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mercoledì 7 agosto 2019

Pittori, ville e servizi segreti (1)

Proseguendo il racconto delle indagini sulla pista esoterica – vedi Il ritorno di Giuttari – verrà qui trattato l’argomento della “villa” che varie volte ha fatto capolino in precedenti articoli. Come vedremo, i proprietari della villa in questione avrebbero subito notevoli disagi dagli ingiustificati sospetti nati a loro carico, e anche se oggi di quei sospetti non rimane traccia alcuna, neppure nelle discussioni in rete, è comunque loro desiderio non essere più accostati alla vicenda del Mostro. D’altra parte non è possibile, per una ricostruzione storica, ignorare quanto è accaduto in quei mesi di follia giudiziaria. Pertanto qui i fatti verranno ricostruiti, ma senza alcun nome, né quello della villa, che verrà indicata semplicemente come “villa”, né quelli dei proprietari, che verranno indicati come “famiglia C.”, e neppure quello del pittore che contribuì alle loro disgrazie. Anche eventuali interventi dei lettori ne dovranno essere privi, pena la loro non pubblicazione.

La fuga del pittore. In Compagni di sangue, assieme alla pista corrispondente a Giulio Zucconi – il “dottor Jekyll” che si sarebbe avvalso del “mister Hyde” Pacciani per soddisfare i propri istinti maniaci, vedi – ne veniva ventilata una seconda, quella di un misterioso pittore affittuario di due stanze in una villa-hotel situata tra San Casciano e Mercatale. Per inquadrare correttamente gli assurdi eventi giudiziari che avrebbero riguardato proprio questa villa, bisogna tornare agli anni dei delitti del Mostro, quando la struttura era adibita a casa di riposo per anziani facoltosi. Per una di quelle sfortune che possono capitare a persone scelte forse a caso dal destino, in un anno imprecisato Pacciani vi aveva svolto un’attività di giardiniere. Secondo i proprietari si sarebbe trattato di poca cosa, un rapporto di lavoro durato un paio di giorni e finito a male parole per la cattiva qualità dei risultati, ma quel poco era bastato per infettare la villa con un pericoloso germe i cui devastanti effetti si sarebbero visti qualche anno più tardi.
In tempi più recenti la famiglia C. era incappata in una seconda sfortuna: aveva incrociato la strada di Gabriella Pasquali Carlizzi (qui la presentazione del personaggio). Nel 1995, mentre si trovava nel bel mezzo della vicenda delle accuse ad Alberto Bevilacqua, la vulcanica “giornalista investigativa” era stata contattata telefonicamente da un fotografo in possesso, a suo dire, di una succulenta notizia: a San Casciano viveva un’amica dello scrittore al corrente di molte cose. Si trattava della giovane A., figlia dei coniugi proprietari della villa, una bella ragazza con ambizioni artistiche, madre di una bambina, già nota alle cronache per una storia di violenza subita da un famoso personaggio televisivo. In più il fotografo asseriva che la villa era un luogo inquietante, e ne faceva notare la vicinanza alla piazzola di Scopeti. A raccontarlo la stessa Carlizzi nel suo libro Lettera ad Alberto Bevilacqua (febbraio 1996):

«Signora Carlizzi, in quel posto c’è un mistero, perché non ci va, vedrà, avrà paura anche lei… »
«Paura? E perché dovrei avere paura? »
«[…] il mistero è tutto lì, in quel maledetto posto… […] c’è un limite signora Carlizzi, tra le cose terrene e le cose dell’aldilà, non tutti hanno il coraggio di varcare questo limite…»
«Senta, non la capisco più, ma chi dovrebbe varcare questo limite secondo lei?»
«I giudici… Quelli che cercano la verità…»
«Ma lei è pazzo, non lo sa che i giudici possono esaminare solo prove, intendo dire, cose terrene?»
«Ma in questo caso potrebbero essere utili anche le cose non terrene…»
«E quali per esempio?»
«La magia… L’esoterismo… Le messe nere… Le evocazioni… I riti sacrificali… Le sedute spiritiche…»

Gabriella Carlizzi si era precipitata a controllare di persona, ma era stata respinta in malo modo, ricevendo naturalmente una cattiva impressione. Così, in una denuncia orale nell’ambito della vicenda Bevilacqua, raccolta dalla questura di Firenze il 22 e 23 novembre 1995, aveva raccontato l’episodio (il testo è riportato in il Mostro «a» Firenze):

Nella primavera scorsa sono stata contattata da RINELLI Angelo fotoreporter domiciliato a Roma […] il quale mi fornì spontaneamente gli atti relativi alla separazione giudiziale tra Bevilacqua e la di lui moglie Marianna Bucchic. Nell’occasione ebbi l’impressione che Rinelli conoscesse molte cose del Bevilacqua, cosa di cui ebbi conferma quando mi raccontò di una relazione che intercorreva tra una sua amica di nome “I.” e lo scrittore. In proposito precisò che tale I. era titolare di un Hotel […] facendomi notare che tale Hotel si trova a San Casciano Val di Pesa tra luoghi che sono stati teatro di altrettanti delitti del “Mostro”. […]
Sempre nel corso della scorsa primavera, telefonai alla suddetta “I.” per conoscere direttamente le circostanze relative alle sue frequentazioni con il Bevilacqua. Costei ebbe una reazione, unitamente ai genitori che parteciparono alla conversazione telefonica, di grande paura, pertanto non ritenni opportuno insistere. L’altro ieri, 20 novembre, unitamente ad Alessandra Lisi, Mariangela D’Alessio e Cristiana Crivelli, ci siamo recate presso il suddetto Hotel. La signora Lisi e la signorina D’Alessio, scese dall’auto hanno chiesto un colloquio con la signora “I.” al padre della stessa il quale però si mostrava evidentemente e incomprensibilmente allarmato. Dopo circa quindici minuti si è presentata la signora “I.”, la quale, da quanto riferitomi dalle mie collaboratrici, mostrandosi estremamente spaventata, prima ancora di qualche richiesta o domanda da parte delle predette, ha chiesto: “è la signora Carlizzi?” ed ha affermato “si tratta di Alberto” continuando con “cosa volete che dica, che Alberto è un pazzo, che è il mostro di Firenze?”, mentre il padre interveniva con fare aggressivo e affermava: “mia figlia non capisce niente, non sa niente di questa storia, voi non dovete scrivere niente!”.
Le mie collaboratrici, avvertendo una notevole tensione, sono tornate verso l’auto ove io le attendevo con la signorina Crivelli, seguite dal padre dell’I. che con il dito puntato verso di noi ha proferito le seguenti parole: “guai a voi se esce qualcosa, mia figlia non sa niente, se scrivete qualcosa la pagate cara!”. L’atteggiamento del padre di I. mi ha sorpreso in quanto non ritengo sia attribuibile al semplice timore di pubblicità, questo perché i genitori della giovane donna sono al corrente della relazione della figlia con lo scrittore ed inoltre I. è stata già protagonista della cronaca quando, in qualità di autrice di poesie, conobbe Vittorio Sgarbi e denunciò di aver subito molestie sessuali da parte dello stesso, nell’occasione molti servizi giornalistici sono stati fatti proprio a “Villa…”.

La sorpresa della Carlizzi per l’atteggiamento aggressivo dei C. risulta francamente fuori luogo, dati i suoi trascorsi ben documentati dalle cronache. In ogni caso, dopo tale segnalazione, sia la giovane A. (nel frammento indicata come I.), sia la madre G. avevano subito un interrogatorio, che al momento non aveva dato luogo a ulteriori sviluppi.
Ma il destino era ancora in agguato, pronto a giocare un terzo brutto tiro alla malcapitata famiglia C. La sfortuna si presentò loro con le sembianze di C.F., pittore di buona levatura internazionale, forse francese forse svizzero, che in quello stesso 1996 prese in affitto due stanze per esporvi e vendere i propri quadri. Sembra però che l'individuo non fosse stato troppo diligente con i pagamenti, che oltre l'affitto avrebbero dovuto coprire anche l’uso del ristorante per pranzi e cene con i suoi clienti.
Passò un anno circa mentre il debito aumentava, fino a quando C.F. badò bene di risolvere la questione, dalla sera alla mattina, fuggendo – la leggenda dice a cavallo di una motocicletta, in realtà con il camper nel quale dormiva – e lasciando sul posto tutte le proprie cose. Tra di esse oggetti inquietanti, e collegati con la vicenda del Mostro, secondo la giovane A. e la madre G., le quali, con la speranza di essere aiutate a recuperare le loro spettanze, ebbero la pessima idea di andarlo a raccontare a Giuttari. Da Compagni di sangue:

Accade proprio alla vigilia dell'apertura del processo, esattamente il 14 maggio 1997. Quel giorno al dottor Giuttari arriva la telefonata di due donne, madre e figlia, proprietarie di una villa in aperta campagna, su una collina tra San Casciano e Mercatale. Due donne già conosciute mesi prima, proprio in occasione delle indagini sugli omicidi, già interrogate per un vecchio rapporto di lavoro che Pacciani aveva avuto con loro. Dicono di avere qualcosa di molto interessante. Qualcosa che avevano trovato in due stanze della villa occupate, fino a qualche giorno prima, da un artista francese.
Sopra ad un tavolo di grandi dimensioni, lungo oltre quattro metri, avevano disposto parecchi oggetti. Armi e un'abbondante documentazione pornografica. C'era un revolver calibro 38, alcuni coltelli particolari, foto raffiguranti scene pornografiche impressionanti molto simili ad alcune scene dei delitti. C'erano numerosissime riviste pornografiche di edizione francese, disegni e quadri raffiguranti prevalentemente una femminilità violentata e deturpata. Tutto quel materiale appartiene ad un pittore, tale C.F., di origine svizzera, ma abitante in Francia.
Un personaggio strano, che finché aveva occupato quelle stanze si era fermato lì per la notte solo pochissime volte, soprattutto negli ultimi tempi, perché di solito dormiva in un furgone tipo camper, attrezzato per l'occasione. In pratica il pittore si intratteneva di giorno nella villa, dove riceveva i suoi clienti, ma poi andava via, ritornando solo il giorno successivo. L'uomo possedeva un terreno e una casa colonica in Emilia, e una casa a Cannes. Di queste proprietà, prima di andare via, aveva lasciato alle due donne una procura speciale rilasciata presso un notaio di Scandicci, per venderle e potere in quel modo pagare l'affitto delle stanze.

Generalmente i pittori sono tutti personaggi un po’ particolari, spesso eccentrici, e C.F. non faceva eccezione, anzi, ma ritenerlo collegato alla vicenda del Mostro in base agli oggetti sequestrati sembra del tutto forzato. A proposito dei “quadri raffiguranti prevalentemente una femminilità violentata e deturpata”, c’è da dire che doveva trattarsi di quelli normalmente in vendita. Chi volesse togliersi lo sfizio di attaccarne uno simile nel proprio salotto, può acquistarlo ancor oggi on line per poche centinaia di euro. Eccone degli esempi:

 

Ma nella villa aveva lavorato Pacciani, anche se molti anni prima, quindi un collegamento con la vicenda del Mostro era assicurato d’ufficio. Collegamento invero labilissimo, sufficiente però per proseguire con le indagini sul pittore, e non soltanto su di lui, poiché a insospettire Giuttari erano anche la giovane A. e la madre G., che a suo parere non l’avevano raccontata tutta. Si legge in Compagni di sangue:

Il racconto è strano e poco convincente. Michele Giuttari sequestra tutto il materiale e fa accertamenti ma il pittore risulta incensurato agli atti di Polizia. Il 22 maggio, le donne chiamano ancora per la consegna di altro materiale. Si tratta ancora di materiale pornografico, a detta delle donne appartenente sempre al pittore.
Intanto, viene perquisita e sequestrata la casa colonica del pittore, sull'appennino emiliano. All'interno, su tutte le pareti delle camere, ci sono murales raffiguranti animali e donne con evidenziati gli organi genitali, i cui temi ricordano i noti disegni di Pacciani. Sul posto vengono interrogati alcuni amici del pittore che sono in possesso delle chiavi della casa, perché incaricati della vigilanza e di eseguire lavori di ristrutturazione. Il pittore, qualche settimana prima, aveva comunicato loro che aveva dovuto lasciare improvvisamente la villa di San Casciano, dove pensava di trasferirsi definitivamente, perché era stato trattato male dalle proprietarie, che addirittura lo avevano più volte chiuso a chiave nella camera. Il pittore conosceva la figlia dei proprietari di quella villa da oltre dieci anni e con lei aveva avuto una relazione sentimentale.

Convinte di aver fatto il proprio dovere e rassicurate sul recupero delle proprie spettanze, le povere donne si accorsero presto di aver commesso l’errore della loro vita. Così avrebbe scritto anni dopo il signor R., fratello di G., sul sito internet dove aveva riportato un drammatico resoconto della triste vicenda:

Ovviamente se avessimo avuto qualcosa da nascondere non avremmo mai e poi mai chiamato la Polizia e con tanta insistenza. Ma incredibilmente la nostra opera di aiutare la giustizia e la nostra speranza – assolutamente legittima – di recuperare quel credito ci si rivoltò contro. Dopo pochi giorni il capo della squadra mobile si presentò con un mandato di perquisizione, e subimmo una perquisizione terribile dalle sette del mattino fino al pomeriggio impedendoci anche di telefonare all’avvocato.

Ed ecco invece il punto di vista di Giuttari, sempre da Compagni di sangue:

In considerazione dei nuovi elementi raccolti, scatta la perquisizione nella villa, dove viene sequestrato altro materiale, appartenente all'artista, che non era stato consegnato dalle due donne nelle due occasioni precedenti. E lì c'è qualcosa di molto interessante. Disegni che riproducono autovetture di grossa cilindrata di tipo sportivo e moto, sempre di grossa cilindrata. Temi che ricordano i disegni di Pacciani, rinvenuti nel corso delle varie perquisizioni a suo carico. C'è anche un blocco da disegno Skizzen Brunnen delle dimensioni di 34 x 48 cm, recante sul retro il tagliando del prezzo di DM 19.60 e la dicitura, verosimilmente del negozio "Bausch Deulmann - 7570 Badén Baden". Un blocco della stessa marca e tipo era stato sequestrato nell'abitazione di Pacciani in occasione della perquisizione eseguita il 2 giugno 1992. Anche i familiari del Rusch, ucciso a Giogoli nel 1983, avevano consegnato alla Polizia un analogo blocco da disegno utilizzato dal giovane ucciso. Risultano diverse solamente le dimensioni, essendo quello rinvenuto a casa di Pacciani della grandezza di 17 x 24 cm e quello a casa del tedesco di 24 x 33 cm.

Da un esame sereno della lista di oggetti rinvenuti consegue l’ovvia considerazione che una terribile cultura del sospetto faceva vedere delle montagne al posto di qualche sassolino. È significativo in proposito il parallelo tra i disegni del pittore e quelli di Pacciani, auto e moto di grossa cilindrata, come se il fatto potesse rivestire un qualche significato probatorio. Ma lascia ancora più sconcertati il ragionamento sul blocco “Skizzen Brunnen”, dove si tocca veramente il ridicolo andando anche a confrontare le grandezze. Perché… forse i blocchi di marca “Brunnen” rientravano nel materiale necessario ai riti di magia nera? Ma allora, come faceva a saperlo il povero Horst Meyer (e non Uwe Rusch, come invece fa intendere il frammento precedente) quando ne avrebbe acquistato uno nel negozio di Osnabrück almeno 12 anni prima del pittore?
Nella puntata del Maurizio Costanzo Show del 19 maggio 1998, proprio quella conseguente alla pubblicazione di Compagni di sangue – dove Giuttari era stato invitato ma, per ordini superiori, non aveva potuto andare – tra gli ospiti c’era anche Ugo Fornari, coautore della nota perizia Lotti, al quale, secondo notizie giornalistiche, la procura aveva chiesto un giudizio sui disegni e gli altri oggetti del pittore: “Materiale importantissimo”, questo il suo sintetico parere esternato in trasmissione. Notizie su valutazioni più approfondite non se ne conoscono, ed è sicuramente meglio così, anche per la stessa dignità dell’eminente studioso, del resto non l’unico a cadere in una trappola simile (si ricorda l’altrimenti ottimo Francesco De Fazio per il noto “Sogno di fatascenza” e il luminare Vittorino Andreoli per i veri disegni di Pacciani).
Torniamo però a Compagni di sangue, dove il discorso si fa interessante per quelle che vanno considerate vere e proprie anticipazioni della futura pista esoterica.

C'è, inoltre, ben custodito in una copertina di plastica, un foglio di giornale del quotidiano «La Nazione» del 26 marzo 1996, riportante notizie sugli omicidi del “Mostro” e sugli indagati Lotti, Vanni e Pacciani, tutti fotografati. Di quotidiani e riviste italiane non c'era altro. Ci sono, invece, altri oggetti molto significativi e riconducibili proprio all'esercizio di pratiche di Magia nera. E proprio successivi accertamenti sui proprietari della villa consentono di appurare che si tratta di persone dedite ai riti di Magia nera.
Ci sono significative coincidenze con l'inchiesta sui “compagni di merende”. I proprietari della villa e l'artista francese risultano dediti alla magia, così come Pacciani e i frequentatori della casa di Indovino. Pacciani aveva frequentato sia la casa di Indovino, che la villa, quest'ultima, a dire dei proprietari, come giardiniere.
II pittore, professionista di spessore internazionale, come testimoniano le mostre fatte in varie città europee ed anche oltre oceano, realizzava disegni e quadri, aventi gli stessi temi di quelli di Pacciani. Tra il materiale sequestrato, c'era una rivista francese, di ottima fattura, destinata sicuramente ad una cerchia di clienti riservati, che riproduceva nudi femminili con varie
menomazioni, come il taglio del seno sinistro e del pube. Proprio di quelle parti, che, nel concreto, la banda di "Mostri" aveva realizzato.

Insomma, come mettere di tutto in uno shaker e tirare fuori per magia – questa sì che lo è – una nuova pista foriera di clamorosi sviluppi. A questo punto, infatti, Lucarelli e Giuttari formulano delle fantasiose ipotesi sul ruolo che potrebbero aver avuto villa e pittore nella vicenda del Mostro.

Chi è, veramente, il pittore? Un ispiratore? Un ideologo di quelle torture sessuali, che rappresentava nei suoi quadri ma che venivano realizzate da altri? O semplicemente un ammiratore affascinato di quei delitti e di quei luoghi? Fa parte di quel secondo livello, appena sfiorato dall'inchiesta bis? La villa, che lo ha ospitato, è stata luogo di riunioni particolari tra le persone interessate a quegli omicidi, una specie di club riservatissimo composto da pervertiti con tendenze sadiche, dediti a riti satanici? Perché i proprietari della villa, alla vigilia dell'apertura del processo, hanno consegnato quel materiale, che avrebbe potuto essere compromettente anche per loro?
Per sciogliere gli interrogativi bisognerebbe rintracciarlo. Ma il pittore fa subito perdere le proprie tracce, anche in Francia, dove risulterebbe essersi recato dopo aver lasciato improvvisamente San Casciano. Tutti i tentativi finora svolti hanno dato esito negativo. Il Consolato svizzero, la polizia francese, i suoi amici emiliani. È come svanito nel nulla. Non si fa sentire nemmeno per chiedere notizie sul sequestro della sua proprietà.

Sembra ovvio che C.F. non avesse avuto alcuna intenzione di farsi trovare; evidentemente il suo debito non era per nulla coperto dal valore della casa colonica data in pegno, in verità poco più di un rudere. Riguardo i malcapitati proprietari della villa si poté indagare un po’ di più, come avrebbe raccontato il signor R..

A nostra insaputa cominciarono delle indagini terribilmente offensive nei nostri confronti: grazie alle agende sequestrate durante la perquisizione la squadra mobile convocò in questura tutte le persone che conoscevamo: lavoratori, amici, conoscenti e nemici ed esaminò addirittura tutti i nostri conti correnti degli ultimi quarant'anni.

Per il momento però la famiglia C. fu salva, poiché, già lo sappiamo, il Ministero dell’Interno intervenne a fermare Giuttari; come per Francesco Calamandrei, tutto rimandato a data da destinarsi.

Il pittore torna. L’uscita di Compagni di sangue aveva irritato alquanto Gabriella Pasquali Carlizzi, che avrebbe voluto vedersi riconosciuta la priorità della segnalazione sulla villa e su Pacciani giardiniere della stessa. Non a caso la sera della presentazione del libro nel salotto di Costanzo era fuori dal teatro a regalare copie del proprio Lettera ad Alberto Bevilacqua al pubblico in ingresso, suscitando l’ira del presentatore. Una decina di giorni dopo tentò di rientrare in gioco inviando alla squadra mobile e a due giornalisti importanti (Agostini e Selvatici) una lettera in cui affermava di aver visto il pittore passeggiare nel parco della villa e di poter fornire elementi utili al reperimento della pistola del Mostro. In seguito fu sicuramente ascoltata, ma chi scrive non ha documenti che lo comprovino. In ogni caso il blocco delle indagini dovette bloccare anche i suoi tentativi di parteciparvi, come si evince dal fatto che nel libro il Mostro a Firenze in corrispondenza dell’anno 1999 vengono riportati soltanto due fax, dopo gli otto dell’anno precedente, mentre nel 2000 c’è il vuoto.
Da notizie giornalistiche, si viene a sapere che la pista del pittore e della villa era ancora ben presente nel brogliaccio di lavoro di Giuttari al suo rientro in scena a fine estate 2000 (ad esempio, su “Repubblica” dell’8 settembre 2000: “Fra le deleghe firmate dal pm Canessa ce n'è una interamente dedicata ad un pittore francese che ha vissuto a lungo in una villa tra San Casciano e Mercatale dove aveva lavorato Pietro Pacciani”). Ma si trattava di una pista al momento bloccata, essendo il pittore irreperibile. Fino al 31 marzo del 2001, quando, approfittando della fresca notizia dell’apertura di un fascicolo sulla morte di Pacciani, la Carlizzi rientrò in gioco attraverso l’invio di questo fax:

Ill.mo Capo della Squadra Mobile Dott. Michele Giuttari Firenze.
La sottoscritta Gabriella Pasquali Carlizzi chiede alla S.V. di essere ascoltata come persona informata sui fatti, nell’ambito delle indagini relative alle cause della morte di Pacciani Pietro.

A quanto se ne sa, sulla morte di Pacciani la donna non aveva nulla da dire, almeno di significativo, mentre sulla villa e sul pittore molto di più. Il 7 e l’8 aprile fu interrogata a lungo da Giuttari, che ai giornali rilasciò lo stringatissimo commento: “Dall’interrogatorio non è emerso niente di rilevante”. Ma è difficle che il commissario l'avesse raccontata giusta, poiché il giorno dopo correva in Francia a interrogare il pittore. Vista la concomitanza di date, è infatti molto probabile che fosse stata proprio la Carlizzi a segnalargli l’uscita di un articolo su un settimanale svizzero in lingua francese contenente un’intervista a C.F., dopo la scoperta della sua residenza nelle vicinanze di Cannes. Da “Repubblica” del 9 aprile:

Il settimanale elvetico «dimache.ch» ha rintracciato C.F., il pittore ginevrino che il capo della mobile Michele Giuttari vuole interrogare sui delitti del mostro. In un servizio intitolato «C.F.: "Non sono il mostro di Firenze"», il giornalista Paolo Mariani lo descrive come un uomo di 65 anni «che dice di essere malato», «si muove a fatica» e dichiara di non aver avuto un solo «momento di pace» dal 1976, quando fu denunciato per oscenità per alcuni suoi dipinti.
Nel ‘77 - scrive Mariani – C.F. lascia la Svizzera, per stabilirsi prima a Baden, poi nel Jura, infine per dividersi fra la Costa Azzurra e la Toscana: «Ma il suo gusto per l’erotismo, talvolta violento, non smetterà di essere messo in relazione con la sua vita privata». Anche in Italia, dove fra le sue carte sono state trovate foto di donne mutilate.
C.F. - racconta il giornalista - «cade dalle nuvole quando gli diciamo che l’affare del mostro sta di nuovo dispiegando le sue ali attorno a lui». Dell’Italia, dove non mette piede dal ‘97, si dichiara disgustato. «Sono una banda di gangsters», gli avrebbe detto il suo avvocato. Il pittore dice di aver soggiornato per lo più «in una piccola casa, per metà in rovina, a Tredozio, sull’Appennino», e per un breve periodo a San Casciano, in  «uno stabilimento gestito da una famiglia di truffatori da cui sono fuggito appena ho potuto».
«Non ho mai conosciuto nessuno che si chiamasse Pietro Pacciani», assicura, «e non ho mai avuto abbastanza soldi per permettermi un giardiniere». Quanto alle indagini sul mostro, è categorico: «C’è un complotto contro di me. Qualcuno vuol farmi fare il capro espiatorio. Ma sono io, la vera vittima». E si scaglia contro la famiglia che lo ha ospitato a San Casciano: «Mi hanno rubato tutto: i miei effetti personali, i miei mobili, le mie carte, le mie opere, persino i miei ricordi».

Interrogato il 9 aprile da Giuttari, C.F. si mostrò molto spaventato per i guai in cui avrebbe potuto incorrere – come minimo per l’accusa di detenzione illecita di armi – quindi non esitò a concedere tutta la collaborazione della quale il suo interlocutore aveva bisogno. Fu così che da possibile indagato diventò un importante teste nell’inchiesta sulla villa, ci si può immaginare con quale grado di attendibilità, viste le sue paure e le sue convenienze. C.F. seguì Giuttari in Italia, dove il 12 aprile partecipò a un sopralluogo nei dintorni della villa. Il giorno successivo il procuratore capo Guttadauro, nella conferenza stampa indetta per l’occasione, dichiarò: “C.F. non ha nulla a che vedere con il mostro di Firenze”. Il lettore penso sia d’accordo nell’interpretare il fatto come il classico do ut des, soprattutto considerando il tenore delle dichiarazioni rilasciate da C.F.. Si può farsene un’idea da una successiva intervista che concesse appena dopo il suo ritorno in Francia. Dal “Corriere della sera” del 23 aprile 2001.

Più che un appartamento, sembra la bottega di un rigattiere. Vestiti accatastati sui divani, scatoloni sparsi in pochi metri quadri, un odore terribile che arriva dalla cucina. Al centro c'è lui, un uomo distrutto nel fisico e nella mente. Per camminare si appoggia a un bastone, le mani tremano, fatica a parlare. Da mesi vive rintanato in questo bilocale di Montelieu, sette chilometri da Cannes. Ma del mondo dorato della Costa Azzurra il pittore C.F., 64 anni, non sa nulla.
Che cosa è successo in Toscana? “Sono dovuto fuggire, quelle due donne mi hanno rovinato la vita”.
Che rapporto aveva con loro? “Avevo conosciuto tanti anni fa la figlia e nel '97 fui ospite in quella villa”.
Che cosa le fecero? Di tutto, le cose più terribili. Venivo drogato e chiuso in una stanza. Poi mi convinsero a firmare delle procure a vendere e mi portarono via tutte le cose preziose che avevo. Mi hanno rubato miliardi. Avevo cose stupende, non ho più nulla”.
Come la convinsero a firmare? “Non lo so, ero completamente soggiogato. Scoprii che mi mettevano delle sostanze nel cibo. Mi tenevano sequestrato”.
Quando lei andò via, le proprietarie della villa consegnarono alla polizia alcune cose che lei aveva lasciato: una pistola, alcuni dipinti e un blocco da disegno uguale a quello di una delle vittime. Non era roba sua? “Era soltanto una piccola parte e comunque io con il mostro non c'entro davvero niente. Quel blocco faceva parte di decine di altri blocchi che avevo per il mio lavoro. Anche il resto non significa nulla. E' stato un complotto. Sono fuggito proprio perché ho capito che volevano incastrarmi. In quella casa c'era gente pericolosissima”.
Che cosa vuol dire? “Succedevano cose strane, soprattutto la sera. Ma di questo la polizia mi ha detto che non posso parlare”.
Lei partecipava a quelle riunioni? “No, assolutamente no”.
Conosceva Pietro Pacciani? “Mai visto. Non mi interessa la gente che taglia le persone a pezzi”.
Da indagato a testimone d’accusa. Perché ha deciso di collaborare con la polizia solamente ora? “Non sapevo che mi stavano cercando. Quando sono andato via volevo soltanto dimenticare. Sono state quelle donne a farmi ammalare e adesso dovranno pagare”.

Chissà perché un mese prima, davanti al giornalista elvetico che lo aveva scovato, per C.F. i proprietari della villa erano soltanto una “famiglia di truffatori”. In ogni caso per loro le cose si stavano mettendo molto male. Furono convocate in questura tutte le persone che avevano lavorato nella ex casa di riposo, tra cui due infermiere che evidentemente colsero l’occasione per sfogare vecchi rancori. Ecco un campionario delle loro terribili accuse riportato dal “Corriere della sera” del 23 aprile 2001:

Ha raccontato una teste alla polizia: “In quella casa succedeva di tutto. Nelle stanze c'erano soltanto due reti dove i vecchietti venivano tenuti tra feci e urine. Nessuno se ne curava. Un giorno uno di loro morì. Lo chiusero in una stanza e ci ordinarono di non parlarne con nessuno. I familiari dovevano ancora pagare la retta mensile e quindi non dovevano sapere che era morto. Lo tennero così per giorni. Gli anziani erano praticamente abbandonati a sé stessi.”
Ma la parte più interessante per gli inquirenti riguarda quello che avveniva la sera. “Dopo le dieci - ha messo a verbale un'altra donna - in quella villa nessuno poteva più mettere piede. Arrivavano diverse persone e si compivano riti magici e satanici. Si celebravano messe nere, cose strane, stranissime. Erano tutti strani. Ricordo la figlia della proprietaria: aveva appena sette anni, ma era una bambina che dava l'angoscia, metteva paura. Aveva sempre uno sguardo allucinato e quando usciva in giardino scavava delle buche. Diceva che costruiva le tombe. Tutti erano strani, anche quelli che venivano nella villa, ma a noi dipendenti non era permesso entrare quando scendeva la sera e venivano chiusi i cancelli.”

Il lettore sa già o comunque s’immagina che tutto sarebbe finito in niente, quindi è pacifico che le dichiarazioni delle due ex infermiere erano mendaci; la qual cosa però si poteva intuire già al momento, poiché proprio in quella struttura era stato ricoverato anche il padre del procuratore aggiunto Francesco Fleury, il quale quindi non si sarebbe accorto di nulla: molto difficile da credere.
Va peraltro registrata almeno una testimonianza contraria, quella di un ex cuoco che raccontò la verità sul pittore, e che per questo si vide accusare di favoreggiamento e calunnia. Dal che si può immaginare quale fosse l'atmosfera poco serena in cui si stavano svolgendo le indagini e gli interrogatori inerenti la villa.

Caccia alla setta. Quelli venuti fuori dal pittore e dai dipendenti della ex casa di riposo parevano elementi clamorosi... fossero stati veri. Veri non lo erano, ma per i nostri investigatori sembra proprio di sì, giudicando da come si sentirono ancora più motivati a cercare altre possibili tracce lasciate dalla misteriosa setta. Tra le vecchie carte conservate nei loro archivi ce n’era anche qualcuna che faceva riferimento diretto a sette sataniche e riti magici. Come quelle riguardanti la regista televisiva Maria Consolata Corti, figlia di un ex questore, che nel 1990 aveva rilasciato al settimanale “Visto” alcune sconcertanti dichiarazioni, secondo le quali “il mostro di Firenze è un personaggio molto noto e potente, con una doppia identità, e fa parte di una terribile setta satanica. È un uomo di 72 anni che lavora per i servizi segreti, di origine siciliana ma che ha vissuto a lungo in Toscana”.
Dopo l’uscita dell’articolo, la donna era stata convocata dalla SAM, dove le sue parole non erano state prese sul serio, anche perché non aveva voluto rivelare il nome del presunto assassino. Il 24 maggio 2001 Giuttari e Canessa tornarono a interrogarla, ottenendo quel nome e “preziose” informazioni sull’impiego dei feticci. Sul libro Il Mostro di Firenze di Fabio Fox Gariani viene riportato il relativo verbale, tratto da un articolo del “Messaggero” del 15 settembre 2001, che non è nella disponibilità di chi scrive.

Mio padre L., morto in circostanze misteriose a 54 anni, aveva sospetti su quel collega. L’ho capito dopo ricordando un episodio. Quando vivevo a C. nella casa dei miei genitori, un giorno ho trovato in cantina uno degli aeroplanini di carta che papà faceva per uno dei miei bambini. Per quello aveva usato un foglio dove c’era un appunto con il nome di X e una nota che diceva più o meno: “Tutte le piste portano a lui. Possibile che nessuno se ne accorga?”.
Nel ’75 mio padre venne ricoverato in una clinica romana per un sospetto tumore. Venne operato e poi trasferito in ospedale in rianimazione. Prima di morire disse: “Assassini, siete una mafia!”. Chiedemmo un’autopsia alla presenza di un nostro medico. Ma la fecero in fretta e furia dicendoci: “È venuto un dottore che ha detto di essere stato mandato da voi”. Non era vero. Presentammo una denuncia alla procura di Roma che venne archiviata.
Nell’87 mi occupai del mostro per la trasmissione RAI per cui lavoravo. E mi tornarono in mente l’aeroplanino, le ultime parole di mio padre. Chiesi un appuntamento a quell’uomo con una scusa. Al secondo incontro mi propose un lavoro illecito: dovevo trovare persone disposte ad acquistare titoli accademici e nobiliari falsi. Dissi di no. Capii che sospettava che avessi intuito tutto. Mi voleva inguaiare. Poi ci siamo visti altre volte.
Lui ha iniziato a fidarsi. Mi ha raccontato che molti anni prima si era innamorato di una ragazza, allontanata da lui dalla famiglia. Disse che aveva iniziato ad odiare le persone che si amano. Mi confessò di essere entrato in una setta che uccideva uomini e donne al momento dell’accoppiamento, che aveva commesso anche altri delitti oltre a quelli attribuiti al mostro di Firenze, ma che i cadaveri non erano stati mai trovati. Mi raccontò particolari tremendi, che aveva tagliato pube e seni di alcune delle sue vittime con un coltello multiuso. La setta li usava per dei macabri rituali, ritenendo che durante l’atto sessuale vengano liberate energie che possono essere utilizzate per curare malattie o aumentare la forza fisica. Disse cose pazzesche tipo: “I veri mostri sono quelli che fanno uscire falsi identikit, come quello che ha portato un barista al suicidio. Il vero identikit non esiste perché quando ammazzavo usavo maschere sempre diverse”.
Ero terrorizzata. Andai alla Mobile di Roma a raccontare tutto, ma mi dissero di lasciar perdere.

Secondo Gariani le dichiarazioni della donna sarebbero state prese molto sul serio da Giuttari e Canessa, del che parrebbe legittimo dubitare, visto il loro delirante contenuto. Se Gariani aveva ragione, vuol dire che gli entusiasmi del momento per il tema delle sette avevano condizionato non poco la serenità di giudizio del poliziotto e del magistrato.
Passiamo ad altro. Segnalata probabilmente già anni prima da Gabriella Pasquali Carlizzi, Giuttari e Canessa presero in esame la cosiddetta “perizia” – se così la vogliamo chiamare – di Tommaso D’Altilia, anch’egli sedicente “giornalista investigativo”. Si trattava di un documento del 1996 nel quale D’Altilia aveva già affrontato la vicenda del Mostro da una prospettiva di servizi segreti deviati e sette sataniche. A quel tempo lui e la Carlizzi si conoscevano e si frequentavano, e insieme avevano cercato invano di far pubblicare il lavoro, del quale entrambi forse non avevano più copia. Almeno questo si dovrebbe dedurre dalle mosse di Giuttari, che il 3 luglio 2001 mandò tre poliziotti a cercarne una a casa di Paolo Cantarelli, al quale D’Altilia aveva affidato la ricerca di un editore. Dopo il blitz, Cantarelli avrebbe ripreso i suoi tentativi fino a far pubblicare integralmente la perizia, verso la fine di quello stesso anno, in un libro dal titolo Mostro d’autore.
Il documento è un coacervo incredibile di sciocchezze, pieno di affermazioni gratuite e ragionamenti privi di logica. Valga un solo esempio a dimostrarlo, peraltro il pezzo forte. Secondo D’Altilia il delitto del 1968 sarebbe stato compiuto con una pistola differente rispetto a quella utilizzata nei successivi, quindi qualche forza oscura, tipo servizi segreti, avrebbe sostituito i bossoli  ritrovati nel fascicolo di Signa con altri sparati dalla pistola del Mostro (un tormentone che si fa sentire ancora oggi). Lo scopo sarebbe stato quello di far partire la falsa pista sarda per proteggere i veri assassini delle coppiette, da ricercarsi – c’è bisogno di specificarlo? – negli appartenenti a una setta. A prestarsi al subdolo depistaggio sarebbe stato anche il mitico maresciallo Fiori, quello che secondo alcuni si sarebbe ricordato del delitto di Signa e secondo altri avrebbe ricevuto una spinta da un ritaglio di giornale giunto in una lettera anonima, ma che in ogni caso avrebbe invitato i suoi superiori a controllare (vedi).
D’Altilia crede di poter dimostrare la non identità delle due pistole attraverso questo sconcertante ragionamento:

L’analisi storica è fatta di tasselli come un puzzle. E infatti, raffrontando il delitto Locci-Lo Bianco con i sette duplici omicidi dal ’74 in poi ci si accorge che l’arma non combacia, il tassello non s’incastra. Infatti nei sette delitti dal ’74 in poi, vennero sparati complessivamente 63 colpi.
Poiché la matematica non è un’opinione, è evidente (63 diviso per 7 dà 9), che l’arma usata dal ’74 in poi, detonò una media di nove colpi a delitto. Ergo, mentre la Beretta calibro 22 di Stefano Mele portava otto colpi a caricatore pieno, quella dei delitti successivi ne portava di più. Palesemente, matematicamente, non era la stessa arma!

È difficile stipare così tanti sfondoni in così poche righe. Innanzitutto non c’è alcuna certezza che la pistola di Signa fosse stata a 8 colpi, lo si può soltanto dedurre da una sibillina frase di Stefano Mele. In più non si può stabilire la capienza dell’altra conteggiando la media dei colpi sparati in tutti e sette i delitti successivi, semmai si dovrebbe prendere il valore massimo, supponendo che non ci fosse mai stato un ricaricamento. Poi la certezza che dopo Signa sarebbero stati sparati in totale 63 colpi non è noto da dove D’Altilia l’avesse tratta, il documento non lo dice. La tabellina riportata da Giuttari ne Il Mostro ne conteggia 52, mentre un’attenta ricostruzione delle dinamiche ha portato chi scrive a ipotizzarne 54. Ma c’è di peggio. Teniamo pure buoni i 63 colpi di D’Altilia e il metodo della media. Ebbene, la media di 9 a delitto è del tutto compatibile con una semiautomatica con caricatore da 8 colpi, la cui capienza effettiva è proprio di 9, aggiungendo quello inseribile in canna!
Non si sa bene quanto credito avessero dato Giuttari e Canessa alle sciocchezze di D’Altilia su sette e servizi segreti, di sicuro sconcerta alquanto scoprire, attraverso la sentenza Micheli, che anni dopo Giuliano Mignini ne avrebbe ripreso la teoria delle due differenti pistole e del depistaggio.
Torniamo però al 2001, e aggiungiamo ancora un tassello al variegato scenario che si presentava davanti ai nostri investigatori. Da “Repubblica” del 7 agosto:

Negli ultimi mesi, in questura sono arrivate alcune lettere anonime ritenute particolarmente interessanti. Nei messaggi si parla di magia nera dietro agli omicidi della calibro 22, si offrono dettagli che solo chi è bene informato può conoscere, e si invita la polizia a cercare una donna genovese (descrivendola, ma senza rivelarne l’identità) che molto saprebbe sulla vicenda. La donna è stata rintracciata a Genova dalla squadra mobile, nei giorni scorsi è stata interrogata, così come la sorella, e i loro appartamenti sono stati perquisiti. Dal faccia a faccia, un indizio: Pacciani frequentava i vicoli di Genova, la zona a luci rosse delle lucciole da marciapiede, fra la fine degli anni '70 e l’inizio degli '80. Particolare da chiarire: l’ultima di queste lettere anonime è stata consegnata già aperta in questura e in ritardo rispetto al giorno del suo arrivo a Firenze. La procura ha già sentito l’ufficiale di polizia giudiziaria che l’ha ritrovata per primo per chiarire l’elemento.

Delle due sorelle prostitute di Genova che avrebbero conosciuto Pacciani esistono altri cenni in altri articoli di giornale, dove viene anche raccontata la strana storia di un animale impagliato al cui interno sarebbe stata nascosta una misteriosa videocassetta in grado di svelare i misteri dei delitti del Mostro. È quasi inutile specificare che di tutta questa storia non si è saputo più nulla, quindi di nulla doveva trattarsi. Ma intanto anch’essa contribuì ad arricchire un rapporto che Giuttari proprio in quei primi giorni d’agosto consegnò in procura.

Il rapporto di Giuttari. Si tratta di un documento mai emerso, del quale però si conoscono a grandi linee i contenuti in virtù dei sunti riportati dai giornali. L’ipotesi alla base era naturalmente quella della setta che avrebbe commissionato i delitti ai compagni di merende. Non avendo in mano nulla di decisivo che lo potesse dimostrare, Giuttari mise dentro di tutto. Alcuni argomenti li abbiamo appena visti, inutile ripeterli. Altri riguardavano la presenza della magia nera tra i personaggi dell’inchiesta precedente. Come il ben noto mago Indovino, nella cui stamberga sarebbero state consumate orge a base di sesso e magia. E come lo stesso Pacciani, al quale ai tempi era stato sequestrato del materiale ritenuto “sospetto”: un tabellone per sedute spiritiche, un libro sui demoni, ricette magiche scritte su fogli di quaderno. Non si capisce però se il contadino era da considerarsi un semplice prezzolato con un proprio personale interesse per la magia “casereccia” oppure un adepto della setta.
Con l’aiuto dell’antropologa Cecilia Gatto Trocchi, e soprattutto di tanta fantasia, furono reinterpretati in chiave esoterica alcuni elementi già noti. Nel tralcio di vite infilato nella vagina di Stefania Pettini si volle vedere traccia di un rito, essendo la pianta simbolo di fecondità; ma che il delitto fosse avvenuto a qualche metro di distanza da una vigna suggerisce una spiegazione senz’altro più semplice e prosaica. Traccia di un altro rito si volle vedere in una pietra a forma di piramide tronca raccolta vicino al luogo del delitto di Calenzano, che però poteva anche essere classificata come un semplice fermaporte. E poi, era credibile che il gran sacerdote o chi per lui, forse Pacciani, si sarebbe attardato sul posto con candele o quant’altro rischiando di attirare l’attenzione di eventuali guardoni o altre coppiette? Forse la preziosa piramide tronca era stata dimenticata sul posto in seguito a una precipitosa fuggi fuggi della congrega? Ultima considerazione, ma forse prima in ordine d’importanza: per i delitti successivi, quelli cui avrebbe assistito, Giancarlo Lotti non aveva raccontato di nessuna cerimonia officiata sul posto.
Altre evidenti fantasiosità le ritroviamo nell’importanza esoterica attribuita alle notti di novilunio, anche perché non tutti i delitti avvennero in notti di novilunio esatto, anzi, in certi casi, come a Scopeti, anche piuttosto lontano. Considerazioni analoghe possono farsi sull’orario dei delitti, collocato da Giuttari tra le 23 e le 24, “quando la notte tracolla”. Francamente sfugge il significato esoterico di tale orario, anche perché, almeno per Scandicci e Vicchio, esso andrebbe anticipato a ben prima delle 23. Altra forzatura riguardava la scelta della stagione, sempre tra giugno e ottobre, anch’essa reinterpretata in chiave esoterica, quando sembra logico pensare al fatto che d’inverno non è facile trovare coppiette appartate in auto.
A quanto sembra la parte finale del rapporto era dedicata a un gruppo di personaggi sui quali Giuttari chiedeva di poter indagare, che era poi l’argomento che più lo interessava. Si legge su “Repubblica” dell’8 agosto:

I nomi sono già nel rapporto consegnato dalla squadra mobile alla procura. Quattro, cinque personaggi potenti quanto insospettabili, con coperture eccellenti su cui contare. Sarebbero stati loro ad ordinare omicidi e feticci per celebrare i riti di una setta composta da almeno una dozzina di persone. Al momento sarebbero indagati in altri fascicoli connessi all’inchiesta sui delitti del mostro, ma presto la loro posizione potrebbe mutare.

L’articolo individua uno solo di questi personaggi, “un diplomatico italiano che abitava a San Casciano, vicino a casa Pacciani”, che altri non era se non il povero Gaetano Zucconi, fratello del “dottor Jekyll” Giulio, ma della partita doveva essere anche Francesco Calamandrei. E pur se l’articolo non lo dice, ci si può immaginare il ruolo preponderante della villa di San Casciano come luogo di riunione della fantomatica setta. Tempo neppure due mesi e Giuttari avrebbe eseguito gli opportuni controlli, ma prima doveva arrivare il turno dei servizi segreti.

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