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giovedì 31 dicembre 2015

Skizzen Brunnen (2)


Abbiamo dunque visto quanto bassa fosse la probabilità che il 2 giugno 1992, in casa del presunto mostro Pietro Pacciani, potesse venir sequestrato un qualsiasi blocco da disegno appartenuto a Horst Meyer. È molto, molto più facile che Pacciani avesse trovato il noto “Skizzen Brunnen” da qualche parte, magari proprio nella discarica di S.Anna dove disse lui. A poco valgono, infatti, le considerazioni del primo giudice sull’incompatibilità del manufatto, vecchio ma ancora in buono stato, con una lunga esposizione all’aperto, se non a dimostrare ancora una volta la sua ottusa vena colpevolista. È ragionevole immaginare frequenti visite di Pacciani a quella discarica, quindi non è improbabile un adocchiamento precoce del blocco, che per di più avrebbe potuto essere protetto da altri oggetti che lo sovrastavano o contenuto all’interno di una busta.
Anche il fatto che il blocco non venisse commercializzato in Italia vuol dire poco: la Toscana è piena di stranieri appassionati d’arte, non è difficile che qualcuno di loro si fosse portato dietro quel pregiato tipo di blocchi da casa propria. Guarda caso nella stanza del noto personaggio che alloggiava in una villa a lungo perquisita, il pittore svizzero Claude Falbriand, sarebbe stato trovato un blocco analogo.  
Ma se lo “Skizzen Brunnen” di Pacciani proveniva proprio dal negozio Prelle-Shop di Osnabruck, avremmo quantomeno una coincidenza altamente sospetta. Per il giudice di primo grado le perizie calligrafiche avevano dimostrato in modo inequivocabile che i due numeri a matita trovati in quarta di copertina erano stati scritti da due impiegate del Prelle-Shop, il “424” dalla signora Lohman e il “4,60” dalla signora Stellmacher. Il secondo giudice fu meno benevolo verso i risultati della perizia, però mostrò di credere alla Stellmacher, che aveva riconosciuto la propria grafia senza apprezzabili esitazioni. E quindi, per sminuire l’indizio, dette questa spiegazione:

Dunque, il primo quesito può risolversi nel senso che il blocco fu acquistato probabilmente nel negozio Prelle-Shop di Osnabruck, ed in data antecedente a quella dell'omicidio del Meyer e del suo amico Rusch: conclusione la cui possibile valenza indiziaria va comunque commisurata al fatto che Osnabruck è una città di circa 163.000 abitanti, sede di istituti universitari e del più volte citato Istituto Superiore di Progettazione e Disegno, ed al fatto che il negozio Prelle-Shop è un grande negozio su tre piani con grande smercio quotidiano.

Ma di quell’articolo il Prelle-Shop vendeva pochi esemplari, secondo la Stellmacher da tre a cinque a settimana, e a giudicare dalle fatture di cui stiamo per dire anche meno, quindi la spiegazione di Ferri è molto poco convincente. Piuttosto c’è da chiedersi quale affidabilità possa venire riconosciuta a perizie condotte su scritte così brevi, e quale credito possa essere concesso a un’impiegata fin troppo felice di rendersi utile, come era la Stellmacher. 
Ma per ora continuiamo a parlare di probabilità, spostandoci più indietro nel tempo rispetto al post precedente, al momento in cui Horst Meyer avrebbe acquistato il blocco al Prelle-Shop. Ragioniamo sul prezzo di vendita, 4 marchi e 60: a quando risaliva quel valore? Il titolare del negozio, signor Vesterholt, era riuscito a rintracciare alcune fatture d’acquisto degli anni 1982-1984 nelle quali compariva anche il medesimo blocco sequestrato a Pacciani (misura 17x24 cm). Il prezzo del 1982 era di 5,90 marchi, e la valutazione fornita dal signor Vesterholt fu che il prezzo di 4,60 veniva praticato nel 1980-1981. Ma un esame delle fatture porta a conclusioni differenti.
Come si può vedere qui, accanto a ogni riga di articolo, direttamente sulle fatture del fornitore, veniva sempre riportato il prezzo di vendita al pubblico, ottenuto applicando a quello d’acquisto un fattore moltiplicativo attorno a 2,4, quindi con una percentuale di ricarico del 140%. Il prezzo di vendita segnato sulla fattura del maggio 1982, 5,90 marchi, era salito a 6,20 in quella dell’agosto 1983 e a 6,40 nella successiva dell’ottobre, rimanendo invariato fino all’ultima dell’ottobre 1984. Si può notare un andamento più o meno proporzionale a quello dell’inflazione, negli anni ‘80 piuttosto alta anche in Germania (vedi). Nel 1982 si era avuto un valore del 5,3%, con un aumento teorico del prezzo del blocco da 5,90 a 6,21 nel 1983 (reale 6,20). Nel 1983 l’inflazione era stata del 3,3%, e il prezzo teorico nel 1984 avrebbe dovuto essere 6,41 (reale 6,40). Questa regola empirica è importante perché ci consente di ipotizzare l’anno nel quale il prezzo del blocco avrebbe potuto collocarsi attorno ai 4,60 marchi, andando a ritroso con partenza dal valore noto 5,90 riportato nella fattura del maggio 1982. Si suppone naturalmente che la percentuale di ricarico sia sempre rimasta di circa 140%.

Anno
Prezzo
Inflazione

Prezzo anno
successivo
1983
6,20
3,3%
6,40
1982
5,90
5,3%
6,20
1981
5,55
6,3%
5,90
1980
5,26
5,4%
5,55
1979
5,05
4,1%
5,26
1978
4,91
2,7%
5,05
1977
4,73
3,7%
4,91
1976
4,53
4,3%
4,73

Come si vede, per ottenere un prezzo attorno ai 4,60 marchi è necessario scendere agli anni 1976-1977, e questo fatto abbassa enormemente la probabilità che il blocco fosse stato acquistato da Horst Meyer. Per quale motivo, infatti, il ragazzo avrebbe dovuto tenerlo da parte per sei-sette anni fino a decidere di usarlo proprio a ridosso del suo ultimo sfortunato viaggio? Alla catena di eventi improbabili che abbiamo esaminato nel post precedente, va aggiunto anche questo, con ulteriore e drastico abbattimento della probabilità finale. Per di più Horst aveva frequentato la scuola di grafica di Osnabruck soltanto a partire dal 1980, come riporta la sentenza di secondo grado (“questi dal 1980-1981 al 1983 aveva frequentato una scuola di disegno e grafica”; si noti che la valutazione dell’anno di vendita fornita dal compiacente signor Vesterholt era stata, non certo a caso, proprio 1980-1981). Si dovrebbe quindi ipotizzare che la passione del ragazzo per il disegno fosse precedente, il che è ragionevole, ma soprattutto che si fosse recato apposta a Osnabruck, distante poco più di 30 km da Lemforde, il suo paese, per acquistare album da disegno nel negozio Prelle-Shop: ancora un fatto improbabile da concatenare ai precedenti.
Ma ad assestare un colpo ancora più pesante alla credibilità dello “Skizzen Brunnen” come prova contro Pacciani è un'altra delle conseguenze dovute alla retrodatazione del suo acquisto: la signora Lohman aveva lavorato nel reparto articoli da disegno del Prelle-Shop soltanto a partire dal 1980; lo riporta la sentenza di primo grado (“Lohmann KJenner Marina, infine, affermava che, avendo lavorato presso la Prelle Shop nel settore articoli da disegno nel periodo dal 1980 al 1987…”) . Quindi non poteva essere stata lei a scrivere il numero “424” sulla quarta di copertina, come invece avevano stabilito le perizie calligrafiche. In questo modo cade una delle due colonne portanti che avevano consentito di associare il blocco al negozio Prelle-Shop.

Nel quadro che si è andato delineando, bisogna purtroppo prendere atto della mancanza di affidabilità della testimone Heidemarie Meyer, arrivando alla medesima conclusione cui giunse il giudice di secondo grado. Come si legge nella relativa sentenza, nei primi contatti telefonici con l’autorità giudiziaria del suo paese (14 e 15 giugno 1992), riguardo il fatto che il fratello usasse blocchi Brunnen per i suoi disegni, Heidemarie non aveva fornito certezze, dichiarando: "potrebbe aver comprato analoghi blocchi da disegno di marca BRUNNEN ad Osnabruck, nei seguenti negozi: Heintzmann, Prelle-Shop". Ma una settimana dopo, davanti a Perugini che era corso a interrogarla, il condizionale era sparito; anzi, suo fratello li usava spessissimo quei blocchi, e li aveva consigliati anche a lei, che pure si dilettava di disegno, per la loro ottima qualità. Scrisse Francesco Ferri:

È quindi evidente che, nel breve intervallo temporale fra i primi due contatti semplicemente telefonici e l'esame a verbale, qualcuno o qualcosa sollecitò energicamente la memoria della Meyer Heidemarie, sì che ricordi incerti e generici divennero certi e precisi, ed al punto che la giovane esibì e mise a disposizione degli Ufficiali di Polizia italiani un altro blocco "SKIZZEN BRUNNEN" più grande, asserendo che fosse stato acquistato dal fratello: laddove è certo, per le ragioni che si specificheranno in seguito, che esso fosse stato acquistato dopo la morte di Horst.

In effetti Heidemarie consegnò a Perugini un blocco più grande dello stesso tipo, a suo dire acquistato da Horst e da lei utilizzato e conservato per ricordo. Ma su di esso era segnato un prezzo di 10,20 marchi, mentre, a quanto risulta dalle medesime fatture esaminate in precedenza, nell’ottobre 1983 uno "Skizzen Brunnen" di quella dimensione veniva venduto a un prezzo minore, 10 marchi. Dunque il blocco non poteva essere stato acquistato da Horst, almeno non al Prelle-Shop, e molto probabilmente la sorella aveva mentito. Il che getta ombre inquietanti anche su tutte le altre sue affermazioni, tantoché viene da dubitare che il fratello avesse mai usato blocchi Brunnen. È infatti inevitabile chiedersi il perché la donna non avesse mai esibito un disegno realizzato da Horst su carta di quel tipo, potendo così ottenere un effetto gigantesco sulla valenza della prova: possibile che non fosse riuscita a rintracciarne neppure uno, considerato che, a suo dire, il ragazzo riempiva tantissimi di quei fogli?
D’altra parte è difficile immaginare quale possa essere l’angoscia dei familiari delle vittime di omicidi quando il responsabile non viene arrestato. Non che il dolore possa attenuarsi, ma certo, il disporre di una figura sulla quale riversare il proprio legittimo risentimento aiuta a farsene una ragione. Ben si comprende quindi come sia facile che essi pendano dalle labbra dell’autorità giudiziaria, attaccandosi in modo per forza acritico a chi da questa viene presentato come colpevole, e che non si tirino indietro se viene chiesto loro di dare una mano. Nel caso di Heidemarie e del padre, lasciati soli per anni nel doloroso ricordo di un congiunto ucciso senza motivo in un paese straniero, la comparsa improvvisa di poliziotti italiani che finalmente e con sicurezza indicavano loro un colpevole, e non si comprende per quale motivo avrebbero dovuto dubitarne, fa capire il perché si fossero messi fin troppo a disposizione. Qualsiasi persona interessata alla giustizia vera non può che guardare con raccapriccio a questo episodio, raccontato più volte da Perugini (qui in un’intervista a Repubblica del 17 gennaio 1993):

Di una scena non mi scorderò mai. A giugno andammo in Germania per mostrare ai parenti di due delle vittime del maniaco alcuni oggetti trovati a casa di Pacciani. Il vecchio Meyer, padre di Horst ucciso con l'amico in un bosco, capì che potevamo farcela. Mi abbracciò, ancora sento le sue braccia intorno al collo.

In casi come questo è evidente che il bisogno dell’uno di trovare giustizia e dell’altro di darla possono facilmente portare all’accanimento sulla persona sbagliata. E allora la vittima diventa, suo malgrado e per responsabilità non certo sua ma di chi glielo permette, un aguzzino, finendo anche per dimenticare che per un innocente in carcere c’è quasi sempre un colpevole fuori.

mercoledì 30 dicembre 2015

Skizzen Brunnen (1)


Secondo forse soltanto alla cartuccia trovata nell’orto, il blocco “Skizzen Brunnen” fu considerato dalla sentenza di primo grado una prova schiacciante contro Pietro Pacciani. Gli elementi che convinsero la Corte furono soprattutto due: le dichiarazioni di Heidemarie Meyer che il fratello usava quel tipo di blocco e l’attribuzione della scritta sulla quarta di copertina a due impiegate del negozio Prelle-Shop di Osnabruck.
In un periodo successivo al viaggio di Perugini narrato nel post precedente, fu interpellata anche la collega indicata dalla Stellmacher, signora Lohman, che si disse “sicura” al 50% di essere stata lei a scrivere il numero 424. Per avere maggiori certezze, il GIP dispose una perizia grafologica, affidandola ai due esperti Altamura e Santi Calleri. Le loro conclusioni furono però divergenti: Altamura escluse sia che il 424 fosse stato scritto dalla Lohman, sia che il 4,60 fosse stato scritto dalla Stellmacher, mentre Santi Calleri ritenne verosimile la scrittura del 424 per la Lohman, e possibile quella del 4,60 per la Stellmacher. Fu dunque richiesta una seconda perizia, questa volta a De Marco, Contessini e Lotti, con risultati decisamente più favorevoli alle esigenze della Procura.
Ma potevano bastare le dichiarazioni di Heidemarie e una perizia grafologica condotta su qualche cifra sbiadita scritta a lapis per attribuire la proprietà del blocco sequestrato in casa Pacciani a Horst Meyer? Decisamente no, anzi, un esame sereno di tutti gli elementi porta a escluderlo, come del resto fece il giudice di secondo grado.
Per il momento non entriamo nel merito degli indizi che consentirono di associare il blocco al ragazzo tedesco, ma limitiamoci a esaminare la catena di eventi che avrebbero portato al suo rinvenimento in casa Pacciani durante la perquisizione del 2 giugno 1992. Tra di essi ce ne sono alcuni a probabilità veramente bassa, per compensare la quale si dovrebbe immaginare una gigantesca fortuna degli inquirenti, una fortuna in grado di intervenire fin dal  momento in cui Horst Meyer era partito dal suo paese e continuare anche in seguito.
Innanzitutto, perché Horst avrebbe dovuto portarsi dietro quel blocco? In una vacanza estiva organizzata a bordo di un furgone, quindi con il senso di avventurosa precarietà e conseguenti disagi che esso comportava, non sembra possibile che il ragazzo avesse progettato di mettersi a disegnare. D’altra parte a bordo del furgone non era stato trovato nient’altro che facesse pensare a tale attività, ad esempio dei pennarelli. La stessa sorella ammise nella sua deposizione al processo Pacciani che Horst, da appassionato di fotografia, quando andava in vacanza si portava dietro la macchina fotografica (in effetti ritrovata a bordo del furgone), mentre non le risultava che facesse altrettanto con del materiale da disegno.
In effetti Heidamarie tentò di trovare una motivazione differente per la presenza del blocco a bordo del furgone, ipotizzando che vi fosse rimasto involontariamente. Nei giorni precedenti il viaggio in Italia, Horst stava effettuando un trasloco in un appartamento della città di Munster, dove a fine estate avrebbe iniziato nuovi studi. Secondo la sorella l’operazione sarebbe andata avanti fino al giorno prima della partenza, senza neppure concludersi del tutto, e nel furgone sarebbe rimasto del materiale residuo, e forse anche il blocco. Si tratta di un’ipotesi poco credibile, la quale del resto si inserisce in un contesto di bassa credibilità di tutte le dichiarazioni di Heidemarie.
Supponiamo però, per assurdo, che lo “Skizzen Brunnen” si trovasse, per un caso fortuito, a bordo del furgone. Perché Pacciani lo avrebbe preso? Come trofeo per assassini seriali sarebbe stato davvero atipico, un caso unico al mondo, poiché sono oggetti personali quelli che i tristi personaggi prelevano dalla scena del crimine per tenerli di ricordo: un orologio, un monile, un indumento. In questo caso l’unica motivazione plausibile al prelevamento dell’oggetto sarebbe stata il proposito di usarlo, quindi alla fin fine il suo valore venale. Ma perché portarsi via un blocco da disegno da poche centinaia di lire (e tutte le altre quisquilie ipotizzate) quando nel furgone c’erano anche molti beni di molto maggior valore? Ecco quanto ne avrebbe scritto il giudice di secondo grado:

Se si ha riguardo a ciò che venne trovato a bordo dell'autofurgone del Meyer dopo il delitto, si rileva che la descrizione degli oggetti rinvenuti è contenuta in oltre due pagine del verbale di rinvenimento: c'era di tutto, e non soltanto cose di nessuno o scarsissimo valore, ma anche cose di discreto o di notevole valore, come un'autoradio marca Gelhard con equalizzatore marca Commander, la somma di lire 57.500, quattro monete tedesche, una macchina fotografica marca Olimpus K2 completa di obbiettivo da 50mm., un teleobiettivo marca Kenlock da 210mm., un obbiettivo Olimpus da 28 mm., una scatola contenente un filtro ed una pellicola Agfa 50 F, un rasoio elettrico marca Braun, un portamonete in pelle contenente 171 marchi, un orologio da polso, undici musicassette, un carnet di Eurocheques, tessera Eurocheques intestata al Meyer, tessera Eurocheques intestata al Rusch.
Anche a voler escludere il carnet e le tessere Eurocheques, che verosimilmente l'omicida non avrebbe sottratto perché sarebbe stato troppo pericoloso farne uso, tutti gli altri oggetti sopra indicati, e quasi tutti quelli rimanenti custoditi nel furgone, avrebbero dovuto comunque presentarsi ad un assassino-ladro come più appetibili di un blocco da disegno usato, di un portasapone usato, e di matite da disegno.

D’altra parte l’estremo attaccamento dell’individuo Pacciani al danaro era ben noto. Oltre alla sua taccagneria, parlava il precedente del 1951, quando non aveva esitato a impadronirsi del portafoglio di Bonini.
Ancora una volta, però, proviamo a supporre che sì, per ragioni sconosciute Pacciani si prese quel blocco trascurando altri oggetti di ben maggior valore. Ma perché tenerlo in casa per tanti anni? Dopo aver subito l’interrogatorio e la perquisizione del 19 settembre 1985 dovuti alla lettera anonima, in conseguenza dei quali, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe interrotto la catena dei duplici omicidi per paura di essere scoperto, perché non liberarsi di un oggetto tanto pericoloso? Ecco la sorprendente spiegazione del giudice di primo grado.

È da pensare dunque che il Pacciani in una simile situazione si sia certamente preoccupato di mettere al sicuro e forse anche di distruggere o disperdere le prove più concrete ed importanti dei crimini commessi, come la pistola, le munizioni, forse i feticci, forse anche cose ed oggetti sottratti alle vittime, ma non è affatto detto che egli si sia disfatto di tutto ciò che proveniva o era servito per commettere i delitti. Perché non è affatto certo che egli potesse ricordare esattamente, a distanza di tempo e nel gran bazar delle innumerevoli e più disparate cose che egli aveva accumulato in casa o nei luoghi a sua disposizione, quali fossero con precisione tutte quelle che egli aveva portato via da quei luoghi insanguinati.

Come si vede il giudice immaginò uno scenario che non era mai esistito, con chissà quanti oggetti sottratti alle vittime e che dunque Pacciani non poteva ricordare tutti. Ma non pare proprio che l’uccisore di coppiette si fosse mai portato via qualcosa, se non forse a Borgo San Lorenzo, dove la specificità degli oggetti (orologio, portafoglio e catenina della ragazza) avrebbe costituito una prova inoppugnabile. Guarda caso, se mai li aveva presi, di tutti quelli Pacciani si sarebbe liberato…
Inoltre è bene ricordare che, nel momento in cui fu visto da Perugini per la prima volta nel dicembre del 1991 (vedi), il blocco era custodito in un mobile del salotto, dentro una busta bianca assieme a dei documenti, e non in fondo a un baule pieno di cianfrusaglie. Pacciani quindi non l’aveva gettato da qualche parte e poi dimenticato, l’aveva sempre avuto sotto gli occhi. Si potrebbe pensare che ne avesse dimenticato la provenienza. Certo, in linea teorica quasi tutto diventa possibile, però, considerata l’eccezionalità della circostanza durante la quale il blocco sarebbe stato preso, questa eventualità appare molto improbabile.
Supponiamo comunque che davvero Pacciani avesse dimenticato la provenienza di quel blocco. A un certo punto però, secondo la ricostruzione dell’accusa, in seguito all’interesse mostrato dagli inquirenti, di quella provenienza si sarebbe ricordato. E avrebbe cercato un rimedio andando a ricopiare sui primi fogli degli appunti datati 1980 e 1981, quindi in data anteriore a quella del delitto dei tedeschi, il che avrebbe dovuto metterlo al riparo dal sospetto che il blocco fosse stato preso dal loro furgone. Ma per quale motivo Pacciani non avrebbe semplicemente bruciato l'oggetto dentro la stufa, una volta resosi conto dello scampato pericolo, preferendo invece quel contorto rimedio? Ecco un'altra delle incredibili spiegazioni fornite dalla sentenza di primo grado.

Invero, se ci si cala per un momento nella mentalità sospettosa e diffidente dell'imputato, non pare affatto fuor di luogo ritenere che costui, resosi conto che il blocco SKIZZEN BRUNNEN era stato controllato dalla P.G. e dai dirigente di questa e suo acerrimo nemico dott. Ruggero Perugini, che tutto era stato filmato e, dunque, documentato, ma non era stato invece, contro ogni aspettativa, sequestrato, nonostante la copertina rivelasse chiaramente la provenienza tedesca dell'oggetto, abbia potuto pensare alla predisposizione di un possibile "trucco", di una sorta di imboscata ai suoi danni nel caso in cui egli lo avesse fatto sparire: insomma all'uso dei blocco come possibile esca per attirano in una trappola senza scampo. Da qui il motivo per cui egli, invece di disfarsene, lo avrebbe a sua volta "truccato", trasferendovi quelle annotazioni di data anteriore al 1983 che lo avrebbero posto al riparo da ogni sospetto in relazione all'omicidio dei tedeschi: ciò che sembrerebbe indirettamente confermato dal fatto che il Pacciani teneva il blocco nella stessa busta dove custodiva i valori, come qualcosa dunque di importante, mentre poi all'atto della perquisizione del 2 giugno 1992 esso non era più dove l'aveva visto originariamente il dott.Perugini, ma, come riferisce il m.llo Minoliti, venne rinvenuto sul cassettone biblioteca del salotto dentro una busta di plastica che conteneva anche altri fogli ed era sotto un grosso vaso con all'interno dei ceci (fasc. 73, pag. 24 e s.), segno evidente che il blocco era stato adoperato e poi collocato in un posto diverso.

La sentenza ritiene dunque che Pacciani si sarebbe insospettito per aver visto gli inquirenti, durante la perquisizione dal 27 aprile all’8 maggio, filmare il blocco senza sequestrarlo, immaginando qualche trucco. E pertanto, invece di cadere nella loro trappola liberandosi dell’oggetto, avrebbe deciso di contrapporre trucco a trucco, architettando l’espediente degli appunti. Non si comprende però di quale trappola si sarebbe potuto trattare, poiché, dopo un bel falò dentro la stufa, del blocco sarebbe rimasto soltanto un filmato privo di valore.
Tra l’altro si deve notare che l’ipotesi della sentenza che colloca la ricopiatura degli appunti in un momento successivo alla maxiperquisizione non si accorda con quanto Perugini scrisse nel suo libro, raccontando le circostanze del sequestro: “Io lo so già da un pezzo quello che c'è scritto sulle prime pagine, è stato proprio per ciò che l'avevo scartato durante l'altra perquisizione”. A quale “altra perquisizione” si riferiva Perugini? Non sembra che dall’8 maggio al 2 giugno la casa di Pacciani, in via Sonnino, fosse stata sottoposta a una perquisizione. Forse, come in molte altre circostanze, per esigenze letterarie nel suo libro Perugini aveva un po’ arrotato i fatti.
A questo punto tiriamo le fila di tutti i discorsi precedenti, con un empirico ragionamento che è poco più di un gioco ma rende l'idea. Cominciamo con l'aprire una piccola parentesi di matematica elementare, riflettendo sul valore di probabilità di più eventi concatenati: esso decresce sempre più rapidamente via via che il numero degli eventi aumenta. Per fare un esempio, quale può essere la probabilità che la prima persona incontrata uscendo per strada sia una donna? Più o meno il 50%. E che sia anche bionda? Supponendo in un terzo il numero delle donne bionde sarà un terzo del 50%, cioè più o meno il 17%. E che inoltre abbia tra i 30 e i 40 anni? Supponendo in un quarto le donne in quella fascia d’età che se ne vanno in giro per la strada, avremmo un quarto del 17%, cioè poco più del 4%. E che sia alta più di un metro e 70? Considerando che soltanto il 10% delle donne italiane superano quell’altezza, il nostro 4% diviene 0,4%. Come si vede, la probabilità che la prima persona incontrata per strada sia una donna bionda tra i 30 e i 40 anni alta oltre un metro e 70 è irrisoria: 4 su 1000. Se avessimo preso in considerazione singole probabilità molto più basse (come ad esempio che fosse straniera, oppure con i capelli corti e così via) saremmo giunti a una probabilità finale praticamente nulla.
Proviamo adesso ad assegnare delle probabilità ai quattro fortunati eventi, discussi in precedenza, che avrebbero consentito a Perugini di sequestrare un blocco da disegno appartenuto a Horst Meyer in casa Pacciani. Questa è la mia benevola valutazione:

·         Che il ragazzo avesse dimenticato il blocco nel furgone: 20%.
·         Che Pacciani lo avesse preso tralasciando il resto: 20%.
·         Che Pacciani si fosse dimenticato di buttarlo dopo la lettera anonima: 10%.
·         Che Pacciani avesse preferito ricopiare gli appunti al posto di bruciarlo: 30%.

Abbiamo quindi una probabilità concatenata di 0,2 x 0,2 x 0,1 x 0,3 = 0,0012 corrispondente a 12 possibilità su 10 mila! Perugini insomma avrebbe dovuto ricevere un mostruoso aiuto dalla dea Fortuna.
Vedremo nelle prossime puntate che in realtà il blocco non era appartenuto affatto a Horst Meyer, anche se Pacciani quegli appunti li aveva ricopiati davvero.

domenica 27 dicembre 2015

Oggetti dalla Germania

La perquisizione del 2 giugno 1992 nelle proprietà di Pacciani, oltre allo straccio dalle fibre combacianti, aveva procurato molti altri oggetti, alcuni dei quali si sarebbero rivelati di estrema importanza per irrobustire il quadro probatorio. Viene da chiedersi però come potessero essere sfuggiti alla maxiperquisione di appena un mese prima. Se era stata la lettera anonima con l’asta guidamolla ad aver giustificato il prelievo di stracci in precedenza ignorati, non pare fossero sopravvenuti ulteriori elementi, ad esempio testimonianze, a motivare il sequestro di nuovi oggetti. Secondo quanto riporta il suo libro, Perugini avrebbe maturato una tardiva presa di coscienza su quello che ancora rimaneva da fare: 

Il fatto era che non avevo pensato ciò che ero tenuto a pensare, e la cosa mi faceva male. Non sapevo, forse, che certi personaggi collezionano strani “souvenir” delle loro imprese? Che ne hanno bisogno per ricordarsi il modo in cui se li sono procurati, per rivivere le loro “vittorie”? Che godono della sfida e del minimo rischio che li induce a tenerseli addosso, o in casa, o vicini? Magari in bella evidenza, sapendo che essi non possono dire proprio niente agli altri.
E noi avevano cercato come pazzi la pistola, i proiettili, i feticci… Come avevamo potuto non rammentare che il mostro non s’era portato via soltanto i “feticci” dai luoghi dei delitti? Perché, sennò, avrebbe frugato negli indumenti, nelle borsette, nelle auto delle vittime? Era più che probabile che avesse sottratto qualcos’altro. Ma noi non sapevamo esattamente cosa. 

Ecco dunque l’idea che avrebbe illuminato la mente dell’investigatore: cercare nelle proprietà di Pacciani qualche oggetto appartenuto alle vittime. Mai come in questo caso, però, il libro appare tendenzioso e insincero, poiché riesce davvero difficile credere che Perugini, durante le perquisizioni precedenti, già non si fosse guardato attorno in cerca della medesima tipologia di prove. Piuttosto sembra lecito sospettare che la nuova strategia fosse stata decisa a tavolino, e non soltanto da lui, quando ormai ogni speranza di trovare la pistola era svanita. Su quel fronte quanto si poteva fare era stato fatto, ma nelle loro mani gli inquirenti stringevano soltanto una misera cartuccia inesplosa e un’equivoca asta guidamolla, davvero poco per chiedere un rinvio a giudizio. C’era da trovare qualcos’altro, e tra l’enorme massa di cianfrusaglie che Pacciani aveva accumulato in tanti anni di raccatti, qualche oggetto che potesse venire attribuito a qualche vittima poteva ben esserci.
A dire il vero, mai era stato dimostrato che l’assassino avesse preso qualcosa dalle scene dei crimini. A Borgo San Lorenzo aveva sparpagliato in giro i vestiti dei due poveretti portandosi via la borsetta della ragazza, che però aveva gettato a lato della strada, ancora chiusa, dopo trecento metri. È vero che la madre di Stefania si sarebbe lamentata, al processo Pacciani, di non aver mai avuto indietro alcuni valori della figlia, come l’orologio, il portafoglio, una catenina, però è anche vero che nell’immediatezza del fatto i familiari non avevano notato mancanze nell’elenco mostrato loro, quindi si potrebbe anche ritenere verosimile lo smarrimento di qualche oggetto nel transito tra uffici e magazzini delle forze dell’ordine. Forse a Scandicci il Mostro aveva rovesciato a terra il contenuto della borsetta di Carmela vedremo in altro articolo il perché di quel forse in ogni caso non pare si fosse portato via qualcosa. Al collo la poveretta portava una collanina, finita sulle sue labbra durante le manovre di trascinamento: quale miglior souvenir avrebbe potuto desiderare l’assassino, se davvero gli fosse interessato prenderne uno? Nei delitti successivi le borsette furono apparentemente ignorate.
Le maggiori possibilità di successo nella ricerca di oggetti da attribuire a sottrazioni dalle scene dei crimini erano indubbiamente legate ai delitti di Giogoli e Scopeti, dove le vittime, turisti stranieri, avevano portato con loro il necessario per una vacanza, e i familiari non potevano saper bene che cosa. Nell’incertezza, qualsiasi oggetto di produzione tedesca o francese trovato nelle disponibilità di Pacciani poteva essere sufficiente a ingenerare dubbi sulla sua provenienza, se il contadino non fosse stato in grado di giustificarla in altro modo. E ben più della piccola tenda dei francesi, dove i due poveretti dormivano soltanto – l’auto non fu aperta – poté il furgone dei tedeschi, nel quale era stipata una grande quantità di roba. A dire il vero è probabile che l’assassino neppure lo avesse frugato, scappandosene via dopo essersi accorto di aver aggredito due maschi. La confusione trovata dentro il mezzo potrebbe ragionevolmente spiegarsi sia con il fatto che gli occupanti erano due ragazzi giovani, di sicuro non troppo interessati all’ordine, sia con la dinamica del delitto, durante il quale Uwe aveva cercato di sottrarsi ai proiettili fuggendo da una parte all’altra e quindi sparpagliando coperte e quant’altro ingombrava l’interno. Un oggetto comunque l’assassino forse lo aveva preso, una rivista pornografica, probabilmente però incuriosito da un materiale che anche lui doveva consumare, e non per procurarsi un souvenir. Infatti, sempre nell'ipotesi che l'avesse presa lui,  l’aveva poi tagliuzzata e gettata a terra a pochi metri, quando si era accorto che riportava scene omosessuali evidentemente sgradite.
Nel verbale di sequestro della perquisizione del 2 giugno sono elencati molti monili, orecchini, anelli, spille, collanine, nessuno dei quali però sarebbe stato riconosciuto dai parenti delle vittime, neppure dubbiosamente. Come c’era da aspettarsi, si ebbe maggior fortuna con qualcosa che sarebbe potuto appartenere ai ragazzi di Giogoli. Il pezzo forte, infatti, fu il famoso “Skizzen Brunnen”, un caratteristico blocco da disegno dalla copertina rossa, dimensioni 17x24 cm, con spirale, di apparente produzione tedesca. Sui primi fogli Pacciani aveva riportato degli appunti relativi a spese effettuate nel 1980 e nel 1981. Assieme a esso un dizionario tascabile italiano-tedesco, dodici cartoline illustrate con paesaggi della Germania e un portasapone, bianco anonimo secondo il verbale, ma che in seguito si sarebbe rivelato rosa pallido con una misteriosa scritta “DEIS”.
I primi accertamenti sul blocco portarono alla conferma della produzione tedesca, e soprattutto alla scoperta che non veniva commercializzato in Italia. La pista sembrava particolarmente buona, anche perché è molto probabile che gli inquirenti fossero già a conoscenza degli studi di grafica effettuati da Horst Meyer, avendo ricevuto informazioni dalla polizia del suo paese fin dalle prime indagini conseguenti all’omicidio. E quindi, con grandi speranze, fu subito chiesto al consolato tedesco di verificare presso i loro familiari se i ragazzi avessero avuto a che fare con blocchi del genere.
In attesa delle risposte, il blocco venne attentamente esaminato dalla polizia scientifica, che scoprì sul primo foglio impronte di appunti scritti su uno soprastante poi staccato. Questo bastò per giustificare la richiesta di una successiva perquisizione, eseguita il 13 giugno, durante la quale fu trovato il foglio mancante. Nell’occasione si procedette anche al sequestro di altri oggetti di apparente produzione tedesca, varie matite, due rasoi elettrici, due giacche da uomo, una taglierina, più dieci fotografie a colori della città di Amsterdam e qualche altra cianfrusaglia.
Il 14 e il 15 gli inquirenti ricevettero due telefonate molto importanti dalla polizia tedesca, davanti alla quale la sorella di Horst, Heidemarie Meyer, si era dichiarata possibilista sul fatto che il congiunto potesse aver acquistato blocchi “Brunnen” in due negozi specializzati di Osnabruck, città dove aveva studiato disegno all’Istituto Superiore di Progettazione, diplomandosi lo stesso anno in cui fu ucciso. La pista si stava dunque dimostrando foriera di clamorosi sviluppi e Ruggero Perugini non perse tempo: messi in valigia blocco, portasapone, matite e quant’altro avrebbe potuto essere oggetto di riconoscimento da parte dei familiari di Horst e Uwe, il 21 volò in Germania; con lui Pietro Frillici, il maggiore dei carabinieri Alfredo Salvi e un’interprete. Il contesto nel quale si svolse la trasferta dei nostri investigatori era quello di una rogatoria internazionale, i cui atti avrebbero rivestito estrema importanza nel futuro processo, venendo a far parte del fascicolo fornito ai giudici. Ma i difensori dell’indagato non c‘erano, e quindi quali garanzie poteva avere Pacciani sulla genuinità delle prove che si sarebbero raccolte a suo carico?

Come prima tappa del loro viaggio i nostri investigatori scelsero Osnabruck, dove furono accolti dalla estrema e persino eccessiva disponibilità dei colleghi tedeschi della Kriminalpolizei. “Nessuno osi mai più parlarmi male dei tedeschi. L’assistenza che avevamo ricevuto dal consolato di Germania era stata straordinaria; quella che ci diedero i colleghi di Osnabruck fu, se possibile, ancora superiore”, questo avrebbe scritto Perugini, appena prima d’introdurre la figura dell’ispettore Klose, un personaggio che dovette rivestire un ruolo fondamentale nella messa a punto delle nuove prove contro Pacciani. Suo infatti fu il compito d’interfacciare il personale del Prelle-Shop, un grande negozio esteso su tre piani, l’unico dei due indicati da Heidemarie dove si vendevano blocchi “Skizzen Brunnen”. Tra tutto il materiale portato dall’Italia, infatti, era il blocco dalla copertina rossa l’oggetto di gran lunga più importante, quello su cui si riponevano le maggiori speranze di poterne dimostrare l’appartenenza a una delle vittime, Horst Meyer. È vero che sopra non c’erano scarabocchi da poter attribuire al ragazzo, e la semplice asserzione della sorella che egli usasse blocchi di quel tipo certamente non bastava. C’era però un elemento individualizzante sul quale si poteva lavorare, una scritta a matita sulla quarta di copertina, “424/4,60”, quasi certamente un codice seguito da un prezzo apposti nel negozio di vendita.
Nei giorni precedenti l’arrivo dei colleghi italiani, il solerte ispettore Klose si era già attivato presso il Prelle-Shop, senza però rintracciare nessuno che ricordasse di aver visto Horst. Restava da stabilire chi avesse scritto i numeri sul blocco, e a quello scopo la mattina stessa del 21 Klose aveva convocato la signora Stellmacher, commessa dal 1976 al 1987 nel reparto cancelleria e articoli da ufficio, avendola prima “informata del peso della sua testimonianza”, come avrebbe scritto Perugini senza rendersi conto dell’ambiguità di una frase dalla quale emergeva il probabile condizionamento della teste. Preso tra le mani il blocco, la donna affermò di ricordare che di quel tipo ne venivano venduti da 3 a 5 pezzi alla settimana, e si disse sicura al 95% di essere stata lei a scrivere il prezzo a matita, 4 marchi e 60. L’altro numero, il “424”, non le diceva niente e la grafia non era la sua, però le pareva di riconoscervi quella di una sua collega, la signora Lohman. Anche il titolare del negozio, signor Vesterholt, rimase interdetto di fronte al numero “424”, poiché i codici con i quali venivano contrassegnati gli articoli in vendita erano composti da due caratteri, una cifra e una lettera dell’alfabeto, per di più apposti non a mano ma tramite un’etichettatrice.
Il 22 Perugini e i suoi andarono a Lemforde, dai genitori di Horst Meyer, dove li raggiunse la sorella Heidemarie, che abitava in una città molto lontana. Di fronte agli inquirenti italiani e agli agenti del commissariato di Dopholz, la donna rilasciò dichiarazioni molto più precise e perentorie di quelle fornite per telefono una settimana prima: era certa che suo fratello avesse usato blocchi “Skizzen Brunnen”, comprandoli in uno dei due negozi di Osnabruck già indicati, e a riprova aveva portato con sé un blocco di tipo identico a quello sequestrato a Pacciani, anche se più grande (24x33), con sopra dei disegni suoi, asserendo che era stato comperato da Horst. Pur con evidenti incertezze, sia Heidemarie sia il padre George si mostrarono possibilisti sull’appartenenza del portasapone “DEIS” al loro congiunto, come anche un amico, Manfred Lemke, che disse di aver notato un portasapone di quel tipo sopra un davanzale nella stanza del ragazzo. Tutti gli altri oggetti non furono riconosciuti.
Dopo l’inutile visita del giorno successivo alla madre di Uwe Rusch a Cuxhaven (la donna non ricordava bene, e non fu di alcun aiuto), il 24 Perugini e i suoi tornarono a Osnabruck, dove rimaneva l’incertezza sul significato del numero “424”. La partenza per l’Italia, programmata per quel giorno, fu rimandata al successivo, in attesa di comunicazioni da parte del signor Vesterholt, che si era preso l’impegno di chiedere meglio in negozio. Secondo quanto ne avrebbe scritto Perugini, ma che non pare accordarsi con il contenuto dei verbali, lo vedremo, la mattina del 25 l’ispettore Klose chiamò al telefono Vesterholt, e nel lungo colloquio fu chiarito finalmente il mistero di quel “424”: si sarebbe trattato di un esperimento temporaneo di codifica nell’ambito dell’informatizzazione del negozio, dove la prima e la seconda cifra avrebbero indicato mese e anno di carico a magazzino (aprile 1982), e la terza il tipo di articolo. Se ci sono informatici tra i lettori portino pazienza, più avanti scriverò anche di questo obbrobrio.
Il 25 giugno 1992 Perugini, Frillici, Salvi e l’interprete ripartirono per l’Italia, con la convinzione e la soddisfazione di aver raccolto elementi importantissimi per incastrare Pacciani. In realtà non avevano in mano nulla, tanto fumo e poco arrosto, ma quel nulla si sarebbe riusciti a farlo contare tantissimo, anche perché era inserito nel contesto di una rogatoria internazionale i cui atti avrebbero rivestito valore di prova nel futuro processo.

sabato 19 dicembre 2015

L'asta guidamolla (2)


Chi aveva costruito la falsa prova dell’asta guidamolla? A gettare ombre inquietanti sulla vicenda sono innanzitutto i due stracci che avvolgevano il manufatto, ricavati con certezza dal lenzuolo regalato alle figlie di Pacciani: come se li era procurati l’anonimo? Abbiamo visto che Perugini, durante la sua visita non ufficiale alle figlie di Pacciani nella loro casa di piazza del Popolo, si era fatto consegnare quelli reperiti dalle ragazze frugando in giro al momento. Uno di essi era stato trovato nel garage in uso al padre, nel quale però si poteva entrare anche dall’appartamento senza bisogno di chiavi. Così descriveva il reperto la didascalia della corrispondente foto, letta da Perugini in dibattimento (15 giugno 1994, vedi):

Frammento di stoffa dello stesso tipo e colore sopra descritto della lunghezza di cm 48 circa, rinvenuto nell’anta di sinistra della credenza del garage di piazza del Popolo 6, consegnata spontaneamente da Pacciani Graziella in data 31.5.92.

Abbiamo visto che due giorni dopo era stata eseguita una vera e propria perquisizione, estesa anche alla casa di Pacciani in via Sonnino, durante la quale erano stati sequestrati altri pezzi di stoffa (però non in via Sonnino), tra cui uno trovato nella credenza del garage, nella stessa anta sinistra. Ecco la didascalia della foto letta da Perugini in aula:

Frammento di stoffa in cotone stampato a fondo bianco con fiori di colore verde pallido, simile al precedente, forma irregolare triangolare della lunghezza di cm17 circa e base di cm11, rinvenuta nell'anta sinistra della credenza di colore bianco ubicata nel garage di piazza del Popolo 6, di proprietà di Pacciani Pietro durante la perquisizione del 2 giugno ’92.

Dunque in quell’anta sinistra della credenza in uso a Pacciani sarebbero stati ritrovati due stracci, uno consegnato dalle figlie il 31 maggio, l’altro ritrovato nella perquisizione del 2 giugno, e questo secondo, guarda caso, tra i tanti acquisiti, sembrerebbe proprio quello dal quale risultò la contiguità delle fibre sfrangiate con uno dei due inviati dall’anonimo, prova provata che entrambi provenivano dal medesimo lenzuolo. Lo si può arguire anche dalle dichiarazioni del consulente tecnico Francesco Donato in dibattimento (5 luglio 1994, vedi):sfilaccettatura che dà questa compatibilità tra il reperto pervenuto con la lettera anonima e l'ultimo lembo trovato nella casa dell'imputato”. 
Come poteva essere sfuggito quello straccio a Graziella e Rosanna se stava nell'anta sinistra della credenza assieme all’altro? Poteva quell’anta essere dotata di un vano così capiente e così ingombro di altri oggetti da impedirne l’immediato reperimento? Non sembra possibile. Un’anta è un’anta, non un baule, quindi non si può evitare il sospetto che il secondo straccio fosse stato portato da una persona che partecipava alla perquisizione. Quello straccio era parte di uno più grande dal quale erano stati ricavati anche i due che avvolgevano l'asta guidamolla, evidentemente preso di nascosto da casa delle ragazze in qualche occasione precedente il 31 maggio. Questo sospettava anche il maresciallo dei carabinieri di San Casciano, Arturo Minoliti, almeno a sentire Mario Spezi, che una volta ne avrebbe registrato le dichiarazioni, a sua insaputa, in una videocassetta poi fatta sequestrare dalla Procura. Da “Dolci colline di sangue”:

Quello straccio mi puzza, perché non fui chiamato quando fu trovato. Mi spiego: tutte le operazioni sono state condotte in maniera congiunta tra la squadra speciale e i carabinieri di San Casciano. E, stranamente, quando fu trovato lo straccio non fui chiamato. Lo straccio, ti dico, è inquinato, perché tutte le altre perquisizioni le avevo fatte anch’io.
Devo dirti la verità: in quel garage c'eravamo già stati e avevamo trovato già diversi pezzi di stoffa, li avevamo sequestrati e catalogati. Quello non c'era. È uscito fuori quando non hanno fatto partecipare nessuno di noi di San Casciano. 

Sul fatto che la registrazione di Spezi fosse genuina esistono pochi dubbi, nonostante il riuscito tentativo della Procura di bloccarne l'utilizzo probatorio. Dunque, secondo Minoliti, il recupero dello straccio che combaciava con uno dei due inviati dall'anonimo, quello cui si era riferito il consulente del PM indicandolo come “ultimo lembo trovato”, era avvenuto in modo sospetto, in coda al proprio intervento.
In ogni caso il giudice di primo grado, indotto dalla propria impostazione colpevolista a ritenere prova valida anche l’asta guidamolla, si mostrò scettico sulla possibilità che dietro l'invio potesse esserci stata una macchinazione della Polizia: 

La tesi difensiva dell'imputato appare ancora più assurda ove si ipotizzi che a “fabbricare" un elemento indiziante di tale portata possa essere stata, direttamente o indirettamente, la polizia giudiziaria: basta considerare che proprio gli inquirenti, se avessero disposto di quell'asta guidamolla, avrebbero avuto, né più né meno che come per il proiettile, tutto il tempo e l'agio di collocarla in una qualunque delle dimore del Pacciani, durante uno dei tanti accessi che vi andavano a fare per motivi di giustizia, per poi “ritrovarla” e naturalmente sequestrarla nella successiva perquisizione.

Il ragionamento non può essere condiviso, anzi, date le circostanze, Pacciani aveva tutto il diritto di pensar male, lo stesso diritto che ha adesso chi cerca di ricostruire la vicenda da un punto di vista storico. Sembra logico ritenere, infatti, che l’idea dell’asta dovette essere stata una conseguenza del fallimento della ricerca della pistola, e proprio la perdita di ogni speranza di poter ritrovare quella potrebbe aver indotto gli inquirenti a tirarne fuori almeno un (sospetto) pezzettino. Oramai era stata imboccata una perversa strada senza ritorno, e a meno di non perdere totalmente la faccia si doveva per forza proseguire. Si cercò comunque di non commettere errori macroscopici, come sarebbe stato quello di far ritrovare l’asta guidamolla nelle proprietà di Pacciani, dove sarebbe parso poco ragionevole che fosse sfuggita alle 12 giornate della madre di tutte le perquisizioni. E così si fece il poco che si poté, inventandosi la storia dell’anonimo. Il pezzo di metallo fu indiziato con due lembi di uno straccio prelevato dall’appartamento di piazza del Popolo (di facile accesso perché in uso alle figlie), non a caso scelto tra i molti ricavati da un medesimo lenzuolo, con un doppio vantaggio: le ragazze non avrebbero fatto caso alla sua mancanza, e in seguito sarebbe stato possibile effettuare una comparazione. Guarda caso, nell’appartamento di via Sonnino, dove viveva il padre e dove non si poteva entrare se non in presenza di lui o di un suo legale, nessuno straccio fu trovato.

In dibattimento (1° giugno 1994, vedi e vedi) era anche emerso l’episodio probabile origine della probabile macchinazione. Due amiche che stavano facendo footing avevano visto Pacciani e la moglie in un bosco vicino a Mercatale, il primo seduto, la seconda forse intenta a cogliere fiori. Niente di sospetto, quindi, anzi, l’uomo si era anche lasciato andare a una battuta scherzosa, “bambine, che correte?”. Ma quattro o cinque giorni dopo era iniziata la maxiperquisizione, un fatto clamoroso capace di rendere significativo agli occhi delle due donne l’altrimenti trascurabile episodio. Ripensandoci, infatti, ne avevano parlato impressionate con gli amici, uno dei quali lo aveva riferito ai carabinieri, i quali erano andati a cercarle e le avevano interrogate.
In una deposizione successiva (15 giugno, vedi) Perugini si ricollegò all’avvistamento, pur senza indicarlo direttamente (ma dubbi non ce n’erano, era quello, “perché l’Angiolina non usciva mai […] quando c'era lui”), raccontando di una poliziotta in borghese che aveva seguito Pacciani e la moglie mentre si dirigevano verso la medesima zona con in mano delle buste di plastica (vedi). L’agente però era dovuta tornare indietro per non insospettire l’indagato, che nel suo memoriale del 7 marzo 1993 aveva comunque scritto di averla vista e salutata (vedi). Fu senz’altro quello l’episodio dal quale prese spunto chi costruì la falsa prova dell’asta guidamolla, con forse anche ambizioni poi non del tutto sviluppate. Infatti, essendo avvenuto prima della maxiperquisizione, per suo tramite si sarebbe persino riusciti a spiegare il mancato ritrovamento della pistola nell’orto, che non c’era perché, smembrata, giaceva chissà dove, con il piccolo perno di metallo, unico pezzo rimasto in mano a Pacciani forse come ricordo, da lui opportunamente nascosto appena in tempo. Ma questo ragionamento non sembra sia mai stato proposto.

L'asta guidamolla (1)

Il lettore ricorderà che la prova più significativa contro Pacciani, forse a pari merito con il blocco “Skizzen Brunnen”, fu considerata la cartuccia inesplosa calibro 22 trovata nel suo orto durante la nota maxiperquisizione, tra il 27 aprile e l’8 maggio 1992. In realtà in quell’occasione gli inquirenti erano speranzosi, se non addirittura convinti, di trovare la pistola, e la cartuccia fu una specie di surrogato che la fortuna, oppure una manina furbacchiona, aveva messo a loro disposizione non appena ci si era resi conto che nella parte dell’orto dove Pacciani era stato visto scavare non c’era proprio nulla. Una volta persa la speranza di trovare la famigerata Beretta, la medesima fortuna – oppure la medesima manina furbacchiona – proseguì per quella strada.
Il 25 maggio, a distanza di un paio di settimane dalla fine della maxiperquisizione, i Carabinieri di San Casciano ricevettero una lettera anonima con dentro un perno di metallo avvolto da due pezzi di stoffa bianca a fiorellini verdi e il seguente testo vergato a mano in stampatello:

Questo è un pezzo della pistola del Mostro di Firenze e sta' sulla Nazione: c'era la fotografia. Stava in un barattolo di vetro stiantato (qualcuno lo à trovato prima di me) sotto un albero a Crespello-Luiano – e’ si vede il tabbenacolo della vergine. Il Pacciani andava lì e lavorava alla fattoria. Anche la moglie e la figlia grande passeggiavan lì e’ sono grulle e’ fanno tutto quello e’ lui gli comanda se no ne toccano. Il Pacciani è un diavolo e incanta i bischeri alla t.v. Ma noi lo si conosce bene e lo avete conosciuto anche voi. Punitelo e Dio vi benedirà perché un è un omo è una berva. Grazie.

Sul retro del biglietto l’anonimo aveva disegnato una rozza piantina. Un controllo presso la Beretta permise di identificare con precisione il piccolo oggetto: si trattava dell’asta guidamolla utilizzata in alcuni modelli di pistola della serie 70 (quella del Mostro), un perno che va a inserirsi dentro la molla di recupero del carrello otturatore per evitare che questa si pieghi mentre viene compressa dalla forza dei gas del colpo esploso. 


Seguendo le scarne indicazioni dell’anonimo, si credette di poter individuare il punto del ritrovamento lungo una strada poco fuori Mercatale, nei pressi di un tabernacolo, dove si cercarono i pezzi del barattolo di vetro “stiantato”, senza fortuna, però. Altre ricerche eseguite con il metal detector allargando la zona non portarono al ritrovamento di ulteriori componenti di pistola.
Se non c’era modo di dimostrare che il perno provenisse davvero dalla Beretta del Mostro, né che fosse stato nascosto da Pacciani, si poteva però sperare che i due stracci in cui era avvolto fossero stati suoi, anche se l’anonimo non aveva precisato da dove li aveva presi. E così domenica 31 maggio Ruggero Perugini si presentò con una vaschetta di gelato sottobraccio nell’abitazione di piazza del Popolo, dove le figlie di Pacciani rientravano da Firenze nei fine settimana. Ma lasciamo la parola allo stesso investigatore, dal libro “Un uomo abbastanza normale”:

Il 31 maggio, la domenica pomeriggio, decidiamo di andare a Mercatale per parlare con Rosanna e Graziella. Ho scelto il dì di festa perché così le possiamo trovare tutte e due. Ci fermiamo lungo la strada per comprare del gelato, ma non è per questo che sembrano contente di vederci, poverine. Tutti noi vogliamo loro bene e probabilmente lo sentono, non sono abituate alla gentilezza degli uomini. Riccardo e Callisto, poi, hanno maturato una vera affezione per le due ragazzine (continuiamo a considerarle tali anche se sono più che maggiorenni). E non trovo più strano sentire il gelido, inflessibile Riccardo parlare loro con la stessa voce che forse usa per raccontare le favole al figlio le rare volte che riesce a metterlo a letto.
Ci accomodiamo in salotto, chiamiamolo così, mentre Alessandro Venturini rimane in piedi sulla soglia, appoggiato al tramezzo che divide quella stanza dalla cucina. No, a loro non sembra di aver mai visto per casa una stoffa chiara a fiori verdi, però se ci teniamo possono controllare. Sì, grazie,
ci farebbe piacere se dessero un'occhiata in giro. Certo, però, a via Sonnino dove sta il Vampa non se la sentono di andare. Sì, ci rendiamo conto, non fa niente, basta che cerchino bene qui, magari anche negli sgabuzzini dove il Vampa tiene una parte della sua attrezzatura. Anche in quel barile che sta giù in garage, fra i ritagli del cuoio che lui conservava dopo aver ritagliato con i trincetti le suole per le scarpe. Capito quale? Sì, sì, va bene, ma perché ci interessava saperlo? Niente di importante, è uno dei molti accertamenti che dobbiamo fare.
Mentre le stiamo salutando Alessandro emette un suono strozzato e accenna col braccio verso un punto della cucina: «Dotto', ma non è come quella là la stoffa?».
Ci alziamo di scatto e usciamo dal salotto. Accanto alla cappa della cucina, appeso a un chiodo, c'è un lembo di stoffa bianca a fiori verdi. Sembra proprio quella.
«Ma che, quello strofinaccio? Lo uso per asciugare i piatti. Ce n'è un monte di quelle pezze lì» dice Rosanna.

A quel punto le ragazze raccontarono di un lenzuolo ricevuto in regalo da Graziella un paio d’anni prima, dal quale avevano ricavato degli strofinacci, che subito si misero a cercare trovandone alcuni in un sottoscala e uno nella credenza del garage in uso al padre, subito consegnati ai loro ospiti. Le successive comparazioni eseguite dalla Scientifica portarono alla certezza che la stoffa era di tipo identico a quella che avvolgeva l’asta guidamolla.
Incoraggiati dalla provvidenziale e fortunatissima scoperta, il 2 giugno gli inquirenti tornarono a perquisire ufficialmente le proprietà del contadino, recuperando altri stracci tra cui un secondo dalla credenza dove già ne era stato trovato trovato uno. E, guarda caso, proprio quello dette la prova definitiva sull’appartenenza al lenzuolo anche di uno dei due trovati attorno all’asta guidamolla, poiché si poté dimostrare la completa corrispondenza tra le fibre di due dei loro lati sfrangiati. Quindi una volta i due pezzi facevano un tutt’uno.
Rispetto alla cartuccia, sull’asta guidamolla esistono ancora meno dubbi che si sia trattato di una prova costruita a tavolino. Tutto sa di falso, grossolanamente falso. Innanzitutto sfugge il senso dell’operazione compiuta da Pacciani andando a sotterrare quel perno di metallo: forse voleva disfarsi della pistola poco a poco? Il compunto procuratore generale nel processo d’appello, Piero Tony, ci avrebbe persino scherzato un po’ sopra durante la propria requisitoria. Da Repubblica del 6 febbraio 1996:

È un elemento di nessun valore indiziante. L'unica ipotesi è che Pacciani abbia smembrato la pistola e ne abbia disseminato i pezzi. Ma allora, se non si trattasse di fatti atroci, di dolori feroci, non avrei remore a fare dello spirito e ad evocare una scena da Pantera Rosa. Dunque, Pacciani invece di buttare la pistola la smembra, avvolge ogni singolo pezzo in biancheria di casa, li mette in contenitori di vetro e poi li seppellisce nei boschi. Mi pare di vederlo con la sua zappa in spalla. Ma come avrebbe potuto fare tutto ciò se dal momento della sua scarcerazione, il 6 dicembre '91, è stato sempre intercettato, controllato, pedinato?

Il lenzuolo era stato regalato a Graziella mentre il padre era detenuto, e quindi questi avrebbe potuto utilizzarlo soltanto a partire dalla propria scarcerazione, quando oramai gli agenti della SAM gli stavano addosso, ed era impossibile eluderne il controllo. Riesce altresì difficile pensare che in quei momenti di grande pericolo il furbo contadino avesse ritagliato i due stracci proprio da un variopinto lenzuolo i cui altri pezzi rimasti in casa avrebbero costituito una prova a suo carico!
Riguardo l’anonimo, non si comprende bene come avrebbe fatto ad associare un insignificante pezzo di metallo trovato per terra sia con la pistola del Mostro sia con Pacciani. La lettera faceva riferimento a un articolo pubblicato il 5 maggio sulla Nazione nel quale compariva il disegno di uno dei modelli di Beretta 70 esploso in tutti i suoi componenti, più o meno simile a quello qui riprodotto.


C’era anche l’asta guidamolla, numero 10 nella figura sopra; ma non si sa bene come un qualsiasi perno dotato di capocchia, lungo 6,5 cm e molto simile a un chiodo, avesse potuto far venire in mente a chi lo aveva trovato a terra quell'esploso di pistola, a meno che non si fosse insospettito per aver visto Pacciani mentre lo nascondeva. Ma non pare così, almeno stando a quanto si può dedurre leggendo la lettera, dove l’anonimo racconta di aver trovato l’oggetto già dissotterrato da qualcuno. Se avesse visto Pacciani all’opera, si può immaginare che a dissotterrarlo sarebbe andato lui. L’associazione con Pacciani sarebbe nata dal fatto che il contadino “andava lì e lavorava alla fattoria”: un po’ poco, anche perché la fattoria in questione distava qualche chilometro, e lui vi aveva lavorato diversi anni addietro.
Ulteriori perplessità sono dovute all’invio anche dei due stracci, guarda caso rivelatisi provvidenziali per poter in qualche modo associare il perno a Pacciani. Evidentemente l’anonimo aveva compreso la loro importanza. Come? Chi, prima di lui, aveva dissotterrato il barattolo curiosando nel suo contenuto doveva averli svolti. Se li aveva riavvolti attorno al perno, l’anonimo avrebbe dovuto lasciarsi sedurre dalla curiosità di guardare dentro il fagotto per trovarlo; se li aveva gettati via doveva aver sospettato che forse in origine avvolgevano il perno. In entrambi i casi si tratta di comportamenti possibili, ma ben lontani dal poterli ritenere scontati; quindi, date le condizioni al contorno, si può come minimo affermare che lo scenario dà adito a leciti dubbi.
La falsità dell’anonimo è evidente anche nello stile artificioso del testo scritto, dove aveva cercato di accreditarsi per un toscano ignorante scrivendo in toscano. Ma nessun ignorante scriverebbe mai in dialetto, il cui uso nella lingua scritta innanzitutto non è semplice (a scuola non si insegna a scrivere in dialetto), ed è comunque limitato a un certo genere di letteratura oppure alla trascrizione del parlato. I numerosi apostrofi di elisione con i quali lo scrivente aveva tentato di rendere alcune particolarità della calata toscana, come l’uso fonetico della “e” prima del si impersonale (“e’ si vede”), oppure in sostituzione di un pronome (“e’ sono grulle”), dimostrano che lo scrivente era ben consapevole di usare il dialetto toscano.
Può sembrare incredibile, ma l’artificiosità dello scritto, che avrebbe dovuto squalificare ancor più il valore dell’asta e degli stracci come prova, al processo non poté essere evidenziata. Il biglietto infatti fu escluso dagli atti, in quanto anonimo, come le nuove regole imponevano, ma l’asta e gli stracci no, quelli furono acquisiti, e dunque chi avesse voluto avvalersi dello scritto per dimostrare la cattiva fede dell’anonimo, non avrebbe potuto farlo. Fu un avvocato di parte civile, Luca Santoni Franchetti, a evidenziare il paradosso nel proprio intervento finale (20 ottobre 1994, vedi):

Non è possibile che di fronte a 16 vittime io non riesca a parlare di un biglietto che è così chiaramente falso, prodotto da una persona che ha studiato, perché i grafemi sono chiaramente prodotto di una persona... La “T” è fatta come una croce, la “A” come un'alfa greca, la “E” nella maniera inversa di quella che noi facciamo sempre. È possibile non doverne discutere? E guardate che è importante. Perché noi si è anche pensato che se lo potesse essere mandato il Pacciani. Siamo arrivati addirittura a questa perversione, e vi diremo poi perché. Ma se non è stato il Pacciani ad inviarla […]
La “E” ha il trattino di mezzo lunghissimo, al contrario di quello che succede normalmente; la “T” è fatta in maniera assurda; la “Q” ci ha il trattino perpendicolare esattamente. È assurdo. Cioè nessuno scrive normalmente cosi. E a noi questo ci brucia. Però ricordiamoci bene che questo è la chiave di questo delitto. Chi l'ha mandato? E perché? Benissimo, non è acquisibile, non se ne potrà parlare in sentenza. Ma nel vostro iter mentale questo andrà pur considerato. Si parla molto di gruppo, di qualcuno che può essere intorno a qualcun altro. Ma queste cose non si possono passare sotto silenzio, e non saranno passate sotto silenzio, perché noi dobbiamo arrivare in un processo cosi nebuloso, indiziario, a una verità storica, una verità vera. Ma andiamo avanti. Questo era il punto fondamentale e proprio su questo ci si trova le mani legate. Chi l’ha mandato? Chi aveva la possibilità di trovare quel panno verde e legarlo lì?

Franchetti riteneva Pacciani innocente, e le prove materiali contro di lui costruite ad arte, ma da chi? Anticipando per certi aspetti la successiva pista esoterica, immaginava un gruppo di colpevoli in grado di sviare le indagini. Ma, almeno nel caso dell’asta guidamolla, la realtà pare molto più semplice.