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domenica 8 maggio 2016

La sentenza CdM e Giogoli

Se per Scopeti e Vicchio i giudici avevano potuto contare su due elementi di prova abbastanza significativi, le testimonianze Ghiribelli e Nicoletti, per i tre delitti precedenti c’erano soltanto le dichiarazioni di Lotti, irrobustite, se così si può dire, da quelle di Pucci, il quale avrebbe riportato delle confidenze ricevute dall'amico all’epoca. E così l’elenco dei riscontri esterni diventa molto più scarno, e soprattutto ancor meno consistente. Affrontiamo il delitto del 1983, a Giogoli.

Primo e quarto riscontro


Esatta indicazione della posizione e di alcune caratteristiche del furgone.
Esatta indicazione della posizione dei due giovani, ad azione conclusa, e di una particolarità di uno di essi.
Gli unici riscontri di qualche peso, seppur minimo, che i giudici potevano invocare per il delitto di Giogoli giravano intorno a quanto aveva dimostrato di saperne Lotti. Come per Scopeti e Vicchio, l’individuo conosceva bene l’ubicazione della piazzola, peraltro situata a non molta distanza, una quindicina di chilometri, dalla sua abitazione del tempo. Ma questo di per sé significava poco o nulla, tenuto conto delle centinaia di curiosi che dopo il fatto l’avevano visitata. Assai meno giustificabile in un semplice curioso, anche se del posto, era la conoscenza di vari particolari, sia della scena del crimine sia della dinamica omicidaria. La sentenza mette in rilievo che Lotti aveva ben descritto le caratteristiche del furgone (marca, presenza di finestrini laterali in parte opachi, uno sportello sulla fiancata destra dal quale gli assassini erano entrati), e anche posizione e modo in cui era parcheggiato. In più viene attribuita una grande valenza probatoria alla “esatta indicazione della posizione dei due giovani”, in particolare al fatto che uno dei due era “appoggiato verso la parte sinistra” e aveva i capelli lunghi. Se il particolare dei capelli non sembra molto significativo, avendone i giornali scritto in abbondanza con tanto di foto di Uwe, quello della posizione fa pensare di più, non essendo una notizia da prima pagina. In effetti il ragazzo aveva cercato scampo in coda al furgone, dove era stato ucciso mentre aveva le spalle appoggiate nell’angolo sinistro. D’altra parte non si trattava certo dell’unico particolare delle scene dei crimini noto a Giancarlo Lotti, tantoché bisogna per forza ammettere che se l’individuo non vi aveva partecipato, doveva comunque aver nutrito un notevole interesse per i delitti attribuiti al Mostro di Firenze. A meno di non immaginare un’apposita preparazione prima degli interrogatori a opera delle stesse forze dell’ordine, che peraltro sarebbe risultata assai imperfetta, vista la montagna  di elementi contraddittori insiti nei racconti del presunto pentito.
Per spiegare le informazioni in possesso di Giancarlo Lotti sul delitto di Giogoli si potrebbero formulare varie ipotesi, e a questo proposito sembra strano che i giudici non avessero dato alcuna importanza a un inquietante particolare, una semplice coincidenza forse, o forse no: Lotti aveva ammesso che un paio di volte all’anno passava davanti alla piazzola per andare da una cugina abitante a Scandicci, e, guarda caso, una di quelle due volte era stato proprio appena prima del delitto. È bene leggere con attenzione, e soprattutto tra le righe, il seguente scambio di battute con Canessa (vedi):

PM: Senta una cosa: lei, da quelle parti, lì a Giogoli, c'era mai stato prima, nei giorni precedenti, ci aveva un motivo di andare lì?
Lotti: No, io ci andavo nella strada che andavo per trova' una cugina.
PM: Una cugina.
Lotti: Non è che ci sia andato preciso qui' giorno per vede' di farlo.
PM: C'era passato il giorno prima? C'era passato di lì, con la sua macchina?
Lotti: Io ci passavo, perché la strada la va giù in dove ci sta la mi' cugina, sicché...
PM: La sua cugina dove sta?
Lotti: La sta a Scandicci. C'è un vialone lungo.
PM: Ma lei, quel furgone lì, quando passava - se è passato nei giorni prima per andare da sua cugina - l'aveva visto?
Lotti: No, non l'avevo visto, io.
PM: Ma ci si era fermato?
Lotti: No, fermato. Mi fermo, perché... se c'è un furgone un mi fermo, io. Io, quande vo in un posto, vo a diritto e... devo andare a trovare una persona e basta. Non mi fermo, io.
PM: Non si era fermato lì, a vedere il furgone?
Lotti: No.
PM: Lei ricorda se in quei giorni precedenti l'omicidio, era andato da questa sua cugina?
Lotti: Sì, c'ero andato. Però, il giorno preciso... come, non lo posso dire, perché non me lo ricordo per bene.
PM: Ho capito.
Lotti: Se gl'era di mattina o di sera, ora non me lo ricordo.
PM: Ma lei ci può essere, se lo ricorda, passato il giorno prima dell'omicidio?
Lotti: Eh, questo non ... non me lo posso ricordare.
PM: Può essere, ci andava spesso da sua cugina, o...
Lotti: No, non è che ci andavo spesso. In un anno ci potevo anda' du' volte. Non è che...
PM: Quindi, lei non sa dire se quella volta lì, che poi successe quell'omicidio, lei, il giorno prima, era passato di lì.
Lotti: Mah, questo un me ne ricordo. Può darsi che ci sia passato. Però io, il furgone, non l'ho visto.
PM: Il furgone non l'ha visto. Ho capito.
Lotti: Però l'è la strada che va giù dalla mi' cugina, sicché... se un c'è altre strade, in do' passo?
PM: Passava di lì.
Lotti: Ci sarà anche altre strade, da i' Galluzzo. Però...
PM: Lei passava di lì.
Lotti: L'era più corta, passando di là.

Non sfugga al lettore l’imbarazzo di Lotti, ben evidenziato già in partenza da un paio di risposte sconclusionate: “No, io ci andavo nella strada che andavo per trova' una cugina” e “Non è che ci sia andato preciso qui' giorno per vede' di farlo”. Chi scrive ritiene che l’individuo non la stava raccontando tutta. A domanda se il furgone l’aveva visto aveva risposto no, e alla successiva se si fosse fermato aveva risposto ancora no, ma di questo secondo fatto si era anche sentito in dovere di spiegare il motivo (“perché... se c'è un furgone un mi fermo, io. Io, quande vo in un posto, vo a diritto”) come se invece il furgone l’avesse visto. Vale la pena ricordare che, secondo il suo racconto, del furgone Lotti nulla sapeva fino al momento in cui sarebbe stato portato sul luogo da Vanni e Pacciani, la sera stessa del delitto.
Nel chiedere al presunto pentito della cugina, probabilmente Canessa aveva in mente la testimonianza di Giovanni Nenci, che verso le 7.30 di mattina del giorno del delitto aveva notato in sosta accanto al furgone una Fiat 128 rossa targata Firenze. Il relativo verbale era stato compilato nell’immediatezza dei fatti, il 13 settembre 1983, quindi l’avvistamento era più che sicuro. Purtroppo al momento del processo l’uomo era morto da tempo, quindi evidentemente non poté confermare né integrare le dichiarazioni di allora, soprattutto precisando se l’auto da lui vista fosse stata del modello berlina o del modello coupè, molto differenti tra di loro. C’è da dire però che, seppur disponibile per entrambi i modelli, il rosso è tipico delle auto sportive.
Era la Fiat 128 coupè rossa di Giancarlo Lotti l’auto vista da Giovanni Nenci? I giudici non se lo chiesero, il che può anche risultare comprensibile, considerata l’indeterminatezza dell’avvistamento, però avrebbero dovuto approfondire la questione della cugina, alla quale in sentenza neppure accennarono. Anzi, la donna avrebbe dovuto essere convocata in dibattimento, dove forse si sarebbero potuti incrociare i presunti orari di passaggio di Lotti con quelli indicati dai testimoni per la presenza delle vittime sulla piazzola nei giorni precedenti il delitto. A Canessa di sicuro non conveniva correre il rischio di screditare il proprio asso nella manica, ma il Presidente aveva il dovere di farlo, rispettando in tal modo lo spirito del nuovo processo accusatorio secondo il quale la prova deve formarsi in dibattimento. È quasi inutile osservare come la difesa di Vanni, arroccata nella propria incrollabile convinzione della totale estraneità di Giancarlo Lotti alla vicenda, non avesse speso una parola sull’argomento.

Secondo riscontro


Esattezza delle modalità degli spari.
Questo riscontro si distingue per il particolare livello di superficialità. Nel relativo paragrafo la sentenza afferma che Giancarlo Lotti avrebbe descritto una dinamica dell’azione coincidente con quella ipotizzata all’epoca dalla perizia medico-legale: esplosione dei colpi prima dalla fiancata destra, poi da quella sinistra, infine dall’interno, dopo l’apertura del portellone di destra. Ma il suo racconto era compromesso da almeno un paio di gravi contraddizioni, la prima delle quali riguarda i due colpi sparati attraverso il portellone aperto. Riportando la frase “… quando hanno aperto lo sportello… ho sentito sparare altri colpi… sparò Pietro…” la sentenza intende dimostrare che il presunto pentito aveva descritto correttamente anche quel terzo momento della sparatoria. Se però si va a leggere il passo della deposizione da cui era stata desunta, si scopre al solito che si tratta di una frase assemblata, interpretazione arbitraria di un insieme di risposte dalle quali non è ben chiaro che cosa Lotti avesse voluto intendere. Anche perché, nel controinterrogatorio finale, Mazzeo avrebbe posto una domanda diretta, con il seguente risultato:

Mazzeo: Ecco, ma quando Pietro aprì lo sportello, sparò altri colpi?
Lotti: No, in quel momento lì non ho sentito dei colpi. Li ho sentiti quando gli è andato dalla parte opposta.
Mazzeo: Poi non ha più sparato?
Lotti: No.

Per una volta la risposta di Lotti era stata chiara e precisa: non aveva sentito alcun colpo dopo l’apertura dello sportello. Ma per i giudici l’uomo si era confuso:

[…] tale sua ultima dichiarazione è chiaramente frutto di una confusione del momento, tenuto anche conto del ritmo incalzante delle domande e della irritazione che il Lotti ha spesso manifestato nel rispondere alle domande dei difensori del Vanni, irritazione che può aver causato anche una perdita di “concentrazione” e quindi anche una errata risposta.

Come si vede, nel loro lavoro di messa a punto delle contraddittorie dichiarazioni di Lotti, i giudici arrivarono persino a escludere quelle che proprio non si potevano adattare, come in questo caso, dove sarebbe stata la pressante insistenza di Mazzeo a farlo confondere. Peccato che in precedenza, durante l’interrogatorio ben più “amico” di Curandai, una risposta analoga Lotti l’aveva data anche allo stesso Presidente, il quale forse se ne era dimenticato o non ci aveva fatto caso, non avendolo neppure chiesto: “Allora, questo sportello chi l'ha aperto?”, “Dopo che hanno sparato definitivamente tutto, hanno aperto gli sportelli”. Ma poco più tardi Lotti lo avrebbe ripetuto in una risposta a Curandai: “Poi cosa ha fatto dopo aver sparato?”, “Dopo, quando hanno sparato del tutto, gl'ha aperto lo sportello”.
A rendere ancor meno convincente il riscontro c’è un secondo e più grave problema. Lotti aveva affermato di essere stato costretto da Pacciani a sparare per primo, ma né i due fori di proiettile, ognuno su un diverso finestrino, né la precisione con la quale era stato colpito Horst Meyer si adattavano al suo racconto, secondo il quale avrebbe esploso controvoglia un paio di colpi in sequenza, quindi dal medesimo finestrino, e senza mirare. Del resto neppure i giudici gli credettero:

Non ha invece detto la verità il Lotti sul punto che a sparare i primi colpi sia stato proprio lui, su invito o su ordine del Pacciani. Il fatto è da escludere per le seguenti ragioni, qualunque possa essere stata la sua segreta motivazione nel riferire la circostanza:
a) Il Lotti ha dichiarato che era la prima volta che prendeva una pistola fra le mani e che sul momento non sapeva neanche come fare per farla sparare, tanto che gli aveva spiegato lo stesso Pacciani come fare. Ma, in una situazione di tal genere, il Pacciani si sarebbe subito accorto della incapacità del Lotti a sparare. Non avrebbe quindi mai fatto sparare lui per primo, col rischio di compromettere tutto il risultato […]
b) I primi due colpi, che furono sparati dalla fiancata destra […], sono andati tutti e due a segno ed hanno raggiunto entrambi i giovani, segno evidente che l'omicida era un abile sparatore, tanto da riuscire a colpire entrambi i bersagli e ad immobilizzare a morte il Meyer col primo colpo […]
c) È notorio che ogni pistola, anche di piccolo calibro, all'atto dello sparo fa un certo sobbalzo o rinculo […]. Di tale sobbalzo o rinculo nulla ha invece saputo dire il Lotti, che pure dice di aver sparato reggendo la pistola con una sola mano […]
È evidente, quindi, che non fu il Lotti a sparare quei primi due colpi dalla fiancata destra del furgone.

Lascia piuttosto sconcertati che i giudici non si fossero chiesti il perché Lotti avrebbe rilasciato quella falsa confessione, limitandosi a commentare: “qualunque possa essere stata la sua segreta motivazione nel riferire la circostanza”. Eppure loro stessi avevano sottolineato la tenacia dell’individuo nel nascondere o comunque minimizzare le proprie colpe; in questo caso, invece, se ne sarebbe addossata una non sua, anzi, la più grave di tutte. E se la vera menzogna fosse stata quella di non aver mai preso in mano prima una pistola?

Terzo riscontro


Provata necessità di un “palo” per l’esecuzione del duplice omicidio.
Sarebbe un riscontro, secondo i giudici, il fatto che a Giogoli fosse necessario un “palo”, intendendosi con tale termine una persona ben visibile dalla strada che con la propria stessa presenza avrebbe scoraggiato altre coppiette dall’entrare nella piazzola.

La piazzola di “Giogoli” era, all’epoca, oggetto di alta frequentazione da parte delle “coppiette” desiderose di intimità […].
Sicché s’imponeva la presenza di un soggetto che fungesse da “palo”, in modo da scongiurare, con la sola sua presenza sulla strada, l’arrivo sulla piazzola di eventuali altre “coppiette” durante la fase di esecuzione del duplice omicidio. D’altra parte, la vicinanza del furgone alla strada era tale che un qualsiasi veicolo, non appena si fosse soltanto affacciato all’imbocco della piazzola dal ciglio della strada, avrebbe subito illuminato lo stesso furgone e coloro che fossero stati intenti ad operare vicino ad esso, con tutti i pericoli conseguenti.

Non si comprende davvero come possa un “riscontro” del genere considerarsi tale. Se anche fosse stata autentica l’esigenza di un “palo”, non ne consegue certo che Lotti se ne fosse preso carico. Per di più l’esigenza non sussisteva affatto. Ammesso e non concesso che davvero la piazzola di Giogoli fosse stata un luogo molto frequentato da coppiette – ma al processo Pacciani una residente in zona, Adriana Sbraci, lo aveva nettamente escluso, vedi – la sentenza ipotizza un rimedio inutile e per di più pericoloso. Il furgone era a meno di otto metri dalla strada, e occupava la gran parte dello spazio disponibile, quindi qualsiasi coppietta che avesse accarezzato l’idea di fermarsi lo avrebbe visto e avrebbe rinunciato subito, senza alcuna necessità di venire scoraggiata da qualcuno piazzato di fronte all’imbocco. Però, scrisse l’estensore, ci sarebbe stato il pericolo che i fari dell’auto sopraggiunta avessero illuminato i soggetti presenti sulla piazzola. Ma a maggior ragione avrebbero illuminato e quindi consentito di descrivere il grottesco personaggio fermo sulla strada, proprio davanti alla scena di un crimine che nei giorni successivi avrebbe riempito le pagine dei giornali. D’altra parte, se a passare di lì fossero stati i Carabinieri, a che cosa sarebbe servita la presenza di Lotti se non ad attirare ancora più la loro attenzione? E in questo caso nessuna fuga avrebbe potuto salvare gli assassini dall’essere scoperti, essendo le loro auto parcheggiate a pochi metri,
Ma c’è dell'altro. Lotti non aveva per nulla confessato d’aver svolto a Giogoli un ruolo di “palo”, ma questo gli viene attribuito in modo forzoso dalla sentenza attraverso una frase nella quale lui stesso lo avrebbe lasciato intuire: “… io ero fermo alla macchina … sulla strada… poi… mi chiama Pietro e vo giù… al furgone”. In sostanza Lotti, prima di muoversi su invito di Pacciani, stava fermo accanto alla sua auto, e quindi faceva il “palo”; questo intende la sentenza, tirando però conclusioni che paiono del tutto arbitrarie, ancor più dopo aver letto il discorso integrale dal quale la frase fu estrapolata:

E c'era il furgone lì fermo, volto per così, in su. Poi, dopo un pochino, io ero fermo alla macchina. Mi chiamano, mi chiama Pietro. E vo giù. E mi mese questa roba in mano, io non sapevo nemmeno adoprarli, non ero pratico di queste robe qui. Insomma, mi dice di cosare, però, impaurito come ero, non mi riusciva di cosare, di partire i colpi.

Come si vede la frase fu costruita con vari pezzi, integrati da parole neppure pronunciate (“sulla strada”, “al furgone”), derivati da un discorso nel quale Lotti aveva raccontato l’episodio in cui avrebbe esploso un paio di colpi contro il furgone, e al quale i giudici non avevano creduto. Però, con estrema disinvoltura, la sentenza usa quel racconto menzognero per dimostrare che l’individuo, dapprima “fermo alla macchina”, stava facendo il palo! Supponiamo invece che l’episodio fosse accaduto davvero (i giudici di secondo grado lo avrebbero creduto). Ma come, nonostante tutto il gran bisogno di qualcuno che stesse sulla strada, Pacciani chiama Lotti proprio nella fase delicatissima dell’inizio della sparatoria? E chi faceva il palo in quel momento, Vanni che ne avrebbe intuito la necessità? Come si vede, si tratta di uno scenario del tutto assurdo e inevitabilmente falso.

Pista sarda e considerazioni finali. Nonostante i grandi sforzi di fantasia compiuti da Giuttari per infilare dentro il processo la pista sarda e il personaggio di Salvatore Indovino, la sentenza dedica all’argomento appena un paio di pagine, senza giungere ad alcuna conclusione “positiva”. Secondo i giudici poteva anche aver avuto qualche fondamento l’affermazione di Lotti secondo la quale con il delitto di Giogoli si era tentato di far uscire dal carcere Francesco Vinci, ma non c’era alcun riscontro a confermarlo. Giuseppe Sgangarella e Giovanni Calamosca, che ne avevano parlato in aula, vengono descritti in sentenza come “persone di scarsa attendibilità, per l’intrigo delle loro vicende giudiziarie, per la tendenza a fare valutazioni personali su ogni situazione, per il loro modo (di) dire e non dire le cose”. Infine di Salvatore Indovino e della sua stamberga (nella quale per Giuttari sarebbe avvenuto il passaggio della pistola da Vinci a Pacciani) non si parla affatto.
Naturalmente va dato atto ai giudici di non aver concesso credito a queste fantasie, ma nello stesso tempo si deve rilevare il loro sorprendente silenzio sulle parole di Lotti e Pucci riguardanti Francesco Vinci. Si doveva credere oppure no che i due lo avessero visto assieme a Vanni in San Casciano? Per i giudici pare proprio di no, altrimenti non avrebbero valutato in modo così negativo le testimonianze di Sgangarella e Calamosca. Ma allora sarebbe stato necessario chiedersi il perché di quella clamorosa menzogna. Come in altri casi, la sentenza preferisce sorvolare.
Ancora una volta, come già per Scopeti e Vicchio, dopo la disamina dei “riscontri esterni” si deve in primo luogo concludere che non ne esiste alcuno che coinvolga Vanni e Pacciani. Riguardo Lotti, invece, si ripetono le perplessità inerenti la sua conoscenza di molti particolari della scena del crimine e della dinamica, certamente attribuibile alla lettura di quotidiani o ad altre fonti, ma che comunque rimane sospetta. In più ci sono l’avvistamento della Fiat 128 rossa e soprattutto la questione della cugina di Scandicci, ignorate dalla sentenza ma non prive di possibili inquietanti implicazioni. Al di là che fosse stata oppure no un abituale luogo di sosta per coppiette in cerca d'intimità (le informazioni sono contrastanti), va tenuto presente che la piazzola, per la sua notevole vicinanza all'abitato, non pareva molto adatta a un agguato, quindi difficilmente poteva far parte di un insieme di luoghi tenuti d'occhio da un assassino residente chissà dove. Più facile che il furgone fosse stato notato da qualcuno della zona, che magari vi passava davanti per motivi non connessi alla sua attività di serial killer, il che rende la visite ammessa da Lotti alla cugina ancora più sospetta.

4 commenti:

  1. Ciao Antonio , non prendi mai in considerazione il rapporto tra Lotti e alcuni personaggi noti che si riunivano nella famosa villa ,anche Henry 62 ( che non scrive mai a caso ) ha scritto sul forum che il Lotti era l' unico elemento di unione tra quelli che si recavano a casa Indovino e quelli piú altolocati in villa .... Un altro elemento che fa di Lotti tutt'altro che oligofrenico

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    1. Onestamente credo che Indovino e Villa La Sfacciata con questa storia non c'incastrino proprio nulla.

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  2. Su Pacciani c'è il solito incerto riscontro, come agli Scopeti: il motorino di vecchio modello, in questo caso visto da Attilio Pratesi la mattina di venerdì 9 settembre e da Adriana Sbraci nei giorni precedenti il delitto. Riascoltando lo scambio con Canessa riportato nell'articolo, devo dire che a me Lotti non appare imbarazzato pur mantenendosi come sempre sul generico: piuttosto si direbbe che il pm insistesse per fargli dire qualcosa su una presunta visita alla cugina nei giorni del delitto così da rafforzare la presenza di Lotti sul luogo del duplice omicidio. Quale ragione spinse il furbo Lotti a chiamare in ballo Francesco Vinci e la decisione di scagionarlo (a suo dire) all'origine di questo delitto? Quale vantaggio poteva ricavarne?

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    1. Il vantaggio di fare il gioco di Giuttari, mi pare ovvio, in un tacito "do ut des".

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