Se per Scopeti e Vicchio i
giudici avevano potuto contare su due elementi di prova abbastanza significativi, le testimonianze Ghiribelli e Nicoletti, per i tre delitti
precedenti c’erano soltanto le dichiarazioni di Lotti, irrobustite, se così si
può dire, da quelle di Pucci, il quale avrebbe riportato delle confidenze ricevute dall'amico all’epoca. E così l’elenco dei riscontri esterni diventa molto
più scarno, e soprattutto ancor meno consistente. Affrontiamo il delitto del
1983, a Giogoli.
Primo e quarto riscontro
Esatta
indicazione della posizione e di alcune caratteristiche del furgone.
Esatta
indicazione della posizione dei due giovani, ad azione conclusa, e di una
particolarità di uno di essi.
Gli unici riscontri di qualche peso, seppur minimo, che i giudici
potevano invocare per il delitto di Giogoli giravano intorno a quanto aveva
dimostrato di saperne Lotti. Come per Scopeti e Vicchio, l’individuo conosceva
bene l’ubicazione della piazzola, peraltro situata a non molta distanza, una
quindicina di chilometri, dalla sua abitazione del tempo. Ma questo di per sé
significava poco o nulla, tenuto conto delle centinaia di curiosi che dopo il
fatto l’avevano visitata. Assai meno giustificabile in un semplice curioso,
anche se del posto, era la conoscenza di vari particolari, sia della scena del
crimine sia della dinamica omicidaria. La sentenza mette in rilievo che Lotti
aveva ben descritto le caratteristiche del furgone (marca, presenza di
finestrini laterali in parte opachi, uno sportello sulla fiancata destra dal
quale gli assassini erano entrati), e anche posizione e modo in cui era
parcheggiato. In più viene attribuita una grande valenza probatoria alla “esatta indicazione
della posizione dei due giovani”, in particolare al fatto che uno
dei due era “appoggiato
verso la parte sinistra” e aveva i capelli lunghi. Se il
particolare dei capelli non sembra molto significativo, avendone i giornali
scritto in abbondanza con tanto di foto di Uwe, quello della posizione fa
pensare di più, non essendo una notizia da prima pagina. In effetti il ragazzo
aveva cercato scampo in coda al furgone, dove era stato ucciso mentre aveva le
spalle appoggiate nell’angolo sinistro. D’altra parte non si trattava certo
dell’unico particolare delle scene dei crimini noto a Giancarlo Lotti, tantoché
bisogna per forza ammettere che se l’individuo non vi aveva partecipato, doveva
comunque aver nutrito un notevole interesse per i delitti attribuiti al Mostro
di Firenze. A meno di non immaginare un’apposita preparazione prima
degli interrogatori a opera delle stesse forze dell’ordine, che peraltro sarebbe risultata assai imperfetta, vista la
montagna di elementi contraddittori insiti nei racconti del presunto
pentito.
Per spiegare le informazioni in
possesso di Giancarlo Lotti sul delitto di Giogoli si potrebbero formulare
varie ipotesi, e a questo proposito sembra strano che i giudici non avessero
dato alcuna importanza a un inquietante particolare, una semplice coincidenza
forse, o forse no: Lotti aveva ammesso che un paio di volte all’anno passava
davanti alla piazzola per andare da una cugina abitante a Scandicci, e, guarda
caso, una di quelle due volte era stato proprio appena prima del delitto. È
bene leggere con attenzione, e soprattutto tra le righe, il seguente scambio di
battute con Canessa (vedi):
PM: Senta una cosa:
lei, da quelle parti, lì a Giogoli, c'era mai stato prima, nei giorni
precedenti, ci aveva un motivo di andare lì?
Lotti: No, io ci andavo
nella strada che andavo per trova' una cugina.
PM: Una cugina.
Lotti: Non è che ci sia
andato preciso qui' giorno per vede' di farlo.
PM: C'era passato il
giorno prima? C'era passato di lì, con la sua macchina?
Lotti: Io ci passavo,
perché la strada la va giù in dove ci sta la mi' cugina, sicché...
PM: La sua cugina dove
sta?
Lotti: La sta a
Scandicci. C'è un vialone lungo.
PM: Ma lei, quel
furgone lì, quando passava - se è passato nei giorni prima per andare da sua
cugina - l'aveva visto?
Lotti: No, non l'avevo
visto, io.
PM: Ma ci si era
fermato?
Lotti: No, fermato. Mi
fermo, perché... se c'è un furgone un mi fermo, io. Io, quande vo in un posto,
vo a diritto e... devo andare a trovare una persona e basta. Non mi fermo, io.
PM: Non si era fermato
lì, a vedere il furgone?
Lotti: No.
PM: Lei ricorda se in
quei giorni precedenti l'omicidio, era andato da questa sua cugina?
Lotti: Sì, c'ero andato.
Però, il giorno preciso... come, non lo posso dire, perché non me lo ricordo
per bene.
PM: Ho capito.
Lotti: Se gl'era di
mattina o di sera, ora non me lo ricordo.
PM: Ma lei ci può
essere, se lo ricorda, passato il giorno prima dell'omicidio?
Lotti: Eh, questo non ...
non me lo posso ricordare.
PM: Può essere, ci
andava spesso da sua cugina, o...
Lotti: No, non è che ci
andavo spesso. In un anno ci potevo anda' du' volte. Non è che...
PM: Quindi, lei non sa
dire se quella volta lì, che poi successe quell'omicidio, lei, il giorno prima,
era passato di lì.
Lotti: Mah, questo un me
ne ricordo. Può darsi che ci sia passato. Però io, il furgone, non l'ho visto.
PM: Il furgone non
l'ha visto. Ho capito.
Lotti: Però l'è la strada
che va giù dalla mi' cugina, sicché... se un c'è altre strade, in do' passo?
PM: Passava di lì.
Lotti: Ci sarà anche
altre strade, da i' Galluzzo. Però...
PM: Lei passava di lì.
Lotti: L'era più corta,
passando di là.
Non sfugga al lettore l’imbarazzo
di Lotti, ben evidenziato già in partenza da un paio di risposte
sconclusionate: “No,
io ci andavo nella strada che andavo per trova' una cugina” e “Non è che ci sia
andato preciso qui' giorno per vede' di farlo”. Chi scrive ritiene che l’individuo non la stava raccontando tutta. A domanda se il furgone l’aveva
visto aveva risposto no, e alla successiva se si fosse fermato aveva
risposto ancora no, ma di questo secondo fatto si era anche sentito in
dovere di spiegare il motivo (“perché... se c'è un furgone un mi fermo, io. Io, quande vo
in un posto, vo a diritto”) come se invece il furgone l’avesse
visto. Vale la pena ricordare che, secondo il suo racconto, del furgone Lotti
nulla sapeva fino al momento in cui sarebbe stato portato sul luogo da Vanni e Pacciani,
la sera stessa del delitto.
Nel chiedere al presunto pentito della cugina, probabilmente Canessa aveva in mente la testimonianza di Giovanni Nenci, che verso le 7.30 di mattina del giorno del delitto aveva notato in sosta accanto al furgone una Fiat 128 rossa targata Firenze. Il relativo verbale era stato compilato nell’immediatezza dei fatti, il 13 settembre 1983, quindi l’avvistamento era più che sicuro. Purtroppo al momento del processo l’uomo era morto da tempo, quindi evidentemente non poté confermare né integrare le dichiarazioni di allora, soprattutto precisando se l’auto da lui vista fosse stata del modello berlina o del modello coupè, molto differenti tra di loro. C’è da dire però che, seppur disponibile per entrambi i modelli, il rosso è tipico delle auto sportive.
Nel chiedere al presunto pentito della cugina, probabilmente Canessa aveva in mente la testimonianza di Giovanni Nenci, che verso le 7.30 di mattina del giorno del delitto aveva notato in sosta accanto al furgone una Fiat 128 rossa targata Firenze. Il relativo verbale era stato compilato nell’immediatezza dei fatti, il 13 settembre 1983, quindi l’avvistamento era più che sicuro. Purtroppo al momento del processo l’uomo era morto da tempo, quindi evidentemente non poté confermare né integrare le dichiarazioni di allora, soprattutto precisando se l’auto da lui vista fosse stata del modello berlina o del modello coupè, molto differenti tra di loro. C’è da dire però che, seppur disponibile per entrambi i modelli, il rosso è tipico delle auto sportive.
Era la Fiat 128 coupè rossa di
Giancarlo Lotti l’auto vista da Giovanni Nenci? I giudici non se lo chiesero,
il che può anche risultare comprensibile, considerata l’indeterminatezza
dell’avvistamento, però avrebbero dovuto approfondire la questione della
cugina, alla quale in sentenza neppure accennarono. Anzi, la donna avrebbe
dovuto essere convocata in dibattimento, dove forse si sarebbero potuti
incrociare i presunti orari di passaggio di Lotti con quelli indicati dai
testimoni per la presenza delle vittime sulla piazzola nei giorni precedenti il
delitto. A Canessa di sicuro non conveniva correre il rischio di screditare il
proprio asso nella manica, ma il Presidente aveva il dovere di farlo,
rispettando in tal modo lo spirito del nuovo processo accusatorio secondo il
quale la prova deve formarsi in dibattimento. È quasi inutile osservare come la
difesa di Vanni, arroccata nella propria incrollabile convinzione della totale
estraneità di Giancarlo Lotti alla vicenda, non avesse speso una parola
sull’argomento.
Secondo riscontro
Esattezza delle modalità degli spari.
Questo riscontro si distingue per il particolare livello di
superficialità. Nel relativo paragrafo la sentenza afferma che Giancarlo Lotti
avrebbe descritto una dinamica dell’azione coincidente con quella ipotizzata
all’epoca dalla perizia medico-legale: esplosione dei colpi prima dalla
fiancata destra, poi da quella sinistra, infine dall’interno, dopo l’apertura
del portellone di destra. Ma il suo racconto era compromesso da almeno un paio
di gravi contraddizioni, la prima delle quali riguarda i due colpi sparati
attraverso il portellone aperto. Riportando la frase “… quando hanno aperto lo sportello… ho sentito
sparare altri colpi… sparò Pietro…” la sentenza intende dimostrare
che il presunto pentito aveva descritto correttamente anche quel terzo momento
della sparatoria. Se però si va a leggere il passo della deposizione da cui era
stata desunta, si scopre al solito che si tratta di una frase assemblata,
interpretazione arbitraria di un insieme di risposte dalle quali non è ben
chiaro che cosa Lotti avesse voluto intendere. Anche perché, nel
controinterrogatorio finale, Mazzeo avrebbe posto una domanda diretta, con il seguente
risultato:
Mazzeo: Ecco, ma quando
Pietro aprì lo sportello, sparò altri colpi?
Lotti: No, in quel
momento lì non ho sentito dei colpi. Li ho sentiti quando gli è andato dalla
parte opposta.
Mazzeo: Poi non ha più
sparato?
Lotti: No.
Per una volta la risposta di
Lotti era stata chiara e precisa: non aveva sentito alcun colpo dopo l’apertura
dello sportello. Ma per i giudici l’uomo si era confuso:
[…] tale sua ultima dichiarazione è
chiaramente frutto di una confusione del momento, tenuto anche conto del ritmo
incalzante delle domande e della irritazione che il Lotti ha spesso manifestato
nel rispondere alle domande dei difensori del Vanni, irritazione che può aver
causato anche una perdita di “concentrazione” e quindi anche una errata risposta.
Come si vede, nel loro lavoro di
messa a punto delle contraddittorie dichiarazioni di Lotti, i giudici
arrivarono persino a escludere quelle che proprio non si potevano adattare,
come in questo caso, dove sarebbe stata la pressante insistenza di Mazzeo a
farlo confondere. Peccato che in precedenza, durante l’interrogatorio ben più “amico”
di Curandai, una risposta analoga Lotti l’aveva data anche allo stesso
Presidente, il quale forse se ne era dimenticato o non ci aveva fatto caso, non
avendolo neppure chiesto: “Allora, questo sportello chi l'ha aperto?”, “Dopo che hanno
sparato definitivamente tutto, hanno aperto gli sportelli”. Ma poco
più tardi Lotti lo avrebbe ripetuto in una risposta a Curandai: “Poi cosa ha fatto
dopo aver sparato?”, “Dopo, quando hanno sparato del tutto, gl'ha aperto lo
sportello”.
A rendere ancor meno convincente
il riscontro c’è un secondo e più grave problema. Lotti aveva affermato di
essere stato costretto da Pacciani a sparare per primo, ma né i due fori di
proiettile, ognuno su un diverso finestrino, né la precisione con la quale era
stato colpito Horst Meyer si adattavano al suo racconto, secondo il quale
avrebbe esploso controvoglia un paio di colpi in sequenza, quindi dal medesimo
finestrino, e senza mirare. Del resto neppure i giudici gli credettero:
Non ha invece detto la verità il Lotti sul
punto che a sparare i primi colpi sia stato proprio lui, su invito o su ordine
del Pacciani. Il fatto è da escludere per le seguenti ragioni, qualunque possa
essere stata la sua segreta motivazione nel riferire la circostanza:
a) Il Lotti ha dichiarato che era la prima volta
che prendeva una pistola fra le mani e che sul momento non sapeva neanche come
fare per farla sparare, tanto che gli aveva spiegato lo stesso Pacciani come fare.
Ma, in una situazione di tal genere, il Pacciani si sarebbe subito accorto
della incapacità del Lotti a sparare. Non avrebbe quindi mai fatto sparare lui
per primo, col rischio di compromettere tutto il risultato […]
b) I primi due colpi, che furono sparati dalla
fiancata destra […], sono andati tutti e due a segno ed hanno raggiunto
entrambi i giovani, segno evidente che l'omicida era un abile sparatore, tanto
da riuscire a colpire entrambi i bersagli e ad immobilizzare a morte il Meyer
col primo colpo […]
c) È notorio che ogni pistola, anche di piccolo
calibro, all'atto dello sparo fa un certo sobbalzo o rinculo […]. Di tale
sobbalzo o rinculo nulla ha invece saputo dire il Lotti, che pure dice di aver
sparato reggendo la pistola con una sola mano […]
È evidente, quindi, che non fu il Lotti a
sparare quei primi due colpi dalla fiancata destra del furgone.
Lascia piuttosto sconcertati che
i giudici non si fossero chiesti il perché Lotti avrebbe rilasciato quella
falsa confessione, limitandosi a commentare: “qualunque possa essere stata la sua segreta motivazione
nel riferire la circostanza”. Eppure loro stessi avevano
sottolineato la tenacia dell’individuo nel nascondere o comunque minimizzare le
proprie colpe; in questo caso, invece, se ne sarebbe addossata una non sua,
anzi, la più grave di tutte. E se la vera menzogna fosse stata quella di non
aver mai preso in mano prima una pistola?
Terzo riscontro
Provata
necessità di un “palo” per l’esecuzione del duplice omicidio.
Sarebbe un riscontro, secondo i giudici, il fatto che a Giogoli
fosse necessario un “palo”, intendendosi con tale termine una persona ben
visibile dalla strada che con la propria stessa presenza avrebbe scoraggiato
altre coppiette dall’entrare nella piazzola.
La piazzola di “Giogoli” era, all’epoca,
oggetto di alta frequentazione da parte delle “coppiette” desiderose di
intimità […].
Sicché s’imponeva la presenza di un soggetto
che fungesse da “palo”, in modo da scongiurare, con la sola sua presenza sulla
strada, l’arrivo sulla piazzola di eventuali altre “coppiette” durante la fase
di esecuzione del duplice omicidio. D’altra parte, la vicinanza del furgone
alla strada era tale che un qualsiasi veicolo, non appena si fosse soltanto
affacciato all’imbocco della piazzola dal ciglio della strada, avrebbe subito
illuminato lo stesso furgone e coloro che fossero stati intenti ad operare
vicino ad esso, con tutti i pericoli conseguenti.
Non si comprende davvero come
possa un “riscontro” del genere considerarsi tale. Se anche fosse stata
autentica l’esigenza di un “palo”, non ne consegue certo che Lotti se ne fosse
preso carico. Per di più l’esigenza non sussisteva affatto. Ammesso e non
concesso che davvero la piazzola di Giogoli fosse stata un luogo molto
frequentato da coppiette – ma al processo Pacciani una residente in zona,
Adriana Sbraci, lo aveva nettamente escluso, vedi
– la sentenza ipotizza un rimedio inutile e per di più pericoloso. Il furgone
era a meno di otto metri dalla strada, e occupava la gran parte dello spazio
disponibile, quindi qualsiasi coppietta che avesse accarezzato l’idea di
fermarsi lo avrebbe visto e avrebbe rinunciato subito, senza alcuna necessità
di venire scoraggiata da qualcuno piazzato di fronte all’imbocco. Però, scrisse l’estensore, ci
sarebbe stato il pericolo che i fari dell’auto sopraggiunta avessero illuminato i
soggetti presenti sulla piazzola. Ma a maggior ragione avrebbero illuminato e
quindi consentito di descrivere il grottesco personaggio fermo sulla strada,
proprio davanti alla scena di un crimine che nei giorni successivi avrebbe
riempito le pagine dei giornali. D’altra parte, se a passare di lì fossero
stati i Carabinieri, a che cosa sarebbe servita la presenza di Lotti se non ad
attirare ancora più la loro attenzione? E in questo caso nessuna fuga avrebbe
potuto salvare gli assassini dall’essere scoperti, essendo le loro auto
parcheggiate a pochi metri,
Ma c’è dell'altro. Lotti non
aveva per nulla confessato d’aver svolto a Giogoli un ruolo di “palo”, ma
questo gli viene attribuito in modo forzoso dalla sentenza attraverso una frase
nella quale lui stesso lo avrebbe lasciato intuire: “… io ero fermo alla macchina … sulla strada… poi… mi chiama
Pietro e vo giù… al furgone”. In sostanza Lotti, prima di muoversi
su invito di Pacciani, stava fermo accanto alla sua auto, e quindi faceva il
“palo”; questo intende la sentenza, tirando però conclusioni che paiono del
tutto arbitrarie, ancor più dopo aver letto il discorso integrale dal quale la
frase fu estrapolata:
E c'era il furgone lì fermo, volto per così,
in su. Poi, dopo un pochino, io ero fermo alla macchina. Mi chiamano, mi chiama
Pietro. E vo giù. E mi mese questa roba in mano, io non sapevo nemmeno
adoprarli, non ero pratico di queste robe qui. Insomma, mi dice di cosare,
però, impaurito come ero, non mi riusciva di cosare, di partire i colpi.
Come si vede la frase fu
costruita con vari pezzi, integrati da parole neppure pronunciate (“sulla strada”,
“al furgone”),
derivati da un discorso nel quale Lotti aveva raccontato l’episodio in cui
avrebbe esploso un paio di colpi contro il furgone, e al quale i giudici non
avevano creduto. Però, con estrema disinvoltura, la sentenza usa quel racconto
menzognero per dimostrare che l’individuo, dapprima “fermo alla macchina”, stava facendo
il palo! Supponiamo invece che l’episodio fosse accaduto davvero (i giudici di secondo grado lo avrebbero creduto). Ma come, nonostante tutto il gran bisogno di qualcuno che stesse
sulla strada, Pacciani chiama Lotti proprio nella fase delicatissima
dell’inizio della sparatoria? E chi faceva il palo in quel momento, Vanni che ne avrebbe intuito la necessità? Come
si vede, si tratta di uno scenario del tutto assurdo e inevitabilmente falso.
Pista sarda e considerazioni finali. Nonostante i grandi sforzi di
fantasia compiuti da Giuttari per infilare dentro il processo la pista sarda e
il personaggio di Salvatore Indovino, la sentenza dedica all’argomento appena
un paio di pagine, senza giungere ad alcuna conclusione “positiva”. Secondo i
giudici poteva anche aver avuto qualche fondamento l’affermazione di Lotti
secondo la quale con il delitto di Giogoli si era tentato di far uscire dal
carcere Francesco Vinci, ma non c’era alcun riscontro a confermarlo. Giuseppe
Sgangarella e Giovanni Calamosca, che ne avevano parlato in aula, vengono
descritti in sentenza come “persone di scarsa attendibilità, per l’intrigo delle loro vicende
giudiziarie, per la tendenza a fare valutazioni personali su ogni situazione,
per il loro modo (di) dire e non dire le cose”. Infine di Salvatore
Indovino e della sua stamberga (nella quale per Giuttari sarebbe avvenuto il
passaggio della pistola da Vinci a Pacciani) non si parla affatto.
Naturalmente va dato atto ai giudici
di non aver concesso credito a queste fantasie, ma nello stesso tempo si deve
rilevare il loro sorprendente silenzio sulle parole di Lotti e Pucci
riguardanti Francesco Vinci. Si doveva credere oppure no che i due lo avessero
visto assieme a Vanni in San Casciano? Per i giudici pare proprio di no,
altrimenti non avrebbero valutato in modo così negativo le testimonianze di
Sgangarella e Calamosca. Ma allora sarebbe stato necessario chiedersi il perché
di quella clamorosa menzogna. Come in altri casi, la sentenza preferisce
sorvolare.
Ancora una volta, come già per
Scopeti e Vicchio, dopo la disamina dei “riscontri esterni” si deve in primo
luogo concludere che non ne esiste alcuno che coinvolga Vanni e Pacciani.
Riguardo Lotti, invece, si ripetono le perplessità inerenti la sua conoscenza
di molti particolari della scena del crimine e della dinamica, certamente
attribuibile alla lettura di quotidiani o ad altre fonti, ma che comunque
rimane sospetta. In più ci sono l’avvistamento della Fiat 128 rossa e soprattutto la questione
della cugina di Scandicci, ignorate dalla sentenza ma non prive di possibili
inquietanti implicazioni. Al di là che fosse stata oppure no un abituale luogo di sosta per coppiette in cerca d'intimità (le informazioni sono contrastanti), va tenuto presente che la piazzola, per la sua notevole
vicinanza all'abitato, non pareva molto adatta a un agguato, quindi
difficilmente poteva far parte di un insieme di luoghi tenuti d'occhio da un
assassino residente chissà dove. Più facile che il furgone fosse stato
notato da qualcuno della zona, che magari vi passava davanti per motivi
non connessi alla sua attività di serial killer, il che rende la visite ammessa da Lotti alla cugina ancora più sospetta.
Ciao Antonio , non prendi mai in considerazione il rapporto tra Lotti e alcuni personaggi noti che si riunivano nella famosa villa ,anche Henry 62 ( che non scrive mai a caso ) ha scritto sul forum che il Lotti era l' unico elemento di unione tra quelli che si recavano a casa Indovino e quelli piú altolocati in villa .... Un altro elemento che fa di Lotti tutt'altro che oligofrenico
RispondiEliminaOnestamente credo che Indovino e Villa La Sfacciata con questa storia non c'incastrino proprio nulla.
EliminaSu Pacciani c'è il solito incerto riscontro, come agli Scopeti: il motorino di vecchio modello, in questo caso visto da Attilio Pratesi la mattina di venerdì 9 settembre e da Adriana Sbraci nei giorni precedenti il delitto. Riascoltando lo scambio con Canessa riportato nell'articolo, devo dire che a me Lotti non appare imbarazzato pur mantenendosi come sempre sul generico: piuttosto si direbbe che il pm insistesse per fargli dire qualcosa su una presunta visita alla cugina nei giorni del delitto così da rafforzare la presenza di Lotti sul luogo del duplice omicidio. Quale ragione spinse il furbo Lotti a chiamare in ballo Francesco Vinci e la decisione di scagionarlo (a suo dire) all'origine di questo delitto? Quale vantaggio poteva ricavarne?
RispondiEliminaIl vantaggio di fare il gioco di Giuttari, mi pare ovvio, in un tacito "do ut des".
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