (ripetendo il medesimo errore riguardo la posizione della tenda). Si può apprezzare sulla destra l’ampia sterrata in salita per l’accesso alla piazzola, lunga una cinquantina di metri, e la buona visibilità della tenda e dell’auto dalla adiacente strada asfaltata, che correva più in basso di qualche metro.


Questa invece è una foto del cadavere di Nadine dentro la tenda.


Si può notare il telo argenteo esterno sollevato e il telo giallo interno al quale era fissata la zanzariera, la cui chiusura avveniva tramite una cerniera a “L”, e che poteva essere coperta dal lembo di tessuto che in foto risulta fissato in alto. La distanza della parte orizzontale della cerniera dal suolo, probabilmente rappresentata dalla freccia rossa sotto il marker “G”, non è nota; in questa sede sarà considerata di circa 15 cm, misura che appare ragionevole. Si tratta di un elemento di rilievo, poiché sulla zanzariera furono trovati cinque fori di proiettile – messi in verticale poco a destra della cerniera – dei quali furono misurate le relative altezze rispetto alla base della zanzariera stessa, risultate di 10, 20, 24, 46, 56 cm, corrispondenti quindi, aggiungendo i presunti 15 sopra valutati, a 25, 35, 39, 61, 71 dal suolo. I fori numero 1, 2 e 5 (partendo dal basso) risultarono allineati tra loro sulla verticale, da cui il 3 era spostato di 6 cm a destra e il 4 di 7 a sinistra. La figura sottostante dà un’idea di quanto appena scritto.


Sulla parte posteriore della tenda c’era una seconda apertura a cerniera, che non ha però interesse in quanto chiusa e non utilizzata. Hanno invece interesse sia uno squarcio verticale che si estendeva per circa 40 cm con partenza dal vertice, sia uno strappo a “L” posto in basso sul lato destro rispetto all’entrata principale a circa 30 cm dal suolo. A questo strappo corrispondeva sul tessuto giallo interno un foro ovalare, quindi si deve presumere che responsabile della formazione di entrambi fosse stato un proiettile.


Nella foto sopra – che poi è la parte mancante sulla sinistra di quella già presentata – sono apprezzabili sia lo squarcio, in alto a destra, sia la posizione dello strappo a “L” in corrispondenza della freccia rossa.

Bossoli e proiettili. Furono repertati nove bossoli, tutti nei pressi della tenda. La foto sottostante mostra la posizione di sei, cinque sul terreno molto vicini alla tenda, uno sul materassino. I tre non visibili vanno posti nella parte in basso a destra (due sono i “C” e “D” della foto sopra).


L’immagine è del giorno successivo a quello della scoperta del delitto, quando vennero recuperati, con l’aiuto di un metal detector, i cinque bossoli sul terreno più uno dei tre non visibili, sfuggiti alle ricerche del giorno prima. Intanto la tenda era stata smontata, rimontata – a beneficio di Francesco De Fazio giunto qualche ora dopo la Scientifica – e poi ancora smontata, con un lavoro che venne criticato nella stessa relazione di Mauro Maurri e collaboratori (“la tenda fu rimossa dal punto in cui era stata piantata con tecnica e modalità tutt’altro che ineccepibili”). Sono note le distanze dei bossoli dal rimasto materassino – rimesso nella posizione originaria ma difficilmente al centimetro – e dall’albero antistante la tenda, del quale però non è nota a chi scrive la posizione esatta rispetto alla stessa. In ogni caso, anche con l’ausilio delle foto, è possibile collocare in modo ragionevole tutti i bossoli sul terreno, come nella piantina sottostante.


Si possono notare la macchia di sangue appartenuto a Nadine – di forma ovalare e dimensione di circa 20 cm – repertata a 80 cm dalla tenda e un metro dall’albero (marker “E”), l’albero e la posizione della colonna dei fori sulla zanzariera, poco sulla destra della quale può essere collocato il bossolo numero 1 e accanto il 2 e il 3. Tornando alla foto della tenda con i marker, il bossolo 9 corrisponde al “C” e il 5 al  “D”. Il numero 4 non risulta da alcuna foto reperibile in rete, poiché al momento di quella della tenda con i marker non era ancora stato trovato, e in quella del materassino è fuori dal campo visivo. Per poterlo collocare nella piantina si è qui cercato di interpretare la seguente descrizione, contenuta nel libro Delitto degli Scopeti: “mt. 1,40 dall’abete e cm 95 dal materassino (A)”. Naturalmente sarò grato a ogni lettore che mi dovesse comunicare informazioni o anche ragionamenti migliori..
Prima di andare avanti è bene chiarire una questione importante. Se le modalità di smontaggio della tenda non furono ineccepibili, niente però autorizza a supporre che i bossoli fossero stati spostati dalla loro posizione originaria prima delle misurazioni. Vedremo presto che la posizione dei numeri 1, 2 e 3 costringerà a prendere atto di una conseguenza assai importante, per escludere la quale uno dei relatori a un passato convegno sul Mostro – Armando Palmegiani, cui l’anno precedente chi scrive aveva esposto il problema – fece una supposizione quantomeno azzardata: i sei bossoli trovati il giorno dopo (1-2-3-4-7-8) potevano essere stati raccolti da un agente e sparsi sul davanti della tenda! Si tratta di un’operazione difficile da immaginare anche nel contesto del cumulo di errori compiuti dalle nostre forze dell’ordine. Del resto si legge nel rapporto della Polizia Scientifica: Si è proceduto ad una ispezione con uso del metal detector. Detta operazione ha portato al ritrovamento, tra i ciuffi di erba secca antistanti l’apertura principale della tenda di n.6 bossoli”. Che bisogno ci sarebbe stato di usare un metal detector se i bossoli fossero stati sparsi a mano? Evidentemente l’attività del Mostro davanti alla tenda li aveva infossati tra i radi ciuffi d’erba secca e il terriccio.
Riguardo i proiettili, due completi e molto deformati furono estratti dalla testa e dal muscolo pettorale sinistro di Nadine, uno diviso in due frammenti fu invece estratto dall’omero destro di Michel. Un altro grosso frammento venne rinvenuto tra il lenzuolo e il materasso. Nella relazione di Maurri si suppone la presenza di altri due proiettili non repertati, uno nel piumone e uno in un cuscino. Infine un settimo proiettile si perse tra la vegetazione dopo aver forato la parte posteriore della tenda. Vedremo che i due proiettili mancanti furono probabilmente sparati contro Michel che stava fuggendo ma non lo colpirono, quindi si persero anch’essi tra la vegetazione.

Ferite. Su Nadine vennero riscontrate quattro ferite d’arma da fuoco, tutte con traiettoria da destra a sinistra: una trapassante alla guancia destra (2), una trapassante alla fronte con scalfittura superficiale dell’osso (3), una all’emitorace sinistro (4), con proiettile ritenuto e infine una alla tempia destra (5), anch’essa con proiettile ritenuto. Solo quest’ultima fu mortale, avendo determinato gravissimi danni al cervello, le altre tre possono considerarsi tutte superficiali. Le ferite alla testa avevano una leggerissima obliquità verso il basso. Conviene anticipare che il proiettile numero 1 probabilmente andò a vuoto colpendo un cuscino.


Va poi menzionata una ferite d’arma bianca al lato sinistro del collo,  inferta quando la donna era ormai morta o in fin di vita.
Infine le escissioni, che riguardarono sia il pube sia il seno sinistro. Per quella al pube, va registrata una chiara limitazione alla zona dei peli, ma anche il raggiungimento di tessuti profondi, per un lavoro abbastanza grossolano.
Anche su Michel vennero riscontrate quattro ferite d’arma da fuoco: una al labbro superiore nella sua parte sinistra (2), con il proiettile che ruppe un dente e cadde poi a terra (come vedremo, probabilmente si trattava dello stesso che in precedenza aveva colpito Nadine alla guancia destra fuoriuscendo), una all’eminenza tenar della mano sinistra (5), una alle ultime tre dita della mano sinistra (4) e infine una alla base del braccio destro nella sua faccia posteriore (9). Vedremo che una delle due ferite alla mano sinistra fu prodotta dal medesimo proiettile che colpì Nadine al torace, ma non si può dire quale, mentre l’altra potrebbe essere stata l’effetto sia di uno degli altri quattro sparati in tenda (più probabile a giudizio di chi scrive), sia di uno sparato contro il ragazzo durante la sua fuga.
 

Come si può facilmente intuire, nessuno dei proiettili che aveva colpito Michel poteva averne provocato la morte. Il ragazzo morì per le successive coltellate, ben 13, per le quali è il caso di osservare la prossima figura, dove le frecce indicano la direzione del fendente e i numeri la probabile sequenza progressiva.


Le coltellate più gravi, quelle che determinarono il decesso, furono le quattro all’emitorace sinistro (8-9-10-11), tutte sferrate dall’alto in basso e da sinistra a destra. Anche la 7, che raggiunse il fegato dal basso in alto, fu molto grave, e la 3, che trapassò il collo da destra a sinistra forando la trachea ma non i grossi vasi sanguigni, mentre la 12 e la 13 furono poco profonde. Nella ferita numero 2, direzione trasversale da sinistra a destra, la lama incontrò un vertebra fermandosi, la ferita numero 1 fu come un taglio, anch’esso trasversale. Infine le ferite 4-5-6 furono da difesa, da collocarsi molto probabilmente appena prima della 7, come vedremo, ma la loro progressione relativa è impossibile da determinarsi.

Alcune premesse. Qualche parola va spesa per sgomberare il campo da alcuni elementi d’incertezza se non di confusione, da sempre ostacolo a ogni tentativo di ricostruire una dinamica corretta. Partiamo dal taglio sul retro della tenda. La spiegazione più banale per la sua presenza è quella di un tentativo fallito da parte del Mostro di crearsi un’apertura per sparare o addirittura entrare. Era stata questa, ad esempio, l’interpretazione di De Fazio:

È da ritenere che il reo […] abbia prima accortamente studiato il luogo di intervento, decidendo di operare sulla tenda dalla parte posteriore (elemento sorpresa) aprendosi un varco nel telo con uno strumento tagliente (verosimilmente la medesima arma bianca usata per le successive operazioni). Egli deve tuttavia aver trovato, quale fatto non previsto, il secondo telo di riparo, (il che deporrebbe per una non piena dimestichezza con tende da campeggio), che da un lato avrebbe impedito l’accesso all’interno, dall’altro avrebbe evocato l’allarme degli occupanti.
È da supporre che l’aggressore a questo punto abbia rinfoderato il coltello (il che pone il problema di un’idonea guaina di collocamento o impugnamento rapido), abbia impugnato la pistola, esplodendo prima un colpo contro lo spigolo della tenda, forse indirizzato verso le voci o i rumori dell’interno della tenda i cui occupanti, allarmati, si accingevano ad uscire.

Cominciamo col dire che il Mostro non sparò affatto dalla parte posteriore, poiché nessun bossolo vi venne trovato, e il leggere tale erratissima ipotesi nella perizia De Fazio sconcerta alquanto. Del resto, come vedremo, le vittime furono colte completamente di sorpresa dalla prima sequenza di proiettili, quindi nessun rumore anomalo le aveva allarmate; il che porta anche a escludere che il taglio avesse preceduto la sparatoria. Con la cerniera sul davanti aperta – non è pensabile che i due si fossero ermeticamente chiusi dentro uno spazio così piccolo e soffocante – qualsiasi aggressore sarebbe partito da lì, come fece anche il Mostro. E allora, il taglio? Di sicuro venne effettuato dopo, per ragioni di altro tipo e di non facile individuazione, e che comunque in questa sede non vale la pena discutere (chi scrive le collega all’attività di oscuri personaggi che nei due giorni successivi si aggirarono attorno alla piazzola).
Un altro argomento da chiarire è quello della luce. Nella tenda non fu trovata alcuna lampada da campeggio, ma è del tutto impossibile che i due, facendo campeggio libero, ne fossero stati sprovvisti. Le uniche fonti di luce presenti tra le loro cose erano una candela e una torcia a batteria, chiuse però in una borsa trovata all’interno dell’auto; si comprende bene quali sarebbero stati i problemi in caso di esigenze corporali nelle ore serali e notturne, tanto per fare un esempio. Ma, senza una fonte di luce, anche semplici operazioni all’interno della stessa tenda sarebbero state difficili, come prendere un fazzoletto, ritrovare i propri indumenti intimi, aprire e chiudere la zanzariera. Quindi si deve senz’altro supporre che in tenda una lampada da campeggio vi fosse stata, e che poi il Mostro l’avesse portata via, non come souvenir ma semplicemente perché se ne era avvalso durante le tristi manovre su Nadine, lasciandovi sopra le proprie impronte insanguinate.
In più va anche supposto che al momento dell’attacco la lampada fosse accesa. Un fascio di luce esterno, come quello prodotto da una torcia a mano, avrebbe dovuto superare il tessuto traforato della zanzariera, con una resa sulle figure interne molto ridotta, tanto da impedire di distinguerne i particolari. Si è già accennato al fatto che dei cinque colpi sparati attraverso la zanzariera soltanto uno andò a vuoto colpendo un cuscino, quindi le vittime dovevano essere ben visibili dal di fuori.
Infine il problema della scarpata. Davanti all’ingresso della tenda il terreno iniziava a scendere, come si vede bene dall’immagine della planimetria. Secondo un’opinione circolata nelle discussioni in rete e accennata anche dal libro Delitto degli Scopeti - Giustizia mancata il Mostro si sarebbe avvicinato in piedi alla zanzariera percorrendo il terreno in salita antistante e sparando via via sempre più in alto. Ma davanti alla tenda non c’era alcun terreno in salita, perlomeno non in forte salita, come risulta ben chiaro da alcune foto, ad esempio dalla sottostante.


Tra l’altro risulta ben visibile la macchia di sangue ovalare, la cui distanza dalla tenda fu misurata in 80 cm e il diametro in 20, quindi davanti all’ingresso c’era almeno un metro di terreno pianeggiante, al massimo in leggero declivio. Se si pensa che tutti e cinque i fori sulla zanzariera erano caratterizzati da aloni di affumicatura, e che quindi la pistola aveva sparato a pochissima distanza dal tessuto, si comprende bene come l’ipotesi della scarpata non possa reggere.

I colpi di pistola. I due vennero sorpresi mentre stavano amoreggiando, lui disteso supino e lei sopra con le gambe flesse, i piedi a sinistra e la testa a destra rispetto all’ingresso. Il Mostro si presentò davanti alla cerniera aperta forse accucciato, ma molto più probabilmente in ginocchio, con un arto che teneva la pistola e l’altro poggiato a terra a rendere stabile la posizione (qui si ipotizza questo secondo scenario). A dividerlo dalle vittime c’era soltanto il tessuto traforato della zanzariera chiusa, attraverso il quale ne vedeva bene i corpi nudi illuminati dalla lampada accesa.
Nella prima fase dell’attacco vennero sparati i cinque colpi che forarono la zanzariera, di sicuro per primi, in rapida sequenza, quelli corrispondenti ai tre fori più in basso, in quale ordine non è possibile stabilirlo, poi, dopo una brevissima pausa, i due più in alto; qui si ipotizza una progressione ascendente per tutti e cinque. Si ipotizzerà anche l’effetto di ogni proiettile, senza l’illusione di averli azzeccati tutti.


Potendo contare su una buona visibilità, l’aggressore decise di mirare al capo dei due che si stavano baciando o sbaciucchiando. Molto probabilmente il primo colpo, troppo basso, finì dentro il cuscino, ma i due successivi raggiunsero il bersaglio: il numero 2 la guancia destra di Nadine e, in uscita, il labbro superiore sinistro di Michel, il numero 3 di striscio la fronte di Nadine. Quest’ultimo, fuoriuscendo, attraversò la parete posteriore della tenda producendo il foro nel tessuto interno e lo strappo a “L” in quello esterno, perdendosi poi tra la vegetazione. Stranamente i tre bossoli finirono tutti molto vicino al punto di sparo, pochi centimetri sulla destra.
Come sempre il Mostro fece una pausa per rendersi conto degli effetti dei suoi primi colpi, probabilmente alzandosi sulle ginocchia. Intanto, sia forse per un suo riflesso automatico, sia spinta da Michel, Nadine iniziò a sollevare il busto. Il movimento attirò l’interesse dello sparatore, che indirizzò il suo quarto colpo verso di lei, colpendola nella zona del seno sinistro; con tutta probabilità il proiettile aveva attraversato prima la mano sinistra del ragazzo mentre la stava spingendo, producendo una delle due ferite. L’ipotesi è ben suffragata dal percorso molto breve del proiettile nei muscoli di Nadine, spiegabile soltanto con una perdita di velocità per l’attraversamento di un precedente ostacolo (Maurri: “La […] ferita […] dimostra la scarsa forza viva posseduta e quindi, lo scarsissimo potere lesivo, in quanto il proiettile è stato repertato solo nel contesto delle fibre del muscolo gran pettorale”).


Seguì dopo pochi istanti un quinto colpo, ancora sparato verso Nadine ma con mira aggiustata; la poveretta venne infatti colpita alla tempia destra in modo preciso e mortale, accasciandosi. È possibile che il proiettile avesse prima attraversato una seconda volta la mano sinistra di Michel protesa verso lo sparatore come a difendersi, in questo caso senza subire particolari rallentamenti. Sia questo bossolo (5) che il precedente (4) furono scagliati verso l’albero sulla destra, uno dei due, forse il 4, colpendolo e rimbalzando.
I due poveretti giacevano uno sopra l’altro, Nadine morente e Michel con ferite non gravi ma comunque sotto shock. Fin troppo sicuro di sé – voleva finire i due a coltellate e, con la scatola quasi vuota, tenersi le quattro cartucce residue per un nuovo omicidio? – il Mostro aprì la zanzariera; Michel ne approfittò per tentare la fuga, dopo essersi scrollato di dosso il corpo di Nadine. L’uscita precipitosa del ragazzo sbilanciò il Mostro, che forse, da ginocchioni com’era, cadde a sedere lasciando partire un colpo. Il proiettile numero 6 non fece danni, infilandosi dentro il piumone, mentre il bossolo corrispondente finì poco dentro la tenda.
Michel prese sulla propria destra, con il Mostro che cercò di ostacolarlo e, dalla sua posizione precaria e nel buio, gli sparò dietro due altri colpi probabilmente mancando il bersaglio. I bossoli (7 e 8) carambolarono tra il corpo dello sparatore e il telo della tenda, andando a finire in avanti rispetto al punto di espulsione, mentre i proiettili si persero al di fuori, facendo tornare i conti che a Maurri e collaboratori non tornavano:

Rispetto al numero dei bossoli mancano quindi due proiettili che però non dovrebbero essere usciti dalla tenda, visto che, oltre quello descritto […], non si hanno altre lacerazioni da uscita di proiettili. È anche probabile che nelle manovre per smontare la tenda qualche proiettile sia andato perduto visto che fra l’altro la tenda fu rimossa dal punto in cui era stata piantata con tecnica e modalità tutt’altro che ineccepibili.

Poi, mentre Michel stava tentando di superare la strettoia costituita dal lato sinistro della tenda e dai vicini cespugli, il Mostro si alzò in piedi e gli sparò l’ultima cartuccia (9), con il proiettile che lo colse alla base del braccio destro. Il bossolo superò la tenda cadendo accanto al lato destro.


L’immagine cerca di dare un’idea della situazione. Il Mostro alla spalla era probabilmente alto 1.50, come abbiamo visto nel caso di Giogoli, quindi la tenda, alta 1.40, non lo ostacolava.

Riflessioni sui bossoli. Prima di affrontare la fase in cui Michel tentò di fuggire e il Mostro lo accoltellò, è opportuna qualche riflessione sul posizionamento dei tre bossoli corrispondenti ai proiettili che provocarono i fori più bassi nella zanzariera. Come è ben noto, e quella del Mostro non faceva eccezione, in genere le pistole semiautomatiche espellono i bossoli verso destra e verso il dietro. Secondo un’opinione diffusa in rete ma non suffragata da alcun documento – almeno, chi scrive non è riuscito a trovarne – da una Beretta come quella del Mostro caricata con cartucce come le sue il bossolo partiva con un angolo di circa 45 gradi rispetto all’asse della canna e ancora di 45 gradi rispetto al piano orizzontale passante per essa, per una distanza raggiunta sul terreno di circa tre metri (sparatore in piedi, calcio verticale, canna orizzontale).
In realtà non sembra che tali valori valgano per il caso specifico della pistola usata dal Mostro. Dove sono note o comunque ben desumibili le posizioni dei bossoli rispetto ai punti di sparo – per chi scrive solo nei quattro di Scandicci e nell’unico di Vicchio – la distanza raggiunta fu molto minore, un metro e trenta o poco più, e la direzione differente, più verso destra che verso dietro. La figura sottostante esemplifica i calcoli da me fatti, che hanno tenuto conto delle misure note integrate da qualche ragionevole ipotesi, come, ad esempio, la distanza della canna dai finestrini supposta di 10 cm.


La figura sottostante dà un’idea di dove sarebbero andati a finire i bossoli dei colpi sparati dal Mostro attraverso la zanzariera secondo le regole appena illustrate.


Abbiamo visto invece che i bossoli corrispondenti ai tre fori più in basso furono ritrovati poco lontano rispetto alla verticale dei fori stessi, tra i 10 e i 30 cm sulla destra e tra i 5 e i 10 indietro.
Osserviamo ancora una volta la piantina con la posizione dei nove bossoli.


È evidente che in uno spazio pieno di ostacoli come quello davanti all’ingresso della tenda – lo sparatore accucciato, la stessa tenda, l’albero – i bossoli non sempre ebbero la possibilità di percorrere la loro normale traiettoria. I numeri 7 e 8 finirono addirittura in avanti, probabilmente dopo essere rimbalzati prima sul tessuto della tenda poi sullo sparatore. Il bossolo numero 4 avrebbe dovuto posizionarsi vicino al numero 5, ma probabilmente rimbalzò sul tronco dell’albero prima di cadere a terra. Infine il numero 6 fece poca strada carambolando nello spazio tra sparatore, vittima e tessuti della zona dell’ingresso. Forse i numeri 5 e 9 furono gli unici a compiere il loro percorso regolare.
Quale fu la ragione che fece cadere i bossoli 1, 2 e 3 così vicino al punto di sparo? Un’ipotesi potrebbe essere quella di rimbalzi contro il tronco dell’albero, come per il bossolo 4, ma non è possibile che una struttura cilindrica e rugosa respinga quasi nel medesimo modo tre bossoli partiti per forza con piccole variazioni di traiettoria. Altre ipotesi non se ne vedono, se non quella di una bocca di espulsione orientata verso i punti di caduta, come nella figura seguente.


Al colpo più basso il calcio della pistola era ruotato di 90 gradi e oltre in senso orario, quindi la mano che lo impugnava era per forza la sinistra con una rotazione verso l’interno; con la mano destra la medesima rotazione sarebbe stata verso l’esterno, del tutto scomoda e ingiustificata. In effetti, provare per credere, tenendo la pistola così in basso viene naturale ruotarla verso l’interno.


Proviamo adesso a descrivere l’intera sequenza dei primi cinque spari – con l’aiuto delle foto, ma il lettore non sia troppo severo riguardo la loro aderenza alle misure reali – ipotizzando le posizioni dello sparatore. Durante i primi tre, esplosi in rapidissima successione, l’individuo rimase fermo con il corpo e fu soltanto il braccio ad alzarsi, mentre la rotazione della pistola diminuiva leggermente con i bossoli espulsi sempre più verso destra. Probabilmente la canna era quasi accostata al tessuto della zanzariera, che per l’inclinazione della parete si trovava spostata verso l’interno, quindi il punto di caduta dei bossoli risultò vicinissimo alla base. Il quarto colpo, esploso dopo una piccola pausa, fu quello al seno di Nadine, che nel frattempo aveva alzato il busto. Lo sparatore doveva essersi a sua volta sollevato sulle ginocchia, abbandonando la presa a terra della mano destra. L’altezza del foro sulla zanzariera aumentò di 22 cm – i due aumenti precedenti erano stati di 10 e 4 – e il bossolo fu lanciato verso l’albero, colpendolo, da una pistola che era tornata ad avere il calcio quasi verticale. Infine il quinto colpo fu sparato guadagnando altri 10 cm in altezza e cadde nei pressi dell’albero.

Addendum 28/09/2018. L'intervento del lettore Vincenzo Aversa mi ha ricordato che un paio d'anni fa mi ero imbattuto in un'interessante scena dal film I soliti sospetti, della quale avevo salvato il seguente fotogramma:


Come si vede, si tratta di un mancino che usa la pistola girata verso l'interno. In effetti ci sono dei tiratori mancini che hanno quest'abitudine, magari con rotazioni assai minori dei 90° del fotogramma. Lo scopo è quello di minimizzare la possibilità di prendersi i bossoli in faccia, ma al massimo sul torace. La distanza raggiunta dal bossolo è senz'altro minore, il che potrebbe spiegare il misero metro e trenta di quelli del Mostro.

Fuga e morte di Michel. Anche dopo essere stato colpito in modo grave al braccio destro, Michel non fermò la propria fuga; la macchia di sangue sul montante della Golf ci dice che vi si appoggiò con la mano sinistra ferita mentre stava aggirando la tenda. Purtroppo nel buio e in un posto che non conosceva prese la direzione sbagliata, superando i cespugli che delimitavano il corridoio sulla destra della radura, che comunque tentò di percorrere verso l’uscita e quindi verso la potenziale salvezza. Ma il Mostro, che evidentemente aveva intuito il suo percorso – e forse anche visto, alla debole luce della luna – invece di inseguirlo si precipitò a chiudergli la strada, come viene illustrato dalla sottostante immagine.


I due percorsi sono ipotetici ma ragionevoli – al massimo quello del Mostro potrebbe essere iniziato non subito verso la bocca del pertugio, ma verso il ragazzo in fuga per poi deviare – e dimostrano come non ci fosse stato alcun bisogno dell’intervento di un complice per fermare Michel, considerando che la compagna era in tenda morente.


Il Mostro aveva riposto la pistola, ormai scarica, e aveva messo mano al coltello; appena il ragazzo lo vide si girò tentando di tornare sui propri passi – forse i due si scontrarono anche – ma il suo aguzzino gli fu subito addosso e gli sferrò due coltellate, una trasversale sul lato posteriore del braccio sinistro (Maurri: “ampio squarcio a direzione pressoché trasversale rispetto al maggior asse dell’arto, con interessamento del piano sottocutaneo e muscolare a livello del tricipite”), una alla base del collo cogliendo una vertebra (De Fazio: “un colpo di direzione trasversale da sn. a dx. che attinge il rachide a livello della 5° vertebra”). È evidente che almeno in questo secondo caso il coltello poteva essere soltanto nella mano sinistra, ma anche nel primo.


Dopo il secondo fendente il Mostro, con tutta evidenza ambidestro ma con le proprie preferenze d’uso dell’arto destro o sinistro a seconda delle circostanze, passò rapidamente il coltello nell’altra mano per afferrare Michel al collo con il braccio sinistro e sferrargli un fendente, non mortale ma certamente in grado di togliergli la forza per divincolarsi (De Fazio: “ferita trapassante che interessa le regioni laterocervicali, (perforante la trachea ma, sembra, non i grossi vasi) con decorso trasversale da dx. a sn.”).


I due attori in foto hanno più o meno la medesima statura, si consideri però che probabilmente il Mostro era più alto di una decina di centimetri (un metro e 80 circa contro uno e 70), quindi gli fu facile gravare con il peso del proprio corpo sulle spalle di Michel e spingerlo a terra, mentre cercava di accoltellarlo al torace. È molto probabile che le tre ferite da difesa ai polsi del ragazzo siano da collocarsi in questa fase dell’aggressione. La foto cerca di darne un'idea, supponendo che entrambe le braccia ferite fossero ancora in grado di muoversi.


Alla fine il Mostro stabilizzò la propria posizione mettendosi in ginocchio, quindi riuscì a colpire Michel alla base del costato sul lato destro del torace (De Fazio: “colpo all’ipocondrio dx. nettamente dal basso in alto determinante lesioni epatiche ed emoperitoneo”).


Dopo aver lasciato cadere a terra il ragazzo ormai privo di forze, il Mostro gli si mise a cavalcioni sulle gambe girandosi, e gli sferrò quattro coltellate sul lato sinistro del torace (De Fazio: “4 colpi in regione precordiale, penetranti in cavità toracica con direzionalità dall’alto in basso e da sn. a dx. determinanti una condizione di emotorace”). Furono questi i colpi mortali.


Per maggior sicurezza, ma anche per smaltire l’adrenalina residua, prima di alzarsi il Mostro usò ancora il coltello con due fendenti all’addome, non particolarmente violenti (De Fazio: “2 ferite addominali (iliache, bilaterali, simmetriche); poco profonde”).

La mutilazione di Nadine. Ormai certo della morte del ragazzo, il Mostro tornò verso la tenda. Probabilmente Nadine, nonostante le lesioni devastanti all’encefalo, dava ancora deboli segnali di vitalità; in ogni caso l’individuo volle esser sicuro della sua morte, quindi le sferrò una coltellata molto violenta al collo (De Fazio: “Lesione da taglio al collo (senza o con scarsa soffusione emorragica!!), molto profonda, fino ad interessare la cupola toracica ed il piano costo-vertebrale”). Quindi passò alla fase successiva della sua sciagurata impresa.
Sono diverse le opinioni su dove sarebbe stato posizionato il cadavere di Nadine per mutilarlo del pube e del seno. Si legge nella perizia Maurri:

L’omicida entra dentro la tenda, afferra il corpo inanimato della donna, presumibilmente per i piedi e la trascina parzialmente fuori attraverso l’apertura anteriore sì che la ragione pubica si trova grosso modo a circa 75-80 cm. dal margine o bordo della tenda (punto ove è stata trovata la chiazza di sangue davanti alla zanzariera)

Secondo l’anatomopatologo e i suoi collaboratori il cadavere sarebbe stato estratto dalla tenda, con la zona del pube posizionata a un’ottantina di centimetri da essa, dove poi sarebbe stata trovata la nota macchia di sangue, prodottasi quindi proprio per la mutilazione. Ma l’ipotesi pare poco felice. Innanzitutto davanti all’ingresso, lo abbiamo visto, c’era una striscia di doppio tessuto alta a occhio una quindicina di centimetri. A parte l’improba fatica, data la ristrettezza dell’ambiente, farvi strisciare sopra il cadavere avrebbe prodotto un conseguente grosso sconquasso nella debole struttura dell’intera tenda, sia nell’estrazione che, anche di più, nel successivo riposizionamento, che invece non vi fu. E poi la necessaria luce sarebbe stata troppo visibile dalla via sottostante.
Si legge nella perizia De Fazio:

L’operazione deve essere avvenuta all’interno della tenda, con possibilità di illuminazione da lasciare libero l’uso delle mani, anche se con una certa ristrettezza di spazio. L’operatore forse si è messo sul fondo della tenda con le spalle rivolte alla parete posteriore e con il volto verso l’accesso (anche per una naturale cautela di salvaguardia verso eventuali sopravventori), nel ristretto spazio interposto, cioè, tra la parete posteriore della tenda ed il cadavere della donna reclinato sul fianco sinistro; le gambe del reo sarebbero da ritenersi quindi appoggiate al fianco dx. della donna.

Il Mostro accucciato o inginocchiato con le spalle alla parete posteriore e davanti a lui il cadavere di Nadine per lungo; il tutto in uno spazio di un metro e 10, poiché tale era la profondità della tenda: la scena immaginata da De Fazio e collaboratori è fuori dalla realtà. Senza contare il pericolo che avrebbe corso il Mostro al sopraggiungere di qualcuno, con l’ovvia difficoltà di fuggire se anche, guardando verso l’ingresso, avesse avuto la possibilità di accorgersene.
E allora, dentro o fuori? In realtà basta riflettere sulla foto del materassino insanguinato per ipotizzare un terzo molto più plausibile scenario.


Semplicemente il Mostro si affacciò carponi all’interno dove, dopo la coltellata di cui si è detto, prese il cadavere per i piedi e gli tirò fuori soltanto le gambe raddrizzandolo. Quindi, inginocchiato con le ginocchia appena fuori e il busto dentro, alla luce della lampada da campeggio portò a compimento la sua triste operazione. Vantaggi: nessuno sconquasso sulla tenda, relativamente poca fatica nello spostamento del cadavere, nessuna luce visibile dal di fuori e possibilità di fuga al sopraggiungere di qualcuno.
Secondo Maurri venne mutilato per primo il pube, secondo De Fazio il seno, in ogni caso i due organi vennero entrambi appoggiati fuori dalla tenda producendo la nota macchia di sangue sul terreno. Poi le gambe di Nadine furono rimesse dentro, riposizionando il cadavere più o meno com’era in origine, trasversalmente con la testa a destra, e la cerniera richiusa (così sarebbe stata vista da Sabrina Carmignani).
Con quale mano il Mostro teneva il coltello durante le escissioni? È ben nota l’opinione di Maurri: con la destra. Secondo l’anatomopatologo, per entrambi gli organi l’incisione sarebbe stata compiuta con due movimenti ad arco di cerchio, entrambi con partenza alle ore 9-10.

Si vuole cioè fare esplicito riferimento all’intaccatura localizzata, rispetto al quadrante di un orologio, verso le ore 9-10 che compare, ed è stata notata e descritta, in tutti i casi di mutilazione del pube. Anche nel caso della giovane francese pertanto l’omicida ha iniziato la cruentazione della regione pubica, con un incisione ad arco di cerchio diretta […] da destra verso la sinistra sì da delimitare grosso modo la metà superiore della superficie rotondeggiante cruentata; subito dopo partendo dallo stesso punto da cui ha avuto inizio la prima incisione si è avuto un’altra azione da strisciamento e da pressione del filo della lama, ad andamento curvilineo con concavità aperta verso l’alto, mentre nel taglio iniziale la concavità era verso il basso; la seconda incisione va del pari, come la prima da destra verso sinistra, sul cadavere, e finisce con il formare la metà inferiore della circonferenza di cui la metà superiore era stata formata con la prima incisione. Nel punto di contatto dei due tagli si forma la linguetta, il triangolo di cute che si ripete è costantemente presente anche nelle mutilazioni precedenti e sempre nelle stessa zona del quadrante orario.

La discontinuità dell’incisione a ore 9-10 avrebbe quindi indicato il punto di partenza della lama in entrambe le direzioni, oraria in alto, antioraria in basso. Per poter ipotizzare due archi di cerchio invece di un cerchio unico, evidentemente anche sul lato opposto, a ore 3-4, doveva esistere un qualche segnale di discontinuità, non tanto nella cesura delle due curve, che altrimenti sarebbe anch’essa stata evidenziata, quanto nella loro inclinazione. Il che però è molto strano, poiché la discontinuità di gran lunga maggiore avrebbe dovuto determinarsi proprio nel punto d’arrivo dei due semicerchi, dove difficilmente la seconda volta la lama sarebbe arrivata proprio dove era arrivata la prima. Alla partenza, invece, sarebbe stato facile ripartire dallo stesso esatto punto.
Per quanto riguarda il seno, dove la tecnica d’incisione rimase la medesima, suona strano che un destrimane avesse scelto il sinistro (a meno di recondite ragioni, tipo “orrendo spettacolo” di Pacciani, che appaiono poco probabili). Nelle due foto sottostanti si può apprezzare bene la migliore posizione di chi afferra il seno con la mano destra e lo taglia con la sinistra, quindi con il busto in linea con quello della vittima (foto a destra), rispetto a chi fa il contrario, con il busto inclinato verso destra per una posizione di sicuro meno comoda e naturale.


A questo punto è il caso di proporre un’ipotesi alternativa che tenga conto di un soggetto in grado di usare il coltello con entrambe le mani, quindi, in sostanza, un mancino parzialmente corretto.


In un primo momento, afferrato il seno con la mano destra, con la sinistra iniziò a tagliare da ore 3-4 e arrivò fino a ore 9-10, descrivendo il semicerchio superiore in senso antiorario. La scelta del seno sinistro fu quella naturale per un mancino. Si passò poi il coltello nella mano destra, afferrò il seno con la sinistra e ripartì da ore 3-4 descrivendo in senso orario il semicerchio inferiore. Alla partenza riuscì a riprendere bene la precedente incisione – si tenga presente che, tirando, l’inizio del taglio risultava ben evidente –, all’arrivo ci andò solamente vicino poi si corresse, lasciando la discontinuità di cui si è detto.

Il nascondimento di Michel. Dal riposizionamento del corpo di Nadine dentro la tenda risulta evidente la volontà del Mostro di ritardare la scoperta del delitto, confermata peraltro dall’operazione successiva. L’individuo, infatti, tornò dove aveva lasciato il cadavere del ragazzo, lo prese per i piedi e lo trascinò in mezzo a un diradamento dei cespugli, anche in questo caso con la logica intenzione di ritardarne il rinvenimento. Una estesa macchia di sangue rimase a testimoniarne la posizione originaria, il che dimostra l’avvenuto trascorrere di diversi minuti, quelli necessari alle mutilazioni del corpo di Nadine.
Si è detto, anche in sede di processo a Pacciani, che per tale spostamento sarebbe stato necessario, o almeno utile, l’intervento di un complice, questo perché il cadavere sarebbe stato sollevato e lanciato. In realtà fu trascinato per i piedi, come dimostrano la posizione assunta dalle braccia e la presenza di abrasioni post mortali sul dorso e sul fianco destro rilevate in sede autoptica:

Sul cadavere dell’uomo furono riscontrate lesioni imputabili ad arma da fuoco, lesioni da arma bianca e lesioni di tipo escoriativo, lacerativo e contusivo. Sgombriamo il campo da queste ultime, precisando che si trattava di reperti di minima entità, a tipo di superficialissima disepitelizzazione, a forma lineare, poco numerose, variamente orientate, della lunghezza di
pochissimi cm., tutte localizzate in piccola parte alla schiena ed in parte lievemente maggiore sul fianco destro. I caratteri cromatici di queste lesioncine indicano che si tratta di fatti post-mortali e che hanno con ogni probabilità avuto origine allorché era cessato ogni residuo di circolazione sanguigna. Si tratta molto verosimilmente di lesioni prodotte per strisciamento delle corrispondenti regioni del tronco, sul terreno locale ricco di foglie e di altri minuti detriti di origine vegetale. È del pari verosimile che queste disepitelizzazioni si siano verificate quando il cadavere del K. fu trascinato dal punto in cui si era verificata la morte, a quello in cui fu rinvenuto. Si tratta di una distanza brevissima, con terreno non particolarmente accidentato, il che spiega lo scarso numero e la superficialità delle lesioni.

Rimane la perplessità della posizione delle gambe. I piedi risultarono uniti e poggiati sui cespugli, a circa mezzo metro da terra. In quella che parrebbe l’unica foto esistente del cadavere così come venne rinvenuto – non disponibile a chi scrive ma vista in un convegno di qualche anno fa – si nota che oltre i piedi c’era ancora vegetazione, quindi il Mostro non poteva averli tirati fino all’ultimo. La foto sottostante illustra il modo in cui potrebbe essere andata.


L’assassino, se persona robusta, nella parte finale del trascinamento avrebbe potuto mettersi di lato e spingere, invece di tirare, con la necessità di unire i piedi del cadavere, che infatti vennero trovati accosto l’uno all’altro.