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domenica 23 ottobre 2016

La dinamica di Scandicci

In questo articolo si cercherà di ricostruire la dinamica del delitto di Scandicci, avvenuto sabato 6 giugno 1981 con vittime Carmela De Nuccio e Giovanni Foggi. Al contrario di quella del delitto di Borgo San Lorenzo, non esistono elementi oscuri o controversi, come non esiste una perizia da confutare. Le azioni compiute dall’assassino risultano chiare, anche perché, lo vedremo, il suo rapporto con la vittima femminile fu lineare e freddissimo.
La coppia era uscita verso le 22, dopo una cena a casa di Carmela. L’accordo con i suoi severi genitori era quello di rientrare entro un’ora e mezza al massimo. I ragazzi, che si frequentavano da poco tempo, avevano detto loro che sarebbero andati a mangiare un gelato; in realtà si recarono immediatamente nel posto dove sarebbero stati uccisi.
I corpi furono rinvenuti per caso la mattina dopo da un brigadiere di Polizia, Vittorio Sifone, il quale andò subito a chiamare i suoi colleghi, che a quanto sembra non preservarono troppo la scena del crimine in attesa dell’arrivo della Scientifica.



 
La Fiat Ritmo di Giovanni era parcheggiata a lato di una strada di campagna, poco addentro a un campo di ulivi sul fianco di una collina, con i quattro sportelli chiusi dei quali i posteriori bloccati dall’interno e gli anteriori no. Il vetro del finestrino del guidatore era infranto. Sul sedile di guida, dalla spalliera solo leggermente reclinata, giaceva il ragazzo con indosso una camicia, gli slip e un paio di jeans sfilati soltanto dalla gamba sinistra. Il sedile del passeggero era macchiato di sangue e vuoto, la spalliera reclinata a metà. Fuori, nei pressi dello sportello di guida, c’era la borsetta di Carmela con il contenuto sparso a terra (almeno così fu trovata dalla Scientifica).


La ragazza giaceva dal lato opposto della strada, in posizione più bassa, a circa 12 metri dal fidanzato. Le mancavano le scarpe, ritrovate nell’auto, per il resto era completamente vestita, jeans e camicetta. All’altezza del pube i pantaloni erano stati tagliati per operare la tristemente nota mutilazione. Particolare che avrebbe ingenerato sorprendenti supposizioni: la catenina le era salita fin sulle labbra.

Bossoli, proiettili e ferite. In totale furono recuperati sette bossoli calibro 22, quattro sul terreno a sinistra dell'auto, poco prima della ruota posteriore a distanza tra i 75 e i 90 centimetri dal centro della  stessa, e tre all’interno, due sul tappetino e uno sul divanetto posteriori. Secondo la perizia De Fazio i proiettili repertati furono sei, tre estratti dal corpo di Giovanni, uno da quello di Carmela, uno dalla spalliera anteriore destra e uno raccolto dal tappetino posteriore destro. La perizia Arcese-Iadevito elenca invece tre proiettili e otto frammenti; senza addentrarsi troppo nel confronto va comunque detto, a dimostrazione della solita poca affidabilità delle fonti, che non vi compare il proiettile raccolto dal tappetino.


Giovanni era stato colpito in regione occipitale da due proiettili (1-2), entrambi ritenuti, uno soltanto dei quali aveva attraversato le ossa del cranio, e per questo mortale. Un terzo proiettile (6), anch’esso ritenuto e anch’esso mortale, era penetrato nel torace con un colpo che aveva lasciato tracce di affumicatura sul foro d’entrata, quindi sparato quasi a contatto.
Il ragazzo aveva inoltre ricevuto tre coltellate, due al collo sul lato sinistro e una al torace, poco sopra il capezzolo sinistro. Le tre ferite, poco sanguinanti, erano state inferte post mortem.


Carmela aveva due ferite agli arti superiori: una all’avambraccio destro (3), con entrata al polso interno e uscita verso il gomito esterno (per De Fazio la direzione sarebbe stata però contraria), una all’avambraccio sinistro in prossimità del gomito (4), con entrata sulla parte esterna e uscita sulla parte interna. Vedremo che questo secondo proiettile aveva anche prodotto una ferita di striscio al mento. Un terzo proiettile (5), mortale, aveva attraversato il collo da sinistra a destra, lesionando irrimediabilmente la colonna vertebrale. Infine un quarto proiettile (7), ritenuto e mortale, era entrato sotto la scapola sinistra. Tracce di affumicatura sulla camicetta indicavano una posizione della canna quasi a contatto.
Nessuna ferita di coltello era stata inferta a Carmela, a parte la mutilazione del pube.

L’attacco. C’è chi ritiene che Carmela e Giovanni, al momento dell’aggressione, avessero già fatto l’amore e quindi stessero rivestendosi. Il motivo fondamentale sarebbe il lungo lasso di tempo, due ore, tra il momento in cui uscirono e quello in cui i risultati dell’autopsia collocarono il decesso, mezzanotte. Ma quei risultati non potevano avere una tale precisione, e nessun altro elemento confermava quell’orario, poiché nessun testimone aveva visto i ragazzi in giro e non erano stati uditi colpi di pistola. Nessuna traccia di liquido seminale fu riscontrata addosso ai cadaveri, e la bustina vuota di un profilattico recuperata dal pavimento dell’auto poteva risalire a chissà quanto tempo prima (in effetti nessun profilattico risulta repertato). Anche il fatto che la ragazza fosse completamente vestita, a parte le scarpe, e il ragazzo già quasi privo di pantaloni fa presumere l’imminente inizio di un rapporto sessuale, più che la fine, poiché di solito è sempre il maschio a spogliarsi più in fretta e soprattutto a rivestirsi più in fretta.
L’aggressore doveva essere già molto vicino al posto, quando la coppia parcheggiò la propria Ritmo. Forse aspettava proprio loro, che altri sabati si erano appartati lì, forse contava di sorprendere una coppia qualsiasi in una zona adatta alla ricerca di intimità. In ogni caso si accorse dell’arrivo dei ragazzi, si avvicinò e li aggredì quasi subito, quando avevano appena iniziato a spogliarsi a luce accesa.

 
Come a Borgo attaccò dalla parte sinistra, ancora una volta con due colpi in rapida successione a cercare il capo del ragazzo. Il primo sparo infranse il vetro e colpì di sorpresa Giovanni alla nuca, mentre era voltato un po’ verso destra nell’atto di sfilarsi la seconda gamba dei pantaloni. Frenato dall’impatto con il vetro, il proiettile non ebbe la forza di attraversare la parete ossea del cranio e non fu mortale, ma subito dopo, più o meno nella stessa zona, ne arrivò un altro, questa volta penetrante con effetti letali.

 
Dopo aver liberato il finestrino da qualche frammento di vetro, l’aggressore rivolse l’arma contro Carmela, sparando ancora due colpi da fuori, ma la distanza maggiore e soprattutto i movimenti di reazione della vittima gli impedirono di essere altrettanto preciso. Il primo fu quello che la ferì all’avambraccio destro, in quel momento alzato e posto più o meno con l’asse maggiore lungo la linea di tiro. Il proiettile entrò alla base del polso, uscì in prossimità del gomito e attraversò il sedile, impattando infine contro la parete dell’auto. Va precisato che Carmela doveva essersi addossata al compagno molto più che l’attrice in foto, altrimenti il proiettile in uscita non sarebbe potuto entrare nella spalliera.


Per reazione Carmela dovette ruotare un po’ verso la sua destra, continuando a proteggersi il volto con il braccio sinistro alzato. Il secondo proiettile la colpì all’avambraccio sinistro, uscì, le sfiorò il mento e finì la sua corsa dentro la spalliera del sedile, verso la sua sommità (anche in questo caso l’attrice avrebbe dovuto essere più vicina al ragazzo). Il corrispondente foro nella fodera presentava tracce di sostanza ematica e capelli, che il proiettile evidentemente si era portato dietro.
A questi primi quattro colpi esplosi con l’arma fuori dal finestrino corrispondono i quattro bossoli trovati sul terreno.


A quel punto Giovanni giaceva immobile, mentre Carmela, sopraffatta dal dolore e dal terrore, si era lasciata cadere sul sedile semi reclinato, quasi sul fianco destro, urlando o almeno lamentandosi. Per esser sicuro di ucciderla, l’aggressore decise di avvicinarsi ulteriormente, mise la mano dentro l’abitacolo e le sparò un colpo cercando la testa. Con mira non proprio perfetta la colpì invece al collo; il proiettile, passante, incontrò una vertebra lesionando il midollo e paralizzandola immediatamente. Il bossolo fu uno dei tre trovati all’interno.


La foto sopra ci mostra gli effetti dell’impatto del proiettile contro la portiera posteriore destra, con l’evidenza del materiale ematico che vi era schizzato sopra. Tra questo proiettile e l’altro che aveva attraversato la spalliera ne fu recuperato soltanto uno dal tappetino posteriore destro.


Con entrambe le vittime ormai neutralizzate l’assassino fece una breve pausa, durante la quale si guardò intorno e pensò al da farsi. Gli erano rimasti ancora quattro colpi; decise di usarne due per esser sicuro della morte dei poveretti. Attraverso il finestrino infranto sbloccò lo sportello di guida, aprì e sparò un colpo al torace di Giovanni, con l’arma a contatto o quasi.


Poi si sporse ancora e raggiunse il corpo di Carmela, che dopo il colpo al collo si trovava un po’ sul fianco destro con la spalla sinistra rialzata. Cercando il cuore, le sparò sotto la scapola.
Entrambi i proiettili furono ritenuti, ed entrambi i bossoli finirono dentro l’abitacolo.


Infine, per maggior sicurezza e anche per smaltire l’adrenalina, ripose la pistola e mise mano al coltello vibrando tre fendenti a Giovanni, due al collo e uno al torace.

Lo spostamento di Carmela. Raggiunta la sicurezza che i due poveretti erano ormai deceduti, l'assassino iniziò a preoccuparsi della fase successiva, nella quale doveva mettere le mani sul corpo di Carmela. A questo scopo si sporse verso lo sportello del passeggero sbloccandolo, spense la luce interna e infine uscì dall’abitacolo richiudendo lo sportello di guida. Se fu lui a tirar fuori la borsetta, lo fece in questa occasione. È presumibile che a questo punto avesse fatto una pausa per guardarsi intorno e raccogliere le idee. Doveva portare a termine un'operazione molto delicata, durante la quale si sarebbe esposto al pericolo d'esser visto. Quindi dovette accertarsi dell’assenza di estranei in arrivo e scegliere un posto dove depositare il cadavere.


Il terreno sul quale l'assassino si trovava a dover operare era in pendenza, molto esposto al possibile passaggio di altre coppiette in cerca d’intimità. Qualche metro più in basso correvano due strade che s’incrociavano, e quindi gli sarebbe servito a poco nascondersi dietro la Ritmo, dall’una o dall’altra parte i fari delle eventuali auto in transito avrebbero illuminato la scena. D’altra parte anche i radi ulivi lo potevano aiutare ben poco, quindi non gli rimaneva che allontanarsi alla ricerca di un posto più riparato. Una volta effettuata la sua scelta, tornò all'auto, spalancò la portiera del passeggero, estrasse il corpo di Carmela e richiuse (come già aveva fatto con la portiera di guida, dimostrando quindi prudenza e freddezza assieme).


Come si vede nell’immagine sopra, l'individuo trasportò il corpo oltre la strada più in basso. A questo scopo dovette compiere un tragitto di circa 12 metri, probabilmente tenendo Carmela sollevata da terra, anche se i dati disponibili sono contrastanti. Al processo Pacciani (vedi), durante il controinterrogatorio della difesa, il brigadiere Sifone raccontò di aver visto evidenti tracce di trascinamento.

Bevacqua: C'erano tracce di trascinamento di questo cadavere?
Sifone: C'era dalla macchina al luogo dov'era posta la ragazza.[...] C'era l'erba accanto, sulla scarpata piccola che fiancheggiava l'autovettura, c'era l'erba alta di circa 40/50 centimetri, non voglio esagerare.
Bevacqua: Era piegata.
Sifone: Era schiacciata dalla parte dell'autovettura verso il luogo dove si trovava la ragazza poi ancora sulla strada del contadino, che c'è la ghiaia, presentava dei segni dov'era stata trascinata probabilmente la ragazza. Poi ancora l'erba sull'altro pezzettino di strada residuale era pure schiacciata verso il luogo dove si trovava la ragazza.

Però quel trascinamento non aveva lasciato alcun segno particolare sul corpo, tanto da far ritenere a Giovanni Autorino della Scientifica, e non solo a lui, che fosse stato sollevato (vedi).

PM: Allora, veniamo a qualche domanda. Fra l'auto e il posto dove era la ragazza apprezzate segni di trascinamento?
Autorino: [...] Abbiamo fatto un'ispezione intorno perché rientra, diciamo, tra quella che è la nostra attività, però se debbo dirle che lì io ho visto segni di trascinamento, purtroppo no. Posso dire un'altra cosa quasi in fine, in coda al sopralluogo, abbiamo voluto verificare sotto i talloni della ragazza se vi erano tracce. [...]
Abbiamo guardato anche il fondo dei pantaloni per vedere se nel trascinamento si fosse imbrattato di terriccio; e stessa osservazione l'abbiamo rivolta alla parte posteriore del tronco e dei capelli. Sì, è vero che c'erano delle pagliucole e cose del genere, ma questo poteva essere dovuto alla caduta nel piccolo precipizio che stava lì oltre la strada.
PM: Quindi su questi talloni segni evidenti di trascinamento non ci sono.
Autorino: Assolutamente, perché fra l'altro l'abbiamo guardato con quelli di medicina legale, perciò...
PM: Il suo collega invece ha detto che era rimasto impressionato dall'erba abbassata. Lei questo dato non l'ha apprezzato?
Autorino: Non l'abbiamo apprezzato e penso che, poi sul posto c'era il dottor Izzo, seppure ne avesse sentito lui prima di noi, sicuramente ce lo avrebbe fatto notare, ecco.

Autorino e colleghi erano giunti con ritardo sul posto rispetto a Sifone, quindi è senz'altro possibile che al loro arrivo i segni di trascinamento sul terreno si fossero ridimensionati, sia per l'erba tornata in posizione, sia per il maldestro calpestio di poliziotti e carabinieri. Sembra strano però che di quel lungo trascinamento tra erba e terriccio non fosse rimasta traccia alcuna sul corpo di Carmela.


Le perplessità aumentano di fronte alla foto in cui si vede la collana tra le labbra della ragazza. Si tratta di una posizione non conseguente a un trascinamento, ma al collo penzoloni, probabilmente mentre l'assassino si era caricato il corpo sopra una spalla. Quindi doveva trattarsi di un individuo piuttosto robusto, come già aveva ipotizzato l'equipe De Fazio:

Il corpo della ragazza ormai esamine è stato asportato dall'auto e trasportato, più che non trascinato a 10-12 metri di distanza dall'auto, e di qui sospinto o trasportato in un infossamento del terreno: la manovra [...] denota di per sè una certa forza e robustezza da parte dell'omicida [...]


In ogni caso lo sforzo fu premiato dal raggiungimento di una posizione ben riparata rispetto alle strade sovrastanti, come ben mostra la foto sopra. La luce dei fari e il rumore del motore avrebbero avvertito per tempo l’assassino dell’arrivo di un’auto, consentendogli di acquattarsi e spegnere la luce della torcia che doveva aver piazzato a terra mentre stava effettuando la tristemente nota operazione del taglio del pube.

La borsetta. Uno dei primi elementi che insospettì Vittorio Sifone, almeno da quanto lui stesso avrebbe dichiarato al processo Pacciani, fu una borsetta giacente a terra, davanti allo sportello di guida. Si trattava della borsetta di paglia di Carmela. I documenti ci riportano che il contenuto – un mazzo di chiavi, la carta d’identità, oggetti per il trucco, due biglietti del bus – era sparso all’intorno, tanto da far ritenere a tutti i commentatori che fosse stato l’assassino, in cerca di qualche souvenir, a rovesciarvelo. Ma si può esser proprio sicuri di questo? Non troppo.
Va innanzitutto preso atto di tre elementi. Il primo: le cronache non ci riportano di alcun oggetto mancante. Il secondo: l’assassino non prese la collanina rimasta appoggiata alle labbra di Carmela, un souvenir che difficilmente avrebbe potuto essere migliore. Il terzo: in tutti i delitti successivi la borsetta, dove c’era, sarebbe stata comunque lasciata al suo posto (Calenzano, Baccaiano, Vicchio).
Sifone e colleghi rimasero per un po’ a presidiare la scena del crimine prima dell’arrivo dei rinforzi. In quel frangente si accertarono dell’identità delle vittime recuperando i loro documenti, e inevitabilmente inquinarono almeno un po’ la scena del crimine. La carta di Carmela da dove l’avevano presa? Era già a terra oppure l’avevano recuperata dalla borsetta e a terra l’avevano poi lasciata loro, magari assieme ad altri oggetti anch’essi tolti? La domanda è legittima, anche perché al processo Pacciani la deposizione del poliziotto (vedi) lasciò qualche dubbio.
Cominciamo col dire che, descrivendo le circostanze della scoperta del delitto, il teste affermò senza incertezze di aver trovato la borsetta a terra.

Sifone: Fatti alcuni passi ancora notai che alla parte esterna sinistra della macchina sul terreno c'era una borsa di colore chiaro.
PM: Una borsa?
Sifone: Una borsa o bianca o beige, se ricordo bene.
PM: Una borsa grande o una borsa piccola?
Sifone: Piccola. Una borsa che portano le signore.
PM: Da signora. Era fuori della macchina, lato sinistro.
Sifone: Lato della macchina, per terra.
PM: Lato sinistro.
Sifone: Lato sinistro.
PM: Vicino allo sportello.
Sifone: Vicino allo sportello al posto di guida.

Interrompendo il teste che aveva proseguito la propria narrazione, il Pubblico Ministero si mostrò ancora interessato alla borsetta. 

PM: Questa borsetta o borsa era aperta o chiusa?
Sifone: Mi scusi, se lei mi fa raggiungere il racconto... 

Se è comprensibile che Sifone avesse preferito proseguire con il racconto che si era preparato in anticipo, lo è un po' di meno la mancata risposta alla semplice domanda. In ogni caso salta all'occhio che non parlò affatto di oggetti per terra. E la carta d’identità?

PM: Quello che voglio chiedere a lei è che da quando voi arrivate con questa volante, siete lei e dei suoi colleghi, poi arrivano gli altri, nessuno tocca nulla?
Sifone: Nessuno, assolutamente.
PM: La macchina non viene toccata.
Sifone: Assolutamente.
PM: Voi presidiate, come si suol dire, la zona in attesa delle persone che...
Sifone: Mi scusi, l'unica cosa che è stato fatto, ecco, è stato prelevato un documento di riconoscimento, non so se era patente di guida o carta d'identità, non ricordo ora, per identificare le persone. È l'unico...
PM: È stato prelevato sia dall'uomo che dalla ragazza?
Sifone: È venuto fuori quello della ragazza.
PM: È stato prelevato sia dall'uomo che dalla donna?
Sifone: Sì.
PM: Per vedere chi erano?
Sifone: Chi erano.
PM: Benissimo. Quindi poi toccaste solo per fare quest'operazione. La fece lei questa operazione?
Sifone: Io e un altro collega che era sopraggiunto sul posto.
PM: Ecco, fatta questa operazione, i documenti li trovaste addosso?
Sifone: No, no, la borsa era aperta.
PM: Oh, ecco. La borsa era fuori della macchina già aperta.
Sifone: Già aperta, sì.
PM: Non la aprì lei.
Sifone: No, non la aprii io, era già aperta.
PM: Bene, lei...
Sifone: Poi il collega successivamente si interessò di identificare la persona che era al posto di guida chi era.
PM: Quindi la donna fu identificata dal documento che era nella borsa già aperta.
Sifone:

Quindi non soltanto dalla deposizione non erano ancora emersi gli oggetti sparsi a terra, ma Sifone aveva lasciato intendere che la carta d’identità di Carmela l’aveva presa dalla sua borsetta – trovata già aperta – confermandolo poi a domanda diretta del Pubblico Ministero. Di oggetti sparsi a terra nessuno parlò neppure quando quegli oggetti comparvero in almeno una delle foto visionate in aula. Fu il Presidente a farlo, dopo il controinterrogatorio di Bevacqua, in uno scambio che aggiunge un’importante informazione.

Presidente: Piuttosto, mi pare d'aver visto in una di queste fotografie che il contenuto della borsetta era rovesciato tutto al di fuori. Possiamo tornare indietro e vederlo? Era al suolo.
Sifone: Sì, per terra, accanto alla macchina, al lato posteriore sinistro accanto al posto di guida. Era per terra.
Presidente: Come se si fosse rovesciato nel cadere, o sembrava fosse stata aperta? Vediamo un po' questa fotografia, ecco.
Sifone: L'impressione, mi scusi, può anche non tenerne conto.
Presidente: No, no, lei...
Sifone: L'impressione che...
Presidente: L'impressione sua di allora, oggi è una circostanza di fatto, capito? Quindi lo dica: l'impressione?
Sifone: L'impressione che io ho avuto allora è che la borsa è stata buttata all'assassino dalla ragazza che si trovava in macchina per difendersi. […]
Presidente: Ricorda questo particolare, gli oggetti sparsi attorno alla borsa?
Sifone: Sì, sì, lo ricordo.
Presidente: La borsa era aperta o era chiusa?
PM: Ecco, ecco…
Sifone: Naturalmente era aperta, la borsa, perché c'era la roba per terra.
Presidente: “Naturalmente”, non è detto.
Sifone: Eh, si.
PM: A noi sembra chiusa.
Presidente: Si ricorda se era aperta?
Sifone: La borsa l'ho vista per terra, e gli oggetti sparsi accanto la borsa.
PM: Sembra chiusa.
Sifone: Ma comunque io non voglio affermare al cento per cento che sia chiusa. Io ho notato la borsa e questi oggetti sparsi accanto alla borsa, non mi sono soffermato a vedere se era aperta o era chiusa, perché non era il caso in quella circostanza.
Presidente: Il dato obiettivo è lì.

Dopo l’osservazione del Presidente riguardo gli oggetti sparsi a terra anche Sifone parve ricordarsene (ma la foto l’aveva vista anche lui). E una borsa che fino a quel momento si era detto sicuro d’aver trovata aperta si scopre poi che in foto appariva chiusa. Sono percepibili il suo imbarazzo e la perplessità del Presidente. A questo punto il sospetto che la carta d’identità, con gli altri oggetti, fosse stata tolta e lasciata a terra dal brigadiere – e la borsetta stessa chiusa poi con gesto meccanico, o forse richiusa – è legittimo, anzi, a parere di chi scrive è qualcosa in più di un sospetto. A darne conferma è anche l'ipotesi avanzata dallo stesso Sifone che quella borsetta l'avesse lanciata la ragazza contro il suo aggressore. Avrebbe avuto quest'impressione se avesse trovato la borsetta vuota con il contenuto sparso a terra? Probabilmente no, avrebbe pensato all'opera del Mostro.
Come era finita la borsetta fuori dall’auto? Che fosse stata ritrovata aperta oppure chiusa, piena oppure vuota, l’ipotesi di Sifone è comunque da scartare. Dal proprio posto Carmela ben difficilmente avrebbe potuto lanciarla attraverso l’apertura opposta, per di più in gran parte coperta dalla sagoma dell’aggressore. Se era stato il Mostro a tirar fuori la borsetta, l'unico momento logico in cui poteva averlo fatto era quello successivo ai due colpi di grazia, mentre stava sporgendosi per sbloccare la portiera del passeggero. In questo modo se ne spiegherebbe bene il ritrovamento accanto allo sportello di guida.
Ma perché l’aggressore avrebbe tirato fuori la borsetta per poi ignorarla? Forse si era trattato di una questione pratica. Al momento dell’attacco poteva stare sulle gambe o sul grembo di Carmela che vi stava prendendo o riponendo qualcosa, quindi forse aperta. Quando, a vittime neutralizzate e luce interna spenta, l'aggressore cercò di raggiungere la maniglia dello sportello opposto è possibile che avesse deciso di sbarazzarsene per non trovarsela tra i piedi nella fase di estrazione del corpo, o anche perché in quel momento stava coprendo la maniglia stessa. Si tratta di un'ipotesi un po' forzata, ma d'altra parte chi scrive non ne ha trovata una migliore. E allora, pensando molto male, si potrebbe persino sospettare che non soltanto i maldestri poliziotti ne avessero rovesciato a terra il contenuto, ma che anche fossero stati loro a toglierla dall'interno dell'auto dove doveva stare in origine.

Considerazioni. La questione della borsetta potrebbe sembrare irrilevante, ma non è così. Il fatto che l’assassino l’avesse ignorata non farebbe altro che confermare una generale ed enorme differenza del suo atteggiamento verso Carmela De Nuccio rispetto a quello di sette anni prima verso Stefania Pettini. La borsetta di quest’ultima lo aveva interessato, eccome, tanto da essersela portata via per esaminarne il contenuto in tutta tranquillità a casa propria, anche se poi era stato costretto a rinunciare. Molti altri elementi facevano supporre un suo interesse speciale per Stefania, lo abbiamo visto, mentre per Carmela manifestò una completa indifferenza. Voleva ucciderla subito e subito la uccise dandole anche un freddo colpo di grazia con la pistola, e non con il coltello, arma di elezione per la maggioranza dei suoi tristi colleghi. Era ancora vestita e vestita rimase, con un taglio dei pantaloni strettamente funzionale alla mutilazione, la quale venne compiuta in modo asettico, quasi si fosse trattato di un prelievo in sede autoptica.
Di lì in avanti il Mostro, così iniziò a essere chiamato, si comportò in modo identico nei riguardi di tutte le proprie vittime femminili, tantoché possono avanzarsi seri dubbi sulle sue motivazioni, per il taglio del pube e poi di un seno di apparente natura sessuale. Il lettore rifletta bene sulle parole pronunciate dal giudice Mario Rotella in questo filmato, tratto dalla puntata di "Telefono Giallo" trasmessa il 6 ottobre 1987.

Questi omicidi sono compiuti freddamente, senza una ragione, senza un interesse a commetterli, come di norma avviene quando si commette un omicidio. Ecco, questo aspetto deve, a mio avviso, farci riflettere che il tipo di autore che si è costruito nell’opinione pubblica attraverso la divulgazione dei particolari, anche agghiaccianti scoperti sui luoghi del reato, direi questa divulgazione erronea dà una falsa idea dell’autore dei delitti. Potrebbe essere un maniaco sessuale, ma non mi pare sia questo il dato pregnante. Il dato pregnante, nel caso di specie, è che si tratta di una persona che uccide senza motivazioni concrete altre persone […]. Ogni volta questo avviene, e ogni volta non c’è un metro di riferimento. Ecco che il tipo di autore che bisogna cercare a mio avviso è diverso da quello che si pensa si debba ritrovare. Non è il maniaco sessuale, nell’accezione comune del termine. Abbiamo a che fare piuttosto con un pazzo paranoico. 

lunedì 10 ottobre 2016

La dinamica di Borgo

Una volta buttata nel cestino la ricostruzione di Innocenzo Zuntini (vedi), comprese alcune asserzioni atte a far tornare i suoi conti sbagliati (in primis: proiettile sulla slitta del sedile di destra e direzione destra-sinistra dei due finiti sulla spalliera di guida), la pur complessa dinamica del delitto di Borgo San Lorenzo può essere ricostruita in modo soddisfacente.
Dopo aver lasciato la sorella davanti a una discoteca Pasquale passò a prendere Stefania vicino casa, a Pesciola: erano le 21.15. Pochi minuti dopo la coppia fu vista per l’ultima volta mentre transitava attraverso un passaggio a livello in direzione del luogo del delitto, dove era solita appartarsi. In quel periodo i ragazzi erano in crisi, le vacanze estive avevano portato motivi di gelosia e ripensamento tanto da far loro decidere di vedersi soltanto al sabato, quindi si può immaginare che dentro l’auto si fosse discusso a lungo e anche in modo animato (i fazzolettini di carta ritrovati sul pavimento e in una scarpa di Pasquale fanno ipotizzare il pianto di entrambi). All’avvicinarsi dell’ora di partenza – Pasquale si era accordato con la sorella per passare a riprenderla a mezzanotte – i dissidi furono messi da parte, almeno per il momento. Proprio allora avvenne l’attacco, e non si trattò di un caso, essendo molto difficile la coincidenza di un assassino capitato sul posto esattamente in quei minuti. È da presumere invece che fosse lì da tempo, nascosto dal buio e dalle piante, avesse assistito alle discussioni e si fosse deciso a uccidere forse proprio per impedire una riconciliazione. Si tratterebbe di un comportamento mai più rilevato nei delitti successivi, e che, assieme ad altri, potrebbe indicare un legame con la vittima femminile – anche soltanto unilaterale – caratterizzato da gelosia e bisogno di possesso.

I colpi di pistola. Quando l’aggressore iniziò a sparare attraverso il finestrino anteriore sinistro, i ragazzi stavano ultimando i preparativi per un contatto fisico, probabilmente a luce accesa. Stefania era supina sul sedile del passeggero già reclinato, Pasquale sedeva alla guida, in procinto di abbassare il proprio. Entrambi erano in slip. Conosciamo l’ora dell’attacco, attorno alle 23.45, quando una coppia di coniugi, transitata all’altezza del posto sulla vicina via Ponte d’Annibale, udì due colpi di pistola (la loro testimonianza è riportata da La Nazione del 25 settembre, con tanto di avallo dell’allora capitano dei carabinieri Olinto Dell’Amico, incaricato delle indagini sul campo). Anche se già inserita nel precedente articolo, si riporta qui l’immagine con le cinque ferite di Pasquale elencate dalla perizia Zuntini; va detto però che in quella Arcese-Iadevito uno dei due proiettili che colpì il braccio sinistro non fu passante. Infine per De Fazio c’era un colpo in più, lo vedremo.


Forse per la mano incerta di chi si trovava al suo primo delitto, forse per un repentino movimento di Pasquale che si era accorto del pericolo, i primi due proiettili – probabilmente corrispondenti ai colpi uditi dai coniugi – andarono fuori bersaglio e colpirono la spalliera del sedile di guida.


Il vetro del finestrino si frammentò – in foto è stato abbassato per eliminare deleteri riflessi – rimanendo in sede e oscurando la visuale interna; di conseguenza l’aggressore fu costretto a una pausa nella sequenza di sparo. Mentre lui cercava di togliere qualche frammento di vetro, forse con l'aiuto della pistola, forse dando un pugno, Pasquale si ritirò spaventato verso la parte opposta, dove mise in atto un tentativo di uscire dall’abitacolo abbassando la maniglia e quindi sbloccando almeno la sicura, ma forse riuscendo anche a socchiudere o addirittura ad aprire la portiera. Ecco perché in seguito l’aggressore sarebbe riuscito a spalancarla. Nella foto sottostante, dove si cerca di dare un’idea delle probabili posizioni dei ragazzi, si noti il braccio sinistro di Pasquale, usato per spingersi, aderente al lato sinistro del tronco, e le gambe di Stefania ben visibili allo sparatore.


Se anche Pasquale riuscì ad aprire la portiera per uscire e sottrarsi alle pistolettate, l’aggressore non gli dette tempo, scaricandogli addosso i rimanenti sette colpi e colpendolo con cinque.
I primi tre entrarono nel torace dal lato sinistro, due attraversando prima il braccio corrispondente. Uno entrò nel cuore. Colpito a morte, Pasquale si accasciò sul grembo di Stefania, compiendo una rotazione del busto di 90 gradi, a metà della quale incassò un quarto colpo all’addome. Infine, a rotazione ultimata, ricevette un quinto colpo centralmente in zona ombelicale. Tutti e cinque i proiettili furono ritenuti ed estratti in sede autoptica.



Assente sulla perizia Zuntini, su quella De Fazio viene riportato anche un sesto colpo passante, con ingresso sull’addome e uscita al fianco destro. Ma questo presunto foro di uscita potrebbe essere soltanto l’effetto in foto dell’estrazione dal fianco destro di uno dei due proiettili entrati in zona inguinale. Nella perizia riassuntiva Arcese-Iadevito si parla infatti di un “proiettile estratto dalla regione inguinale destra, ala iliaca destra”. Altrimenti quel proiettile fu anche uno dei due che colpì Stefania.


I due proiettili che non colpirono Pasquale, o che comunque non furono ritenuti dal suo corpo, colpirono alle gambe Stefania. Una volta messa da parte la fantomatica triplice ferita al fianco destro, rimane la grande confusione nei documenti (perizia Zuntini, perizia De Fazio, deposizione Maurri al processo Pacciani) sulle ferite che interessarono gli arti inferiori della ragazza. Qui ci atterremo alla perizia Zuntini, secondo la quale un proiettile passante l’avrebbe colpita al ginocchio destro e l’altro alla gamba destra rimanendo schiacciato contro la tibia. Ignoreremo però le confuse indicazioni sulle traiettorie: “colpirono il ginocchio e la gamba destra dal basso verso l’alto (per quanto avessero traiettorie pressoché orizzontali)”. Naturalmente non è detto che Stefania fosse stata colpita dopo il quinto colpo su Pasquale, con il suo corpo addosso; i due proiettili che finirono su di lei erano anch’essi diretti al ragazzo e potevano essere due qualsiasi della sequenza dei sette.


Il proiettile fuoriuscito dal ginocchio destro non fu ritrovato all’interno dell’auto, nonostante ne fosse stata fatta una “ricerca accuratissima”, secondo Zuntini. Se Pasquale, prima di essere colpito a morte, aveva fatto in tempo ad aprire la portiera (oltre che a sbloccarla), dopo uno o più rimbalzi il proiettile poteva essere caduto direttamente nell’erba. Oppure era finito in qualche punto dell’abitacolo da dove le manovre successive – estrazione dei vestiti e del corpo di Stefania – lo avrebbero fatto scivolare fuori.

I fendenti di coltello. Esploso l’ultimo dei nove colpi, l’aggressore girò rapidamente dalla parte del passeggero, dove trovò la portiera, se non già aperta, almeno priva di sicura (in questo secondo caso: o se n’era accorto, o semplicemente provò a tirare la maniglia prima di passare a sistemi più cruenti, come rompere il vetro). Si è discusso a lungo sui forum se Stefania avesse tentato la fuga riuscendo almeno a posare i piedi sull’erba, ma non si vede come avrebbe potuto, con una gamba trapassata da due proiettili e il corpo di Pasquale che le gravava addosso. In ogni caso l’aggressore non le dette alcuna possibilità, spalancò la portiera e le mise una mano sulla bocca per farla smettere di urlare, come indica il segno di un’unghia trovato alla sinistra delle sue labbra (perizia De Fazio: “viene descritto un segno da unghiatura, all'angolo mandibolare sx., in senso trasverso, che potrebbe corrispondere al pollice della mano sx. dell'omicida”). Il particolare è importante, poiché, assieme alle ferite di pistola probabile effetto collaterale degli spari diretti a Pasquale, suffraga l’ipotesi che l’aggressore non avesse voluto ucciderla subito, ma avesse avuto l’intenzione di compiere su di lei qualche atto di libidine, anche soltanto di palpeggiarla. Per quale altro motivo, infatti, avrebbe dovuto impedirle di urlare tappandole la bocca, quando una coltellata al cuore sarebbe stata ben più efficace? Tanto più che il pollice a sinistra comporta una posizione dell’assassino addosso alla vittima e quindi all’interno dell’abitacolo, con la mano destra libera di toccarla, come ben mostra la foto sottostante.


Se l’individuo avesse soltanto voluto zittire la ragazza, le avrebbe messo la mano sulla bocca rimanendo più al di fuori, di conseguenza con il pollice a destra.
Anche questo comportamento, che non si sarebbe mai più ripetuto, suggerisce un possibile legame almeno unilaterale, in cui l’aggressore espresse una volontà di possesso. Forse per un morso ricevuto alla mano, o anche soltanto per una strenua resistenza che non riusciva a domare, a un certo punto però si scatenò in lui una furia selvaggia, in preda alla quale mise mano al coltello e colpì la poveretta con feroci fendenti al volto, al collo e al torace – questi ultimi con tale forza da sfondarle lo sterno – fino a ucciderla. L'assenza di ferite vitali all'addome conferma la posizione di Pasquale accasciato sul grembo di Stefania, che quindi risultava coperto.

Spostamento di Pasquale e manipolazione di Stefania. Alla concitata sequenza di eventi conclusasi con il decesso dei due ragazzi seguì una pausa di vari minuti, durante la quale l’aggressore dovette dare un’occhiata all’intorno per controllare l’eventuale arrivo di gente attratta dagli spari e dalle urla. Il molto sangue perso da Stefania in quei lunghi minuti imbrattò il sedile e il dorso di Pasquale. Viene così spiegata l’origine sia delle macchie sul dorso del ragazzo sia dell'impregnamento degli slip che la perizia Zuntini aveva ignorato non essendo in grado di ipotizzarne una.


Intenzione dell’aggressore era manipolare il corpo esanime di Stefania; per estrarlo fu costretto a spostare quello di Pasquale che lo bloccava, spingendone il tronco verso il lato opposto. Durante la manovra è molto probabile che avesse agganciato il corpo con la mano sinistra aggrappandosi con la destra allo specchietto retrovisore, il quale si ruppe (La Nazione del 16 settembre riportò la notizia del suo ritrovamento a terra, davanti al sedile del passeggero). Non si può fare a meno di domandarsi perchè non usò la sinistra per ancorarsi al montante e la destra per spingere: era forse mancino?


Una ferita allo zigomo sinistro indica l’impatto del corpo di Pasquale contro il bordo inferiore del finestrino e i frammenti di vetro ancora in sede, parte dei quali caddero sull’erba, mentre quelli rimasti assunsero una leggera bombatura verso l’esterno (due effetti che erroneamente Zuntini avrebbe attribuito a un proiettile arrivato da destra).


Nella prima delle due foto si può notare lo specchietto mancante. Un altro elemento che conforta l'ipotesi sopra proposta viene riportato da "Calibro 22", dove si dice che il braccio sinistro di Paquale era incrociato sotto la sua gamba sinistra (chi scrive non conosce però la fonte). Si tratta di una posizione ben spiegata dallo spostamento descritto, con il braccio penzoloni che finisce sotto la coscia.
Dopo aver spostato il corpo di Pasquale, per sicurezza il killer gli vibrò due coltellate al fianco destro; poi estrasse quello di Stefania adagiandolo a terra, sotto lo sportello, dove lo lasciò per diversi minuti – come attesta la consistente macchia di sangue ivi rinvenuta – andando a controllare per la seconda volta che non stesse arrivando qualcuno. Verificato che tutto era tranquillo spostò quindi Stefania dietro l’auto, in posizione più riparata rispetto alla prospicente strada di transito, prendendola per i piedi e trascinandola, come testimonia una strisciata di sangue e la posizione assunta dalle sue braccia. Poi le strappò gli slip, le allargò le gambe e iniziò a esplorarne orrendamente il corpo con il coltello. In un’azione per niente convulsa e durata a lungo, affondò per moltissime volte la punta nella carne – in totale si contarono ben 96 coltellate – con vari livelli di profondità forse in diminuzione, come se la residua rabbia fosse andata via via scemando. In zona pubica le ferite, molto leggere, assunsero una disposizione a mezzaluna che seguiva i contorni del vello pilifero.
Come probabile atto finale dello sciagurato rapporto, l’assassino strappò un tralcio da una delle viti situate nel campo adiacente e lo inserì nella vagina, senza affondare e senza insistere, quasi volesse saggiarne la consistenza.

La borsetta. Conclusa la manipolazione del cadavere, l’individuo rimase ancora per qualche tempo sulla scena del crimine, rovistando dentro l’auto. Fu in questa fase che sparse all’intorno alcuni indumenti delle vittime, tra cui i pantaloni di entrambi più un altro paio di Pasquale avvolti in carta di lavanderia, che furono ritrovati vicino a una pianta, sembra ben ripiegati uno sopra l’altro. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che fossero stati i ragazzi a riporveli, prima d’iniziare il loro rapporto fisico. Ma la camicetta di lei e il giubbotto di lui erano invece a terra in disordine, quindi pare assai più logica un’azione dell’assassino, il quale aveva prelevato i tre pantaloni dal lunotto oppure dal divanetto posteriore senza scompigliarli troppo. Che cosa stava cercando? Probabilmente la borsetta di Stefania, che si può ipotizzare non risultasse immediatamente visibile anche se era piuttosto grossa. Poteva trovarsi dietro il sedile del passeggero, ad esempio, nascosta dalla relativa spalliera reclinata. L’assassino la cercò dapprima sotto i vestiti, dai quali, se piccola, avrebbe potuto essere coperta. Alla fine la trovò e poi fuggì, portandola con sé. Ma dopo aver percorso circa 300 metri cambiò idea e la gettò nel campo di granoturco a lato della strada, dove fu ritrovata il giorno dopo, chiusa. Anzi, è probabile che non fosse mai stata neppure aperta; di sicuro non rovistata, poiché al suo interno fu ritrovato un pullover di Stefania che altrimenti sarebbe stato tolto.


Nella foto sopra – tratta dal mitico blog di Master Calibro 22 – dove si vede il pullover rinvenuto dalle forze dell’ordine, si possono apprezzare le dimensioni abbastanza importanti della borsetta, causa possibile del ripensamento dell’assassino nel volerla portare via. Vediamo perché, cominciando con il riflettere sul seguente passaggio del rapporto dei carabinieri datato 18 settembre:

Su segnalazione telefonica fatta alla Stazione di Borgo S.Lorenzo, alle ore 18,30 del 15/9/1974, militari dello stesso reparto rinvenivano, a circa 300 metri dal luogo del reato, in un campo di granoturco, sulla destra della strada che da Rabatta conduce a Sagginale, la borsa della Pettini Stefania, dentro la quale si trovavano le cose sopra menzionate, nonché il pullover.
La borsa si trovava per terra, accanto ad una pianticina di granoturco, la quale si trovava piegata a causa, presumibilmente, della caduta su di essa, nella parte superiore, della borsa stessa che si ritiene vi sia stata lanciata dalla strada.
La borsa era a circa 5 metri dal ciglio stradale…


Nella foto sopra – anch’essa tratta da “Calibro 22” – si vede la borsa prima di essere raccolta. La freccia rossa tracciata a penna sembra indicare la piantina rotta di cui parla il rapporto dei carabinieri.
L’impressione di chi vide l’oggetto a terra fu dunque quella di un lancio effettuato dalla strada durante la fuga. Anche se nelle discussioni in rete sono state avanzate ipotesi differenti, ad esempio di un soggetto che fuggiva a piedi oppure che aveva fermato l’auto ed era sceso (ma perché?), la logica dice che l’assassino si trovava a bordo di un mezzo in movimento mentre si stava dirigendo verso la provinciale SP41.



Nella prima piantina sono rappresentati il luogo del delitto e quello in cui fu ritrovata la borsetta, nella seconda il campo si allarga per mostrare l’innesto di via Ponte d’Annibale sulla provinciale SP41, da cui la fuga poteva proseguire per qualsiasi destinazione.
Dal punto in cui fu raccolto l’oggetto riusciamo a dedurre un dato molto importante. Due elementi di grande rilievo sono il lato della strada, il destro, e la consistente distanza dal ciglio, cinque metri, in ragione dei quali si può ipotizzare che il fuggitivo viaggiasse su un mezzo a due ruote, una moto, un motorino oppure uno scooter, quindi. Se fosse stato a bordo di un’auto la borsetta sarebbe stata ritrovata o in mezzo alla strada oppure sul lato sinistro, poiché l’individuo alla guida avrebbe aperto il finestrino dalla propria parte, la sinistra, e l’avrebbe semplicemente lasciata cadere fuori. Non ci sarebbe stato alcun valido motivo per effettuare l’operazione attraverso il finestrino opposto, tanto più che le auto dell’epoca, almeno quelle di normale cilindrata, non disponevano ancora di alzacristalli elettrici, quindi la manovra di apertura durante la guida sarebbe risultata molto difficoltosa. Ma supponiamo pure che il finestrino destro fosse già aperto, situazione possibile anche se improbabile. Ebbene, nello spazio angusto di un abitacolo, per di più mentre stava guidando, l’individuo non avrebbe mai potuto lanciare la borsa con la forza necessaria a farle compiere un volo di cinque metri, ammesso che fosse riuscito a imbroccare l’apertura senza sbattere prima da qualche parte (volante, specchietto retrovisore, cornice del finestrino).
L’ipotesi che l’aggressore si fosse trovato alla guida di un mezzo a due ruote spiega bene anche il suo quasi immediato pentimento riguardo l’intenzione di portarsi via l’oggetto. Abbiamo visto che si trattava di una borsa piuttosto grande, quindi per niente facile da trasportare su una motocicletta. Metterla sotto il giubbotto non sarebbe stato possibile. Altre collocazioni, ad esempio sul serbatoio per una moto oppure tra le gambe per uno scooter, potevano creare intralcio alla guida. In ogni caso la borsetta sarebbe rimasta allo scoperto, ben visibile soprattutto a un eventuale controllo delle forze dell’ordine, che avrebbero richiesto una giustificazione. Tutti questi problemi a bordo di un’auto non ci sarebbero stati, quindi non ci sarebbe stato neanche motivo di gettarla via senza neppure averla frugata.
Resosi conto quasi subito delle difficoltà di trasporto, l’assassino decise quindi di liberarsi della borsetta: l’afferrò con la mano destra e la lanciò – con forza e magari con rabbia – nel campo a lato, lontano dalle ruote del suo mezzo, tra le quali avrebbe potuto finire pericolosamente. È chiaro che nelle condizioni descritte un lancio di cinque metri sarebbe risultato fattibile.

Reggiseno e auto. In questa ricostruzione non si è ancora preso in esame l’argomento del reggiseno di Stefania, assai dibattuto tra gli appassionati in rete. Affrontiamolo iniziando dalla perizia De Fazio:

Non si fa menzione, nella descrizione degli indumenti rinvenuti sul luogo del delitto, del reggiseno della ragazza, né è noto se la ragazza fosse abituata a portarlo o meno. In linea di mera ipotesi, quindi, si può anche pensare che l'oggetto sia stato asportato e trattenuto dall'omicida.

Quindi nella documentazione consultata dagli esperti di Modena non c’era traccia di un reggiseno, tanto da lasciarli incerti sul possibile valore feticistico di un oggetto che non si sapeva se l’assassino avesse portato via oppure no.
Dieci anni più tardi, in questo passaggio della deposizione della madre di Stefania al processo Pacciani (vedi), si venne a sapere qualcosa di diverso:

Avv.Santoni: Un'altra domanda, mancava anche un indumento di sua figlia che fu ritrovato successivamente o no?
Bruna Bonini: Mancava un reggipetto rosso, che io, dopo svariati giorni, ho detto: "La Stefania indossava un reggipetto rosso", cosa che non avevano trovato, l'hanno ritrovato dopo diversi giorni, ma questo sarà stato tutto scritto no?
Avv.Santoni: Certo, ma era importante ora risentirlo.

Dove era stato ritrovato il reggiseno mancante? Santoni aveva sottomano un documento che ne parlava e che l’equipe De Fazio non aveva potuto esaminare? Non si sa. Anche il ben informato Master su “Calibro 22” dichiara di non saperne nulla. Alla fine si potrebbe pensare che all’origine del problema ci fosse stata una semplice svista dei carabinieri, che nel loro verbale di sequestro non avevano inserito il reggiseno. Letto il documento, la signora Bonini ne aveva rilevato la mancanza, per poi ricevere qualche giorno dopo la notizia di un ritrovamento successivo, in realtà mai avvenuto poiché il reggiseno già c’era.
Ad aggiungere ulteriore mistero sul tema ci ha pensato il recente libro di Valerio Scrivo, nel quale si afferma che “l’indumento fu recuperato 50 m oltre il luogo dove era stata ritrovata la borsetta”, con tanto di piantina. Non viene però fornita alcuna indicazione sulla fonte, supporto doveroso a notizie del tutto inedite, soprattutto in una vicenda piena di frottole come questa.
Allo stato delle attuali carenti informazioni è quindi poco utile ragionare sul reggiseno, che in ogni caso potrebbe anche essere stato gettato via lungo la strada, non per difficoltà di trasporto, naturalmente, ma per motivi di natura psicologica, ad esempio rabbia e delusione causa la forzosa rinuncia alla borsetta.
Un ultimo cenno alle auto che sarebbero state viste vicino al luogo del delitto. Così nel rapporto dei carabinieri del 18 settembre:

D.P. e L.F. riferiscono spontaneamente che verso le ore 7 del 15 c.m. (giorno del rinvenimento dei cadaveri) transitando per località Sagginale, notarono due autovetture, di cui una Giulia targata NA, nonché alcune persone ferme nei pressi del luogo del reato.
C.W. ed altri suoi amici, transitando per la località “Sagginale” verso le ore 00.30 del 15 c.m. (ora antecedente o conseguente al reato, o concomitante), hanno notato un’autovettura ferma sulla strada, a luci spente, con la luce interna accesa, con la parte anteriore rivolta verso l’imbocco di una strada campestre distante circa 50 metri dal tratturo che conduce al posto del delitto. Poteva trattarsi di una Simca, o di una BMW, o di una Giulia, forse di colore grigio.

Quale il possibile collegamento delle tre auto con il delitto? Su quelle viste alle 7 di mattina non vale la pena spendere troppe parole, anche se in rete, nell’ambito delle sciocchezze esoteriche, se ne è comunque discusso: al massimo si trattava di gente che si era accorta dei cadaveri, come o tramite il contadino che era corso a cercare aiuto. Senz’altro più inquietante è l’avvistamento di mezzanotte e mezza, ma anche in questo caso è difficile immaginare un collegamento con il delitto, che era stato compiuto da circa tre quarti d’ora. Per l’assassino sarebbe stato fuori da ogni logica, infatti, rimanere tutto quel tempo in sosta vicino alle proprie vittime, tanto più con la luce interna accesa; “come se fosse usanza de’ malfattori trattenersi più del bisogno nel luogo del delitto”, aveva scritto Manzoni in “Storia della colonna infame”, una frase che Francesco Ferri avrebbe ripreso più volte nel suo “Il caso Pacciani”.

Considerazioni finali. Come spero il lettore abbia avuto modo di rilevare, la ricostruzione del delitto fornita da questo articolo sostanzialmente fila – ogni critica costruttiva è comunque ben accetta – la qual cosa costituisce un motivo in più per buttare nel cestino la perizia Zuntini. Per qualcuno può risultare difficile accettare il fatto che l’allora colonnello dell’esercito avesse un po’ truccato le carte, ma così fu, altrimenti una dinamica del tutto alternativa come questa non avrebbe mai potuto risultare convincente. Del resto la lunghissima epopea delle indagini sui delitti del Mostro ha visto mille occasioni in cui gli addetti ai lavori hanno interpretato a loro favore dei dati più o meno controversi.
La ricostruzione proposta fa emergere in modo chiaro un fatto importante: l’assassino non voleva uccidere Stefania, almeno non subito, almeno non con la pistola. I due proiettili che la raggiunsero alle gambe non erano diretti a lei, ma a Pasquale, e la colpirono soltanto per l’imprecisione dello sparatore, che mandò fuori bersaglio quattro colpi su nove. Il suo attacco fu estremamente disordinato, il che dovrebbe far riflettere chi vede in lui il medesimo assassino di Signa, dove invece si evidenziò grande freddezza e precisione, almeno per i primi sei colpi (un articolo sulla dinamica completa di quel delitto è in programma, come di tutti gli altri, ma il lettore dovrà pazientare un po’, poiché ho intenzione di pubblicarla dopo l’ultimo, quello di Scopeti).
Torniamo però al desiderio dell’assassino di tenere in vita Stefania, un fatto che rende il delitto di Borgo assai diverso dai successivi, nei quali ogni volta la donna sarebbe stata uccisa immediatamente, senza che si fosse manifestato verso di lei alcun interesse se non quello di toglierle il macabro trofeo. Con Stefania no. Sono vari i comportamenti che suggeriscono un interesse particolare dell’assassino nei suoi confronti. Ripassiamoli, con qualche necessaria ma plausibile supposizione:
  • Prima dell’attacco, stette a lungo ad ascoltare i ragazzi mentre litigavano.
  • Attaccò proprio quando i due fecero pace preparandosi per un rapporto intimo.
  • Sparò soltanto a Pasquale, colpendo Stefania senza volerlo.
  • Cercò di palpeggiare Stefania ancora viva.
  • La accoltellò poi con violenza estrema, ben maggiore di quella necessaria a ucciderla.
  • Si soffermò a lungo sopra il suo corpo inanimato, penetrandolo con una certa delicatezza.
  • Si impadronì della sua borsetta.
Forse non è un caso se Stefania aveva confidato alle proprie due cugine e amiche di essere stata seguita da uno sconosciuto. Il giorno stesso del ritrovamento dei cadaveri, così aveva parlato Tiziana Bonini di fronte al maresciallo Trigliozzi:

Non mi risulta di episodi particolari o di conoscenze fatte da Stefania a Firenze, ad eccezione di un caso che la stessa ebbe a riferirmi, relativamente ad un tale che l’avrebbe seguita dalla Stazione Ferroviaria di Firenze fino alla sua sede di lavoro. Stefania mi riferì di questo tale, che a suo dire non aveva mai visto in precedenza, senza descriverlo. Questo fatto me lo riferì mesi fa, ma non sono in grado di riferire sulla data esatta.

Subito dopo Carla Bartoletti aveva precisato meglio la data della confidenza e aggiunto un altro elemento, la presunta età del misterioso personaggio:

Prima che io e Stefania e Tiziana andassimo al mare, a Rimini, dove siamo state dall’8 al 17 agosto 1974, verso il mese di giugno, la Stefania, parlando con me, mi riferiva che in precedenza, a Firenze, era stata seguita da uno sconosciuto, dell’apparente età di 35 anni, che “le faceva paura”, dalla stazione centrale fino a Novoli, dove lavorava.

Se Stefania aveva sentito il bisogno di riferire l’episodio alle cugine, doveva esserne rimasta particolarmente colpita. Come ne sarebbero rimasti colpiti gli esperti di Modena, tanto da farne cenno nella loro perizia.