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domenica 31 gennaio 2016

La macchina rossa (1)

Il recente reportage realizzato da Paolo Cochi sulla retrodatazione del delitto degli Scopeti ha provocato un salutare aumento d’interesse verso la messa in discussione della verità uscita dal processo ai cosiddetti “Compagni di merende”. Il lettore che eventualmente non sapesse nulla dell’argomento può guardare i due video originali (Scopeti, l'ultimo delitto del mostro e Contenuti speciali), e leggere le interessanti considerazioni sulle conseguenze riportate nel blog Storia del Mostro di Firenze. Chi scrive si trova del tutto d’accordo con quanto viene dichiarato dagli esperti entomologi, i quali del resto non hanno fatto altro che confermare ciò che era già deducibile dall’analisi delle condizioni al contorno effettuata dal legale delle vittime, avvocato Vieri Adriani, resa disponibile fin dal 2010 nel documento scaricabile dal suo sito e poi ribadita nel bel libro “Il delitto degli Scopeti – Giustizia mancata”.
Venerdì sera 6 settembre 1985, dopo aver cenato alla Festa dell’Unità di Cerbaia, i due sfortunati turisti francesi si ritirarono nella loro tenda – montata sulla piazzola forse già al pomeriggio – e una o due ore dopo furono uccisi. I loro corpi rimasero sul posto, quello di lei nella tenda, quello di lui tra i cespugli, per ben due giorni e mezzo, fino al ritrovamento a opera di un presunto cercatore di funghi nel primo pomeriggio di lunedì 9. Sulla base dei risultati autoptici, il delitto fu collocato dall’anatomopatologo Mauro Maurri nella notte della domenica, pur con una notevole incertezza e contro l’opinione di altri, degli esperti dell’equipe di Modena, innanzitutto, ma anche di almeno un collega che aveva assistito all’autopsia, Giovanni Marello, e dell’allora capo della SAM Sandro Federico, soltanto un poliziotto ma abituato a valutare a naso la “freschezza” dei cadaveri.
Non è ben chiaro il perché in Procura ci si avvinghiò alla datazione della domenica, quasi certamente si temeva l’effetto che avrebbe potuto provocare sull’opinione pubblica la notizia della mancata tempestività nella scoperta dei cadaveri, possibile indice di una certa trascuratezza nel controllo delle zone a rischio. In ogni modo così andò, e se il madornale errore ebbe poche conseguenze durante le indagini su Pacciani, il quale non aveva un alibi sicuro per la domenica ma neppure per il venerdì e per il sabato (vedere qui), ne ebbe di fondamentali per le successive sui presunti complici. Già l’avvistamento dell’auto del contadino, con un passeggero a bordo, alla domenica sera vicino alla piazzola sarebbe stato da valutarsi in modo ben diverso; come anche quello di un Pacciani trafelato, a bordo di un’auto non sua, che la stessa notte pareva dirigersi verso San Piero a Sieve per imbucare la macabra lettera. Opera rispettivamente di Lorenzo Nesi e Ivo Longo, i due avvistamenti furono motivo di sospetto della presenza di eventuali complici, in un caso il passeggero e nell’altro il proprietario dell’auto, e quindi dell’inizio di nuove indagini, che poi avrebbero portato a Fernando Pucci e Giancarlo Lotti, e al loro accodamento alla collocazione del delitto nel giorno sbagliato di domenica.
Sul fatto che Pucci e Lotti mentirono nel raccontare d’aver visto Vanni e Pacciani uccidere i francesi non ci sono dubbi. A distanza ormai di quasi 16 anni dall’ultimo pronunciamento della giustizia, queste ultime risultanze delle analisi entomologiche non fanno altro che confermare quanto già emergeva da un’analisi serena delle loro traballanti dichiarazioni, sulle quali pare impossibile che possa essersi basata la condanna all’ergastolo di un uomo. Non è però intellettualmente onesto ignorare la più che probabile presenza dei due compari sotto la piazzola la domenica 8 settembre 1985, a delitto già consumato, entrambi al pomeriggio e almeno Lotti anche alla sera. Una presenza che va spiegata.
In questo articolo si cercherà di fare il punto sull’argomento, partendo dall’esame delle testimonianze per poi cercare una possibile ricostruzione dei fatti.

Il terreno situato lungo via Scopeti, dalla parte opposta rispetto alla boscaglia dove furono uccisi i turisti francesi, era di proprietà privata, protetto sul lato della strada da un alto muro. L’accesso avveniva tramite un cancello posto proprio in corrispondenza della sterrata che conduceva alla tragica piazzola, da dove una stradina interna, lunga circa trecento metri, consentiva di raggiungere una collinetta sulla quale si ergeva una casa colonica ristrutturata a villa. La domenica del delitto il proprietario, Giancarlo Rufo, si trovava lì, ma non si era accorto di nulla, come lui stesso aveva riferito nell’interrogatorio del 10 settembre 1985. Nell’ambito delle nuove indagini alla ricerca di eventuali complici di Pacciani, dieci anni dopo si tornò a interessarsi alla sua testimonianza. Nel frattempo l’uomo era deceduto, ma dal vecchio verbale si scoprì che quella domenica pomeriggio aveva ospitato degli amici, mai interrogati. Si trattava dei coniugi Marcella De Faveri, insegnante di scuola, e Vittorio Chiarappa, maestro di musica al conservatorio, i quali furono ascoltati a casa loro da uomini della SAM l’11 ottobre 1995, quindi qualche giorno prima della nomina di Michele Giuttari a capo della Squadra Mobile, avvenuta il 15.
I due testimoni riferirono di essere arrivati in auto da Firenze davanti al cancello, posto alla loro sinistra, attorno alle 15, e che per entrare, dovendo allargarsi sulla destra, avevano trovato difficoltà causa la presenza di un’auto parcheggiata tra l’asfalto e lo sterrato con il muso in direzione di San Casciano, all’inizio della salita che portava alla piazzolaLa donna la definì “dalla forma tronca dietro, di colore rosso, sicuramente non più nuovo né brillante, ma sbiadito, l'uomo “di colore rosso sbiadito, di forma squadrata, con il dietro tronco”. Appoggiati all’auto, di spalle, due individui, così descritti dalla donna (dal libro di Giuttari “Il Mostro”):

Uno era un uomo di mezza età, di corporatura tipo squadrata, di media altezza, senza collo, con testa dal taglio rettangolare, che mi dava l'apparenza di essere un contadino. Costui stava appoggiato al cofano motore della macchina (cioè alla parte anteriore indirizzata verso San Casciano) guardando in avanti, lungo la strada. Mi dava l'impressione d'avere i capelli tagliati corti. Il secondo personaggio era appoggiato sul lato destro dell'auto e guardava il bosco. Questi dava l'impressione di essere un po' più alto del precedente e come figura sembrava meno grezzo dell'altro.

Appassionato di fotografia, Vittorio Chiarappa si era portato dietro una macchina dotata di un potente teleobiettivo di recente acquisto, con la quale si era divertito, assieme alle altre persone presenti nella villa, a inquadrare i particolari delle zone circostanti, tra cui l’auto rossa a coda tronca, rimasta nella medesima posizione con appoggiato un individuo, definito “di corporatura grossa e di mezza età”, intento a osservare il bosco (al contrario della moglie lui ne vide sempre soltanto uno). A metà pomeriggio Chiarappa, da solo, si era recato a Firenze per commissionare un necrologio, e uscendo dal cancello aveva visto l’auto e l’individuo sempre nel medesimo posto. Al rientro la situazione non era cambiata. Nel tornare a casa, i coniugi erano transitati attraverso il cancello attorno alle 19.30-20, vedendo ancora una volta l’auto rossa, in apparenza senza persone né a bordo né attorno.

La testimonianza di Marcella De Faveri e Vittorio Chiarappa deve considerarsi senza esitazione alcuna come genuina. Intanto sulla data non potevano esserci dubbi, se non altro perché il necrologio commissionato a Firenze da Chiarappa riguardava un noto musicista, Franco Ferrara, la cui data di morte è facilmente verificabile e risale proprio al giorno prima. Ma soprattutto i due non si erano risvegliati a distanza di anni affermando d’aver incontrato l’assassino all’opera, magari proprio quel Pietro Pacciani visto in televisione, ma erano stati rintracciati dagli inquirenti e avevano raccontato soltanto dei fatti vissuti in prima persona, senza assegnar loro alcun significato particolare. Anche se non risulta specificato in nessun documento, è pacifico che i due furono messi di fronte alle fotografie sia di Pacciani sia di Vanni, il quale ultimo era ormai già saldamente nel mirino degli inquirenti come presunto complice, ma loro non li identificarono affatto nei misteriosi individui, che d’altra parte non avevano visto in faccia. Però avevano descritto con una certa precisione la loro fisionomia da dietro e soprattutto la loro auto.
Va riconosciuto che nei racconti dei coniugi ci sono diverse incertezze, del resto ben comprensibili dopo tanto tempo, ma proprio il fatto che furono riportate senza nulla temere aumenta la genuinità della testimonianza. Di più: quelle incertezze differenziavano i loro racconti, il che risulta un fattore di grande rilievo nell'escludere le nefaste influenze reciproche che presumibilmente ci furono  in altri casi, ad esempio in quello dei coniugi Martelli-Caini.
Un ulteriore elemento di autenticità è dato da un verbale del 15 novembre 1995, la cui lettura dimostra che i coniugi, già all’epoca, avevano cercato di comunicare il loro avvistamento alle forze dell’ordine. La signora De Faveri vi esprime un dubbio sul colore dell’auto, ma soprattutto afferma che lei e il marito avevano raccontato subito della loro esperienza a un conoscente, tale dottor Cecere, con tutta probabilità Giovanni Cecere Palazzo, in quel periodo in forza alla Questura di Firenze:

La vettura della quale ho parlato non era sicuramente un maggiolino Wolkswagen, tipo di auto che è uno dei pochi che conosco bene.
Rammento che appena saputo dalla televisione del duplice omicidio, conoscendo il dott. Cecere, parlammo con lui di quanto si era visto.
Può darsi che con il dott. Cecere abbiamo parlato più nei dettagli della macchina perché le sue domande erano puntate molto sulla vettura da noi vista. Debbo anche aggiungere che nell’epoca noi avevamo avuto un’auto rossa ed ora, essendo passati tanti anni, non sono certissima che l’auto che ho descritto fosse rossa perché in certi momenti mi viene il dubbio che fosse bianca. Sulla forma, però, sono sicura che fosse senza coda così come ho già detto.

Riguardo il dubbio sul colore, la signora lo avrebbe ripetuto due anni dopo in dibattimento (vedi), rispondendo al PM: “Quando sono venuta da lei avevo un dubbio se rossa o bianca. Poi ho fatto mente locale, cioè proprio di cercare di… e quasi sicuramente era rossa”. Il marito invece si sarebbe mostrato sicuro: “Una macchina rossa, sbiadita, rossa, con... adesso è passato il tempo, ma il finale non era rotondo ma tronco” (vedi).
Molto probabilmente anche Sabrina Carmignani aveva visto la medesima auto. Dal verbale redatto davanti ai Carabinieri nell’immediatezza del delitto risulta la seguente frase: “Mentre stavamo andando via è arrivata un'altra autovettura con una persona a bordo. Era una macchina tipo la Regata, ma si trattava di un'auto che non so descrivere, anche perché non ho dato importanza alla cosa”. Nell’interrogatorio di cui abbiamo già trattato qui la donna fornì anche una sostanziale e importante conferma alla testimonianza dei coniugi De Faveri-Chiarappa, precisando alcune caratteristiche lasciate indefinite nel 1985 sull’auto e sul suo conducente. Nell’impossibilità di disporre delle dichiarazioni originali è necessario riferirsi alla deposizione di due anni dopo (vedi), la quale però parve rispecchiare il verbale in mano al PM:

Era una macchina che mi sembrava vecchia, con la vernice un po' scolorita, tipo queste macchine vecchie scolorite dal sole. Non era una macchina nuova, cioè del tempo. Sicuramente risaliva a molti anni prima come modello.
[…] diciamo che io l'ho vista davanti […] non era una Regata era simile il muso davanti […] perché era abbastanza basso. […] Probabilmente aveva dei fari rettangolari. [Il colore] poteva essere benissimo, non so, un rosso molto sbiadito, decolorato proprio.
Veniva da San Casciano e girò per entrare nella piazzola. Però c'era la mia macchina lì, quindi fece marcia indietro e proseguì non per San Casciano, nella direzione opposta […] mi sembra che c'era una persona dentro […] quello che ricordo è che, comunque, sembrava un cacciatore. […] Abbastanza grosso, cioè, abbastanza grosso.

Purtroppo la Carmignani aveva visto l’auto di fronte, quindi non aveva potuto apprezzare il taglio della coda, ma il muso basso si adattava bene a un modello sportivo, esattamente come la coda tronca dei coniugi, che invece avevano potuto vederla di profilo. Il colore rosso sbiadito, invece, corrispondeva in pieno, e la valutazione di una macchina “vecchia, con la vernice un po’ scolorita” faceva il paio con quella della signora De Faveri di un “colore rosso, sicuramente non più nuovo né brillante“. Anche la descrizione del conducente, dipinto dalla Carmignani come vestito da cacciatore e di grossa corporatura, era ben compatibile con quella dell’unico individuo visto da Vittorio Chiarappa, parimenti di grossa corporatura, e con la generale impressione di due personaggi piuttosto grezzi ricevuta dalla moglie.
Quando era arrivata, Sabrina Carmignani non aveva notato l’auto ferma all’inizio della piazzola nella posizione descritta dai due coniugi, ma è facile ipotizzare il perché. Quando Vittorio Chiarappa l’aveva vista ancora parcheggiata transitando dal cancello per recarsi a Firenze, secondo lui erano tra le ore 16 e le ore 17, secondo la moglie circa le 16.30 (dichiarazioni del dibattimento), mentre Sabrina Carmignani era arrivata alle 17.30. Quindi si può ipotizzare che nel frattempo l’auto fosse ripartita, probabilmente per accompagnare il passeggero da qualche parte. Se, come è lecito sospettare visto il loro strano comportamento, i due individui erano consapevoli della presenza dei cadaveri sulla piazzola, il passeggero poteva essersi sentito a disagio già all’arrivo dei coniugi, nascondendosi o comunque mettendosi in disparte subito dopo. Chiarappa infatti, sia giocando con il teleobiettivo, sia quando era uscito per recarsi a Firenze, aveva visto un individuo soltanto, il cui defilato compagno potrebbe aver poi deciso d’abbandonare definitivamente la scena anche a causa del suo secondo passaggio.
Quando la Carmignani stava per andarsene erano circa le 18, e proprio in quel momento l’auto rossa stava tornando con a bordo una persona soltanto. Veniva da San Casciano, quindi, considerati i tempi, proprio lì poteva essersi fatto accompagnare il passeggero. Il conducente doveva invece avere tutta l’intenzione di riprendere le attività precedenti, ma l’auto dei due fidanzati in uscita lo aveva fatto desistere, almeno per il momento, e quindi si era diretto verso Firenze. Poco dopo, però, era tornato indietro, e aveva parcheggiato l’auto con il muso rivolto ancora verso San Casciano. Con almeno un’ora di viaggio, tra andata e ritorno, e il tempo necessario per il necrologio, Vittorio Chiarappa era rientrato successivamente, trovando l’auto rossa più o meno nella medesima posizione dell’andata. Si può ragionevolmente ritenere che durante la sua assenza né la moglie, né Giancarlo Rufo né eventuali altri presenti in casa avessero giocato con il suo potente teleobiettivo, e quindi non si fossero accorti delle manovre dell’auto.

Prima di chiudere questa prima parte dell’articolo, è il caso di chiedersi quale credito concedere alla testimonianza di Sabrina Carmignani, soprattutto riguardo l’importante precisazione del colore dell’auto, un dato che nel verbale del 1985 non compariva. Si potrebbe pensare a una concessione alle esigenze della Procura, per la quale quell’auto poteva essere la Fiat 128 rossa di Giancarlo Lotti. Ma non è così, per due ragioni fondamentali. La prima è la refrattarietà della testimone a dichiarare il falso, ampiamente dimostrata dalla sua ferma opposizione al tentativo di farle ammettere che il guidatore era Mario Vanni, lo abbiamo visto qui. La seconda e più importante è il fondamentale disinteresse della Procura verso la presenza di Lotti e Pucci sotto la piazzola al pomeriggio. A dimostrarlo basta la mancanza di qualsiasi domanda del PM in dibattimento riguardo la loro possibile identificazione nei personaggi visti sia dalla Carmignani sia dai coniugi De Faveri-Chiarappa. In effetti quella presenza risultava piuttosto imbarazzante per l'accusa, in un contesto dove a Lotti era stato dato appuntamento per la sera, quindi non si comprende quale senso avrebbe avuto per lui rimanere l’intero pomeriggio sotto la piazzola. In ogni caso su questo argomento torneremo.


sabato 30 gennaio 2016

L'ombra nera (4)


Abbiamo visto come le testimonianze delle persone coinvolte nell’inchiesta precedente sui supposti rapporti di frequentazione tra Calamandrei e Narducci – e in genere sulla presenza di quest’ultimo nel fiorentino – non valessero nulla. In ogni caso gli sforzi di Giuttari per agganciare le promettenti indagini perugine su Narducci alle proprie su Calamandrei, in verità molto avare di risultati, non si limitarono a quell’ambiente.
Il 23 luglio 2003 fu sentito Pietro Ciulli, fratello di Mariella e quindi ex cognato di Calamandrei, il quale, di fronte alla fotografia di Narducci, dichiarò (dalla sentenza Micheli): 

Questo l’ho già visto insieme al Calamandrei, ma io non ci ho mai parlato. Può darsi che l’abbia visto o al matrimonio di mia sorella con Francesco o in farmacia dal Calamandrei. Era una persona molto distinta, sembrava quasi un Conte. 

La testimonianza appare priva di qualsiasi valore, trattandosi del riconoscimento di una persona che Ciulli non ricordava né quando né dove avesse visto, quindi facilmente indotto da suggestione e dal solito desiderio di non scontentare il proprio interlocutore. Si pensi soltanto al fatto che il matrimonio citato risaliva al 1969, quindi a 34 anni prima, quando il gastroenterologo umbro era uno studente ventenne!
Il 17 settembre fu ascoltata Tamara Martellini, ex moglie di Giovanni Ceccatelli, un vecchio amico di Calamandrei. Davanti a una foto di Narducci così parlò (dalla sentenza Micheli): 

Non mi è un viso nuovo, ma non riesco a ricordare francamente ove l’ho visto. Ora che lo sto riguardando ritengo di averlo visto in farmacia e nell’occasione aveva gli stivali di equitazione... Ora lo sto proprio rivedendo e sono proprio sicura di averlo vista all’interno della farmacia di Francesco Calamandrei. Sto rivedendo la scena. Era appoggiato al bancone e parlava con Francesco Calamandrei. Francesco mi salutò, ma non me lo presentò. C’erano anche altre persone, ma non so dire chi fossero. Era un giovane molto fine, delicato, era poco più alto di Francesco ed aveva un fisico da sportivo. Era piuttosto aristocratico. Circa l’epoca in cui lo vidi sicuramente fu entro la prima metà degli anni 80… il nome di Narducci Francesco non mi dice nulla, ma ribadisco che non mi fu presentato. Ricordo adesso che aveva una maglietta Lacoste blu e quindi era sicuramente d’estate. 

Anche questa testimonianza appare priva di valore. Già è molto difficile che una persona vista in una sola occasione e con la quale neppure si era parlato possa venire identificata a distanza di vent’anni attraverso una foto. In più, come avrebbe anche osservato il giudice Micheli, pare davvero miracolosa la memoria di chi aveva rammentato il tipo di calzature e di maglietta che quella persona indossava. Tra l’altro molto più della Martellini era stato il marito a frequentare Calamandrei, con il quale giocava spesso a tennis, ma Narducci in farmacia non l’aveva mai visto. In compenso concesse un contentino, poiché davanti a una sua foto così dichiarò l’8 ottobre (dalla sentenza De Luca): 

La persona raffigurata nella foto numero 10 ha un volto a me conosciuto, lo associo ad una persona vista, se non sbaglio a Viareggio assieme al Calamandrei, in occasione di una visita di una barca che Francesco voleva acquistare. 

Vanno anche registrate un paio di testimonianze tanto articolate quanto fantasiose, la prima delle quali a opera di Jacqueline Malvetu, o Malvedu. Dopo aver visto un programma televisivo sul Mostro (“Blu notte”, condotto da Carlo Lucarelli) il 19 aprile 2004 la donna si presentò negli uffici del GIDES per raccontare una strana storia della quale sarebbe stata protagonista verso la fine del mese di agosto 1985, aggiustata poi in varie altre audizioni. Durante una notte trascorsa in tenda in un boschetto di Firenze (dietro l’Abbazia di San Miniato al Monte) qualcuno l’avrebbe importunata costringendola a fuggire. Due uomini, dei quali uno riconosciuto per Calamandrei, sarebbero intervenuti in suo soccorso, mettendola in guardia per la presenza in zona del maniaco delle coppiette e portandola in una casa dove avrebbe dormito e dove avrebbe incontrato un terzo uomo, riconosciuto per Narducci. La Malvetu fu poi anche intervistata da “Chi l’ha visto”, e sentita altre volte dagli inquirenti, ai quali lei stessa si rivolgeva dopo aver preso spunto da qualche servizio giornalistico. Nei suoi racconti comparvero via via altri personaggi riconosciuti in foto: Giancarlo Lotti, Fernando Pucci, Giulio Zucconi, Robert Parker e il futuro procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci che all’epoca l’avrebbe interrogata, circostanza questa del tutto inverosimile, se non altro perché non risulta che il magistrato avesse mai preso parte alle indagini sul Mostro.
Gli investigatori dettero molta importanza alla testimonianza della Malvetu, come dimostra la nota GIDES scaricabile qui, dove le sue dichiarazioni vengono esaminate minuziosamente, finendo per occupare lo spazio di ben 10 pagine su 156 totali, il che sembra francamente eccessivo. La lettura dell’inizio di un successivo verbale (9 luglio 2005) firmato di fronte a Mignini basta e avanza per convincersi di quanto poco quelle dichiarazioni potessero considerarsi affidabili. Dalla sentenza Micheli: 

Mi presento spontaneamente perché mi sono ricordata. Nel mese di giugno ho cercato la casa. Sono andata a Firenze, Perugia, Assisi e Pistoia. Ho paura e non dormo. Voglio contribuire ad aiutare l’indagine. Satanismo e nazismo. Conflitto tra ebrei e francescani. Rete gigantesca. Pucci e il nome dell’agenda. Ho visto una trasmissione televisiva sulle indagini “Mostro di Firenze – Caso Narducci”. Ho tanti particolari. Perché sono andata a cercare in quei posti? Sono andata a Monte Ridolfi, da Pucci Fernando, amico di Lotti. Un mese sono andata a Firenze al GIDES. Stava verbalizzando Alessandro Borghi, poi è venuto Castelli. Era tardi ed ero stanca e non ho voluto firmare il verbale. Insistevo a dire che i miei erano flashes e che ero stata drogata: una perdita di memoria dovuta agli anni, poi una perdita dovuta all’amnesia traumatica e poi a farmaci. Quella sera andò via a mezzanotte. Castelli m’ha rimproverata. Il GIDES ha fatto le foto dove ero col sacco a pelo e la tenda. Allora vidi le persone sempre diverse. 

In ogni caso il giudice De Luca così liquidò le informazioni testimoniali rese dalla donna: “esse rientrano nell’ambito di quelle dichiarazioni farneticanti e fantasiose, spesso presenti nell’ambito del presente procedimento penale”.
In apparenza assai più lucide e plausibili, ma ritenute anch’esse farneticanti da De Luca (e a ragione) sono le dichiarazioni di Elisabetta Marinacci, figlia del noto musicista jazz Gino e lei stessa musicista, una testimone scovata da Gabriella Carlizzi (con strane modalità, a dire il vero) e sentita tre volte a Perugia (11 aprile, 20 aprile, 4 maggio 2005). Nei primi mesi del 1981 la donna aveva accompagnato a Firenze il padre (paraplegico da quindici anni a seguito di un grave incidente automobilistico) per delle visite specialistiche in prospettiva di un difficile intervento chirurgico. Era poi passata da San Casciano, dove aveva fatto tappa nella farmacia di Francesco Calamandrei, amico del genitore. Dentro aveva trovato il titolare assieme a un altro uomo, riconosciuto in foto per il giornalista Mario Spezi, il quale, intervenendo nella discussione sui problemi gastrici del padre legati all’uso della sedia a rotelle, aveva consigliato di rivolgersi a un bravo gastroenterologo di Perugia, Francesco Narducci. Tramite una telefonata, il giornalista aveva combinato un appuntamento per due giorni dopo. Nel momento in cui stava andando via, la Marinacci avrebbe sentito Spezi chiedere a Calamandrei, alludendo al padre: “Anche il maestro è uno dei nostri?”. Il che faceva pensare a qualche organizzazione segreta della quale i due avrebbero fatto parte.
Riempiti quei due giorni d’attesa con una visita alla città di Siena, Elisabetta e Gino Marinacci erano tornati nella farmacia di San Casciano, dove il dottor Narducci aveva visitato l’uomo prescrivendogli un farmaco. Appena un anno dopo il musicista si era operato e poco dopo era morto. Di Narducci la figlia non aveva saputo più niente.
La testimonianza di Elisabetta Marinacci potrebbe anche sembrare valida e significativa, poiché per una volta il fantomatico Narducci si era qualificato con i propri nome, cognome e professione, quindi dubbi sulla sua identità non avrebbero ragione di esistere. Ma la presenza nel racconto di strani passaggi del tutto fuori contesto lascia pensare che la donna non fosse troppo lucida. Aveva raccontato, infatti, di essere stata rapita due anni prima dell’episodio di San Casciano da un uomo che l’avrebbe segregata per quattro mesi, e con il quale avrebbe concepito un figlio. Aveva nominato anche due ex Presidenti della Repubblica e vari famosi musicisti accreditandoli come amici di famiglia. Questo il parere di Micheli: 

Si tratta di elementi che fanno sorgere qualche legittimo interrogativo sulla linearità della deposizione, altrimenti precisa e inappuntabile pur dovendosi tenere conto della singolarità dell’origine del racconto (la dott.ssa Pasquali Carlizzi che si interessa del direttore d’orchestra cui era dedicata la scuola media dove insegnava la Marinacci, quindi - e non si capisce il passaggio - si mette a chiedere a quest’ultima che rapporti avesse il padre con l’ambiente fiorentino, stando a quel che risulta dal menzionato verbale del 20 aprile 2005).
Ergo, nel caso si fosse reso necessario l’esame della teste in un eventuale giudizio (ma necessario non è comunque: per le ragioni più volte ribadite, è del tutto indifferente in questo processo accertare se il Narducci e il Calamandrei si conoscessero o no) sarebbe stato indispensabile verificare l’idoneità della Marinacci ad offrire una narrazione scevra da possibili contaminazioni di fantasia.

Né De Luca né Micheli sembrarono accorgersene, ma è il caso di notare anche l’assoluta improbabilità che proprio nel momento della sua visita improvvisata alla farmacia di Calamandrei la Marinacci vi avesse trovato dentro Mario Spezi, il quale neppure abitava a San Casciano. Era lì mentre l’amico stava servendo i clienti? A far che? In ogni caso si sarebbe trattato di una coincidenza fortunatissima per la sua futura audizione nell’ambito dell’inchiesta sui mandanti.
Ultima testimonianza da prendere in esame è quella di un ex carabiniere, Roberto Giovannoni, presentatosi spontaneamente alla Procura di Perugia per raccontare un episodio risalente al 1977. Mignini ne rimase assai colpito, e trasmise il verbale a Crini e Canessa, i quali però nella loro ricostruzione non ne tennero conto. Vediamo allora la sintesi contenuta nella requisitoria del magistrato perugino. Dalla sentenza Micheli:

[…] una delle dichiarazioni più significative e incontrastabili è quella dell’allora Carabiniere Roberto Giovannoni che il 01.10.2005 ha riferito che, trovandosi in servizio a San Casciano a scorta della principessa Beatrice d’Olanda e della sua famiglia, notata un’auto bianca targata “PG”, con lo stemma dei medici, di fronte alla Farmacia del Calamandrei, vicino alla quale, come se la custodisse, c’era Mario Vanni ed entrato nella Farmacia per chiedere spiegazioni sulla sosta dell’auto, incontrò il Calamandrei e il Narducci ed ebbe un colloquio con quest’ultimo che si qualificò esattamente come Francesco Narducci, gli disse di essere proveniente da Foligno, di essere rappresentante di una ditta farmaceutica di Prato e gli confidò di avere un appartamento nei pressi del casello autostradale di “Firenze – Certosa”, nei pressi appunto della Certosa, mentre il Calamandrei lo osservava con disappunto per l’eccessiva loquacità dimostrata col Carabiniere.

La scena descritta da Giovannoni appare surreale, con Mario Vanni in divisa da postino a far la guardia, chissà perché, all’auto di Francesco Narducci, tra l’altro un’Alfa Romeo, quando questi all’epoca possedeva una BMW. C’è poi da chiedersi per quale motivo un carabiniere avrebbe dovuto allarmarsi per un fatto normalissimo come l’auto di un medico parcheggiata davanti a una farmacia, tanto da entrare nell’esercizio, “armato di tutto punto e in divisa”, e chiedere “con voce perentoria di chi fosse”. Appare strano anche il comportamento, insolitamente ciarliero rispetto alle sue abitudini note, del presunto Narducci, il quale, dopo essersi qualificato con le proprie reali generalità, di seguito avrebbe fornito notizie inesatte, come quelle di provenire da Foligno e di essere un rappresentante farmaceutico. Nello scenario ipotizzato dalla pista esoterica suona poi male l’anno in cui sarebbe avvenuto l’episodio, il 1977. Fino ad allora erano stati uccisi soltanto i due poveretti di Borgo San Lorenzo, senza alcuna mutilazione alla ragazza, mentre il primo feticcio era di quattro anni dopo. Quindi, che senso avrebbe avuto in quel momento un sodalizio tra mandanti (Narducci e Calamandrei) ed esecutori (Vanni)?
E allora forse non è un caso se non furono rintracciati altri testimoni in grado di confermare il racconto dell’ex carabiniere, né la commessa e i due clienti che si sarebbero trovati in quei momenti in farmacia, né il compagno di missione del quale Giovannoni non ricordava l’identità. E poi, perché il testimone si era presentato, spontaneamente, soltanto nell’autunno del 2005, quando la vicenda Narducci era sui giornali già da quasi quattro anni, con diversi e clamorosi passaggi anche in televisione? In fin dei conti l’uomo era un ex rappresentante delle forze dell’ordine, che certamente leggeva i giornali; forse anche troppo però, tantoché la sentenza Micheli osserva: “Se si considera che il Giovannoni […] trae dai giornali alcuni degli spunti che offre, sovviene il dubbio che anche nel suo racconto vi siano possibili elementi di fantasia”.
L’elenco delle testimonianze sulla frequentazione tra Narducci e Calamandrei finisce qui, senza che tra di esse se ne possa rintracciare una chiara e affidabile, per un motivo o per un altro. Un ragionamento va poi fatto sui luoghi principali che Narducci avrebbe frequentato a San Casciano: Villa la Sfacciata, dove per la Ghiribelli avrebbe dormito, la trattoria Ponte Rotto, presunto teatro di cene in comitiva secondo i racconti di Nesi e Pucci, e infine la farmacia di Calamandrei, nei cui annessi ambulatori avrebbe effettuato delle visite. Ebbene, nessuno tra gestori, lavoratori e frequentatori abituali dei tre ambienti lo aveva mai visto, il che è davvero strano. Neppure si era mai trovato alcun paziente che fosse stato in cura da lui. A questo proposito risultano molto significative le testimonianze di due dipendenti della farmacia.
Il 1° ottobre 2003 era stato interrogato dal GIDES Francesco Giuntini, che dal gennaio 1978 all’ottobre 1983 aveva lavorato per Calamandrei in qualità di ragazzo di bottega. Di fronte a un album di 10 foto aveva dichiarato (dalla sentenza De Luca):

La persona raffigurata nella foto nr. 1 mi ricorda qualcuno, forse un medico che ho visto in farmacia, la faccia mi dice qualcosa ma non saprei essere più preciso. La persona raffigurata nella foto nr. 5 è una faccia che io ho conosciuto, potrebbe essere di una persona di San Casciano che ho visto all’interno della Farmacia ma non riesco a ricordare bene in che contesto. Tutto le altre foto appartengono a persone che io non ho mai visto.

La foto 1 era di Narducci, la foto 5 di Jacchia. Si tratta di riconoscimenti che lasciano il tempo che trovano per la loro sostanziale inconsistenza, per di più accresciuta dalla mancanza di garanzie riguardo le modalità con le quali avvennero. Riguardo Narducci si tenga presente che la sua foto era comparsa più volte sui giornali, quindi che al teste paresse di averlo già visto si potrebbe anche spiegare così. Piuttosto va registrato un fatto oltremodo significativo: chi tutti i giorni di lavoro si trovava nella farmacia di Calamandrei non aveva mai sentito parlare di Francesco Narducci, e neppure lo aveva visto per come avrebbe dovuto. Questa considerazione vale ancora di più per Paola Bagni, commessa dal 1972 al 1990, che di Narducci non sapeva nulla e neppure gli era parso di averlo visto una volta messa di fronte alla sua foto.
Se sulle frequentazioni fiorentine di Narducci non esistono testimonianze convincenti, men che meno ne esistono di quelle perugine per Calamandrei. Durante la perquisizione della sua casa (20 gennaio 2004) gli erano stati sequestrati una guida turistica dell’Umbria, un libro sull’Umbria e un biglietto da visita di un negozio antiquario situato in provincia di Perugia. Ebbene, quei tre oggetti potevano sì far sospettare che Calamandrei fosse stato in Umbria, regione confinante con la Toscana e piena di meraviglie artistiche, ma non si era trovato nessuno in grado di ricordare di averlo visto assieme a Narducci. In compenso il nome del farmacista aveva fatto capolino tra le chiacchiere riportate il 28 novembre 2003 da un pescatore del lago Trasimeno, Secondo Sisani. Dalla sentenza Micheli:

Io ho sentito che il cadavere del Narducci fu rinvenuto alcuni giorni prima della domenica 13 ottobre 1985 nelle acque del Lago Trasimeno verso l’Isola Polvese con le mani e piedi legati. […] Queste cose mi sono state dette da un gruppo di amici che frequentavano con me il Circolo dei Pescatori. […] Queste persone dicevano che il Narducci era coinvolto nelle vicende dei delitti del Mostro di Firenze. Dicevano che era tutta una tresca e sicuramente avranno detto che era stato il gruppo di Firenze a farlo fuori. Qualcuno diceva anche che Pacciani era pilotato da loro. A quel tempo il nome Pacciani non mi diceva niente, ma quando, qualche anno dopo, la televisione e i giornali cominciarono a parlare di Pacciani mi ricordai di questo nome.
Ricordo anche che parlavano di un farmacista della zona di San Casciano. Questi discorsi sono stati fatti nel corso di un certo lasso di tempo dalla morte del Narducci fino ai processi di Firenze e il riferimento al farmacista l’ho sentito fare più di una volta. Parlavano di un farmacista che stava verso Firenze.
Mi pare anche che parlarono anche di un tedesco coinvolto nel giro, ma non ricordo se la cosa fu detta nel 1985 o successivamente.

Si trattava delle solite malevoli dicerie che circolavano a Perugia su Narducci, neppure collocate in modo sicuro nel tempo. E magari il pescatore vi aveva aggiunto del suo, come capita quasi sempre in questi casi. In verità la sentenza De Luca non menziona neppure questa testimonianza, presa invece in esame dal giudice Micheli, che così la bocciò: “È difficile che fosse la verità, trattandosi di chiacchiere neppure collimanti con le altre che avevano parlato di un rinvenimento del vero Narducci il pomeriggio, e non la mattina del 9 ottobre”.
Per completare il quadro sui presunti legami tra Narducci e Calamandrei vanno infine prese in esame due intercettazioni telefoniche contenute nella nota GIDES già citata. Della prima non vengono riportate frasi, si dice soltanto: “telefonata delle ore 12.59.31 del 10.5.2004: l’indagato tra l’altro dice al suo avvocato che il Narducci lui non lo conosceva”. Nella seconda, del 10 gennaio 2005, Calamandrei così rispose a un’amica che gli aveva chiesto notizie in merito: “che vuoi che ne sappia io… sinceramente non lo so però io so una cosa per certo, io non lo conosco… non l’ho mai visto, eppure ci sono… gente che spergiura che mi hanno visto insieme a lui… persone amici miei”.
Secondo Giuttari le due telefonate dimostrerebbero “le falsità del Calamandrei sulla mancata conoscenza del Narducci (che ormai sembra anche inutile ripeterlo può invece considerarsi un dato certo)”. Ma, al di là dell’opinabile affermazione su una conoscenza certa che certa non è affatto, stupisce che le due telefonate possano essere considerate una prova della falsità di Calamandrei sul punto. Riguardo le parole dette all’amica, giudichi da sé il lettore se suonano sincere; a chi scrive sembra di sì, in ogni caso l’uomo potrebbe aver avuto tutte le sue buone ragioni per non condividere con un’amica (non sappiamo neppure quanto) informazioni così delicate. Sull’altra telefonata, invece, sembra davvero strano che Calamandrei fosse stato così sciocco da nascondere la compromettente conoscenza con Narducci anche al proprio legale, rinunciando così al suo aiuto nel preparare un’efficace difesa sul punto. Quindi, alla fine, queste due telefonate sembrano piuttosto un elemento in più a favore della buonafede di Calamandrei nel negare ogni conoscenza con Narducci.

Siamo giunti alla fine dell’articolo sulla cosiddetta “ombra nera” che avrebbe macchiato l’assoluzione di Francesco Calamandrei dall’accusa di essere il mandante dei Compagni di merende. A chi scrive sembra che non esista alcuna ombra nera, poiché non c’è alcuna testimonianza in grado di offrire anche solo una piccola certezza sulla frequentazione tra Narducci e Calamandrei. Quindi il povero farmacista di San Casciano, secondo forse soltanto a Mario Vanni nella poco invidiabile posizione di maggior danneggiato dalle indagini sbagliate sui delitti del Mostro, va considerato assolto in modo netto e totale.

giovedì 28 gennaio 2016

L'ombra nera (3)

Segue dalla seconda parte

A questo punto della storia si dovrebbe parlare dell’irrituale colloquio avvenuto in carcere tra Lorenzo Nesi e Mario Vanni, anzi, due, il 26 e il 30 giugno 2003. Ma si tratta di un tema che merita un suo spazio apposito, quindi per il momento basti dire che il povero vecchio, gravemente menomato da un’arteriosclerosi ormai galoppante (e certificata da varie perizie, l’ultima del 31 ottobre 2001, dove si confermava “l’accentuato decadimento mentale”), reagì ai tormenti del suo falso amico inventandosi la nota figura del “nero Ulisse”, a suo dire il vero Mostro, in realtà probabile adattamento di un personaggio visto in qualche telefilm poliziesco. Ma gli inquirenti presero la palla al balzo, e pochi giorni dopo, l’11 luglio, riconvocarono Gabriella Ghiribelli, trovando in lei la solita disponibilità a raccontare di tutto e di più.
Cominciamo col dire che su Narducci la donna rivide al rialzo le proprie precedenti dichiarazioni, ritagliandosi un ruolo da vera protagonista. Dalla sentenza Micheli:

L’ho conosciuto tramite Giancarlo, che gli parlò bene di me. Ricordo che erano i primi anni ‘80 ed io ero giovane e lui aveva grosso modo la mia età. Una volta siamo andati anche a mangiare fuori in compagnia della Nicoletti e del Lotti, andammo al ristorante “La Lampara” a Firenze, in via Nazionale […] ricordo di aver fatto sesso con il dottore di Perugia; questo aveva un comportamento ambiguo, nel senso che […] solo quando me lo appoggiava al sedere si eccitava. In quest’ultimo caso arrivava subito all’orgasmo. In tutto ho fatto sesso con lui 4 o 5 volte.

Tanto per completare il fantasioso racconto, si può aggiungere il dato del compenso ricevuto per ognuno dei quattro o cinque incontri: 300 mila lire. Si trattava di una cifra almeno dieci volte superiore a quanto la donna poteva pretendere all’epoca (attorno al 1980). Quindi non soltanto Narducci, cui certamente non mancavano le ammiratrici, si sarebbe accompagnato con una prostituta di bassissimo livello come lei era, ma le avrebbe anche pagato un compenso da squillo d’alto bordo!
In quell’interrogatorio la Ghiribelli parlò anche di Ulisse. Dalla sentenza De Luca:

In quegli anni (tra il 1980 ed il 1990) il mio amico Giancarlo Lotti mi riferiva della sua conoscenza con un uomo di colore di nazionalità italo americana. Quest’uomo viveva nella villa La Sfacciata. […]
Ho visto questo individuo dare soldi al Lotti. Queste somme erano costituite da svariate banconote da cento, credo che fossero qualche milione; credo che usava questi soldi per portare la nipote del Vanni al mare, o per andare con la Nicoletti Filippa a mangiare e a farci l’amore.

Un individuo di colore, dunque, avrebbe frequentato Villa la Sfacciata, ospite del medico svizzero, almeno secondo la Ghiribelli. Ci si deve chiedere però perché la donna non avesse riferito queste clamorose notizie negli interrogatori di quattro mesi prima. Si può solo pensare che fosse stata messa a conoscenza delle fresche dichiarazioni di Mario Vanni, alle quali si era agganciata sciorinando altre fantasiose invenzioni, prese però molto sul serio dagli inquirenti. Il 22 luglio riconobbe l’uomo di colore in foto: si trattava di Robert Parker, uno stilista gay americano morto nel 1995 di AIDS (quindi non suicidatosi), in qualche modo, non si sa bene quanto a torto e quanto a ragione, collegato a Villa la Sfacciata (sarebbe stato ospite di Reinecke, circostanza però tutt’altro che provata). Nella vicenda del Mostro era entrato marginalmente dopo l’omicidio del 1983, quando si era sospettato che una Fiat 126 bianca vista vicino al furgone fosse stata la sua.
Per irrobustire la nuova pista si riconvocarono anche Nesi e Pucci. Il 1° agosto fu la volta del re dei chiacchieroni, il quale era caduto dalle nuvole quando Vanni gli aveva parlato del nero Ulisse, ma di fronte alla foto del nero Parker non ebbe difficoltà a ritrovarne il ricordo in uno dei numerosissimi angoli nascosti della propria memoria, rammentandosi di averlo visto diverse volte alla solita trattoria Ponte Rotto assieme a Narducci e Lotti. Circostanza che tre giorni dopo fu confermata da Pucci, e ad abundantiam, poiché alla comitiva aggiunse il dermatologo Sertoli e l’ortopedico Jacchia e rivelò anche un argomento delle loro conversazioni: festini. Di fronte alla completa inaffidabilità di tali testimonianze non c’è da stupirsi se i titolari dell’esercizio – tra l’altro sottoposti persino a intercettazione telefonica, casomai fossero stati anche loro della congrega – ricordavano benissimo il cliente abituale Giancarlo Lotti, ma nessuno degli altri.
Tra i principali personaggi dell’inchiesta precedente chiamati a dare una mano mancava soltanto Filippa Nicoletti. La donna era sempre stata molto sulle sue, dicendo soltanto il minimo e soltanto quando si trovava costretta a dirlo, quindi non pare certo un caso se gli inquirenti andarono a cercarla per ultima. Il suo interrogatorio risale all’11 settembre (nella sentenza De Luca viene erroneamente indicato 11 marzo), quando venne messa di fronte alle dichiarazioni dell’amica-nemica Ghiribelli sulla cena a quattro con Lotti e Narducci al ristorante la Lampara di Firenze. La donna riconobbe Narducci in foto, raccontando (dalla sentenza Micheli):

Si trattava di una persona molto fine, elegante, che parlava bene e che non era di Firenze, ma non so dirvi di dove fosse. Lo vidi una sola volta alla trattoria di Via Nazionale, credo proprio “La Lampara”, e mangiai insieme a lui. Non ricordo se con noi ci fosse qualcun altro. È stata una cosa passeggera, mi sembra che si fosse presentato come un fotografo e che girava film. Non ricordo se ho avuto rapporti sessuali con lui, ma se c’era la Gabriella non mi ci faceva arrivare. Era sicuramente il 1981 (..). Non ricordo come si sia presentato, ma ho un vago ricordo del nome Giuseppe o Pino ed ho anche un vago ricordo che mi abbia detto che era calabrese, ma dal parlare non mi sembrava affatto. Si esprimeva in perfetto italiano e senza la cadenza tipica calabrese, che io conosco. Sicuramente non mi disse la verità. Ho però un ricordo che mi abbia detto che abitava a Prato e che faceva dei film e delle foto, tanto che mi propose se volessi andare con lui a farmi fare delle foto. Io rifiutai. Dopo di quella volta non lo rividi più.

Dell’attendibilità di un riconoscimento fotografico nelle condizioni in cui dovette avvenire quello di Narducci da parte della Nicoletti è già stato detto. Può anche darsi che tra i propri clienti di oltre vent’anni prima la donna ne avesse incontrato uno un po’ più raffinato dei soliti paesanotti cui era abituata, sedicente regista o fotografo che fosse, ma per identificarlo come Narducci sarebbe servito molto, molto di più di un’eventuale rassomiglianza con una foto. È inevitabile il sospetto che, di fronte ai fastidi del nuovo e imprevisto interrogatorio, la donna avesse preferito dimostrare massima disponibilità sulla sconosciuta figura del medico umbro, piuttosto che dover parlare del proprio protettore di un tempo, Salvatore Indovino, riguardo il quale era sempre stata molto abbottonata.
Per completare il quadro dei contributi dati dai protagonisti dell’inchiesta precedente bisogna tornare a Mario Vanni, il quale, come persona informata sui fatti e nella forma dell’incidente probatorio, venne interrogato dai pm Canessa e Crini il 28 dicembre 2004; l’intento era quello di chiarire i suoi rapporti con Francesco Calamandrei. Il pover’uomo rispose al bombardamento di domande in modo nebuloso e contraddittorio, spesso con dei semplici “mah”, dando l’impressione di non capire troppo bene quanto gli stava accadendo attorno. Eppure, a parere dei due PM, avrebbe fornito inedite e importanti informazioni, raccontando di aver frequentato assieme a Lotti e Pacciani la casa del farmacista, descritta con dovizia di particolari. E che cosa sarebbero andati a fare lì i tre Compagni di merende? Più volte sollecitato a fornire spiegazioni, Vanni continuò a ripetere il medesimo ritornello: “Eh, andavo a piglia’ le medicine, si parlava così, in amicizia, no? per la mi moglie, le medicine, la roba, le medicine per casa”. Il 14 gennaio successivo il vecchio ergastolano fu sottoposto a un ulteriore interrogatorio, questa volta in veste d’imputato. Si venne così a sapere che lui, Lotti, Pacciani, Calamandrei e addirittura Narducci avrebbero frequentato un numeroso gruppo di prostitute fiorentine, e sarebbero andati spesso a mangiare tutti assieme all’onnipresente trattoria Ponte Rotto.
Era trascorso un anno e mezzo dai vergognosi e inutili colloqui con Lorenzo Nesi, quindi, vista la natura degenerativa della malattia che lo affliggeva, si può immaginare che le già precarie condizioni mentali di Vanni si fossero ulteriormente aggravate. Ma per i PM le sue frasi esitanti, contraddittorie, confuse, valevano comunque oro, come avrebbe osservato il giudice De Luca prima di demolire il loro punto di vista.

Secondo l’assunto accusatorio gli argomenti trattati dal Vanni e cioè da un lato l’assidua frequentazione della casa di Calamandrei da parte di Vanni, Pacciani e Lotti, argomento prima sconosciuto, che aveva introdotto lui e, dall’altro, la frequentazione comune di prostitute su richiesta del Calamandrei avrebbero un’enorme importanza nell’economia del presente procedimento penale.
[…] a prescindere dalle condizioni mentali nelle quali versava il Vanni all’epoca […] tali circostanze risultano del tutto contraddittorie o, addirittura, smentite dalle risultanze processuali: per quel che concerne, infatti, la disposizione delle camere della casa del Calamandrei egli ha ripetuto al difensore dell'odierno imputato la medesima descrizione anche per quel che concerne altre abitazioni di maggiorenti del luogo sopra riferite, ed anche le risposte fornite in tali casi risultano del tutto analoghe, inframmezzate da ripetuti “uhm”, “bravo” ecc. come se gli andasse bene qualsiasi affermazione del suo contraddittore, anche la più illogica ed inverosimile.
Circa la frequentazione delle prostitute a Firenze basterà ricordare il passaggio della sua deposizione relativa al fatto che si sarebbero recati a Firenze addirittura a bordo di una fiammante “Ferrari" di colore rosso del Calamandrei per capire quale grado di affidabilità possa essere attribuita ad esse.
Ma v’è di più: la P.G. ha effettuato una meticolosa ricerca nelle vie indicate dal Vanni circa possibili abitazioni ove avrebbero prestato servizio le prostituite delle quali aveva riferito i nominativi, anche consultando ufficiali di P.G. in servizio all’epoca presso la Buon Costume della Questura di Firenze, con esito completamente negativo sia circa l'individuazione delle prostitute che delle abitazioni. La frequentazione comune da parte dell’odierno imputato unitamente al Pacciani, al Lotti e al Vanni della trattoria del “Ponte rotto”, gestita dal Matteuzzi è stata smentita, oltre che dal predetto, anche dal figlio, pure sottoposti, prima e subito dopo le loro deposizioni, ad intercettazioni telefoniche disposte d’urgenza dal P.M. e convalidate dal G.I.P.: costoro hanno chiarito che il Calamandrei frequentava il loro locale solo con le persone più in vista di S.Casciano e con il solo Vanni che faceva un po’ la “macchietta” intonando a fine pasto “faccetta nera” ed altre amenità, mentre non era mai stato insieme al Pacciani e al Lotti. Entrambi escludevano poi di aver mai visto nel locale la persona mostrata nell'album fotografico e corrispondente al Narducci.

Come si vede, bocciatura non avrebbe potuto essere più totale: per De Luca le parole di Mario Vanni erano soltanto farneticazioni prive di riscontri. Riguardo questi ultimi, la testimonianza dei gestori della trattoria Ponte Rotto, avvalorata per di più da intercettazioni telefoniche, risulta decisiva. In quel caso riscontro avrebbe dovuto esserci, poiché i gestori di ristoranti e simili conoscono benissimo i propri clienti, con i quali, per mestiere, cercano di scambiare almeno qualche frase. In effetti i Matteuzzi rammentavano le cene cui avevano partecipato Calamandrei e Vanni, con quest’ultimo che faceva il buffone, ma non c’erano né Lotti né Pacciani, e tantomeno Narducci.

L'ombra nera (2)

Segue dalla prima parte

In questa seconda parte dell’articolo cominceremo a esaminare i fondamentali contributi all’ “ombra nera” forniti dai personaggi che avevano animato l’inchiesta precedente. Il mancato ritrovamento della sede dei festini descritti dalla Pellecchia dovette costituire una grande delusione per il commissario Giuttari, il quale, appena due giorni dopo, andò a chiedere aiuto a Gabriella Ghiribelli, il vecchio testimone Gamma. Ai tempi dei “Compagni di merende”, superate le prime paure, la donna aveva dimostrato di saper godere appieno dell’improvvisa e inaspettata popolarità – lei che non aveva mai contato nulla – fronteggiando con grande disinvoltura giornalisti, giudici e avvocati. A parte qualche sporadica intervista, come quella del 2001 per la trasmissione “Un giorno in pretura”, era poi ripiombata nell’anonimato, trascinandosi tra qualche cliente e i molti bicchieri di vino che l’avevano condotta verso la fine del proprio percorso autodistruttivo (il 5 dicembre 2004, a soli 54 anni, sarebbe morta di cirrosi epatica). Essere chiamata di nuovo sul palcoscenico dovette renderla molto felice e soprattutto molto disponibile a raccontare di tutto, complice lo stato di ebbrezza nel quale si doveva sempre trovare. Come era già accaduto con Fioravanti per Pacciani – di questo tratteremo in un prossimo articolo – attraverso di lei ricominciò a parlare anche l’ormai defunto Giancarlo Lotti.
E così il 28 febbraio, il 1° marzo e il 5 marzo 2003 la Ghiribelli sedette di nuovo davanti a Giuttari. Grazie alla sua inesauribile voglia di comunicare, in quei tre giorni cominciò a definirsi meglio lo scenario nel quale, secondo la futura ricostruzione degli inquirenti, sarebbe maturato il commercio dei feticci a San Casciano. Innanzitutto Gamma aggiunse molti particolari inediti alle antiche descrizioni delle orge e delle attività esoteriche che si sarebbero svolte a casa del sedicente mago Salvatore Indovino, lei presente, dove una certa “Marisa” proveniente da Massa avrebbe portato addirittura dei bambini. Il seguente frammento, riportato nella nota GIDES scaricabile qui, può darne un’idea:

Di solito la Milva Malatesta era quella che faceva la parte della vittima, si sdraiava nel centro del cerchio con all’interno una stella a cinque punte, poi tutti gli uomini si accoppiavano con lei; successivamente anche i bambini venivano portati nella stanza dove c’era il cerchio, ma non so cosa avvenisse dopo. Le feste avvenivano sempre a casa di Indovino, tranne una volta che andarono in un cimitero assieme al capo degli Hare Krishna. Infatti il giorno dopo c’era un articolo sulla Nazione, che diceva che sconosciuti avevano scoperchiato le tombe. Il cimitero era nei dintorni di San Casciano ed il periodo era nei primi anni '80.

Clamorose novità anche per i partecipanti, un potpourri nel quale furono inseriti Filippo Neri Toscano, Filippa Nicoletti, un orafo, un medico delle malattie tropicali, il capo degli Hare Krishna e Sebastiano Indovino, fratello di Salvatore, il quale si sarebbe accompagnato anche con i bambini. Eppure qualche anno prima la Ghiribelli aveva raccontato d’aver visto soltanto le tracce di queste presunte orge, alla domenica mattina quando andava ad aiutare Indovino a rimettere a posto la casa, quindi lei non avrebbe mai partecipato. Tra l’altro la donna non era in possesso di patente, e a casa d’Indovino veniva sempre accompagnata dal suo protettore Umberto Galli, che più volte aveva dichiarato di non aver mai visto nulla. A domanda della Polizia sul perché prima avesse taciuto sulla presenza dell’orafo e del medico delle malattie della pelle o tropicali, la donna rispose (dalla sentenza De Luca):

In verità io mi ricordo che durante il processo fatto a Lotti Giancarlo e Vanni Mario io parlai dell’orafo e del medico delle malattie della pelle, ma non venni presa in considerazione. Comunque, durante i verbali fatti in Questura non ne parlai perché le domande che mi venivano poste riguardavano il Lotti e il Vanni.

Figurarsi se almeno ai giornalisti la loquacissima Ghiribelli non avrebbe raccontato fatti così clamorosi! In ogni modo gli inquirenti presero le sue fandonie molto sul serio, comprese quelle su una seconda sede di orge, più prestigiosa e ben più esoterica della stamberga di Salvatore Indovino: una misteriosa villa appartenente a un medico svizzero. Dal verbale del 28 febbraio riportato dalla sentenza Micheli:

Nel 1981 vi era un medico che cercava di fare esperimenti di mummificazione in una villa vicino a Faltignano, che, da quello che sapevo, sembrava che l'avesse comprata sotto falso nome. Questa villa so trovarsi nei pressi del luogo dove furono uccisi nel 1983 i due ragazzi tedeschi. […] Di questo posto mi parlò anche Giancarlo Lotti in più occasioni e sempre negli anni ‘80 quando ci frequentavamo. […] Sempre il Lotti mi raccontò che questa villa aveva un laboratorio posto nel sottosuolo, dove il medico svizzero faceva gli esperimenti di mummificazione. Mi spiego meglio: il Lotti disse che questo medico svizzero, a seguito di un viaggio in Egitto, era entrato in possesso di un vecchio papiro dove erano spiegati i procedimenti per la mummificazione dei corpi. Detto papiro mancava però di una parte che era quella relativa alla mummificazione delle parti molli e cioè tra le altre il pube ed il seno. Mi disse che era per quello che venivano mutilate le ragazze nei delitti del c.d. mostro di Firenze. Mi spiegò anche che la figlia di questo medico nel 1981 era stata uccisa e la morte non era stata denunciata tanto che il padre aveva detto che era tornata in Svizzera per giustificarne l’assenza. Il procedimento di mummificazione gli necessitava proprio per mummificare il cadavere della figlia che custodiva nei sotterranei. Questo medico svizzero, sempre da quello che ho saputo, al momento delle indagini su Pacciani, abbandonò la villa per tornare in Svizzera. […]
Questo medico svizzero all’epoca aveva 40-45 anni e frequentava assiduamente un orafo di San Casciano che aveva un laboratorio vicino all’ “Orologio” ed un medico che curava le malattie tropicali con ambulatorio nei pressi dell’orafo.
A proposito di quest’orafo, posso dire che più volte lo vidi insieme al medico di Perugia che poi scomparve nel lago. Riguardo a quest’ultimo lo descrivo come un giovane dal fisico atletico, alto, ben curato. […]
Il medico di Perugia lo vidi anche in compagnia del medico che curava le malattie tropicali di cui ho parlato. Era più giovane degli altri e poteva avere una trentina d’anni. […]
So che il medico di San Casciano di malattie tropicali, il medico di Perugia e l’orafo frequentavano la villa del medico svizzero, dove facevano anche festini con minorenni. Ricordo che seppi che in un’occasione un bambino ed una bambina di 9 anni dovevano accoppiarsi mentre loro si masturbavano. […]
Giancarlo mi parlò spesso del medico di Perugia. Mi disse che l’aveva conosciuto a San Casciano e che aveva fatto amicizia. Ricordo che mi riferì che questo medico si dava tante arie e diceva di avere una barca. Mi riferì anche che era amico del medico svizzero e dell’orafo. Ricordo anche che mi disse che quando era a San Casciano questo medico di Perugia dormiva nella villa dello svizzero.

Poteva mancare Francesco Narducci tra i personaggi coinvolti? Alla Ghiribelli fu mostrato un album contenente tre sue foto, e lei lo riconobbe per il medico di Perugia. A domanda se l’avesse mai visto in televisione rispose di no, poiché da sette mesi aveva il televisore rotto. Ma è difficile credere che non le fosse mai capitato di posare l’occhio sopra una sua fotografia, quando sui giornali ne comparivano già da tempo, poiché c’è da scommettere che l’antica protagonista delle indagini sui “Compagni di merende” non si fosse lasciata scappare neppure un articolo. Anzi, è forte il sospetto che le storie raccontate agli inquirenti fossero frutto di qualche fantasia preparata proprio durante quelle letture.
Può sembrare incredibile, ma le bizzarre dichiarazioni della Ghiribelli sarebbero andate a costituire l’ossatura del quadro accusatorio portato in aula quattro anni dopo dalla Procura, secondo la quale la misteriosa villa dei festini era da identificarsi con Villa La Sfacciata, posta di fronte alla piazzola dove vennero uccisi Horst Meyer e Uwe Rusch, e il medico svizzero con Rolf Reinecke, un cittadino tedesco che a quel tempo vi abitava e aveva visto per primo i corpi. È da notare però che Reinecke era un imprenditore tessile e nient’affatto un medico. Nulla torna, quindi, e non si capisce come gli inquirenti avessero potuto prendere sul serio i fantasiosi racconti di un’alcolista giunta ormai all’ultimo stadio, capace anche d’inventarsi delle confidenze di Giancarlo Lotti sul delitto di Giogoli, quando da sempre aveva sostenuto di non sapere, all’epoca, che l’amico era coinvolto nella vicenda del Mostro: “Giancarlo mi fece vedere anche dove furono uccisi i due tedeschi e mi disse che il Pacciani l’aveva costretto, perché lui aveva visto la storia degli Scopeti […] e allora gli disse che doveva sparare a questi qua ‘così tu sei dei nostri’” (dalla sentenza De Luca). Come si vede, probabilmente intontita dai fumi dell’alcool, la donna aveva anteposto il delitto degli Scopeti a quello di Giogoli!

I clamorosi risultati della tre giorni con Gabriella Ghiribelli avevano finalmente concesso qualche buona carta ai nostri investigatori, che proseguirono per quella strada andando a recuperare altri protagonisti dell’inchiesta precedente.
Il 4 e l’8 aprile venne interrogato Lorenzo Nesi, sempre pronto ad attingere al pozzo inesauribile della propria duttile memoria. Non ne aveva saputo dire il nome, però aveva riconosciuto in una foto di Narducci una persona vista più volte a San Casciano, anche assieme a Calamandrei, aggiungendo, da consumato teatrante qual’era, tutta una serie di fantasiose notizie inedite che avevano dato un tocco di originalità alle sue dichiarazioni. Dalla sentenza De Luca:

La persona raffigurata nella foto n. 2 l’ho vista sicuramente a San Casciano. Ne sono proprio certo e credo che abitasse in una villa o comunque in una casa colonica grossa, che si trovava sulla strada che da San Casciano va verso Cerbaia, e precisamente vicino alla chiesa di San Martino. Non era sicuramente una persona del posto e mi sembra di ricordare di averla vista insieme al farmacista di San Casciano che si chiama Francesco Calamandrei. Su questo punto non sono proprio certo. […]
Ricordo che correva voce che fosse gay. Questa persona sono sicuro di averla vista con un tipo un po’ strano, di nazionalità straniera, ma non so dirvi di dove. Dico strano perché era proprio un omone che vestiva in maniera un po’ stravagante ed ho ricordo che avesse una camminatura tipica da gay. Questo omone credo che avesse un’auto grossa, ma non so dirvi se fosse una Jaguar o una Mercedes… anche l’omone abitava nella zona in cui ho dichiarato abitava la persona raffigurata nella foto n. 2. […]
Era una persona dal fisico atletico, più giovane dell’omone, all’epoca poteva avere 28/30 anni. Il fisico era ben curato e credo che facesse anche dello sport, tipo tennis. Dico questo perché ho ricordo di averlo visto con una borsa con le racchette da tennis, ma non so dire dove nella zona andasse a giocare, forse in un campo privato.

Le fandonie di Nesi furono prese molto sul serio dai nostri inquirenti. Ma dov’erano le tracce di tutta questa attività di Narducci a San Casciano? Dov’era la villa, quali persone dicevano che fosse gay, chi era il misterioso “omone”, anche lui gay? A quanto sembra Nesi riconobbe l’omone. Si sarebbe trattato di un certo Natanhel Vitta, possessore di campi da tennis privati a San Casciano. Non risulta però che tale personaggio sia mai stato interrogato o sia stato interrogato qualcuno che lo conosceva, e a suo riguardo, nelle sentenze De Luca e Micheli, vengono riportate soltanto le parole di Nesi. Tra l’altro, secondo Nesi, tutti i personaggi della congrega – a suo dire Narducci, Calamandrei, il cognato di questi, l’omone, un cugino dell’attore Giorgio Albertazzi – avrebbero frequentato vari ristoranti della zona, tra cui l’osteria di Ponte Rotto, ma non risulta che qualcuno se ne fosse mai accorto.
Un paio di mesi dopo la Polizia tornò a cercare anche Fernando Pucci, che il 3 giugno fu portato in Questura, davanti a Giuttari e all’ispettore Castelli. Chi ha letto la trascrizione del suo interrogatorio al processo Vanni (qui) non può certo stupirsi di come fece presto ad accontentare i suoi interlocutori. Naturalmente anche lui aveva visto Narducci a San Casciano, “un tipo alto e magro tipo finocchino” che avrebbe parlato al bar con Giancarlo Lotti. Il quale ormai era morto, quindi non se la sarebbe certo presa per le fandonie del suo vecchio compagno di scorribande, e tantomeno avrebbe potuto smentirlo. Come la Ghiribelli, anche Pucci raccontò di “una villa nei dintorni dove c’erano minorenni con cui facevano sesso”, e come Nesi di un omone visto assieme a Narducci, confermandone l’identificazione nel già citato Natanhel Vitta.

martedì 26 gennaio 2016

L'ombra nera (1)

Se Michele Giuttari in “Confesso che ho indagato” definisce erroneamente “dubitativa“ l’assoluzione di Francesco Calamandrei, Giuliano Mignini, nella propria requisitoria per il caso Narducci, più prudentemente usa il termine “attenuata”. In ogni caso è chiaro l’interesse d'entrambi a sminuire in qualche modo la portata della decisione del giudice Silvio De Luca. E più che sull’uso del comma 2 art. 530, in entrambi i casi il tentativo si appoggia a un passaggio della sentenza dove si parla di “un’ombra nera” che sarebbe rimasta a macchiare il proscioglimento di Calamandrei. Scrive Mignini (dalla sentenza Micheli):

A pag. 201 il GUP osserva che le molteplici e reiterate conferme della presenza del NARDUCCI a San Casciano e della sua frequentazione della farmacia CALAMANDREI, comportano “un’ombra nera… nei suoi confronti”, perché il CALAMANDREI ha inspiegabilmente e pervicacemente negato questa conoscenza. A p. 207 della sentenza il GUP aggiunge: “Le modalità della morte del NARDUCCI, e ciò che ne è seguito, alla luce di quanto risulta realmente emerso sulla persona e sui suoi contatti a San Casciano, e non di mere congetture, portano effettivamente un’ombra di sospetto sul CALAMANDREI, il quale, avendo sempre serbato nel presente procedimento un atteggiamento di assoluto riserbo… solo in tale ambito ha negato decisamente qualsiasi sua conoscenza con detto personaggio” e più avanti, a p. 209: “L’unica, vera ombra è rappresentata… dalla vicenda ‘NARDUCCI’, del quale comunque sono stati affermati la frequentazione di San Casciano e il rapporto col CALAMANDREI” (..).

A pagina 361 del proprio libro Giuttari riprende quasi alla lettera il passo precedente, il che, per inciso, dimostra la tutt'ora perfetta intesa tra magistrato ed ex superpoliziotto:

A p. 201, il gup osserva che le molteplici e reiterate conferme della presenza di Narducci a San Casciano e della sua frequentazione della farmacia Calamandrei comportano “un’ombra nera… nei suoi confronti”, perché Calamandrei ha inspiegabilmente e pervicacemente negato questa conoscenza.
E oltre, a p. 207, aggiunge: “Le modalità della morte del Narducci, e ciò che ne è seguito, alla luce di quanto risulta realmente emerso sulla persona e sui suoi contatti a San Casciano, e non di mere congetture, portano effettivamente un'ombra di sospetto sul Calamandrei, il quale, avendo sempre serbato nel presente procedimento un atteggiamento di assoluto riserbo… solo in tale ambito ha negato decisamente qualsiasi sua conoscenza con detto personaggio”.
E ancora oltre, a p. 209: “L’unica vera ombra è rappresentata… dalla vicenda Narducci, del quale comunque sono stati affermati la frequentazione di San Casciano e il rapporto col Calamandrei”.

In effetti in sentenza De Luca sembra rimanere dubbioso di fronte all’ostinazione con cui Calamandrei aveva sempre negato la conoscenza di Narducci, quando invece vari testimoni avevano sostenuto il contrario. Va però precisato che la locuzione “ombra nera”, che sembra evocare chissà quali contesti esoterici, risulta più un’arguzia del giudice che altro, poiché fa parte della frase “se ciò comporta un sospetto, anzi un'ombra nera (tanto per rimanere in tema di magia, esoterismo e cose affini...)”, quando “magia, esoterismo e cose affini” erano stati del tutto esclusi dall’insieme degli elementi rilevanti. Ma soprattutto sia Mignini sia Giuttari omettono di citare altri passi significativi che la sentenza dedica all’argomento, come il seguente:

D'altra parte sul conto del medico di Perugia, che pur risulta essere stato investigato in tutti i modi e in due diverse indagini, poi riunite, non è emerso quantomeno allo stato un suo coinvolgimento con i fatti per cui è causa, al più risultando coinvolto in qualche rapporto sessuale con prostitute della zona di S. Casciano e Firenze ed essendo stato avvistato (sia pur con non pochi dubbi e non da tutte le pp.ii.ff. sentite nella lunga indagine) nella zona.
Anche qui appare un sillogismo secondo cui  […] poiché il prevenuto ha dichiarato di non aver mai conosciuto Narducci ed essendo invece quest'ultimo “legato” a San Casciano, non poteva costui non avere responsabilità gravissime negli omicidi. Tuttavia, non essendo emerso alcun serio riscontro che leghi il Narducci al gruppo degli “intellettuali”, anche tale ipotesi appare quale sospetto o indizio ma non si spinge oltre detta soglia e non può di certo costituire, quindi, conferma dell'assunto accusatorio.

Se è vero che De Luca prese atto dell’esistenza di testimoni che avevano dichiarato d’aver visto assieme Narducci e Calamandrei, “sia pur con non pochi dubbi”, e del fatto che quest’ultimo non aveva voluto confermare la frequentazione, giudicò però sbagliato ritenere ciò una prova a favore dell’accusa, poiché non era stato dimostrato il coinvolgimento di Narducci nelle vicende fiorentine. Il ragionamento sarebbe stato ripetuto dalla sentenza Micheli, ma in modo speculare. Mignini, infatti, nell’ombra nera concessa da De Luca aveva cercato sostegno alla propria tesi di un coinvolgimento di Narducci nei delitti del Mostro. Così Micheli rintuzzò il tentativo (Tizio = Calamandrei, Caio = Narducci):

Il ragionamento è: a carico di Tizio ho nulla o quasi, per dire che sia (o abbia avuto a che fare con) il “mostro di Firenze”; Tizio ha negato di aver mai conosciuto Caio, ma qualcuno sostiene che invece erano amici per la pelle; se avessi la certezza che Caio era rimasto coinvolto in quei delitti, potrei ricavarne un indizio significativo anche su Tizio. L’ultimo step non è tuttavia percorribile, perciò si ritorna da dove si era partiti, vale a dire al nulla o quasi.
A questo punto, non è corretto affermare, come fa invece il P.M. perugino, che l’inciso della motivazione su quell’ombra di sospetto valga a dimostrare ulteriormente la serietà dell’impianto accusatorio che contempla il Narducci nella posizione di Caio; perché anche a carico del Caio menzionato nell’esempio, secondo l’estensore della sentenza, c’è un nulla o quasi, a sua volta impossibile da riempire con quanto acquisito nei confronti di Tizio.

Quindi, per entrambi i giudici, poiché sia su Narducci sia su Calamandrei non erano stati trovati indizi significativi di un loro qualsivoglia coinvolgimento nei delitti del Mostro, neppure la loro eventuale reciproca conoscenza poteva qualificarsi come indizio significativo. Nondimeno appare comunque bizzarro che un personaggio aristocratico come Narducci si fosse preso la briga di frequentare Calamandrei e in generale l’ambiente di San Casciano (addirittura Vanni, Lotti, Ghiribelli e compagnia bella) senza un valido motivo. Piuttosto ci sarebbe da ragionare sull’affidabilità dei testimoni che avevano raccontato di quelle frequentazioni. Quanto credito si poteva dar loro? Davvero poco, anzi, nessuno. La maggior parte aveva riconosciuto Narducci in qualche vecchia foto, dichiarando d’averlo visto vent’anni prima, una volta o poco più, senza aver saputo chi fosse. Ma il metodo con il quale erano avvenuti tali riconoscimenti non dava alcuna garanzia. Anche dando per scontata la buona fede dei testimoni (ma per qualcuno di loro il dubbio s’impone), è ragionevole ritenere che nell’associare l’immagine di Narducci a un ricordo così lontano nel tempo doveva aver pesato più che altro il desiderio di non scontentare gli investigatori. È anche vero che con un paio di loro il personaggio si sarebbe qualificato con il proprio nome, ma vedremo quanto poco credibili furono i loro racconti.
Per il momento concentriamoci sulla testimonianza di Marzia Pellecchia, la prima (4 febbraio 2003) e di gran lunga più loquace di tre prostitute interrogate da Giuttari. Le altre due erano Angiolina Giovagnoli, frequentata in modo assiduo da Calamandrei, e Loredana Miniati. La Pellecchia dichiarò d’aver partecipato per tre volte, all’incirca nel 1982, a festini a base di sesso in una casa malmessa nelle campagne di San Casciano, presenti Vanni, Pacciani, Lotti, Gian Eugenio Jacchia, Calamandrei e Narducci, tutti riconosciuti tra le foto di un album che gli inquirenti le avevano mostrato. A introdurla nella lussuriosa combriccola sarebbe stata la Giovagnoli, presente a due degli incontri, mentre all’altro avrebbe partecipato la Miniati. Interrogata il 7 febbraio dopo aver subito una perquisizione domiciliare, la Giovagnoli ammise che Calamandrei era stato suo cliente abituale, ma affermò con decisione che i loro incontri erano sempre avvenuti a Firenze, e che lei non si era mai recata a San Casciano e non aveva mai partecipato ad alcun festino, smentendo quindi quanto affermato dalla Pellecchia.
Il giorno dopo le due donne furono messe a confronto, ma continuarono a portare avanti ognuna la propria versione, fino a quando la Giovagnoli concesse alla Pellecchia un formale beneficio del dubbio:

E quindi rimangono tutte e due sulle loro posizioni e la Giovagnoli concede alla Pellecchia solo quella frase “se lo dice lei sarà vero”, negando, però, la sua frequentazione nella casa di San Casciano insieme alla Pellecchia, tanto che concludeva: “Confermo le dichiarazioni fatte a verbale, ma le feste non me le ricordo.”

Fu sentita anche Loredana Miniati, che si mostrò risoluta nel negare ogni coinvolgimento, anche davanti alla Pellecchia con la quale fu messa a confronto.
A dire il vero i festini descritti dalla Pellecchia non sembrava avessero nulla a che fare con le cerimonie esoteriche ricercate dagli inquirenti, non contemplando né rituali satanici né uso di feticci. Neppure vi si consumavano droghe, al massimo qualche bel bicchiere di quello buono, bevuto in gruppo per scaldare l’ambiente licenzioso e danzereccio, dopodiché ognuno si ritirava nella propria stanza in allegra compagnia. In ogni caso è legittimo esprimere seri dubbi sui racconti della donna. Innanzitutto le sue colleghe l’avevano smentita, anche la Giovagnoli, il cui beneficio del dubbio sa tanto di un modo per chiuderla lì e non aver più rotture di scatole. Poi non sembra per nulla affidabile il riconoscimento dei partecipanti ai festini, tra cui assume particolare rilevanza quello di Francesco Narducci, poiché, se confermato, darebbe prova di sue frequentazioni fiorentine, non necessariamente legate alla vicenda del Mostro ma comunque allarmanti, visto il contesto. È il caso quindi di approfondire, facendo prima alcune considerazioni di principio, valide anche per molte altre testimonianze che via via dovremo esaminare.
Una semplice ricerca su Google con la frase “riconoscimento fotografico” porta a numerosi articoli giurisprudenziali che mettono in guardia sull’affidabilità di tale mezzo di prova. Ad esempio qui:

La giurisprudenza e la dottrina di common low interessate da tempo al fenomeno dell’individuazione (sia fotografica che tramite line up) e da decenni impegnate ad isolarne le criticità con lo scopo di limitarne la fallacia, hanno sottolineato come l’85% delle sentenze di condanna fondate sui riconoscimenti dei testimoni oculari siano state poi riformate in appello (Domenico Carponi Schittar, 2012) e come il riconoscimento fotografico sia uno dei mezzi di prova meno attendibili e si trovi all’ultimo posto nella scala di attendibilità probatoria dovendo trovare soltanto nelle esigenze investigative il presupposto per la loro esecuzione mirato esclusivamente alle finalità proprie della fase preliminare (V. in Giurisprudenza la Sentenza Corte di Assise di Milano n. 16/2007 del 26 novembre 2007 richiamata anche da Luisella de Cataldo Neuburger, 2008).

Riconoscere una persona in foto è spesso molto difficile anche in condizioni ottimali: avvistamento non troppo remoto e disponibilità di più scatti a colori, contemporanei all’avvistamento stesso, sia della figura intera sia del volto. L’affidabilità del riconoscimento cala in modo esponenziale via via che ci si allontana da queste condizioni, come nel caso di Marzia Pellecchia dove esse erano estremamente sfavorevoli. La donna, infatti, avrebbe visto Narducci per due volte vent’anni prima, nel 1982, e per riconoscerlo aveva avuto a disposizione soltanto due foto che sarebbe stata una gran bella fortuna se fossero risalite proprio a quell’anno.
Ma c’è di più. Prove condotte con la metodologia ben più affidabile del line up (persone in carne e ossa messe una accanto all’altra) dove mancava il soggetto da riconoscere, hanno dimostrato che addirittura nei tre quarti dei casi il testimone ne sceglie uno comunque, indirizzandosi su quello a suo giudizio più somigliante, poiché teme di deludere i propri interlocutori. Il rapporto che si crea tra testimone e interlocutore è di rilevanza enorme per i risultati della prova: più il secondo dà l’impressione d’esser sicuro che in mezzo agli individui mostrati ci sia anche quello visto dal primo, più il primo sarà portato a dare in ogni caso una risposta positiva.
Nel riconoscimento fotografico si aggiungono i possibili inquinamenti dovuti alle modalità con le quali le foto vengono sottoposte al testimone. A dire il vero esistono delle metodologie stabilite dalla legge, obbligatorie però soltanto in dibattimento e non in fase di indagini preliminari, dove vengono lasciate alla sensibilità del poliziotto o del magistrato, della quale è lecito diffidare anche nel caso di professionisti seri. Purtroppo l’ansia di aggiungere una conferma alle proprie tesi costituisce una tentazione irresistibile, per di più in un contesto dove manca qualsiasi garanzia per i sospettati, il cui avvocato non è presente. Già il giudice Ferri aveva evidenziato il problema:

Ai testi italiani, poi (ad esempio Bevilacqua e Iacovacci), sono state mostrate, a distanza di 7-9 anni dall'omicidio dei francesi, foto del Pacciani da sole e non assieme alle foto di altri individui, sì da provocare analogo sforzo di adattamento dei testi alle aspettative degli inquirenti.

Il semplice buonsenso suggerisce che per limitare i falsi riconoscimenti come minimo sarebbe opportuno inserire la foto del sospettato in mezzo a una serie di altre neutre. Ebbene, vediamo come si presentava l’album fotografico mostrato alla Pellecchia. A quanto si riesce a ricostruire dalla sentenza De Luca esso conteneva 16 foto, delle quali le prime 13 erano, in sequenza, quelle di: Pacciani, Vanni, Lotti, Faggi, Salvatore Vinci, Calamandrei, Francesco Vinci, Giulio Zucconi, Francesco Verdino (il mago Manolito), Narducci, ancora Calamandrei, ancora Narducci, Jacchia. Come si vede, in coda a sei effigi ben note di individui implicati nella vicenda erano state inserite quelle di cinque sospettati. Se Marzia Pellecchia covava l’intenzione di assecondare le aspettative degli inquirenti, come sembra del tutto pacifico, in quel modo fu messa senz’altro nelle condizioni ideali per metterla in pratica. Avrebbe sostenuto lo stesso di aver visto ai festini il personaggio corrispondente alla foto di Narducci se questa fosse stata inserita in mezzo a cinque o sei altre neutre?
Per di più di Narducci avevano già iniziato a circolare foto sulla stampa, come fa giustamente notare la sentenza Micheli:

Un’altra considerazione, che non riguarda soltanto il contributo della Pellecchia, va invece esposta a proposito della ricognizione fotografica: l’epoca dell’assunzione di informazioni è infatti successiva rispetto al clamore giornalistico (notevole in Umbria, ma non trascurabile neppure in Toscana) delle vicende connesse alla riesumazione del cadavere ed alle possibili implicazioni del gastroenterologo con i delitti del “mostro”. Dunque di foto del Narducci, sulla stampa e in TV, se n’erano viste parecchie: con la conseguenza che è lecito nutrire dubbi sul fatto che si tratti di ricognizioni assolutamente genuine.

Ad alimentare i dubbi sulla genuinità del riconoscimento c’è anche la sua evoluzione nel tempo. Dalla sentenza De Luca, dove si commenta il primo interrogatorio della Pellecchia (4 febbraio 2003) reso di fronte alla Polizia:

Poi le veniva mostrata la foto n. 8, corrispondente al Narducci, e la Pellecchia riferiva: “Sono incerta.”
E a domanda: “Incerta in che senso?”
“Incerta in dove lo posso aver visto.”
Ma lei è sicura di averlo visto?”
Sì, può anche darsi che lo abbia visto, non sono sicura però.”
“E che cosa le dice? Qual’è il ricordo?”
“Una persona di buone maniere, molto raffinata, di buona educazione.”
Poi a pag. 48 si parlava della foto n. 8. “Le sembra…”
“Potrebbe essere anche questo, però non ne sono sicura. Mi disse: sono dottore.”
Si trattava sempre del Narducci. […]
Poi si passava alla foto n. 11 (corrispondente ancora al Narducci).
“E questo l’ho visto a San Casciano.”
E a precisa domanda: “Ah. È sicura di questo?”, la Pellecchia replicava:
“Sì, sì, questo sì.”
“Se lo ricorda bene? Le disse chi era questo signore?”
“No, no.”
“Le disse che lavoro faceva?”
“No, no. Era venuto in macchina, poteva essere un industriale.”

Come si vede l’incertezza regnava sovrana. Ma tre giorni dopo la Pellecchia fu interrogata di nuovo, non è ben chiaro per quale motivo. Fatto sta che nell’occasione la sua memoria parve essersi risvegliata, poiché il personaggio che in una foto non era sicura di aver visto, e che comunque le avrebbe detto di essere un dottore, e nell’altra aveva riconosciuto ma che le era parso un industriale, diventò un “medico di Prato” con cui avrebbe consumato un amplesso “brutale”. Su di lui le vennero in mente anche molte altre informazioni, come si legge nella sentenza Micheli:

era più giovane di tutti gli altri uomini… vestiva elegantemente;… in particolare ricordo che portava una catena a maglie larghe con una medaglia; lo stesso parlava correttamente l’italiano senza inflessione particolare;… aveva un fisico sportivo, alto circa 1.80, capelli chiari… parlava più degli altri dei viaggi che aveva fatto. Lo sentii parlare della Thailandia ed anche di sport acquatici.

Si tratta di caratteristiche sorprendentemente ben compatibili con Francesco Narducci, compresa la collana a maglie larghe, i viaggi in Thailandia e gli sport acquatici. Ci sono però un paio di obbligatorie considerazioni da fare. La prima: è pensabile che dopo vent’anni e chissà quanti uomini la Pellecchia potesse ricordare particolari così precisi su una persona che aveva incontrato due volte? Proviamo pure a supporre di sì. Ma allora, se l’individuo riconosciuto per Narducci le fosse rimasto così impresso, perché non lo aveva descritto già la prima volta, anche mantenendo i dubbi sulla foto?
Appare del tutto evidente come la testimone, nei tre giorni d’intervallo tra il primo e il secondo interrogatorio, si fosse fatta in quattro per andare incontro alle aspettative di chi la doveva reinterrogare, magari dopo essere stata congedata con qualche inconsapevole suggerimento e la raccomandazione a pensarci bene su. Possibili conversazioni con amiche più informate di lei o anche la lettura di qualcuno dei numerosi articoli che già allora erano stati scritti su Narducci poteva senz'altro averla aiutata. Vale la pena accennare al fatto che il medesimo risveglio nei suoi ricordi si sarebbe manifestato anche per Gian Eugenio Jacchia, davanti alla cui foto il 4 aveva detto “anche questo mi pare, ma non son sicura, non lo so”, mentre il 7 affermò che sulla sua presenza ai festini avrebbe potuto “metterci la mano sul fuoco”, e che si trattava di “un tipo proprio strano, vizioso, nel senso di pervertito” cui “piaceva farsi toccare nelle parti intime”. Insomma, si può immaginare che quando poi a interrogarla fu la volta del PM, il 13, l’originario racconto assai fumoso si era trasformato in un insieme di fantasiose certezze.
Riguardo il riconoscimento di Calamandrei, dato per sicuro dall’accusa al futuro processo, è bene precisare che fu particolarmente nebuloso, tanto da poterlo considerare inesistente. Davanti alla prima di due foto la donna affermò che lo aveva visto, forse a San Casciano forse nell’appartamento di Firenze dove si prostituiva, ma “fosse l’anno scorso andrei sul sicuro, foto di vent’anni fa potrebbe essere, l’ho già detto”, mentre davanti alla seconda disse: “A me non mi pare di averlo visto in nessun posto”. E a domanda se il nome le dicesse qualcosa, la risposta fu: “No, non saprei […] Io non lo conosco questo Francesco Calamandrei.
Alle perplessità fin qui evidenziate se ne aggiunge un’altra riguardante la casa dove sarebbero avvenuti i festini, a parere di chi scrive decisiva per squalificare l’intera testimonianza. Dopo qualche cenno nel primo interrogatorio, nel secondo la Pellecchia l’aveva descritta con sorprendente dovizia di particolari, sia all’interno sia all’esterno, indicando nel redivivo Giovanni Faggi il probabile proprietario. Naturalmente il ritrovare quella casa avrebbe costituito uno splendido risultato per le indagini, un punto di partenza per chissà quali ulteriori sviluppi. Peccato che la teste non si ricordava affatto come arrivarci: il 26 febbraio fu scarrozzata avanti e indietro per San Casciano e dintorni, ma non fu in grado di ritrovare alcuna casa, al contrario di quanto avrebbe affermato Mignini (dalla sentenza Micheli): 

La casa nella quale si svolgevano i “festini” di cui ha parlato la PELLECCHIA è stata dalla stessa riconosciuta come quella ubicata in una zona tra San Casciano e Mercatale, contraddistinta col n. 4/a, vicina a villa CORSINI.

Nella sentenza De Luca vengono raccontate le modalità di questo presunto riconoscimento, che non appare affatto confermato:

Si tornava indietro e si proseguiva in direzione di quest'ultima, si proseguiva in direzione di San Casciano. Passato il paese, si svoltava verso Mercatale. Raggiunta la via Grevigiana, la strada sterrata, la imboccavamo, e la signora Pellecchia esclamava: “La strada per arrivare alla casa era uguale a questa". Continuando a percorrerla, siamo arrivati a due costruzioni. Qui la Pellecchia dichiarava di riconoscere la casa contraddistinta dal numero civico 4/A come molto simile alla casa dove aveva effettuato i festini a luci rosse. Inoltre esclamava: ”Lo spiazzale era questo”, riferendosi all'aia e al muretto che la delimita, ricordando che il piazzale era fatto di pietre. Si rappresenta che continuando a percorrere detta strada, questa si interrompe davanti al cancello della villa dei Corsini. 
Per meglio vedere il luogo e la casa si scendeva dall’auto e, recatasi nella parte ove la donna diceva trovarsi l’entrata, questa non vi era. Ma all’interno del porticato si è notata la presenza di una porta. Inoltre non ricordava la parte estrema della casa, che era fatta ad archi e stondata. Durante il ritorno, la Pellecchia ribadiva che sia la strada che la casa erano molto simili, però non era quella.

Serve altro per dimostrare che la donna si era inventata tutto?