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venerdì 9 febbraio 2018

Inizia la caccia a Pietro Pacciani

Dopo aver illustrato gli opinabili criteri con i quali Pietro Pacciani fu scelto come probabile Mostro (Un colpevole a qualsiasi costo), proseguiamo con il racconto delle prime indagini.
Per prepararsi al meglio al non facile compito, Ruggero Perugini trascorse un paio di mesi dell’estate 1989 nella sede FBI di Quantico, dove di serial killer ne sapevano certamente più di lui. Intanto il tempo passava, e con esso si allontanava sempre più il pericolo di altri morti mentre qualcuno era sotto accusa, se non in carcere, come era accaduto più volte negli anni passati. Debitamente potenziata con l’ingresso di nuovi elementi – tra gli altri, Pietro Frillici e Paolo Scriccia provenienti dai Carabinieri, Salvatore Sirico e in seguito Riccardo Lamperi dalla Polizia – a tutti gli effetti la SAM diventò SAP, Squadra Anti Pacciani, e la caccia per stanare il contadino mugellano ebbe inizio. È bene premettere che in questa sede si attingerà a piene mani dal libro Un uomo abbastanza normale, scritto da Perugini e pubblicato nel 1994, nel quale l’investigatore espose un resoconto delle indagini con l’evidente finalità di giustificare il proprio operato, a fronte delle numerose critiche ricevute. Si tratta di un documento tendenzioso, spesso irritante nel tentativo di apparire garantista quando nei fatti Pacciani fu braccato con metodi da inquisizione. Ma proprio per questo il libro rimane una fonte importante per comprendere bene quanto accadde durante quelle disinvolte indagini, dove la quantomeno azzardata convinzione di aver imboccato la strada giusta fece valutare ogni elemento in chiave sempre iper colpevolista.

Il fucile scomparso. Con la tattica di un pugile che si trova davanti un avversario più robusto di lui, Perugini cominciò a lavorarsi Pacciani ai fianchi. E un sabato dell’autunno 1989 andò a Mercatale a conoscerne la moglie e le figlie, nella prima di numerose altre visite. Ebbe modo così di udire dalla loro viva voce le brutte storie di violenze in famiglia che già ben conosceva, e per le quali l’uomo si trovava in carcere; in più raccolse una testimonianza interessante intorno all’esistenza di un fucile che sarebbe stato adoperato per la caccia ai fagiani. Nel 1979 Pacciani aveva richiesto inutilmente il porto d’armi, e per questo era stato costretto a cederne uno vecchio ad avancarica al cognato. Ma le figlie parlarono di un secondo, probabilmente più moderno, del quale dalle carte non risultava traccia: Pacciani lo teneva nascosto da qualche parte? Era un buon pretesto per cominciare a mettergli il sale sulla coda. Ma prima Perugini voleva conoscere meglio il suo avversario, e quindi se ne andò in giro per i vari luoghi che ne avevano visto il transito a raccogliere le chiacchiere della gente, sempre molto numerose per un personaggio così vistoso e ingombrante. All’atto pratico partivano in quel momento delle vere e proprie indagini preliminari, che però non furono formalizzate, alterandone in questo modo i limiti di durata cui il nuovo codice di procedura penale le aveva sottoposte, con un comportamento poco rispettoso dei diritti dell’indagato.
Tra gli elementi che rendevano dubbia la compatibilità di Pacciani con le imprese del Mostro uno dei maggiori era sicuramente l’infarto subito nel 1978. Ma, secondo Perugini, un vero cardiopatico non sarebbe mai riuscito a compiere le mirabolanti imprese che si era sentito descrivere dalle tante lingue lunghe.

Dagli aneddoti che ci erano stati raccontati avevamo capito che come cardiopatico il P.P. era piuttosto singolare. Per quanto ci sforzassimo, infatti, non ci veniva in mente nessun’altra persona che, reduce da un attacco cardiaco, avesse sollevato e trasportato senza sforzo apparente tronchi d’albero, macigni o persone con cui, dopo aver bevuto un bicchiere di troppo, aveva litigato.
Lui tutte queste cose le aveva fatte, almeno stando a quelli, e non erano pochi, con cui avevamo chiacchierato. Tutti d’accordo che il Vampa era fuori dalla norma, sia per la forza che per il carattere, e che era meglio non contrariarlo mai. E questi aneddoti non ne tratteggiavano unicamente lo straordinario vigore fisico e le ire imprevedibili e violente. Quello che sembrava aver colpito di più la gente che ci aveva avuto a che fare era la sua morbosa gelosia verso la moglie e le figlie, perennemente segregate, e una avarizia di proporzioni spaventose.

Il fuoco di fila contro Pacciani era dunque cominciato, tutti contro di lui. Chi aveva motivi di risentimento, ed erano in tanti, non esitava a dargli addosso. Ma quanto di vero si poteva nascondere in quelle parole? Non c’era perlomeno qualche esagerazione? Perugini pareva non porsi dubbi, preferiva credere in una specie di Ercole di paese, alto 1.65 e sovrappeso, in grado di sollevare le montagne nonostante i problemi di cuore. E non lo inquietava la descrizione di un Mostro che si sentiva inadeguato, contenuta sia nella perizia De Fazio sia nel profilo FBI, completamente incompatibile con un soggetto dotato di personalità da vendere, pronto a fronteggiare con veemenza qualsiasi avversario.
Il 7 marzo 1990, con il pretesto d’interrogarlo intorno alla vicenda del fucile scomparso, Perugini, Frillici, Scriccia e Sirico andarono a trovare Pacciani in carcere. Un ampio resoconto di quel primo importantissimo colloquio l’investigatore lo riportò nel suo libro, dal quale si evince quale grado di viscerale avversione provasse nei confronti di un personaggio che puzzava di selvatico, aveva le sopracciglia cespugliose e lo sguardo obliquo, le mani dure e raspose, e soprattutto mentiva come respirava. Per quasi sei ore Pacciani investì i suoi interlocutori con un fiume di parole, dando dimostrazione di grande capacità teatrale nel raccontare in modo molto addomesticato le vicende nere della sua vita. Della faccenda del fucile affermò di non sapere nulla, ma non era certo quello l’argomento che interessava i suoi interlocutori. Domande dirette sulla vicenda del Mostro non se ne potevano fare, visto che Pacciani non risultava ancora indagato, però Perugini gli preparò un piccolo tranello, facendogli scrivere una frase sotto dettatura nella quale compariva la parola “repubblica”. Ebbene, Pacciani la scrisse con una sola “b”, proprio come aveva fatto il Mostro nella nota lettera. Così il vicequestore commentò l’episodio, gongolando ma fingendo di minimizzare: “Certo, non vuol dire proprio niente, sono convinto che in giro c’è qualche laureato che ogni tanto si sbaglia a scriverla, però intanto è una cosa in più che sappiamo di lui”.
Tirando le somme, durante il lungo colloquio Pacciani si era comportato come avrebbe fatto sempre, negando con ostinazione ogni accusa, anche la più innocua, anche la più fondata: il modo migliore per suscitare sospetti e aggravare la propria posizione. Interlocutori meno colpevolisti avrebbero potuto trovare spiegazioni nelle sue vicende giudiziarie, negli anni di carcere che lo avevano abituato alla diffidenza, e anche in un carattere portato a negare tutto per principio, sgradevole certamente, ma di per sé non indicativo di colpe. E invece ogni passo falso – e Pacciani aveva un grande talento nell’inventarsene – non avrebbe fatto altro che accrescere il convincimento dei suoi interlocutori che dietro vi si nascondessero i delitti del Mostro. “Abbiamo avuto tutti la sensazione che in più di un’occasione lui abbia messo le mani avanti per non cadere all’indietro, ma come si fa ad affermarlo con sicurezza?”, questo fu il giudizio dei quattro funzionari alla fine di quel primo contatto, almeno secondo quanto ne avrebbe scritto Perugini.

Iniziano le perquisizioni. Nell’aprile fu messo in atto un anticipo della sequenza di perquisizioni che di lì a poco si sarebbero succedute numerose (cinque quelle tramandate, delle quali una che valeva per mille), andando a Montefiridolfi, nella colonica abitata per dieci anni da Pacciani, fino al 1981. C’è da chiedersi come si potesse sperare di trovare qualcosa dopo tanto tempo, e in effetti non si trovò nulla.
Ai primi di giugno una telefonata della figlia maggiore fece insospettire gli inquirenti: sembrava che la madre, messasi all’improvviso a difendere il marito dopo una visita in carcere, avesse iniziato a buttare o a nascondere varie sue cose, carte e altro. Temendo l’occultamento di prove, soprattutto della famigerata pistola, l’11 la SAM si presentò al gran completo a Mercatale per controllare le proprietà del sospettato. A dar manforte agli uomini di Perugini c’erano carabinieri, agenti della scientifica e addirittura personale scelto del genio militare attrezzato per la ricerca di metalli e nascondigli segreti. Intanto veniva controllata anche la cella in carcere, e consegnato un avviso di garanzia per il fucile che si sospettava Pacciani potesse detenere. È evidente però che il dispiegamento di tante risorse non poteva certo giustificarsi con la ricerca del fantomatico fucile, e quell’avviso era un “chiaro paravento per coprire e rendere possibili le vere indagini che si volevano svolgere, quelle sugli omicidi”, come avrebbe scritto senza mezzi termini Francesco Ferri. Ma alla Procura non conveniva iscrivere a registro Pacciani per la vicenda del Mostro, poiché da quel momento sarebbe partito il decorso delle indagini preliminari, in quanto tali soggette a limiti di durata che, seppur molto elastici, era meglio spostare in avanti il più possibile. In effetti si riuscì con questo espediente a guadagnare quasi un anno e mezzo.
In ogni modo, nonostante il grande sforzo, non si trovò nulla di interessante, almeno ai fini delle indagini sul Mostro. Fu comunque sequestrata varia paccottiglia, tra cui una foto di Pacciani giovane con a tracolla una machine pistol, una cartuccia di grosso calibro in uso alla NATO, due grossi bossoli da guerra, uno usato come portafiori, l’altro come soprammobile, una cartucciera vuota e altro materiale da caccia, animali imbalsamati, cinque lame assortite, riviste pornografiche, appunti, una lettera e una cartolina spedite da Calenzano, luogo di uno degli omicidi del Mostro. Furono notati ma non ancora sequestrati due oggetti che avrebbero fatto molto parlare di sé e dei quali più avanti si parlerà anche qui: un poster raffigurante un particolare della “Primavera del Botticelli” e il famoso quadro “Un sogno di fatascenza”, firmato da Pacciani, che fu prelevato temporaneamente e fotografato con l’idea di farlo esaminare da un esperto.
Fu rintracciato il mittente della corrispondenza da Calenzano, Giovanni Faggi, la cui abitazione fu immediatamente perquisita (30 giugno) con il ritrovamento di falli artificiali, riviste pornografiche e appunti con tracce di contatti con Pacciani, una conoscenza che il pover’uomo avrebbe pagato molto cara. I bossoli e la cartuccia NATO fornirono invece il pretesto per andare avanti con le indagini – denuncia per detenzione di materiale da guerra – attraverso le quali si sarebbe potuto continuare a stare addosso al sospettato. E infatti il 6 luglio Perugini e Frillici tornarono a interrogarlo, questa volta in presenza del suo avvocato. Con loro Vigna e Canessa. Gli argomenti della conversazione riguardarono principalmente le armi, per i materiali da guerra e da caccia sequestrati, per alcuni disegni di pistola trovati nella sua cella, per le voci che lo davano bracconiere, e per il fucile che le figlie avevano detto di aver visto, ma, cercando di non metterlo troppo in allarme, il contadino fu sondato anche per altro. Gli fu chiesto, ad esempio, se avesse mai rivisto Miranda Bugli una volta uscito dal carcere, e lui negò; chissà perché, si chiese Perugini, il quale mesi prima era venuto a conoscenza di un incontro, risalente al 1969-1970, dalla viva voce della donna stessa.
In quel periodo furono convocati in Questura molti conoscenti di Pacciani, tra i quali due che lo avevano accompagnato in pomeriggi e serate trascorse per osterie, entrambi futuri “Compagni di merende”: Giancarlo Lotti e Mario Vanni. Il primo riuscì a defilarsi, dichiarando una frequentazione saltuaria e una conoscenza superficiale, tanto da non esser più sentito per quattro anni né convocato al processo. Il secondo invece fu preso di mira, la sua casa perquisita, e di lì in avanti tenuto sotto continua pressione fino a costringerlo a farsi assistere da un avvocato. Tenga bene a mente il lettore il diverso destino dei due personaggi, entrambi ignoranti ed emarginati ma dotati di ben differenti livelli di scaltrezza.

Il primo memoriale. A settembre Pacciani consegnò un documento di quindici pagine scritte a stampatello, primo dei numerosi “memoriali” che si sarebbero succeduti negli anni. Era stato lo stesso Perugini, durante il loro primo colloquio, a chiedergli di mettere per iscritto le sue passate esperienze lavorative, e lui era caduto nel tranello. Poiché di tranello si trattava, un modo per farlo scoprire leggendo tra le righe anche quanto non aveva scritto. Nel maldestro tentativo di difendersi da una morsa sempre più tenace – ormai sapeva bene che in lui si vedeva il Mostro, era anche uscito un articolo su “La Repubblica” – l’uomo ottenne soltanto l’effetto di alimentare i sospetti, cercando di passare per l’agnelluccio innocente che non era. Questo trafiletto sui malevoli pensieri di Perugini parla da solo:

[…] mi sono letto questo documento con estrema attenzione […] fin dalle prime righe ho capito che era importante, innanzitutto perché il Vampa batte e ribatte che lui i giornali non li legge. Su questo punto sembra avere proprio la coda di paglia. Come se ammettere di comprare e leggersi ogni tanto un giornale fosse una qualche ammissione di colpevolezza. Però non si tratta solo di questo. In quelle pagine mi conferma che molti anni prima ha lavorato per qualche giorno anche in una ditta di Calenzano, fatto senza dubbio interessante.
Ma ciò che soprattutto mi affascina sono le sue opinioni su “questo maledetto mostro assassino che à fatto la strage degli innocenti… speriamo che muoia schiacciato come una bistecca e rattarpito come un rospo sotto a una macchina…”. Me le rileggo e una, in particolare, mi trova perfettamente d’accordo: “… e che, c’era bisogno di essere tiratore scelto, come anno detto tutti i giornali, per aver fatto quello che a fatto lui? Pure un bambino non poteva sbagliare per colpire…”.
Io ne sono convinto, ma lui come fa ad esserne così sicuro? E, soprattutto, che ne sa lui “dell’omicidio avvenuto a Scopeti, o Chiesa Nuova, che avvenne di domenica sera…”. È vero questo, ma com’è che lui conosce la data della morte dei due francesi? E chi glielo ha chiesto l’alibi per quel giorno?

Dunque, secondo Perugini leggere i giornali non è un’ammissione di colpevolezza, mentre negare di leggerli lo sarebbe, come anche aver lavorato per qualche giorno vicino al luogo di un delitto. Vale la pena precisare che a Calenzano Pacciani fu accompagnato dal proprio datore di lavoro dell’epoca per dipingere un capannone annerito dal fumo di un incendio, e soprattutto che il fatto avvenne almeno un anno dopo l’uccisione di Susanna Cambi e Stefano Baldi!
Riguardo le opinioni sulla capacità del Mostro con in mano la pistola, non si capisce perché sarebbe strano ritenere che non ci fosse bisogno di un tiratore scelto, una pura ovvietà, data la vicinanza dei bersagli. E nello stupirsi per l’alibi non richiesto riportato per il delitto dei francesi, del quale quindi Pacciani dimostrò di conoscere la data ufficiale, Perugini sembra dimenticare che il soggetto aveva già dovuto discolparsi all’epoca davanti ai carabinieri che erano andati a trovarlo in seguito alla lettera anonima, quindi era ben a conoscenza della data di morte dei due poveretti.
È chiaro che di fronte a un investigatore così colpevolista, Pacciani non aveva scampo:

non c’è nulla, proprio nulla che ci dica che lui non è, che non può essere, il mostro. C’è invece una serie di elementi che, senza provare niente, ci invitano ad approfondire, approfondire, approfondire.[…]
La vita di quest’uomo non ha più segreti per noi tranne, forse, uno […]. Queste indagini sono quadri che vanno dipinti con un pennello morbido e lungo, da affondare in tanti barattoli. Ormai ne stiamo raschiando il fondo. Ma i colori che ne vengono fuori sono sempre e solo quelli: violenza, dissimulazione, crudeltà, sessualità malata. Lo sappiamo bene, lo abbiamo fatto altre volte e le tinte erano sempre le stesse. Ma in nessun altro caso si combinavano così perfettamente tra loro.
La personalità del Vampa si sovrappone in modo quasi incredibile all’identikit psicologico del mio mostro. Anche nelle minime sfumature.

Perugini sembra non si ponesse il dubbio se non era avvenuto piuttosto il contrario: magari era stato il suo mostro a essere nato come fotocopia del Vampa. In ogni modo, al di là dei percorsi psicologici più o meno inconsci, non c’era al momento uno straccio di prova che potesse confermare le impressioni dell’investigatore. Per vederne qualcuna, anche se risibile, sarebbe dovuto passare ancora molto tempo.
Il 27 novembre Pacciani fu di nuovo interrogato in presenza di Vigna. Finalmente gli inquirenti parlarono chiaro, avvertendolo che sì, ufficialmente era indagato per la faccenda del fucile e di eventuali altre armi nascoste, ma la sua posizione interessava anche per i fatti del Mostro, e che pertanto gli sarebbero state rivolte domande sull’argomento. Si affrontò tra l’altro il tema del suo alibi per Scopeti, che venne riproposto più o meno identico: un pomeriggio e una serata trascorsi con la famiglia alla festa dell’Unità di Cerbaia.
Il 5 gennaio del 1991 Perugini tornò a trovarlo per notificargli la proroga delle indagini preliminari riguardo il fucile scomparso, cogliendo l’occasione per convincersi ancora di più del mentitore che aveva davanti. Ma lui stesso non era da meno, se è vero come è vero che quella delle indagini per il fucile era soltanto un’ipocrita copertura, e quindi stava giocando sporco.

Indagato ufficialmente. Nei mesi successivi gli investigatori andarono in giro a raccogliere altre testimonianze. Iniziarono a spuntar fuori come funghi individui che avevano visto Pacciani andare per boschi con l’aria del guardone, altri che avevano sentito di pistole, altri ancora che avevano ascoltato le sue vanterie amatorie. Tra di loro alcuni sarebbero stati convocati al futuro processo. Nessuno tra gli investigatori si domandò come aveva fatto un personaggio così chiassoso e osservato a tenere nascosta la sua identità di serial killer per ben 17 anni!
Intanto il cappio al collo di Pacciani si stava stringendo sempre di più. Dopo aver letto un rapporto sullo stato delle indagini, l’11 luglio 1991 il procuratore Vigna lo andò a trovare in carcere. Oramai si giocava a carte scoperte, le domande sulle vicende del Mostro fioccavano, ma Pacciani negava ostinatamente qualsiasi addebito, mentre nei suoi interlocutori aumentava sempre più la convinzione di aver azzeccato la persona giusta: la presunzione di colpevolezza, peccato originale dell’intera indagine, continuava a operare con i suoi malefici effetti.
Finalmente il 24 ottobre la Procura fece quello che avrebbe dovuto fare da almeno due anni, iscrivendo il nome del contadino mugellano nel registro degli indagati per i delitti del Mostro. Qualche giorno dopo i giornali riportarono la notizia, alcuni mettendola in grande evidenza, altri snobbandola. Tra i primi si distinsero naturalmente i giornali di Firenze, “La Città” e “La Nazione”, alla quale ultima Pacciani scrisse una lettera di protesta riportata poi integralmente. In genere comunque prevalse un generale scetticismo, ad esempio su “La Repubblica” del 31 ottobre:

Di "falsi mostri" ce ne sono stati sin troppi e la gente accoglie gli sviluppi delle indagini con prudenza. È uno stato d'animo che si coglie appieno a Mercatale Val di Pesa, il paese nel quale Pietro Pacciani viveva con la famiglia dal 1980. È un piccolo centro, di appena 2500 abitanti. Tutti si conoscono, tutti conoscono Pacciani. Molti lo giudicano un tipo "strano", "fatto a modo suo". Qualcuno lo definisce un "violento". Nessuno crede che possa essere il misterioso assassino. Non lo credono neppure le figlie, che per anni hanno subito le sue violenze. "Mio padre ci trattava come schiave - racconta Rosanna, la primogenita, che ha 25 anni - molte volte ci ha minacciate con coltelli, pennati, falci. È fissato col sesso. Ma non può essere il mostro. Io lo conosco bene, non può essere lui".

Dunque neppure le figlie che lo odiavano per quanto aveva fatto loro ritenevano potesse essere il Mostro; e sarebbe stato veramente difficile che alle donne di casa fosse sfuggita totalmente questa seconda identità del congiunto, del quale conoscevano tutte le perversioni. Ma Perugini e la Procura non avevano dubbi e tirarono dritto, iniziando a prepararsi per la fase successiva. Grazie alla buona condotta, la fine della detenzione, infatti, era imminente, quindi urgeva prepararsi al meglio per tenere l’individuo sotto controllo ventiquattr’ore al giorno. “Di uno che è indagato per una serie di omicidi maniacali, dal momento in cui torna in libertà, non puoi permetterti di ignorare neanche quando sbadiglia”, scrisse con ipocrisia Perugini, il quale naturalmente non si aspettava affatto nuovi omicidi da un vecchio malandato oramai al centro dell’attenzione, e neppure che usasse sulle figlie il fantomatico fucile, come pure si tentò di paventare. Piuttosto si sperava che il sospettato avrebbe finito per tradirsi, fornendo agli investigatori qualche elemento, se non addirittura conducendoli alla madre di tutte le prove, la famigerata Beretta calibro 22.
In quel momento gli inquirenti non disponevano neppure di un indizio, avevano soltanto un teorema in testa, eppure i controlli furono preparati con enorme dispiego di forze, in una imprudente scommessa sulla bontà delle loro convinzioni; è inevitabile domandarsi se a quel punto quella scommessa avrebbero potuto permettersi di perderla. L’abitazione di via Sonnino, dove Pacciani sarebbe andato ad abitare, fu riempita di microspie. In più fu predisposta un’agguerrita task force di agenti che aveva il compito di osservarlo e pedinarlo senza darglielo a vedere, composta da tre finte studentesse alloggiate in un appartamento vicino con tanto di fidanzati e parenti che andavano a trovarle, in realtà colleghi addetti alle intercettazioni ambientali e telefoniche.
Temendo che Pacciani, appena rimesso piede a Mercatale, potesse occultare delle prove, gli inquirenti cercarono di anticiparlo, e tre giorni prima della scarcerazione, il 3 dicembre, tornarono a perquisire le sue proprietà. Non fu trovato nulla, ma quel nulla parve comunque interessante: un binocolo, un’agendina con segnato il chilometraggio Mercatale-Vicchio, una torcia elettrica, un assegno pubblicitario con un numero di targa e la parola “coppia”, un foglietto con indirizzo e telefono di Giovanni Faggi, e infine, nel bagagliaio dell’auto, una vecchia rivista dell’estate 1968, aperta a un articolo intitolato “Le inquietudini dei fidanzati” nel quale veniva trattato anche il delitto di Signa.
Il 6 dicembre 1991 Pacciani si presentò all’uscita del carcere di Sollicciano con sottobraccio due borse piene di cianfrusaglie. La SAM lo perquisì sequestrandogli oggetti di nessun peso, tra i quali si può citare, a puro titolo di esempio, l’immagine di una donna, neppure nuda, alla quale erano stati evidenziati seni e pube con una penna: quale reperto sospetto in mano a un uomo che da quattro anni non toccava una donna, quale indizio forte di compatibilità con il fantomatico Mostro di Firenze che si portava via proprio quelle parti!
Nella sua casa di via Sonnino, assieme alla moglie che aveva voluto rimanergli accanto, Pacciani si mise a fare la vita del pensionato, rimanendo quasi sempre in casa. È inevitabile ritenere che si sentisse osservato, anche perché scoprì subito una delle microspie, la cui funzione gli fu spiegata da un elettricista cui la fece vedere. Intanto i giorni passavano, senza che né i pedinamenti, né le intercettazioni ambientali e telefoniche rivelassero alcunché di significativo. L’astuto poliziotto cercò allora di stuzzicare il furbo contadino. A conoscenza del fatto che Pacciani si era appena comprato un televisore, il 4 febbraio 1992 Perugini partecipò a una trasmissione pomeridiana sulle vicende del Mostro, durante la quale lanciò il famoso appello al formalmente “ignoto” assassino; in realtà stava parlando proprio con Pacciani. Per un minuto e venti di primo piano, l’espressione intensa di chi davvero crede a quello che sta dicendo, l’investigatore pronunciò queste parole:

Io non so perché, ma ho la sensazione che tu in questo momento mi stia guardando e allora ascolta. La gente qui ti chiama mostro, maniaco, belva ma in questi anni credo di aver imparato a conoscerti, forse anche a capirti e so che tu sei soltanto il povero schiavo in realtà di un incubo di tanti anni fa che ti domina, ma tu non sei pazzo come la gente dice, la tua fantasia, i tuoi sogni ti hanno preso la mano e governano il tuo agire.
So anche che in questo momento probabilmente ogni tanto cerchi di combatterli, vorremmo che tu credessi che noi vogliamo aiutarti a farlo. Io so che il passato ti ha insegnato il sospetto, la diffidenza, ma in questo momento non ti sto mentendo e non ti mentirò neanche dopo se e quando ti deciderai a liberarti di questo mostro che ti tiranneggia.
Tu sai come, quando e dove trovarmi, io aspetterò.


Vista adesso, la scena appare un po’ ridicola, complici sia l’errore del nome in sovrimpressione – Renzo, preso in prestito da Renzo Rontini, padre di Pia, anche lui presente in trasmissione – sia e soprattutto per la figura di un bambino sullo sfondo che sorrideva divertito, sciupando la ricercata atmosfera di artificiosa drammaticità. Possiamo di sicuro ipotizzare che la speranza di Perugini non fosse certo quella di indurre Pacciani alla confessione, aveva già provato senza il minimo successo, piuttosto sperava che davanti allo schermo gli potesse sfuggire qualche frase compromettente. Ma le microspie restituirono soltanto la normale reazione di un uomo preoccupato per il suo incerto destino.

4 commenti:

  1. Durante un'intervista Nino Marazzita, uno dei difensori di Pacciani, mentre racconta uno scivolone dell'accusa a riguardo dell'altezza di Pacciani, afferma che il contadino era alto 1,60cm, 1.61 ai tempi del servizio militare (come documentato dal foglio matricolare).
    L'altezza riportata nell'articolo, 1,65, proviene da qualche fonte più affidabile? Non è un particolare di poca importanza dato che, se Marazzita non si è sbagliato, la differenza tra Pacciani e il mostro arriverebbe a una ventina di centimetri.

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  2. leggi qui http://insufficienzadiprove.blogspot.it/2011/09/carlo-fazzari-brunetto-chiarelli-mario.html
    In ogni caso mi pare che cambi poco, il Mostro era circa 1 e 80, come risulta dall'altezza dei fori sul pulmino dei tedeschi.

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  3. Come lei sa bene, l'altezza superiore a 1,80 dello sparatore a Giogoli fu stabilita dai periti di Modena partendo dal presupposto che i corpi dei due poveri tedeschi fossero poggiati sul pavimento del furgone e che le traiettorie di sparo fossero inclinate dall'alto verso il basso, ignorando la presenza del pianale sopraelevato e del materasso di gommapiuma ivi collocato. Sia Ognibene che Ferri sottolinearono l'errore e l'impossibilità di stabilire su queste basi l'altezza dello sparatore. I due giudici erano convergenti su questo punto.

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    1. Con la valutazione dell'altezza dello sparatore di Giogoli l'equipe De Fazio prese una cantonata abissale, come ho ben spiegato qui

      http://quattrocosesulmostro.blogspot.com/2017/06/la-dinamica-di-giogoli.html

      La questione del pianale fu poi l'occasione per una pessima figura, poichè i consulenti sapevano benissimo fin dall'inizio come stavano le cose. Fecero buon viso a cattiva sorte quando dovettero fronteggiare il colpevole a tutti i costi che aveva scelto la Procura, e non soltanto per la questione dell'altezza.
      In ogni caso, nonostante il metodo del tutto sbagliato riportato nella loro perizia, i consulenti fecero una valutazione corretta, poichè lo sparatore di Giogoli era davvero alto circa un metro e ottanta. La mia semplice prova, la cui correttezza mi è stata confermata da un ex militare, porta a calcolare un valore alla spalla di circa un metro e mezzo. Si metta di fronte a una finestra e provi anche lei, mettendosi nei panni del Mostro che cerca di inquadrare un bersaglio sottostante. Vedrà che la sua posizione influirà non sull'altezza della canna della pistola ma soltanto sull'alzo del gomito.
      Se poi vuole discutere dell'argomento, è il caso di trasferirsi su quell'articolo.

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