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domenica 10 marzo 2019

Natalino, fanciullo intelligente e sfortunato

Parole come buonsenso e logica – o anche insieme: logica del buonsenso – sono senz’altro un ingrediente fondamentale di ogni indagine poliziesca, come anche di ogni ricostruzione storica che la riguardi. Nel caso della vicenda del Mostro di Firenze la dimenticanza di queste parole ha portato a storture grottesche, come quelle di sette sataniche, complotti dei servizi segreti e doppi cadaveri. Che cosa mai avrebbero potuto farne le sette sataniche di quei poveri brandelli di carne rigorosamente procurati nel circondario fiorentino e clamorosamente prelevati dalla figura femminile di una coppia? Con tutti i problemi di terrorismo e mafia che avevamo, perché i servizi segreti avrebbero dovuto preoccuparsi d’insabbiare le indagini sui delitti di un maniaco omicida? Infine, a quale pro una famiglia prestigiosa, dimostratasi in grado di evitare l’obbligatoria autopsia di un loro congiunto, si sarebbe andata a cercare problemi sostituendone il corpo con quello di un individuo più basso di 20 centimetri e più grosso di altrettanti?
Largo quindi a buonsenso e logica, con un limite però: i fatti. È di un paio di settimane fa un (quasi) inutile articolo sul Mostro pubblicato da “Panorama” (27 febbraio 2019), dove in un trafiletto viene data la parola a Ruggero Perugini, il poliziotto che aveva incastrato Pacciani. Dice Perugini rispondendo a una domanda sul collegamento tra il delitto di Signa e i successivi: “Come tutti, anch’io mi chiesi se ci fosse stato un passaggio di mano dell’arma. Ma non ho mai creduto all’ipotesi del suo rinvenimento occasionale, visto che l’assassino aveva poi continuato a usare munizioni dello stesso tipo e lotto”. Certo, la nascita di un serial killer a partire dal rinvenimento più o meno casuale di una pistola usata per un delitto comune potrebbe sembrare un’ipotesi priva di buonsenso e di logica, una circostanza mai verificatasi prima e quindi da non credere. E siccome il Mostro tra i sardi non c’era, come avevano dimostrato anni di inutili indagini piene di passi falsi, per forza anche l’assassino di Signa doveva essere stato Pacciani. Peccato che questo porti a passare un devastante colpo di spugna sulla miriade di indizi che collocavano Stefano Mele e dei complici mai (ufficialmente) individuati sulla scena del crimine di quel primo duplice omicidio; indizi che prendevano corpo in base a una serie di fatti che, in quanto tali, non possono trascurarsi. In un precedente articolo (qui) ne abbiamo esaminati alcuni riguardanti Stefano Mele – la sua strategica malattia, le tracce di grasso sulle mani e la pur debole positività al guanto di paraffina –, in questo ne vedremo altri che riguardano il figlio Natalino.
Prima però d’iniziare, ancora qualche parola sull’annosa questione delle cartucce che avrebbero fatto tutt'uno con la pistola, tirata in ballo da Perugini per rafforzare la propria convinzione. Già, ma quali cartucce, quelle di una medesima scatola da 50? No, l’ex investigatore non si azzarda a sostenerlo, poiché nessuna perizia lo ha mai dimostrato e neppure lo avrebbe mai potuto dimostrare (vedi). E allora, sembra così difficile che sia gli assassini di Signa sia chi si sarebbe impadronito della pistola avessero potuto acquistare le loro munizioni alla medesima fonte e più o meno nel medesimo periodo, trovandovene di simili? E che magari il secondo assassino, inesperto di armi come avrebbe dimostrato al suo primo delitto a Borgo San Lorenzo, per non sbagliare avesse chiesto cartucce dello stesso tipo di quella che si era ritrovato in canna? I colpi sparati, infatti, erano stati otto, i colpi a caricatore pieno più quello in canna erano però nove. Infine, ammesso e non concesso che tutto ciò possa essere considerato improbabile, basta questa improbabilità a far dimenticare gli indizi di cui si diceva prima?
Proviamo dunque a vedere quanto pesano sul quadro probatorio generale le parole e il comportamento di Natalino.

Problemi d’interpretazione. Cominciamo subito con il porre un limite a questo lavoro: verranno esaminate parole e comportamento soltanto di Natale bambino, Natalino, quindi, a partire dal momento in cui suonò il campanello di De Felice, nella notte tra il 21 e il 22 agosto 1968, fino alla  deposizione al processo del padre, il 20 marzo 1970. È convinzione di chi scrive che quanto avrebbe detto Natale a partire dalla ripresa delle indagini nel 1982 ha poco valore, e quel poco può essere utilizzato soltanto nella ricerca di eventuali responsabilità del gruppo familiare di cui faceva parte, padre, zii e zie, e non nella ricostruzione degli eventi del 1968. Con i suoi vari cambi di versione, è evidente infatti che Natale non cercò mai di aiutare gli inquirenti, ma si preoccupò soltanto di allontanare i sospetti dai propri cari, anche introducendo una figura sconosciuta di accompagnatore cui ai tempi non aveva mai fatto cenno.
Il lavoro cui qui ci si accinge è stato già fatto da Mario Rotella, che ce ne ha lasciato una sintesi esaustiva nella sua sentenza, con la quale qua e là sarà opportuno confrontarsi, citandone delle parti. Cominciamo con il riprendere un richiamo del giudice al modo in cui vennero utilizzate le dichiarazioni di Natalino nelle indagini dell’epoca:

Durante le indagini svolte allora, le acquisizioni nei suoi confronti furono estemporanee o circondate da scetticismo, e in questa direzione operò anche un parere psicologico, formulato all'interno dell'istituto nel quale era stato ricoverato. Esso avvalorava l'esistenza di un trauma a cagione dell'enormità del fatto cui aveva assistito, e una rilevante suggestionabilità.
Non fu tuttavia mai svolta una perizia vera e propria per accertarne la reale incidenza. Né si pose mano ad un'esegesi delle sue narrazioni.

Quindi poco credito fu dato alle parole del fanciullo, sulla base anche di un “parere psicologico” purtroppo non disponibile a chi scrive. Rotella però la pensava in modo differente:

A molte dichiarazioni non si può dare immediato significato probatorio, nel senso ordinario del valore della testimonianza, e cioè che il narrato si stimi credibile, giusto l'art. 348, II co.. Ciò non per ragioni intrinseche di capacità del piccolo testimone, quanto per il fatto che le risposte appalesano un condizionamento o un contrasto con le emergenze materiali o una intrinseca contraddizione.

Con la sua prosa piena di termini desueti ma anche eleganti, Rotella ci dice che non si possono prendere per oro colato le parole del bambino, sia quando appaiono in contrasto con le prove, e questo è ovvio, sia quando evidenziano condizionamenti. Ma questo non vuol dire che debbano essere respinte in toto.

Va invece respinto un atteggiamento di apodittico scetticismo, non solo perché contrario allo spirito della legge, ma perché del tutto inadeguato alla logica formale che sorregge la tematica della prova rappresentativa. Insomma, se appare troppo facile osservare che il 're è nudo', è altrettanto superficiale stimare che non lo sia.
Quest'ultima posizione è sostanzialmente dovuta alla scarsa familiarità con il discorso infantile. Senonché i bambini tradiscono facilmente le loro menzogne, così che è più facile intenderne le ragioni di condizionamento. Il discorso di Natalino è interessante non solo per il dichiarato, quanto per gl'inquinamenti che appalesa e le loro fonti.

I bambini certamente possono mentire, sostiene Rotella, ma è anche facile scoprire le loro menzogne, e con esse chi quelle menzogne gliele ha messe in bocca, sembrando con ciò il giudice escludere che possano essere farina del loro sacco. Infatti, riguardo il caso di Natalino:

Finalmente è difficile trovare un solo caso nel quale egli sembri inventare. Tutto quanto dice non ha nulla di fantastico e, lì dove è incredibile, lo è solo per assenza di riscontro nella realtà storica, che si è potuta altrimenti ricostruire. Né trapela dalle sue versioni alcun interesse o ragione di affettività tale da indurlo a mentire. L'impressione complessiva, confermata passo passo dal dettaglio, è che egli narri i fatti come realtà obiettiva e occasionale, alla quale abbia partecipato da spettatore, senza sostanziali coinvolgimenti emotivi. Questi senza dubbio vi sono stati, a partire dalla paura generata dagli spari, al rilievo dell'inerzia della madre dopo la morte, alla scoperta del padre, all'accompagnamento notturno verso una casa d'estranei. Ma il narrato appare avulso dal vissuto, perché Natalino non sembra in grado di darsi una ragione complessiva degli accadimenti, così che il riferirli non rinnovella i sentimenti estemporanei di allora.

Rotella quindi era convinto che Natalino non avesse mai raccontato una bugia di propria iniziativa, e che le sue narrazioni avessero avuto il pregio di esporre gli accadimenti nudi e crudi, non avendo avuto modo di elaborarli e trasformarli, data la difficoltà di interpretarne le ragioni profonde. Purtroppo però, e lo vedremo, analizzando le parole del bambino il giudice si lasciò condizionare dalle proprie convinzioni, riguardo il destino della pistola, innanzitutto, ma anche l’accompagnatore, e altro. Purtroppo per lui, il “suo” assassino, Salvatore Vinci, non c’era nelle parole del bambino, la qual cosa si può immaginare lo avesse ostacolato alquanto nel valutarle con il necessario distacco; mancando di una visione imparziale dei fatti, il suo scritto appare affastellato di troppe considerazioni anche contrastanti, e troppi riferimenti al contorno, compresi quelli alle parole di Natale adulto, della cui sincerità è invece opportuno dubitare.
Veniamo adesso alle convinzioni di chi scrive, che è bene esporre fin da subito, poiché illustrano la chiave di lettura che verrà adottata per i comportamenti e soprattutto le parole di Natalino. Il presupposto fondamentale è analogo a quello di Rotella: nessuna invenzione originale è rintracciabile nelle parole del fanciullo. A poco più di sei anni è certamente possibile inventarsi delle storie fantastiche durante i giochi, ma nella situazione drammatica in cui si trovava Natalino, e della quale dimostrò di essere perfettamente consapevole – anche senza comprenderne le ragioni recondite –, risulta da escludere qualsiasi menzogna elaborata in modo del tutto autonomo. Naturalmente questo non vuol dire che i suoi racconti debbano essere accettati in modo acritico – se non altro perché ce ne sono di contraddittori – ma vanno interpretati alla luce di due possibili fattori di inquinamento.
Vi si devono innanzitutto riconoscere le menzogne, che Natalino disse più volte ma soltanto dietro le pressioni degli adulti. Oltre a essere riconosciute, tali menzogne vanno anche analizzate per capire chi e per quali ragioni lo aveva spinto a dirle. In almeno un caso la pressione fu fatta ma il bambino non ebbe la possibilità di eseguire le relative istruzioni.
Altri fattori di allontanamento dalla verità, meno clamorosi ma per questo anche più difficili da riconoscere, vanno cercati nella possibile distorsione con cui Natalino percepì i drammatici eventi, sia perché vissuti con mente di fanciullo, sia perché modificati dalle parole degli adulti che avevano cercato di nasconderglieli. Vedremo che ciò riguarda i momenti del delitto e quelli del successivo accompagnamento.

L’impossibile viaggio solitario. Come è ben noto, Natalino raccontò alle persone che lo avevano accolto in casa di essere giunto lì da solo. Si sarebbe svegliato trovando la mamma e Lo Bianco morti, sarebbe quindi uscito camminando a lungo al buio fino a giungere davanti alla porta di De Felice e suonare il campanello. Fin da subito le forze dell’ordine non gli credettero, e basta andare anche oggi sul posto per capire il perché. Immaginare un bambino di quell’età che percorre al buio completo – il cielo era nuvoloso – un percorso di oltre due chilometri in una strada sterrata in mezzo ai campi senza perdersi d’animo è fuori luogo. Tra l’altro risultò essere in ottime condizioni generali, solo un po’ spaventato e senza ferite ai piedi, dove portava soltanto i calzini, nonostante le cattive condizioni del fondo della lunga strada percorsa.
Anche le modalità con le quali disse di essersi svegliato non tornano. Non parlò di colpi di pistola, eppure due degli otto vennero esplosi con l’arma dentro l’abitacolo e che non li avesse uditi appare pertanto impossibile. Pensiamo poi alla sua situazione al momento in cui si sarebbe accorto che la madre e lo “zio” non rispondevano ai suoi richiami. Innanzitutto avrebbe dovuto capire che non gli avrebbero risposto mai più, poi prendere una decisione difficile e molto coraggiosa, quella di abbandonare l’auto e andare in cerca d’aiuto nel buio pesto della notte, e quasi subito, considerati gli orari. Si tratta di un comportamento non attribuibile a un bambino di neppure sette anni. E perché, semmai, non tornare indietro verso l’imbocco della sterrata che distava appena un centinaio di metri, oppure cercare aiuto in quei due o tre casolari che si trovavano verso la parte finale del suo viaggio?
Natalino stava mentendo, non ci sono dubbi, come non ci sono dubbi che lo avesse fatto dietro precise istruzioni. E di chi se non del padre, del quale si preoccupò subito di confermare l’alibi della malattia che l’uomo si era preparato alla mattina? Sono ormai arcinote le sue parole pronunciate quando De Felice si affacciò alla finestra, “Aprimi la porta perché ho sonno e ho il babbo ammalato a letto; dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina”, ma quella medesima frase continuò a ripeterla anche dopo, come risulta dalle dichiarazioni delle persone che lo accolsero (verbali del 7-8 ottobre 1968, qui): “Il bambino sembrava spaventato; si limitava a dire che il babbo era a letto ammalato e che la mamma e lo zio erano morti in macchina e che voleva essere accompagnato a casa perché aveva sonno” (Francesco De Felice); “Ripeté quanto aveva già detto prima, accennò che il babbo era a casa ammalato, che lui era uscito con la mamma e lo zio ed era andato al cinematografo” (Maria Sorrentino, moglie di De Felice);  Il bambino disse che il suo babbo era a letto ammalato e che vi erano poco distante sua mamma e suo zio morti in macchina” (Marcello Manetti, il vicino giunto poi).
Oltre alla frase che gli era stata fatta imparare a memoria, a Natalino doveva anche essere stato raccomandato di stare attento a quello che gli avrebbero chiesto i carabinieri. Lo si deduce dalla testimonianza di Maria Sorrentino, che rimase sola con lui mentre il marito e Manetti andavano a chiamare il piantone della stazione di San Piero a Ponti, Mario Giacomini:

Tutte le volte che sentiva passare un’automobile per la strada, domandava se per caso fossero i Carabinieri ed io cercavo sempre di rassicurarlo [...]
Quando tornò mio marito col Carabiniere allora il bambino si mise a piangere e cercai di calmarlo dicendogli che il Carabiniere era un suo zio. Era evidente che il bambino era insospettito. Tanto è vero che anche al Carabiniere dette solo le informazioni che aveva detto a noi […]

Queste le parole di De Felice:

Faccio presente che la moglie mi ha riferito che quando siamo usciti il bambino le domandò se per caso si fosse andati ad avvertire i CC.  e la moglie lo rassicurò dicendo di no. Però quando tornammo ed era con noi il carabiniere, il bambino si mise a piangere e non volle più parlare.

Il giorno dopo il delitto. Natalino trascorse la giornata successiva nella caserma dei carabinieri di Signa, dove continuò a sostenere la medesima versione del viaggio solitario, mentre il padre veniva interrogato in quella di Lastra a Signa; la sera i due andarono a casa assieme. “Quella notte, come si scoprirà durante l'istruzione, e come si riscontrerà a partire dal 1982, padre e figlio hanno parlato. Ed il primo ha ammaestrato il secondo”, si legge nella sentenza Rotella.
A evidenziare il tentativo di “ammaestramento” del figlio fatto da Stefano Mele nell’ultima occasione che ebbe per stare assieme a lui – il giorno dopo entrò in carcere – sono soprattutto le parole pronunciate dallo stesso Natalino il 21 aprile 1969, quando il giudice Antonio Spremolla sarebbe andato per la prima volta a sentirlo mentre era in istituto. Dovremo tornare su questa fondamentale audizione, intanto però è il caso di esaminare un passaggio del relativo verbale, redatto in forma indiretta:

Chiestogli se c’era anche Vinci Francesco dice di sì.
Chiestogli allora di ricordare chi abbia visto quella sera, ricorda oltre il papà, la mamma, l’uomo che era in macchina che lui chiama anche “Zio”, lo zio Piero e non menziona il Vinci Francesco.
Chiestogli perché non lo abbia ricordato risponde "Me lo disse il babbo di dire di averlo visto".

Nelle ore successive al delitto Natalino non aveva parlato di Francesco Vinci – che conosceva bene per averlo visto molte volte a casa propria –, quindi senz’altro tale pressione il padre non gliel’aveva fatta durante il suo accompagnamento verso casa De Felice. L’unica altra opportunità avuta da Mele è proprio quella dell’ultima notte trascorsa assieme. È evidente che il cercare l’appoggio del figlio riguardo la presenza di Francesco Vinci doveva far parte di un piano a suo modo ben elaborato, o evoluzione o seconda fase già programmata di quello messo in opera al momento dell’accompagnamento, nel quale Natalino non aveva visto nessuno e lui si dichiarava ignaro di tutto. Può essere infatti che Mele avesse previsto fin dall’inizio di operare su Natalino in due fasi, oppure che l’idea della seconda gli fosse venuta in caserma mentre anche Francesco Vinci veniva interrogato.
Sia come sia, sappiamo però che la mattina dopo, 23 agosto, Mele avrebbe accusato Salvatore, e non Francesco. La presenza accanto a lui del cognato Piero Mucciarini spiega bene il motivo; ci dovremo tornare sopra, intanto il lettore ci rifletta mentre qui è il caso di saltare a piè pari questa peraltro importantissima parentesi, per arrivare al pomeriggio del giorno dopo, 24 agosto, quando Mele, incalzato dagli inquirenti e lontano dai suoi familiari, abbandonò quella versione per riprendere la propria.
Il nuovo racconto di Mele lo vedeva andare a uccidere in un ruolo minimale assieme a Francesco Vinci, che poi, mentre lui fuggiva spaventato, avrebbe accompagnato il figlio da De Felice, minacciandolo affinché non parlasse. Natalino era stato zitto, ma la sera successiva gli avrebbe confidato il tutto; “chiedetelo a lui”, disse Mele ai suoi interlocutori. Al di là dei motivi che l’ometto aveva avuto per fornire tre versioni differenti in tre giorni – che ci sono e ben validi, si rassegnino i discepoli di Filastò che trovano un’improbabile spiegazione in ipotetici schiaffoni –  è qui importante evidenziare il tentativo di un secondo condizionamento operato dal padre su Natalino, che però non ebbe occasione di metterlo in pratica. C’è anche da dire che nel suo piano originario di sicuro Mele non era andato assieme a Francesco Vinci, ma era rimasto a casa ammalato (quindi con un perfetto collegamento al racconto del giorno prima); l’ammetterlo fu dovuto all’impossibilità di negare una sua partecipazione dopo averla ormai dichiarata (assieme a Salvatore), ridimensionandola però alquanto. Si legge nella sentenza Rotella:

Il risultato più sorprendente è che i suoi mutamenti conducono ad un arretramento rispetto alla posizione originaria, di aver lui stesso deliberato, seppure su istigazione, ed eseguito, seppure con ausilio altrui, il delitto. Trasformerà se stesso da agente, quasi ad “agito”. Il che lascia ragionevolmente credere che in origine ha bensì detto quanto non avrebbe voluto dire, ma solo per non aver ben calcolato che avrebbe potuto non dirlo.

Il piano di Stefano Mele nella formulazione originaria sarebbe venuto alla luce anni dopo, il 27 luglio 1982, alla ripresa delle indagini dopo la scoperta del legame del delitto di Signa con quelli del Mostro. Ecco allora che lui sarebbe tornato all’alibi della malattia che lo aveva tenuto a casa, e al figlio che la sera successiva gli avrebbe raccontato di Francesco Vinci, dopo essere stato zitto con gli altri causa le minacce ricevute: una posizione da perfetto innocente.
Infine chi scrive non è d’accordo con l’ipotesi di Rotella che vedeva Mele confessare di aver ucciso, istigato da Salvatore, “solo per non aver ben calcolato che avrebbe potuto non dirlo”: il bravo giudice, sconfitto soltanto da uno scherzo perverso del destino contro il quale poco avrebbe potuto fare, non teneva abbastanza conto dell’opera dei suoi familiari, la cui opinione su come affrontare il dopo delitto era evidentemente diversa da quella del loro congiunto.

Natalino ammette la verità. Si legge nel rapporto redatto dal maresciallo Gaetano Ferrero il 25 agosto (vedi):

Poiché sin dal primo momento il piccolo MELE Natale spontaneamente asseriva che la mamma e lo “zio” erano morti, che erano proprio morti, che il babbo si trovava a casa a letto, e di aver percorso a piedi tutta la strada che dal luogo del delitto in località Castelletti porta a S. Angelo a Lecore (sulla SS. 66 – Pistoiese) dove aveva dato l’allarme, ritenendo che un bambino di quella età non poteva da solo percorrere quel tragitto nel cuore della notte buia e senza scarpe perché lasciate sull’autovettura, anche perché apparentemente non dimostrava di essere eccessivamente stanco né i piedi presentavano segni di ferite o graffi, tranne un rossore marcato alla periferia degli occhi, più marcato in quello destro, si addiveniva nella decisione di effettuare una prova del percorso a piedi, unitamente al MELE Natale stesso.

Il pomeriggio del 24, alle ore 16:30, a bordo di una Fiat 600 il maresciallo Ferrero, il brigadiere Evaristo Poli e Natalino partirono dal luogo del delitto dirigendosi verso casa De Felice. Come aveva preannunciato Natalino, dopo circa un chilometro l’auto dovette tornare indietro, causa l’impossibilità di proseguire per la presenza di mucchi di ghiaia e sassi sulla massicciata. Proseguirono il viaggio a piedi Natalino e Ferrero. Si legge nel rapporto:

Strada facendo il Maresciallo Ferrero mostrando le asprità della strada, rivolgendosi al Mele Natale disse: “Senti Natalino, come vedi su questa strada è impossibile camminare senza scarpe, forse hai fatto altra strada, non questa”. Il bambino replicava: “questa è la strada e da qui sono passato a piedi”, al che il verbalizzante replicava: “bada Natalino, se non dici la verità questa notte al buio rifaremo la stessa strada, però senza scarpe come quella notte”. Al che il Mele di scatto rispose: “No! Quella notte mi portò il mio babbo” precisando… “a cavalluccio”.

Fermiamoci un momento. Gli irriducibili sostenitori di un viaggio solitario di Natalino affermano che questa sua ammissione sarebbe nata dalla minaccia di Ferrero di fargli ripetere la camminata di notte e senza scarpe. Si tratta con tutta evidenza di una posizione irrispettosa della logica, se si pensa che mai Natalino avrebbe ritrattato, fino alla deposizione al processo del 1970 che avrebbe contribuito a far condannare il padre, ma questo lo vedremo. Intanto si rifletta su altri particolari del suo racconto.

Si proseguiva così ripetendo che quella è la strada percorsa “col suo babbo” e si raggiungeva un ponticello intersecante con una strada rotabile comunale in terra battuta che dai colli Bassi di Signa porta a S. Angelo a Lecore. In quel punto il Mele Natale indicava di essere ivi stato deposto dal suo babbo e che il suo babbo era tornato indietro – che non sapeva per quale strada il suo babbo era tornata indietro e cioè se la prima o la seconda ivi intersecata, e che lui da quel punto, da solo, aveva raggiunto la casa bianca che si intravedeva illuminata sulla strada statale a S. Angelo a Lecore.

Quindi Natalino indicò a Ferrero il punto in cui il padre lo aveva lasciato, che poi risulta del tutto ragionevole, a poco più di un centinaio di metri da casa De Felice, da lì ben visibile. Anche quel particolare era stato un’invenzione frutto della paura di dover ripetere il percorso di notte a piedi scalzi?
In fine di pomeriggio Natalino venne condotto a Firenze dove, “nei locali del Nucleo Investigativo dei Carabinieri”, venne interrogato dal PM Antonino Caponnetto e dal tenente Olinto Dell’Amico. Dalla sentenza Rotella:
 
Alle 19,30 (la data non è indicata, ma dal tenore del verbale e dalla sua affoliazione -7- s'intende che è la stessa sera del sopralluogo) Natalino ripete al magistrato quanto ha già detto al m.llo Ferrero. Il verbale è reso in forma indiretta e offre dei dati che non risultano dal verbale di Ferrero:
“Il bambino riferisce più volte che, quando si svegliò in macchina, vide suo padre seduto vicino a lui sul lato sinistro del sedile posteriore… suo padre lo fece uscire dalla macchina dallo sportello posteriore destro e poi lo prese per mano, accompagnandolo fin presso la casa dove poi da solo il bimbo suonò… per buona parte della strada lo portò a cavalluccio…”.

Purtroppo chi scrive dispone soltanto della prima pagina di quel prezioso verbale (vedi), contenente poche frasi già riportate da Rotella, le cui pagine successive mancano in entrambi gli archivi consultati. Peccato, poiché sarebbe stato interessante conoscere tutti i “dati che non risultano dal verbale di Ferrero”. Qualcosina in più di quel colloquio è desumibile dalla deposizione di Olinto Dell’Amico al processo Mele (18 marzo 1970, vedi):

Interrogai il bambino con le cautele dovute all’età ed allo stato di choc in cui si trovava; egli appariva molto confuso e attraverso quello che si poté ricavare egli affermò di essersi svegliato alle detonazioni ed aver visto il babbo che poi lo aveva accompagnato nella casa del De Felice.

Quindi Natalino “affermò di essersi svegliato alle detonazioni”, come del resto era logico, confermando la presenza e l’accompagnamento del padre.

Natalino in orfanotrofio. Poco dopo Dell’Amico, anche il maresciallo Ferrero rilasciò la propria deposizione (vedi), dicendo riguardo Natalino:

Pensando che il bambino dovesse necessariamente sapere qualcosa e per toglierlo da un ambiente che ritenevo interessato, lo feci ricoverare nell'Istituto Vittorio Veneto, che fu indicato dagli stessi familiari e parlai con il direttore perché mi tenesse informato ove il ragazzo avesse detto qualcosa.
Dopo qualche giorno, il Direttore mi telefonò e mi recai all'Istituto ove interrogai il bambino che con mezze parole, data anche l'età, disse che quella notte si era svegliato ai primi spari ed aveva visto la mamma immobile e lo zio, cioè il Lo Bianco, gli aveva detto: “La mamma è morta, ci hanno sparato” e poi anche costui si era addormentato.
Il bambino aggiunse di essere sceso dall'auto e di aver visto fra le canne “Salvatore”. Ho interrogato altre volte il bambino e il bambino fece il nome di uno “zio Pierino” come autore del delitto, abbandonando la versione sul Salvatore e dicendo che questo “zio Pierino” aveva una figlia a nome Daniela.
La circostanza relativa alle dichiarazioni del bambino sul nome del “Salvatore” si verificò dopo oltre un mesetto dal fatto, dato che il bambino stesso fu ospite presso lo zio per circa un mese.
Ne parlai a voce al G.I. ed ai miei superiori, ma non ritenni di fare una segnalazione scritta. […]

Si può intanto osservare che, a distanza di un mese e più, Natalino diceva a Ferrero le medesime cose del giorno in cui era stato minacciato. Aveva ancora paura di dover percorrere la sterrata di notte senza scarpe? È francamente assurdo. Ma disse qualcosa in più: dapprima “di aver visto fra le canne Salvatore”, poi “fece il nome di uno ‘zio Pierino’ come autore del delitto, abbandonando la versione sul Salvatore”. Per completare il quadro si deve aggiungere l’ultima frase che si legge nel verbale dell’interrogatorio del 21 aprile 1969: “Prima di allontanarsi rinnovata la domanda se lo zio Piero gli abbia detto di non dire qualcosa il bambino dice «Mi disse di avere visto Salvatore fra le canne»”.
La figura di Piero Mucciarini cominciò quindi a materializzarsi nelle dichiarazioni del bambino fin dai primi tempi in cui, dopo aver trascorso un mese in casa sua, era stato trasferito in un collegio. Significativa appare la pressione dell’uomo per fargli dire che aveva visto Salvatore Vinci sulla scena del crimine. La circostanza va collegata alla prima confessione di Stefano Mele, quando aveva accusato Salvatore di complicità. Accanto a lui c’era proprio Mucciarini, che era passato a prenderlo assieme all’altro cognato Marcello Chiaramonti, l’unico del gruppo a disporre di un’auto. Le parole di Ferrero aiutano a capire la circostanza:

Nel confessare il Mele fece il nome del Vinci Salvatore come suo complice; alla confessione si giunse attraverso l’opera di persuasione fatta da un cognato del Mele, Mucciarini Piero.
Il Mucciarini si presentò spontaneamente in caserma; anzi: era il Mele che ci chiedeva di affidare il bambino alla sorella, moglie del Mucciarini, e costui pertanto fu presente all’interrogatorio del Mele e firmò il relativo verbale.

Dunque Mucciarini fece “opera di persuasione”; perché? Per aiutare la giustizia, contribuendo a una confessione che presto si sarebbe rivelata fasulla?
Dalla mattina stessa in cui Mucciarini e Chiaramonti erano passati da casa Mele per condurre Stefano in caserma, Natalino era stato preso in consegna dalla zia Antonietta, moglie di Mucciarini. Si deve per forza pensare che in quello stesso giorno i due coniugi avessero fatto pressione su di lui affinché dicesse di aver visto “Salvatore tra le canne”, in coerenza con la confessione del padre. Ma il loro tentativo si rivelò inutile, poiché Mele ritirò presto le accuse contro Salvatore Vinci, anzi, controproducente, poiché nel bambino ne rimase traccia, lo abbiamo visto, nonostante il prevedibile tentativo di farglielo dimenticare. È illuminante questo frammento della deposizione di Ferrero:

Dopo qualche giorno di permanenza in casa del Mucciarini, il Mucciarini mi riferiva che anche egli aveva cercato di indagare presso il bambino per apprendere la verità su quella sera, ma senza risultato perché il bambino diceva di non aver visto nulla.

La qual cosa appare molto strana, avendo Natalino già raccontato a Ferrero dell’accompagnamento del padre (ma non di aver visto lo zio Piero, evidentemente perché era ancora freschissima l’istruzione ricevuta). Quindi Ferrero ebbe presto comprensibili sospetti:

Accertammo dopo che il Mucciarini che lavorava come panettiere, la notte del delitto non era al lavoro perché era la sua giornata libera. […]
Io, quasi fin dall'inizio ebbi qualche sospetto sia sul Mucciarini che su tutti i congiunti dei protagonisti del fatto e cercai di indagare sul passato del Mucciarini che era stato arrestato tempo prima per rapina (molti anni addietro), ma poi a seguito della confessione resa dal Mele, si abbandonarono queste indagini. Escludo comunque che nel corso degli interrogatori al bambino sia stato fatto da noi per primi il nome di Pierino.

Le indagini del sagace maresciallo Gaetano Ferrero su Mucciarini e sugli altri componenti del gruppo familiare dei Mele vennero abbandonate sul nascere: in un modo o nell’altro Stefano Mele aveva raggiunto il suo scopo.

21 aprile 1969, ore 10:00. L’istruttoria del duplice omicidio venne presa in carico dal giudice istruttore Antonio Spremolla, poi anche pubblico ministero, che tra aprile e maggio 1969 per tre volte andò a interrogare Natalino nel suo collegio di Firenze. Esamineremo con attenzione tutte le dichiarazioni significative del bambino così come risultano dai verbali, cercando di capire di ognuna quanto vicina sia alla realtà e le ragioni dell’eventuale allontanamento. Si tratterà di un lavoro analogo a quello compiuto da Rotella nella sua sentenza, rispetto al quale, è bene precisarlo fin da subito, ci sarà una differenza di base. Quando il giudice incontrò una frase del bambino che non sapeva spiegarsi, oppure che non si inseriva nello scenario ritenuto plausibile, la interpretò come reazione a una domanda suggestiva. Si tratta di una metodologia poco convincente, poiché, al di là delle presumibili cautele che saranno state adottate in sede d’interrogatorio, da tutto il comportamento di Natalino emerge una figura di fanciullo affatto suggestionabile, anzi, assai determinato nelle sue risposte. Quindi qui si cercheranno altre spiegazioni.
Esaminiamo adesso il primo verbale, quello del 21 aprile 1969 (qui), redatto in forma indiretta. Ad ascoltare il bambino alle 10 di mattina un po’ troppe persone: Spremolla in veste di GI/PM, Gian Gualberto Alessandri consigliere istruttore, il tenente dei carabinieri Olinto Dell’Amico e il maresciallo Ferrero verbalizzante.
Partiamo da una notizia che potrebbe rivestire grande importanza:

Portato a parlare di quanto avvenne quella sera il bambino dice di essere stato preso in macchina con la mamma dallo “Zio” e di essere andato al cinema, c’era un film di guerra e poi usciti videro un uomo che non sa dire chi fosse e con il quale non parlarono però né la mamma né lo “Zio”, quindi andarono via con la macchina.

Perché Natalino parlò di questo personaggio? L’uso del plurale “videro” e la precisazione che né la mamma né Lo Bianco avevano parlato con lui ha un ovvio significato: lo avevano notato gli adulti conversandone tra di loro. Certamente non era uno dei fratelli Vinci, che Natalino conosceva. Senza poterne offrire alcuna prova, chi scrive lo mette in relazione da una parte all’ultimo spettatore entrato al cinema dopo i tre, a film pressoché iniziato, dall’altra al personaggio che sarebbe comparso nella deposizione di Giuseppe Barranca, cognato di Lo Bianco, al processo Mele (vedi), quando, a domanda dell’avvocato Ricci, questa fu la risposta:

Mai ho avuto occasione di invitare la moglie del Mele al cinema, avendo da questa un rifiuto con la scusa che c’era uno con il motorino che la seguiva; e mai – pertanto – ho potuto fare questo discorso al Mele dopo l’uccisione della moglie, nella caserma dei C.C.

Evidentemente Mele aveva riferito di questo discorso al proprio difensore – e non pare ragionevole ritenerlo frutto di un’invenzione, se Ricci si era deciso a porre la domanda –, e il fatto che in aula Barranca avesse negato potrebbe spiegarsi con il suo timore di dire qualcosa contro Francesco Vinci, che aveva un motorino. Infatti, riguardo l’argomento della minaccia riferita dalla Locci che stando assieme a lei gli potessero sparare – sulla quale torneremo –, aveva precisato: “Non pensai affatto che chi potesse sparare potesse essere il Vinci Francesco”.
Per Filastò tale personaggio era il Mostro, ma nello scenario di un delitto compiuto da Stefano Mele con dei complici bisogna pensare a qualcun altro, qualcuno che forse un ruolo lo avrebbe avuto comunque. Proseguiamo però con le dichiarazioni di Natalino, quando parlò degli spari:

Chiestogli se sentì sparare risponde di si.
Chiestogli quanti colpi dice 5 o 6.
Il bambino a domanda risponde che per primo fu sparato alla mamma;

In totale i colpi sparati furono otto, che il bambino ne avesse contati soltanto cinque o sei è quindi del tutto plausibile, anche perché ne fu svegliato. E comunque pretendere che li avesse contati con precisione sarebbe davvero troppo. Dallo studio della dinamica (vedi) sappiamo che tra i primi sei colpi, esplosi in rapida sequenza con un piccolo intervallo a metà, e gli ultimi due dovettero trascorrere almeno alcune decine di secondi, forse anche un minuto. Non c’è traccia di questo intervallo nelle dichiarazioni di Natalino, almeno in quelle verbalizzate, se non una indiretta che vedremo oltre, ma si deve ritenere che nessuna domanda in tal senso gli fosse stata posta. Tale intervallo però aiuta a capire il perché Natalino avesse detto che “per primo fu sparato alla mamma”. Come aveva raccontato a Ferrero, aveva avuto modo di sentire Lo Bianco che gli diceva “La mamma è morta, ci hanno sparato”. Aveva anche tentato di chiamare la madre, prendendole la mano. Tutto questo doveva essere accaduto proprio nell’intervallo tra i primi colpi, associati alla morte della madre, e gli ultimi due, associati alla morte di Lo Bianco.
Veniamo adesso alla presenza di Mucciarini:

Chiestogli chi c’era con il padre il bambino insistentemente dice che con il padre c’era lo “Zio Piero” da Scandicci;
Chiestogli chi abbia sparato il bambino [dice] “Piero”.
Il bambino dice altresì che lo zio Piero era venuto con una bicicletta celeste ed il padre con una bicicletta marrone.
Il bambino dice ancora che la rivoltella fu gettata nel fosso vicino e che lui andò via con il padre che lo portò in braccio.

L’uso dell’avverbio “insistentemente” è significativo, e al suo cospetto poco valore assume l’osservazione di Rotella sul potere suggestivo della domanda, “Chiestogli chi c’era con il padre”, con la quale già si suggeriva la presenza del padre e di qualcun altro. Oltre al padre, Natalino aveva visto Mucciarini sulla scena, non ci sono dubbi, e i numerosi altri particolari che sarebbero venuti fuori in seguito non fanno altro che confermarlo. Bisogna però dire che dalla sua posizione nel buio della notte non poteva averlo visto sparare, neppure i due colpi finali con la mano dentro il finestrino, che in ogni caso tutto lascia pensare fossero stati opera del padre. La sua convinzione può spiegarsi agevolmente con quanto avrebbe raccontato due giorni dopo, lo vedremo tra breve.
È il caso invece di spiegare subito la frase riguardante le biciclette, attribuita da Rotella a suggestione degli interroganti. Né Mele né Mucciarini erano in bicicletta, questo si può ipotizzare con ragionevole certezza, quindi perché Natalino lo riferì? Una logica spiegazione potrebbe essere trovata nelle domande che il bambino dové fare al padre durante il loro viaggio e le relative risposte. A quella di come lui e lo zio erano arrivati lì Mele aveva risposto “in bicicletta”, visto che non poteva dirgli di essere stato accompagnato in auto da altri, che non avevano voluto farsi vedere e non avrebbero approvato.
Riguardo l’ultima frase sulla rivoltella gettata nel fosso, vedremo meglio commentando il secondo interrogatorio. Intanto il lettore non condizionato dai soliti superficiali stereotipi rifletta su questo passaggio, devastante per l’inchiesta di Rotella che, infatti, avrebbe cercato di trovare una possibile spiegazione.
Nella parte conclusiva del verbale vediamo emergere le pressioni degli adulti.

Chiestogli se gli abbiano detto di non dire quello che ha invece rivelato, risponde che il padre gli aveva detto di non dirlo.
Chiestogli se c’era anche Vinci Francesco dice di sì.
Chiestogli allora di ricordare chi abbia visto quella sera, ricorda oltre il papà, la mamma, l’uomo che era in macchina che lui chiama anche “Zio”, lo zio Piero e non menziona il Vinci Francesco.
Chiestogli perché non lo abbia ricordato risponde "Me lo disse il babbo di dire di averlo visto".
Chiestogli se lo zio Piero gli abbia detto di non dire nulla dice di no.

Riguardo Francesco Vinci abbiamo già detto. Si può notare il fatto che Natalino lo escluse dall’elenco quando gli venne chiesto di ripetere i nomi di tutte le persone presenti, rivelando la pressione del padre, mentre non dimenticò lo zio Piero, sulla cui opera di persuasione il bambino non fu sondato abbastanza.

23 aprile 1969, ore 17:30. Due giorni dopo i due medesimi magistrati e i due medesimi carabinieri tornarono a interrogare Natalino. Ma nel frattempo doveva essere successo qualcosa, poiché il fanciullo, che aveva riconosciuto i suoi interlocutori e si presentava a proprio agio durante le prime domande generiche, a quelle sulle persone presenti la sera del fatto non voleva rispondere. Dal verbale (qui):

Chiestogli se la sera del fatto il padre fosse stato solo o in compagnia di altri al momento in cui fu sparato egli mostra di non voler rispondere, di essere impacciato e ostinatamente tace alle domande postegli dall’inquirente e dal P.M.
Invitato a ricordare gli zii da lui conosciuti ne ricorda diversi ma non lo zio Pietro né Piero, dicendo che quelli detti erano gli zii buoni e senza voler spiegare quali fossero i cattivi.

Si può notare che il verbale introduce già “lo zio Pietro”, anticipando un nome che sarebbe stato fatto in seguito dallo stesso bambino. Dopo alcune domande di “alleggerimento”, venne di nuovo affrontato il tema delle persone presenti.

Poiché il bambino insiste nel non voler parlare sulle circostanze di fatto dell’uccisione viene trattenuto dal Consigliere Istruttore e per evitare una maggior soggezione derivante dalla presenza di più persone.
A nuova domanda postagli dal Consigliere il bambino si induce a rispondere in un orecchio il nome di Pietro come la persona che la sera del fatto accompagnò il padre e sparò.

Chi era questo personaggio dal nome molto simile a quello dello zio Piero Mucciarini? Evidenziando soltanto le parti del verbale che lo riguardano – su alcune altre torneremo dopo – vediamo di scoprirlo.

Chiestogli dove stia lo zio Pietro dice che abita a Scandicci e chiestogli il mestiere dice che mette le piastrelle indicando un rivestimento di piastrelle che è collocato vicino al camino della stanza della direzione dell’Istituto.
Chiestogli come sappia del mestiere dello zio Pietro risponde che lo ha visto fare quel lavoro un giorno che il padre lo accompagnò in un posto che non sa indicare, ma che denomina come una fabbrica.
Chiestogli se lo zio Pietro sia cattivo e perché, dice che una volta mentre era solo gli dette uno schiaffo.
Chiestogli i connotati dello zio Pietro dice che è più alto del suo babbo che ha i capelli scuri e con la riga sulla destra.
A ulteriore domanda dice che lo zio Pietro lavora anche di notte e torna di giorno, come fa il padre della sua amica Daniela che abita alle cinque Vie dove abita anche lo zio Napolino.
Chiestogli ancora notizie sullo zio Pietro il bambino ricorda che lo zio Pietro frequentava la casa quando non c’era il padre e giocava a carte con la mamma e una volta lo rincorse intorno al tavolo per scherzare.

Il verbale inizia ad attribuire a “Pietro” la qualifica di “zio”, evidentemente perché Natalino o l’ha detto o l’ha lasciato intendere. È anche chiaro che si stia ancora riferendo a Piero Mucciarini, del quale il nuovo “zio Pietro” mantiene almeno un paio di caratteristiche: “abita a Scandicci” e “lavora anche di notte e torna di giorno”, in questo secondo caso “come fa il padre della sua amica Daniela”, quindi con un confronto con Mucciarini e il suo lavoro di fornaio. Ci sono però elementi differenti, tra cui un lavoro di piastrellista, che, nota Rotella, poteva anche riferirsi a quello di muratura dei fratelli Vinci.
Nei due giorni intercorsi tra un interrogatorio e l’altro su Natalino era stata fatta pressione affinché trasformasse l’indicazione dello “zio Piero” in quella dello “zio Pietro”. Rotella credette anche di poter individuare l’artefice di ciò nella zia Maria, che non aveva figli e che andava spesso a trovare il bambino portandolo a casa nei fine settimana. Si può immaginare che la donna, messa al corrente sia del primo interrogatorio sia del previsto secondo, fosse corsa dal nipote per chiedergli quello che aveva detto. E avendo saputo del riferimento alla presenza di Piero Mucciarini, avesse tentato di mutarlo in quello di altra persona di nome molto simile, un altro “zio”, ma non necessariamente uno vero, visto che Natalino chiamava “zii” anche gli amanti della madre, come Lo Bianco. Interesse della donna e degli altri congiunti, come poi sarebbe emerso con chiarezza alla ripresa delle indagini nel 1982, era quello di allontanare i sospetti su Mucciarini trasferendoli su un amante sconosciuto della Locci. Cercando di soddisfare le istruzioni, su quel nome Natalino lavorò di fantasia, associandogli caratteristiche di altri personaggi conosciuti (il lavoro di piastrellista, quello in fabbrica). Purtroppo per i Mele il bambino aveva davvero uno “zio Pietro”, Pietrino Locci, fratello della madre, che abitava alla Romola ed era fratello dell’altro zio Vincenzo:

Quando il babbo lo portò fuori dalla macchina vide che c’era anche “Il fratello dello zio Vincenzo che sta alla Romola” e il babbo con questo zio lo avrebbero portato alla casa del lumicino.
Postegli altre domande per indicare meglio questo zio e come lo abbia visto, conferma le dichiarazioni già fatte e cioè di averlo visto solo quando fu accompagnato dal padre nella casa col lumicino e non sa indicare il nome di questo zio che spiega essere il fratello dello zio Vincenzo che sta alla Romola.
Chiestogli di spiegare se colui che avrebbe sparato sia lo zio Pietro o lo zio Piero, il bambino mostra di distinguere nettamente di avere uno zio Pietro e uno zio Piero. Che lo zio Pietro è quello di Scandicci e che è quello che ha sparato, marito della zia Antonietta, presso cui ha anche abitato dopo i fatti e dove era stato visitato dal maresciallo Ferrero Gaetano, mentre lo zio Piero sarebbe il fratello della mamma e che abita a S. Casciano V.P.

Come si vede, Natalino, che all’epoca aveva sette anni e quattro mesi, di fronte alla necessità di seguire le istruzioni ricevute dalla zia Maria – per forza di cose sommarie, visto il poco tempo disponibile –, fece grande confusione, introducendo nello scenario la figura dello zio Pietrino Locci addirittura affiancandolo a Mucciarini, e trasferendo il nome dell’uno su quello dell’altro e viceversa. E mentre lo “zio Pietro”, che continuava a essere Mucciarini, aveva sparato, lo “zio Piero”, che invece era Pietrino Locci, lo aveva accompagnato assieme al padre. È vero che in questo caso Natalino inventa, però non per un suo sfizio o gioco, ma per la necessità di dover sostenere la difficile parte che gli era stata assegnata. Vedremo che in seguito, avendo avuto maggior tempo a disposizione per capir bene come comportarsi, se la sarebbe cavata assai meglio.
Riprendiamo adesso alcuni passaggi del verbale che sono stati saltati. Innanzitutto questo, importante sia per l’azione di Mucciarini in sé stessa, indicativa di un possibile movente, sia per la dimostrazione di quanto vigile e in grado di ricordare fosse stato Natalino: “Il bambino aggiunge di ricordare che la mamma aveva messo i denari, anzi il borsellino, sotto il sedile della macchina e che lo zio Pietro frugò nel cassetto del cruscotto e andò via”. Poi la questione delle biciclette, che Natalino ripeté, dimostrando come non fosse stata affatto una sua invenzione estemporanea suggerita dagli inquirenti: “Ricorda altresì che il padre e lo zio erano con le biciclette”.
Natalino fornì anche una possibile spiegazione al suo convincimento che a sparare fosse stato lo zio Piero.

Nuovamente domandato su chi abbia sparato il bambino insiste nell’indicare lo zio Pietro. Era sveglio e lo vide sparare. Il babbo allora aprì lo sportello della macchina e dopo che fu sparato si sedette vicino a lui e gli chiese chi avesse sparato. Egli rispose “Pietro”, ed il padre gli disse allora lo vado a cercare. Tornò da solo e allora gli disse di stare zitto.

Nell’intervallo tra i primi sei spari – assai probabilmente esplosi da Mucciarini, che di armi era il più pratico –, Natalino aveva avuto il tempo di accorgersi che la mamma non gli rispondeva e di sentire Lo Bianco dire: “Ci hanno sparato”. Doveva anche essersi accorto della presenza dello zio Piero, magari avendone sentito la voce. Gli ultimi due colpi, sulla Locci morta, li aveva sparati il padre, che poi, finalmente, iniziò a preoccuparsi di Natalino. Dopo essersi seduto accanto a lui, gli chiese se aveva visto chi avesse sparato, con lo scopo di verificare se si fosse accorto che era stato lui. Considerato che il padre stava ponendo la domanda, Natalino pensò allo zio Piero, l’unico della cui presenza si era reso conto. Va anche tenuta presente la comprensibile necessità interiore del bambino di non dover dare la colpa al padre.

L’avvertimento. Nell’importantissimo interrogatorio Natalino raccontò un episodio che spiegava molte cose.

Il bambino risponde a domanda che ricorda che un giorno lo zio Pietro venne a casa e sentì che diceva al babbo di avere comprato una pistola. Era presente anche la mamma ma non sa spiegare il motivo per cui venne fatto questo discorso. Il bambino dice di essere stato nascosto sotto il letto e di averlo così udito, aggiunge anche di avere visto un pezzetto di pistola che spuntava dalla tasca, indicando i pantaloni.

Il giudizio di Rotella fu affrettato e superficiale.

La storia appare improbabile e, per gli ultimi particolari, vien fatto di pensare che sia frutto di fantasia infantile, o di un malinteso suggerimento.
È anzi più probabile che Natalino abbia mescolato suggerimenti altrui con autosuggestioni intorno ad una persona reale. Ma non sono possibili riscontri.

Che non fossero possibili riscontri è senz’altro vero, ma stupisce il fatto che il bravo giudice non avesse cercato almeno qualche incastro, preferendo liquidare l’episodio come “fantasia infantile” (proprio lui, che aveva scritto: “È difficile trovare un solo caso nel quale egli [Natalino] sembri inventare ”), o come “malinteso suggerimento” (non si sa quale fosse stata la domanda, ma non si capisce quale suggerimento avrebbe potuto dare origine a un racconto così ben articolato).
Veniamo invece agli incastri, almeno tre, attraverso i quali la testimonianza di Natalino assume una valenza altissima. Il primo e più importante. Al processo del 1970 Barranca aveva fatto questo racconto:

Fu la moglie di lui a dirmi una sera che eravamo insieme in occasione della fiera di Signa, nell’agosto del ’68, e io l’avevo invitata ad avere rapporti con me: «Ci potrebbero sparare mentre siamo in macchina». Io riflettendo al fatto che sia ella che il marito erano sardi e temendo qualcosa, non ebbi alcun rapporto con lei e la riaccompagnai a casa.

La visita di Mucciarini a casa dei Mele con una pistola in tasca ha tutto il sapore di un monito inascoltato. A Barbara Locci veniva rimproverata la sua condotta libertina, motivo di grande vergogna per tutta la “famiglia”, e lo sperpero dei pochi denari guadagnati dal marito. Proprio in quel periodo erano sparite quasi tutte le 480 mila lire incassate il 21 giugno da Mele come rimborso per la sua gamba rotta in un incidente, un piccolo tesoro per gente così povera, anche se in questo caso la colpa non era della donna (ma i parenti di Mele non lo sapevano, in un futuro articolo il tema sarà approfondito).
La testimonianza di Barranca ci dice che Barbara Locci aveva capito l’avvertimento, ma gli uomini le piacevano troppo, quindi decise di uscire anche in una serata in cui il rischio era maggiore, causa il giorno libero dal lavoro di Mucciarini. Però  – e questo è il secondo incastro –, cercò almeno di cautelarsi con la presenza di Natalino, che naturalmente non è da credere né che fosse stata un’abitudine in tali occasioni, né che fosse stata casuale.
C’è infine un terzo incastro a dare valore al racconto, labile quanto si vuole, ma dotato comunque di un proprio potere suggestivo. Le Beretta della serie 70, come quella che con estrema probabilità venne usata a Signa, venivano prodotte sia con canna corta (lunghezza totale 165 mm) sia con canna lunga (lunghezza totale 225 mm). Se il modello a canna corta poteva anche entrare del tutto in una tasca laterale di un paio di pantaloni da uomo, quella a canna lunga di sicuro no. Ebbene, nella sua prima confessione Mele aveva parlato di pistola a canna lunga, da tirassegno, la qual cosa si accorda alla perfezione con il “pezzetto di pistola che spuntava dalla tasca” di cui aveva detto Natalino.

Il destino della pistola. Nei racconti di Natalino è contenuta anche una parte di spiegazione al mistero più grande dell’intera vicenda, quello del passaggio della pistola. Tutti gli investigatori che si sono applicati al caso hanno sempre fatto finta di niente di fronte alle sue precise parole, come fanno oggi frotte di appassionati sempre pronti a lavorare di fantasia ma troppo spesso senza partire dai dati reali. Già nel verbale del 21 si legge: “Il bambino dice ancora che la rivoltella fu gettata nel fosso vicino e che lui andò via con il padre che lo portò in braccio”. Due giorni dopo Natalino ritornò sull’argomento, fornendo anche altri dati:

Mostrandosi più disinvolto il bambino ricorda sempre a domande degli inquirenti che la rivoltella fu buttata dallo zio Pietro in un fosso vicino alla macchina.
Riconosce nella foto nr. tre allegata al rapporto dei C.C. il punto ove era la macchina e indica il fosso sulla destra della macchina poco più avanti di essa.

Di fronte a tale reiterazione e a tali precisazioni è davvero difficile ritenere che il racconto fosse stato frutto di fantasia – sembra quasi di vedere la scena, con Stefano Mele che stava mettendo a posto i cadaveri e lo zio Piero che aveva portato Natalino un po’ più avanti per non farlo assistere –, e in effetti Rotella non commise questo errore. Però lo scenario risultante avrebbe dato un colpo mortale alla sua inchiesta, che dalla permanenza della pistola in mano agli assassini di Signa traeva tutta la sua ragione d’essere. Quindi cercò di parare il colpo come meglio poteva, lanciandosi in questa lunga serie di intorcinate considerazioni:

L'affermazione sembra scaturire da un vero e proprio inquinamento, di cui la fonte sarebbe suo padre che, fatta una dichiarazione in tal senso, confessando il 23 agosto (e la sera precedente aveva ammaestrato il figlio), la ritrattava il giorno dopo. Senonché è opportuno anticipare che nel successivo interrogatorio Natalino riconosce nella foto nr. tre allegata al rapporto dei CC. un punto più avanti della macchina dove, nel fosso sulla destra, lo zio Pietro (non Piero in questo secondo verbale) avrebbe gettato l'arma. Tal cosa conduce ad altra ipotesi, e cioè che l'adulto, diverso dal padre, presente sul luogo del delitto, avrebbe effettivamente fatto mostra di disfarsi dell'arma, per rassicurare il bambino. Sotto questo aspetto la prima versione di Mele (egli avrebbe gettato via la pistola dopo il delitto) conterrebbe un accenno di verità, e la seconda non la smentirebbe (la pistola l'avrebbe trattenuta il correo, dopo aver finto di averla gettata via).
Per contro, si può rilevare che il gesto di gettar via la pistola (vero o simulato che si voglia intenderlo) non appare reale, quanto narrato da Natalino, alla luce di un'ultima considerazione.
Egli non ha ancora (e fino a questo momento, mai) detto letteralmente di aver visto (e, in effetti, non può dirlo) l'agente nell'atto di uccidere. E tal cosa è confermata sempre (in ogni versione) dal padre. Non avrebbe perciò mezzo di indicare lo sparatore se non collegando una persona al possesso dell'arma dopo il delitto (in merito è facile ravvisare la forzatura, che emerge nel secondo esame).
Di qui la probabilità che il riferire d'aver visto 'gettare la rivoltella', e di essere stato accompagnato da una persona invece che da un'altra, provengano dall'inquinamento subito, la sera successiva al delitto, da suo padre. Questi procurava che il figlio attribuisse le due cose ad una sola persona (Francesco Vinci). Le due indicazioni, subite altre suggestioni, si sarebbero poi divise nei riferimenti del bambino.
Se invece si crede che Natalino stia, in questo caso, riferendo un accadimento reale (anche se simulato), si avvalora la sua indicazione circa lo zio Piero/Pietro quale omicida.

Cerchiamo di semplificare il ragionamento di Rotella, nel quale sostanzialmente si indicano due possibili motivazioni a un racconto cui, per principio, il giudice non intendeva dare valore.
Natalino potrebbe aver visto lo zio Piero mentre faceva finta di buttare via la pistola, in un gesto che avrebbe avuto lo scopo di tranquillizzarlo. Si tratta senz’altro di un’eventualità possibile, bisogna dire però che non ve n’è alcuna traccia nelle parole del bambino, che in questa ipotesi alla vista della pistola in mano allo zio avrebbe dovuto spaventarsi. La sua narrazione appare invece neutra, riportando semplicemente un fatto osservato e ben rammentato con anche dei particolari – il luogo in cui la pistola venne gettata –, perlomeno questa è l’impressione che si ricava dalla sintesi verbalizzata.
In effetti Rotella stesso sembra propendere più per una diversa spiegazione, legata alle pressioni fatte da Mele al figlio l’ultima volta in cui erano rimasti assieme da soli, dalla serata del giorno dopo il delitto alla mattina successiva. Nell’occasione, lo abbiamo visto, Mele aveva istruito Natalino per fargli dire di aver visto Francesco Vinci sulla scena del crimine, e di essere stato da questi accompagnato. Ora ci si deve chiedere per quale motivo l’ometto avrebbe dovuto introdurre in questo scenario il particolare della pistola gettata via, che per di più Natalino avrebbe trasferito, di sua iniziativa, sulla figura dello zio Piero. È chiaro che Rotella cercò di arrampicarsi sui vetri, ma è comprensibile, altrimenti, è bene ribadirlo, avrebbe dovuto chiudere baracca e burattini dicendo addio alle speranze di acchiappare il Mostro.
Oggi si legge sempre la solita superficiale litania di una pistola che giammai sarebbe stata lasciata sul posto, dato il pericolo che potesse portare a chi l’aveva impugnata per uccidere. Peccato che non si ragioni abbastanza sulla prima confessione di Mele, dove quella pistola l’aveva impugnata lui ma era stata fornita da Salvatore Vinci; quindi il fatto che a questi avesse potuto portare avrebbe soltanto rafforzato il racconto di Mele.
Però la pistola sul posto non c’era, quindi Mele abbandonò la versione con Salvatore per riprendere quella con Francesco. Grazie ai racconti di Natalino e a qualche incrocio con altri dati, il lettore non irrigidito su un proprio scenario intoccabile ha tutti gli elementi per ricostruire il quadro generale in cui si svolse il delitto di Signa, di cui qui, volutamente, si è evitato di fornire proprio tutte le spiegazioni che si è dato chi scrive. Bisogna però che si convinca prima di un fatto: in una storia dove in cinquant’anni non si è ancora riusciti a trovare una soluzione soddisfacente qualcosa al di fuori dei canoni deve per forza essere accaduta.

16 maggio 1969, ore 11:20. A distanza di poco più di tre settimane Natalino venne interrogato di nuovo, questa volta soltanto da Spremolla e Alessandri (vedi). Il verbale è reso in forma diretta, con domande e relative risposte. Balza subito agli occhi la diffidenza del fanciullo: evidentemente questa volta gli adulti avevano avuto a disposizione più tempo per condizionarlo, senza però riuscirci del tutto. Il lettore può scorrersi da solo lo scarno verbale, di cui qui si sintetizzano i punti fondamentali.
Natalino confermò senza alcuna esitazione la presenza del padre:

D. Ma tu dormivi nella macchina? - R. Sì.
D. Ma come ti sei svegliato? - R. Quando ho sentito i colpi.
D. Ed allora chi hai visto? R. Ho visto il babbo.

Confermò subito anche la presenza di qualcun altro (“Il babbo era solo?”; “No”) ma soltanto dopo molti silenzi e dinieghi gli dette un’identità, quella dello zio Pietro che avrebbe anche sparato:

D. Era solo il babbo?- R. (Pausa di meditazione),
D. Le altre volte hai detto un nome. Te ne ricordi? - R.  Non mi ricordo più.
D. L’altra volta dicesti che c’era Pietro? R. (prontissima) “No. Ha sparato Pietro”.
D. Chi è Pietro? - R. Quello che sta a Scandicci.
D. Ma è tuo parente?- R. È mio zio.
D. E perché prima non lo dicevi? - R. Stavo pensando.

Nonostante il nome “Pietro” Natalino intendeva ancora Mucciarini, ben identificabile nelle sue parole dal fatto che abitasse a Scandicci.
L’interrogatorio conferma un paio di altri importanti elementi. Il primo è la presenza del bambino in macchina anche quando vennero sparati gli ultimi due colpi con l’arma dentro il finestrino posteriore:

D. Ma come fai a dire che Pietro sparava se dormivi? - R. Quando mi sono svegliato.
D. Ma ha sparato dei colpi quando eri sveglio? - R. Sì. Tutti i colpi non li aveva ancora sparati.
D. E come sparava? Cosa aveva in mano? - R. La rivoltella.
D. E dove la teneva? Tu eri in macchina? Ha rotto il vetro? - R. (all’ultima domanda) “No”.
D. Come ha fatto? La rivoltella la teneva in mano? - R. La teneva in su e sparava di fuori. Il finestrino era aperto.

La frase “Tutti i colpi non li aveva ancora sparati” è una conferma della pausa tra i primi sei e gli ultimi due.
Una secondo conferma è quella dell’assenza di Francesco Vinci:

D. Ma Francesco c’era? - R. (pronta) No. Non c’era.
D. Ma tu lo conosci questo Francesco? - R. Si chiama Vinci Francesco.
D. Ma non c’era allora Vinci Francesco? R. No. Non c’era.

Prima di passare all’ultima puntata delle dichiarazioni di Natalino, la deposizione al processo, è il caso di fare una riflessione su quelle esaminate fin qui. È pensabile che tutte le sue risposte, tutti i suoi racconti così densi di tanti particolari fossero delle invenzioni? È pensabile quindi che avesse compiuto il viaggio da solo? A chi scrive pare impossibile che fior d’investigatori, come Perugini, fior d’avvocati, come Filastò, e qualche capace criminologo di oggi, come Scrivo – nonché, ma qui è più facile farsene una ragione, registi, giornalisti e romanzieri – possa anche soltanto pensarlo o averlo pensato. Addirittura c’è chi arriva a dire che il bambino sarebbe stato accompagnato da uno sconosciuto Mostro di Firenze in erba, una figura che risulta del tutto assente dai suoi racconti. Ed è bene non dimenticarsi dell'assurdità massima: lo “zio Pietro” che sarebbe stato Pacciani!!!
Ma anche alcune convinzioni di Rotella sono fuori luogo. Non pare davvero possibile che Natalino fosse stato accompagnato da Salvatore Vinci, che nominò soltanto nel rivelare il tentativo di fargli dire di averlo visto. Lo scenario descritto dal bambino è semplice e chiaro: quella notte vide Mucciarini e il padre, che poi lo accompagnò. In base ad altri elementi e convinzioni personali possiamo anche collocare altre persone attorno alla scena del crimine, come il Salvatore Vinci caro a Rotella e a tanti appassionati di oggi, ma certamente lui non le vide.

La deposizione. Il 20 maggio 1970 Natalino venne condotto in tribunale a Firenze per deporre al processo contro il padre. Vista la sua giovanissima età – aveva otto anni e mezzo – venne fatto accomodare nella camera di consiglio della Corte, presenti soltanto il PM, i difensori e le parti civili. Accanto a lui lo zio Giovanni, fratello del padre. È disponibile la sintesi originale scritta a penna della sua deposizione (qui), che per chiarezza viene di seguito trascritta.

Esaminato con le dovute cautele il bambino è invitato a dire dove sia la mamma, risponde: è morta.
Alla domanda se sia morta di malattia, risponde di no; se sia stata uccisa risponde di sì; da chi, il bambino non risponde; chiestogli chi abbia visto quella sera sul posto, risponde: il babbo; ma afferma di non averlo visto sparare, di non avergli visto nulla in mano, di essersi svegliato al primo colpo, ma di non aver visto nessuno con la mano dentro la macchina continuare a sparare, mentre afferma di avere inteso altri colpi mentre era già sveglio.
A domanda chi fosse con il babbo, risponde di non aver visto nessuno, né vicino alla macchina né fra le canne vicino alla strada, “Il babbo era solo”.
Chiesto se avesse visto tale Salvatore, risponde di no; tale Pierino o zio Pierino, risponde ancora di no; tale Francesco, ancora di no; chiestogli se conosce Vinci Francesco che stava spesso con la mamma, risponde di conoscerlo, ma alla domanda se questo Francesco fosse sul posto assieme al babbo, risponde decisamente di no.
Chiestogli come sia sceso dalla macchina risponde che lo sportello di dietro era aperto, ed egli scese da solo, ed assieme al padre che lo portò in collo, andò in una casa di altri, ove fu lasciato solo davanti alla porta ed egli bussò al campanello; il padre era a piedi, non aveva né macchina né bicicletta.
Chiestogli se voglia rivedere il padre risponde di sì, ma a questo punto si mette a piangere.
A domanda cosa gli abbia detto il padre quando lo lasciò solo, risponde: Mi disse di non dire nulla.
Si dà atto che il P.M. cerca di far ricordare al bambino che quando fu da lui interrogato ebbe a dire di aver visto lo zio Pierino e quindi dica oggi se disse una bugia allora o la dice adesso.
Il bambino risponde: Dico la verità oggi.

Con la sua deposizione Natalino contribuiva a far condannare il padre al carcere ma anche sé stesso al collegio; ritenere che non ne fosse stato consapevole è fuori luogo. Sembra di vederlo, povero angioletto, quando gli fu chiesto se avesse avuto voglia di rivedere il genitore, e lui, dopo aver risposto di sì, si mise a piangere… Dovrebbe interrogarsi ben bene sulla propria onestà intellettuale chi ancora vede nella minaccia del maresciallo Ferrero – di fargli compiere a piedi scalzi di notte il percorso fino a casa De Felice – il motivo del suo insistere nell’accompagnamento da parte del padre. Un padre che comunque amava, e che non riusciva a concepire nei panni di un assassino, anche se l’aveva visto sulla scena del crimine: “Afferma di non averlo visto sparare, di non avergli visto nulla in mano”.
Bisogna comunque dire che la condanna di Stefano Mele come colpevole unico andava bene a tutti – eccetto a Mele stesso, che in carcere non ci voleva andare – e Natalino era stato preparato dai suoi zii per fornire il suo contributo. Tempo ne avevano avuto in abbondanza, lui era diventato più grande e più in grado di capire, quindi il nome dello zio Piero scomparve totalmente dalla sue parole.
Sembrava tutto risolto, quindi, dopo che il 25 maggio 1970 il giudice pronunciò la condanna rinunciando all’ombra del secondo uomo, alla quale il difensore Dante Ricci aveva cercato di dare corpo.
C’era però quella pistola, che lo zio Piero aveva lasciato sul posto ma che non era stata ritrovata: che fine aveva fatto?

80 commenti:

  1. Non posso che fare i complimenti ad Antonio per questo articolo, così pieno di acute osservazioni su una delle vicende più intricate del caso, ma anche di grande umanità per la persona di Natalino, un bambino la cui vita fu tragicamente rovinata in quella notte d'agosto del 1968. Ricordo di discussioni sui vari forum in cui si ipotizzavano la necessità di interviste o nuovi interrogatori di Natale Mele, dimenticando il dolore che questa persona ha dovuto provare vedendo la mamma morire ed il papà allontanarsi per sempre da lui.

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    1. Grazie Vincenzo. Povero Natalino, la vita è stata davvero cattiva con lui.

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  2. Ancora complimenti, non vorrei mai fossero superflui.
    Premetto che sono d'accordo con la sua ricostruzione, ed intimamente lo sono sempre stato, per amore nella ricostruzione dei fatti avvenuti nel '68 e per pura logica (che talvolta, converrà con me, nelle ricostruzioni delle vicende "Mostro" sembra mancare).
    Tuttavia di questa particolare situazione trovo oscuri due punti che vorrei sottoporle perchè curioso di conoscere la sua idea.
    1- Perchè accompagnare Natalino fino a Sant'Angelo a Lecore? Conosco e frequento quei luoghi fin da ragazzo, avrei trovato più logico accompagnarlo sulla strada che porta a Villa Castelletti oppure portarlo direttamente a casa, adducendo come scusa che la Locci lo avesse riaccompagnato prima. Mi sono dato due spiegazioni plausibili. La prima è che Natalino non avrebbe dovuto suonare a quella casa ma ad una vicino, nella quale se non sbaglio abitavano dei conoscenti dei Mele. Ma questo coccia con la litania fatta imparare al bambino prima di riaccompagnarlo (padre malato, mamma morta). La seconda è che il desiderio era quello di far venire alla luce il delitto, perchè in fondo riaccompagnare Natalino questo significava, e far passare il Mele come omicida per "riabilitare" il cognome dopo le scorribande della Locci. E questo ci porta al secondo punto.
    2- Perchè gettare la pistola? Se il Mele voleva passare da colpevole, perchè liberarsene? Forse si voleva tirare in ballo i Vinci per prendere due piccioni con una fava, ma in questo scenario il Mele sarebbe passato ancora da raggirabile e non da uomo che ha compiuto un delitto d'onore. E infine, era possibile risalire a Vinci tramite quella pistola? Che prove ci sono del passaggio dell'arma da Vinci a Mele/Mucciarini?

    Spero di essere stato chiaro, e ancora complimenti!

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    1. Andare a fare i conti in tasca agli assassini di Signa è arduo. Credo che la presenza di Natalino avesse sconclusionato un po' i loro piani. Forse in auto con i tre che andarono a prendere Mele c'era la zia Antonietta, che avrebbe dovuto rimanere a casa con Natalino, che naturalmente non avrebbe dovuto farne parola il giorno dopo.
      Se la mia ipotesi è corretta, quella sera la donna rimase in casa Mele da sola fino al ritorno del gruppo.
      Riaccompagnare Natalino a casa avrebbe innanzitutto esposto tutti alla sua vista, e su questo non credo che fossero d'accordo. Mucciarini fu l'unico a farsi vedere, ma non di proposito, mentre gli altri due rimasero nascosti.
      Interesse degli assassini era quello di non far scoprire troppo presto il delitto, per dare a tutti il tempo di rimettersi a posto nelle rispettive case, quindi meglio non accompagnare il bambino in un luogo più vicino ai cadaveri. Poi forse c'era anche la pochezza di Mele, che la zona non la conosceva, come dimostrarono le sue difficoltà nell'accompagnare sul posto le forze dell'ordine due giorni dopo. Arrivare a San Angelo a Lecore era facile, anche se lungo, bastava andar dritto. Anche gli altri conoscevano il posto, e infatti alle 2:00 esatte, ora per la quale si erano accordati, erano lì ad aspettarlo.
      Sui conoscenti dei Mele che abitavano vicino a De Felice non so niente. So soltanto del solito Vargiu, di cui parla Rotella come di qualcuno che nel 1968 avrebbe abitato in zona, ma il fatto che nella sua sentenza non ci sia un approfondimento vuol dire che in quel momento Vargiu non c'era, quindi o il suo abitare era un semplice essere stato ospite di qualcuno magari in altro periodo, o comunque non riguardava l'intorno del 21-22 agosto.

      La pistola fu gettata, su questo direi che non ci sono dubbi, vista la solida testimonianza del bambino, nonostante tutti si siano sempre girati dall'altra parte. Sul perché la mia opinione si collega alla confessione di Mele del 23 mattina, quando accusò Salvatore Vinci e disse di aver gettato la pistola. Si aggiunga che anni dopo, spinto dal ritorno in galera a svelare le sue ultime verità nascoste, Mele parlò di una pistola comprata da Salvatore per 400 mila lire, guarda caso quasi la cifra (tolte 50 mila date a un negoziante e 25 mila nel borsello della Locci) del rimborso dell'assicurazione. Soldi che erano spariti e che avevano esacerbato ancor più gli animi dei Mele contro la Locci, indicata da Stefano come probabile responsabile della sparizione.
      Quindi, Mele assassino reo confesso e presenza di un complice che lo avrebbe aiutato sia per l'arma sia per il mezzo di spostamento. Questo era il piano dei Mele, che la mattina del 23 riuscirono a convincere Stefano distogliendolo dal suo proposito di chiamarsi fuori dando la colpa, con l'aiuto del figlio, a Francesco Vinci. Secondo me quella pistola avrebbe portato anche a lui, e infatti il fratello Salvatore, quando si vide in pericolo dopo la chiamata in correità dei Mele, si affrettò a tirarlo in ballo, suscitando la riprovazione della madre.

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  3. Una risposta ragionevole, a questa giusta domanda, potrebbe essere che purtroppo ammettere di aver clamorosamente sbagliato è una dote che non tutti hanno.

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  4. Alla considerazione condivisibile di Marletti ne aggiungerei un'altra: l'ipotesi di Perugini (Pacciani mostro di Firenze) ha senso solo ipotizzando un passaggio di pistola. Gli elementi che collegano Pacciani a Signa, in veste di assassino, sono debolissimi. Direi che l'unico è la residenza della Bugli, che potrebbe essere una delle numerose coincidenze di questa incredibile vicenda.
    Barbara Locci temeva di essere ammazzata mentre si trovava in auto con uno dei suoi amanti, e non si capisce perché dovrebbe essere stata uccisa da un maniaco che non aveva nessun rapporto con le vittime.
    Se invece l'assassino di Signa era il mostro di Firenze, allora non può essere Pacciani né Lotti, ma qualcuno che apparteneva alla cerchia dei sardi. Personalmente, essendo state le indagini sui sardi lunghe e improduttive, non lo ritengo possibile.
    Sull'argomento dell'ottimo e coraggioso articolo, credo che la ricostruzione di Segnini del delitto del '68, alla luce delle dichiarazioni di Natalino, sia una delle migliori e più meticolose che abbia letto. Auspicherei un'analisi approfondita anche delle dichiarazioni di Stefano Mele, e in questo caso non solo di quelle rese nel periodo '68-'70, ma anche dal 1982 in poi. Perché, ad esempio, nel 1989, dopo essere stato sottoposto a perizia psichiatrica, riprese (con i periti) a indicare come correo Francesco Vinci?

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    2. Evidentemente non è riuscito a leggere tra le righe del mio scritto. Mele aveva una propria ben definita strategia, della quale l'alibi della malattia, le prime istruzioni al figlio di non dire nulla e le successive di dire di essere stato accompagnato da Francesco Vinci erano parte.
      I suoi familiari ne avevano una differente, che la mattina del 23 gli imposero. Di qui le sue contraddizioni.

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    4. C'è una logica anche nel comportamento di Mele degli anni '80, si metta l'animo in pace e si rassegni a scoprirlo al momento opportuno.

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  5. Quindi i nostri valenti magistrati e carabinieri (PM, G.I., tenente e maresciallo) si sarebbero fatti inquinare sotto il naso il teste bambino nel giro di due giorni, senza rendersene conto, e su un particolare non di poco conto: il nome del vero assassino!
    E' l'ipotesi di Torrisi (che arriva addirittura a cambiare il giorno del primo interrogatorio da lunedì a domenica per farlo meglio quadrare con le visite della zia Maria in istituto) raccolta e fatta propria da Rotella. Naturalmente che zia Maria fosse prontamente informata in tempo reale degli atti di P.G. correnti e addirittura di quelli futuri è tutto da dimostrare, ma neppure si può escludere, visto il lamentevole stato delle indagini. Se fosse così, essersi lasciati menare per il naso non da incalliti delinquenti dell'Anonima sequestri, ma dall'apparentemente sprovveduto parentado Mele, sarebbe il peggior disastro investigativo della storia. A questo punto tutto è possibile. Vorrei in futuro ritornare sull'argomento Natalino con osservazioni sulla psicologia infantile, perché la considerazione, di Rotella, che i bambini non inventino di loro sponte ma si limitino a reagire a suggerimenti mi lascia perplesso. Spero di avere occasione di approfondire.
    Infine, osservo che sull'alibi di Mucciarini (se al lavoro o no) lo stesso Rotella non cavò un ragno dal buco, per quanto si sforzasse, avendo messo lui in carcere il Mucciarini e dovendo mantenere credibile l'accusa.

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  6. Visto che Natalino era minorenne, immagino che i suoi parenti fossero stati avvertiti dei previsti interrogatori, visto che l'unico genitore vivo era in carcere. Non mi meraviglierei se una zia fosse stata fuori dalla stanza. Come avrebbero potuto magistrati e carabinieri impedire l'incontro del bambino con i parenti tra il primo e il secondo interrogatorio? Dovevano mettere Natalino sotto chiave?
    Riguardo le eventuali bugie di Natalino, a me sembra di aver dimostrato come tutte le sue dichiarazioni avessero avuto una motivazione logica. Qualsiasi trattato di psicologia infantile potrebbe cambiare molto poco le carte in tavola, dovendo essere per forza molto generico. Ogni bambino reagisce a suo modo; per di più il contesto in cui si trovò a essere sentito Natalino era del tutto particolare. Riguardo la notizia più clamorosa, quella della pistola lasciata sul posto da Mucciarini, trovo semplicemente ridicola l’ipotesi che fosse stato il padre a suggerirgli di dirlo. A parte che non ne avrebbe avuto motivo, ma il vero suggerimento, quello della presenza di Francesco Vinci, Natalino lo rivelò senza alcuna resistenza. Che la pistola fu gettata sul posto da Mucciarini lo disse nel primo interrogatorio e lo ribadì, precisando altri particolari, due giorni dopo nel secondo. Nel terzo, poi, non disse nulla, ma nessuna domanda gli venne posta in tal senso.
    Mucciarini la notte del mercoledì era normalmente di riposo. Dopo quella della malattia di Mele, un’altra sorprendente coincidenza pronta per essere inclusa in un bel “cherry picking”…

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  7. Credo si possa dire che molto, se non tutto, vada verso Mucciarini colpevole dell'omicidio di Signa in concorso con Mele, il cui apporto secondo me è da ritenersi limitato. Ma, come noto, questo a noi interessa fino a un certo punto. Il fatto è che se questa ricostruzione cogliesse il punto, confermerebbe come il getto della pistola "nel fosso" sia perfettamente credibile e non si capirebbe perchè Natalino dovrebbe fantasticare su questo. Peraltro, occorre ricordare sempre l'assurdità, senza un passaggio di mano (secondo me "cieco" come torno a dire), di chi, dopo aver ucciso, apre la serie con la stessa arma, esponendosi a rischi davvero assurdi anche in punto di logica spicciola. Probabilissimo e assai logico che lasciare l'arma sul posto fosse un tentativo di coinvolgere i (il) Vinci che invece colpevole(i) non era(no), ma aveva il perfetto profilo dell'assassino di Signa. La malattia di Mele è l'epitaffio finale sulle tesi del solitario serial killer che colpisce a Signa casualmente, poi avvalendosi di un'insperata confessione del marito della vittima, con alle spalle una progettata costruzione di alibi (la malattia stessa). Tuttora ho difficoltà a capire come si possa considerare improbabile la presa della pistola nei minuti successivi all'omicidio, ma poi credere a questa gragnuola di coincidenze che spiegano, invece, come quello del 1968 fu delitto di convenienza e, forse, di onore familiare.

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  8. Una questione di importanza fondamentale mi sembra qui solo appena accennata.
    I calzini.....come si presentavano in quelle prime ore della notte del 22 Agosto 1968 presso l'abitazione del sig.F.De Felice ?

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    1. Le testimonianze di De Felice e gli altri ci dicono che erano strappati e impolverati. Che fossero impolverati è in accordo con il racconto di Natalino al maresciallo Ferrero, secondo il quale avrebbe fatto gli ultimi 150 metri a corsa.
      Molto probabilmente, se già non c'erano prima, i buchi dai quali spuntano gli alluci, come si vede nella famosa foto, si produssero durante la corsa su una stoffa già lisa.
      Quello che mi sento di escludere è che quei buchi fossero stati causati dagli urti contro i sassi della massicciata in un viaggio solitario, altrimenti anche gli alluci ne avrebbero riportato i segni.

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  9. Mi chiedo se lo stato dei piedi del bambino sia mai stato effettivamente controllato.... visto
    che sul precedente punto in specie dalle dichiarazioni di importanti figure investigative dell'epoca s'è sentito tutto ed il contrario di tutto.
    Nelle ore immediatamente successive al duplice delitto il bambino non riportò d'esserci arrivato da solo....presso quell'abitazione?
    Mentiva........in quei momenti?
    E poi no? quando riporta di aver percorso da solo solo gli ultimi 150m.
    dal ponticino in poi al maresciallo
    G.Ferrero?

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    1. Mentiva dietro istruzioni del padre. Quando decise di dire la verità con il maresciallo Ferrero perché avrebbe dovuto condirla di inutili bugie? Si trattava di un bambino di neppure sette anni, che aveva tenuto la parte e poi aveva ceduto.

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  10. "Le parole dette da Natalino non possono essere prese come oro colato ma neanche respinte in toto"

    Com'è arcinoto egli al sig.De Felice disse : "ho sonno" ed era vero....dormiva già ore prima in macchina ed erano le 2 di notte,"sono stanco" ed era vero visto che ribadi' d'esser solo avendo camminato quindi,
    "ho il babbo a letto malato" ed era vero...anche lo stesso C.Cutrona dichiarò che il pomeriggio di quel giorno S.Mele era a letto avendo quindi egli verosimilmente contezza di questo fatto,"poi mi accompagni a casa" e certamente voleva andare da suo padre,
    "la mamma e lo zio sono morti in macchina" ed anche questo era tremendamente vero.
    Ma tutte queste iniziali parole anche se proferite da un bambino di 6 anni e mezzo spaventato....da solo di notte,che aveva assistito alla morte violenta della propria madre vengono respinte in toto e non considerate minimamente ommeglio sono valutate come il risultato dell'indottrinamento ricevuto.
    I bambini anche detti "le bocche della verità" lo sono in condizioni normali....figuriamoci dopo un trauma di quel tipo trovandosi davanti ad una persona a cui chiedono aiuto.
    Ritengo non si possa sostenere "l'impossibilità del viaggio solitario",ritengo non si possa sostenere che l'imbrattamento dei calzini fosse assolutamente dovuto a quegli ultimi 150m. dal ponticello in poi,e neanche che le lacerazioni che essi presentavano fossero preesistenti o procurate durante il cammino o corsa per quei 150m. finali...ferme restando le condizioni economiche della famiglia d'origine disagiate e teorizzando soltanto tanto per che potessero presentare già da prima qualche buco,ritengo non si possa sostenere che i piedini del povero bambino fossero stati accuratamente esaminati... visto anche che nella famosa foto nell'angolino credo a Signa in caserma il giorno 22 li indossava ancora e sempre senza scarpine.

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  11. Beh...non direi opinioni....e mie poi... è soltanto il rompicapo di Signa e le certezze sono merce rara

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  12. Segnini____GRAZIE___per il lavoro di ricostruzione che fa sulle dichiarazioni di Natalino Mele da bamino. Ma cosa ci hanno raccontato i giornalisti in tutti gli anni che c'erano i delitti del mostro e anche dopo? Che Natalino aveva detto si aver visto Salvatore Vinci fra le canne, ma non che questo gli aveva suggerito di dire lo zio Piero Mucciarini_____solo per fare un esempio_____

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    1. Purtroppo si continua anche oggi a ignorare le dichiarazioni di Natalino bambino, nelle quali sta invece la risoluzione del giallo. I sostenitori della colpevolezza di Salvatore Vinci digeriscono male questa storia dello zio Piero che cercò di far dire al bambino di averlo visto tra le canne. E il motivo è molto semplice: si tratta della dimostrazione plateale che Salvatore Vinci quella sera non era lì, e che i parenti di Mele avevano deciso di incolparlo, il che si accorda alla perfezione con la prima confessione di Mele.

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  13. Buongiorno.
    Manifestandole stima prondissima,
    mi chiedo, in maniera asettica e ingenua come sia possibile che di due copie di un verbale,verosimilmente conservate in due posti diversi,e cosi cruciali,spariscano esattamente le stesse pagine.
    Cito;
    "Purtroppo chi scrive dispone soltanto della prima pagina di quel prezioso verbale (vedi), contenente poche frasi già riportate da Rotella, le cui pagine successive mancano in entrambi gli archivi consultati. Peccato, poiché sarebbe stato interessante conoscere tutti i “dati che non risultano dal verbale di Ferrero”. Qualcosina in più di quel colloquio è desumibile dalla deposizione di Olinto Dell’Amico al processo Mele (18 marzo 1970, vedi)"
    Capirà che l'alone di mistero ha una sua ragione d'essere.
    La saluto.

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    1. Credo che entrambi gli archivi derivassero dalla medesima fonte.

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  14. Ciao Antonio, sono un vecchio forumista!
    Anzitutto complimento per l'accurato ed enorme lavoro.
    Concordo con te su ogni punto, volevo chiederti una tua opinione riguardo come avesse potuto reperire poi i proiettili il nostro Mostro.
    Grazie!

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    1. Ciao vecchio forumista, speriamo vecchio solo di forum e non di età, come invece ormai comincio a essere io...
      Riguardo le munizioni, secondo qualcuno che dovrebbe saperne più di me, negli anni '60-70 era abbastanza facile acquistarne in armeria senza troppe cerimonie. Questo nonostante la legge del '56 avesse imposto la presentazione del porto d'armi. Le solite storie all'italiana, insomma, bastava conoscere l'armaiolo o comunque presentarsi nel dovuto modo. In più tieni conto che dopo l'alluvione del '66 le armerie di Firenze di trovarono con tanto materiale recuperato dai fanghi dell'Arno e dichiarabile scomparso, assieme ai registri cartacei. Tutta roba da vendere in nero, per la quale di certo non veniva richiesto il porto d'armi. Non so quanta valenza possa rivestire, però ho letto sui giornali (ma dovrei cercare dove) che sui bossoli del Mostro vennero trovate tracce di ossidazione, come se le cartucce fossero state esposte a lungo all'umidità. Provenivano dai fanghi dell'Arno?
      Dopo il delitto di Scandicci comprare delle calibro 22 a Firenze divenne difficile (gli armaioli segnalavano il soggetto), anche perché dal '77 ne era stato proibito l'uso nella caccia, quindi comprarne fuori dai poligoni di tiro diventava meno necessario e più raro. Dunque si comprende bene come un individuo privo di porto d'armi e fuori da contesti di tiro sportivo si fosse fatto bastare la scatola di munizioni in piombo nudo che forse aveva già comprato da tempo o forse solo poco prima del giugno 1981. Infatti nei delitti ne sparò 44 su 50, qualcuna l'avrà usata per prova, e l'ultima la lasciò a terra inesplosa nell'ospedale di Ponte a Niccheri. Era il suo addio alle armi. Forse in qualche fogna dell'ospedale fu anche gettata la pistola, mai ritrovata. Ma questa è solo suggestione...
      Se vuoi intervenire ancora come "unknown", scegliti almeno una sigla da inserire nel testo.
      Ciao.



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  15. Buonasera, colpevolmente comincio solo ora una lettura sistematica di questo blog che invece è un must per chiunque voglia avvicinarsi seriamente a questa vicenda, e ringrazio Antonio, che ricordo pure io dai tempi del forum di Ale, per l'immenso lavoro e per metterlo a disposizione.
    Ho una domanda, che magari trova risposta negli altri articoli della serie e nel caso mi scuso.
    Se non ho inteso male, secondo questa ricostruzione il delitto è commesso da SM più un entourage familiare lato Mele (oltre a PM chi sono gli altri due cui si accenna? Suppongo MC e GM?) ma con una pistola proveniente da SV / FV da lasciare in loco per incastrare SV, corretto?
    Se è così, come si spiega che SV abbia prestato a cuor leggero la pistola senza il minimo sospetto sulla possibilità, appunto, di risalire a lui? Tutto era tranne che sprovveduto.
    L'unica spiegazione che mi do è che allora in realtà non era poi così automatico risalire a lui dalla pistola, il che però a sua volta rende futile il piano della banda Mele.
    O mi sfugge qualcosa?
    Grazie in anticipo.

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    1. Non posso darle certezze, poiché non dispongo delle prove di quello che ritengo sia accaduto. Posso solo dirle che la mia ricostruizione riesce a mettere assieme molti elementi sui quali altre ricostruzioni devono glissare, tirando in ballo le solite spiegazioni che nulla spiegano, come quelle di mancanza di affidabilità sia di Mele sia del figlio. Come dire, non ci capisco nulla io quindi non c'è niente da capire. Ma veniamo al tema.
      A mio parere quando Salvatore Vinci consegnò la pistola a Mele in cambio delle 400 mila lire era convinto che l'ometto non avrebbe mai avuto il coraggio di usarla. Purtroppo per lui non tenne conto dell'eventualità che sarebbero potuti intervenire i parenti. Il suo fu un azzardo, certo, ma evidentemente i soldi gli facevano gola, e quella gola gli fece commettere una leggerezza.
      Se la pistola avrebbe portato dritto a lui non posso saperlo. Diciamo che il suo ritrovamento avrebbe costituito un gran bel puntello per la versione di Mele, che aveva detto di averla avuta da lui, da lui di essere stato accompagnato e di averla lasciata sul posto. Risultato vero quest'ultimo punto, anche gli altri due avrebbero acquisito maggiore credibilità.
      E poi è assai probabile che le indagini a Villacidro sulla pistola di Aresti, probabilmente proprio quella che avevano i Vinci, avrebbero potuto portare qualche elemento contro gli stessi Vinci. Provi a riflettere sul nervosismo di Salvatore durante i suoi interrogatori, con le accuse contro il fratello delle quali la stessa madre si stupì. Evidentemente temeva di andarci di mezzo, e non sapeva chi poteva aver commesso il duplice omicidio, magari davvero il fratello, ma non certo l'inetto Mele.

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    2. completo...
      ma non certo l'inetto Mele da solo.

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  16. Buonasera Antonio, in qualunque modo la pensiamo, credo che siamo tutti d'accordo sul fatto che NM è stato indottrinato su quanto dire una volta arrivato a casa De Felice. "Aprimi che ho freddo....il babbo è a casa malato...ho la mamma e lo zio morto in macchina...dopo mi accompagni a casa...
    DOPO MI ACCOMPAGNI A CASA.
    Dopo mi accompagni a casa, ma al momento di dire il suo cognome ai cc, il bambino non lo dice. Ma perché? Impossibile che un bimbo di quell'età non sapesse dire il proprio cognome. Temeva forse che il padre non fosse ancora rientrato a casa? Oppure il bambino si era reso conto di aver suonato al portone sbagliato?
    Provi a immaginare come sarebbe cambiato lo scenario se alle tre di quella sfortunata notte i cc, invece di essere sul luogo del delitto, si fossero presentati a casa del Mele con il bambino per mano.
    Il pover'uomo forse avrebbe avuto qualche freccia al proprio arco: avrebbe potuto dire che era molto malato e che non si era accorto che moglie e figlio non erano rientrati, oppure che sì, si era accorto del loro mancato rientro, ma essendo lui appunto a letto malato, non aveva potuto dare l'allarme. Se lo avessero trovato vestito con le mani sporche di grasso avrebbe potuto dire che stava aggiustando la bici per andare a cercarli.
    Allora e solo allora sarebbero partite le ricerche.
    Ma Natalino sarebbe stato in grado di arrivare a castelletti di Signa partendo dalla sua abitazione? Difficile.
    Avrebbero dovuto riportarlo davanti a casa De Felice e da lì, facendo in percorso al contrario, con molto ritardo, sarebbe stato scoperto il duplice omicidio.
    A quel punto, e mi spiace dirlo, SV, di ritorno dal suo occultamento/cessione dell'arma sarebbe già stato in casa sua nel suo letto.
    Non le sembra strano che tra le cose da dire fatte imparare al bambino, ci fosse anche il particolare della mamma e lo zio morto in macchina? Perché farglielo dire?
    Se davvero il V abitava accanto ai De Felice, non avrebbe avuto più senso quello che disse NM se detto a lui?
    Mi piacerebbe sapere quello che ne pensa.
    Grazie
    Stefania

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    1. Vargiu non abitava accanto a De Felice in quel 21 agosto 1968, altrimenti la notizia sarebbe comparsa a caratteri cubitali sulla sentenza Rotella. Il resto non l'ho capito.

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    2. Stefania, forse il bambino non disse il cognome perché nessuno glielo chiese, chi lo sa

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    3. Nemmeno il carabiniere? Difficile crederlo.

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    4. Neanche il carabiniere. E' a verbale, Antonio.

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    5. In effetti sui verbali dell'ottobre c'è scritto così, anche se pare davvero incredibile.

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  17. Chiedo scusa, ho scritto in fretta e non mi sono spiegata bene. Il fatto che prima di riportare un bambino di sei anni a casa sua (poteva trattarsi solo della fuga di un ragazzino irrequieto) i cc si fossero fatti accompagnare dallo stesso sul luogo del delitto, mi era sempre sembrata una cosa terribile. Ma leggendo la sentenza Rotella scopro che N, di fronte ai cc ammutolisce e non aggiunge altro, tanto che per arrivare all'identità del bambino i cc dovranno prima identificare le vittime per arrivare al cognome del bimbo. E mi chiedo perché Natalino non abbia preferito farsi portare a casa dal babbo, invece che tornare dove aveva visto morire madre e zio. L'unica spiegazione che mi davo era che accanto ai De Felice ci abitasse il Vargiu e che NM dovesse andare da lui a riferire la lezioncina imparata durante il viaggio verso la "lucina".
    Cosa sarebbe cambiato? Non saprei, ma di certo il Vargiu che conosceva bene SV e di conseguenza le vicende della famiglia di SM, avrebbe capito appieno quanto era accaduto. Come avrebbe agito? Forse non sarebbe andato dai cc?
    Niente, queste domande sono inutili, poiché il V che abitava accanto ai De Felice era evidentemente una leggenda metropolitana.
    Chiedo scusa per l'intervento poco comprensibile.
    Tra mia madre e Rotella sto un po in confusione.
    Stefania

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    1. Guardi Stefania, su Silvano Vargiu che abitava vicino a De Felice l'unica notizia nota è quella che si legge nella sentenza Rotella:

      Altra singolare circostanza è che Vargiu abbia vissuto per alcun tempo intorno al '68, nell'edificio adiacente alla casa di De Felice, in via Vingone di S. Angelo a Lecore (via Pistoiese), lì dove fu condotto Natalino Mele la notte del duplice omicidio (v. cap. 1 n. 1, retro).

      Chi era Silvano Vargiu? Era uno dei due amici che Salvatore Vinci aveva chiamato a riscontro del suo alibi. Dal rapporto Torrisi:

      Il 27 mangio 1969, presso le carceri, il VARGIU Silvano, l'altro teste menzionato dal VINCI Salvatore, dichiara dinanzi al Consigliere Istruttore ed al P.M. di aver conosciuto i fatti attraverso i giornali, di essere figlioccio del Salvatore, di essere a conoscenza di una relazione del VINCI Salvatore e del fratello Francesco con la moglie del MELE, notoria in pubblico, e che quest'ultimo ha anche dormito un paio di volte in casa della donna. Egli prosegue affermando che effettivamente la sera del delitto è stato al circolo di Prato con Salvatore ed un altro operaio, ove hanno fatto una partita a biliardo, e che al termine, mentre lui è rimasto a Prato, Salvatore VINCI è ritornato a casa alla Briglia con il suo amico.

      Si sarebbe poi appurato che non si trattava della sera del delitto, ma della precedente. Vargiu dice di essere rimasto a Prato, dove evidentemente dormì. Era casa sua, di sua madre, di sua sorella, di un amico? Non mi pare sia emerso. Ma lei crede davvero che se in quel periodo l'individuo avesse abitato vicino a De Felice la circostanza non sarebbe stata approfondita?
      Francamente non so perché Rotella avesse ritenuto utile riportare quella "singolare circostanza" senza approfondirla e quindi senza utilizzarla. Forse voleva fare un bel regalo a tutti i Vinciani di oggi, che per tener su una storia che non regge si devono attaccare a ogni più piccola sporgenza!

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    2. perché anche Rotella era Vnciano, questo sembra chiarissimo

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    3. @Antonio, Stefania

      Sul Vargiu

      Credo il Rotella citi la circostanza della sua abitazione per motivi di completezza.

      Nell’autunno dell’83 (quindi post-Giogoli) si è indagato su possibili complici di Francesco Vinci.
      Il Vargiu, in passato, era stato complice di Francesco Vinci e suo “compagno di delitti contro il patrimonio” (cit. Rotella). Tale complicità ha lasciato ipotizzare una possibile correità del delitto di Signa (vedi M.llo Funari e stesse ammissioni del Vargiu).
      Inoltre il Silvano Vargiu è stato testimone del disonore di Lucia Vinci circa il presunto incesto con Giovanni(di cui ignoro i dettagli). Quest’ultimo adirato con Francesco Vinci, penso sia risaputo, ha tentato di raccogliere elementi contro di lui che lo coinvolgessero nel delitto del 68 - vuoi la richiesta ad Antonietta Mele di farsi passare per parente di Stefano e raccogliere informazioni circa l’accaduto,, vuoi lasciando qualche bigliettino minaccioso sul parabrezza dell’auto di Francesco - e ha illazionato la possibilità che il Silvano Vargiu (ricordo che è il fratello di Franco sposato con una delle sorelle dei Vinci, nonchè figlioccio di Salvatore) ne fosse il correo.
      Personalmente credo che il Vargiu nulla ha a che fare con il delitto. Se non hai un preciso motivo, non li rischi anni di carcere facendoti coinvolgere. Ne rischi di portarti un testimone sotto casa tua e per di più di sei anni circa di cui non sei ne parente ne affine.
      Per completezza direi che nell’autunno 83, ci si stava rendendo conto che il Francesco Vinci era facile farlo apparire colpevole nel delitto Locci Lo Bianco.
      Può esser una mia supposizione, sia ben chiaro, ma visti i precedenti tra il Vargiu e il Vinci Francesco, magari qualcuno avrà pensato che il bambino glielò lasciarono proprio la vicino per disseminare qualche indizio in più a carico del balente.
      Può anche essere che - IMHO - la circostanza della vicinanza della sua abitazione a quella del De Felice, lo abbia spinto ad avallare l’alibi di Salvatore, per evitare guai peggiori nel caso gli inquirenti facessero un 2+2 troppo frettoloso (voglio ricordare che il Vargiu mesi prima era stato arrestato ed è stato in carcere con Stefano Mele con cui ha parlato e che ha sicuramente sondato circa il delitto, magari (IMHO) per sapere che cosa effettivamente successe quella notte e del perchè il bambino fosse approdato proprio la. Proprio in quei giorni il Mele cambiava di nuovo versione ritirando le accuse su Cutrona e ritornando su quelle a Francesco Vinci. Gli riferì che l’omicidio fu fatto da quest’ultimo e che minacciò il bambino se avesse parlato. Se il Vargiu avesse creduto al Mele potrebbe aver detto: “Ma questo scemo di Francesco è venuto a portarmi il bambino sotto casa mia?”. Che sia sensata o meno la supposizione però è certo che il 27 Maggio 69 riscontrerà l’alibi di Salvatore Vinci).

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    4. @ Phoenix
      Dunque ritieni che il Vargiu abitasse davvero accanto al De Felice nell'agosto del 68?
      È lo stesso Vargiu che morirà con FV nel 93?
      Stefania

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    6. Io non ritengo. Lui aveva l abitazione li. O meglio: un articolo all 'epoca del suo arresto(in questo momento non ho la fonte, sorry, ma sono a lavoro, magari in futuro te la forniro') nel novembre 1968, lo definisce "senza fissa dimora". Il Vargiu era da poco emigrato e magari aveva bisogno di un abitazione per posta ecc...
      Ripeto il Vargiu (IMHO) nulla aveva a che fare con il delitto. La vicinanza delle abitazioni e' suggestiva ma non dirimente (la miranda bugli insegna).
      NO. Il Vargiu ucciso col FV NON era Silvano, ma Angelo. E quest'ultimo NON era fratello di Silvano (come erroneamente viene riperutamente affermato). Silvano aveva un fratello di nome Franco (cognato dei Vinci) e una sorella di nome Gioconda. Certo, nulla osta pensare che fossero parenti alla lontana o acquisiti.
      ----‐----------

      Ho eliminato il commento precedente, perche' il mio vizio alla completezza a volte mi porta a strabordare. Alcune informazioni erano ridondanti. Non che avessi scritto qualcosa di compromettente ( e i nomi erano oscurati) pero' in questa triste vicenda la tentazione di guardare dal buco della serratura, accostando persone che nulla c entrano puo' scatenare inutili morbosita'. Non voglio problemi per me ne per chi ospita i miei commenti.

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    7. ci si può sbizzarrire a pensare o credere quello che si preferisce:
      - resta il fatto che nella Sentenza Rotella [scritta a partire da documenti ufficiali e testimonianze ed escussioni (di cui mica abbiamo tutto il documentato)] tale informazione riporta.
      E che quindi con tale informazione ufficiale ci si debba confrontare.

      Ci si può cofrontare :
      * dando aggratis del vinciano al Rotella
      * dando aggratis al Rotella del mentitore e addomesticatore di documentazioni ufficiali [falso in atto pubblico, si chiamano; enn è reato così da poco]
      * dando aggratis a Rotella del babbeo che si sarebbe fatto fregare da una informazione falsa riferitagli

      OPPURE:
      * molto più ragionevolmente, si può pensare che quella informazione corrispondesse al vero.
      E questo può rivestire due differenti aspetti:

      1°) IL PRIMO [dato da tutti me compreso, il meno probabile]:
      che effettivamente il Vargiu stesse lì al tempo del delitto,e che quindi in un modo o in un altro avesse potuto ricoprire quella notte un ruolo ed una funzione logistica 'attiva'
      [NOTA: sinceramente non reputo che questo fosse ciò sottintendeva il Rotella con quella sua frase, anche perchè se no vista la solerzia puntigliosa nella sua Sentenza, avrebbe aggiunto dettagli e meglio specificato la data]

      2°) che con l'illustrazione di quella informazione, il Rotella semplicemente significasse segnalare che:
      - quell'area/zona e quelle strade, data appunto l'abitazione del Vargiu e la stretta amicizia e legame tra il Vargiu ed i Vinci, ai Vinci non potesse essere ignota [cosa utile per pianificare velocemente una via di fuga e avere un'idea di come/dove poter fare trovare un riparo ad un bambino di 6 anni che non poteva essere riportato a casa personalmente da nessuno degli assassini, ovviamente.

      In questo senso, la frase non è nè campata per aria, nè colpevolizzante per bias 'vinciano' a prescindere etc.

      SI TENGA PRESENTE ANCHE UN'ALTRA COSA:
      - l'auto è dell'ALB
      - l'auto la guida l'ALB
      - l'ALB è il 'maschio macho e alfa' in quel momento
      - visto che pur sposato va con la BL, possiamo immaginare tranquillamente che quella non fosse stata la prima volta e che l'ALB conoscesse di suo dei posti dove imboscarsi tranquillo.

      Per quanto non obbligatorio e non provato che sia così, pare quindi più logico che il posto dove si andarono ad imboscare (e morire) fosse stata un luogo scelto dall'ALB.

      Del resto:
      - non risulta alcuna certezza che la Locci fosse solita andare ad imboscarsi lì
      - anche fosse stata solita essere portata lì da altri amanti: non vi era alcuna certezza che anche con un differente amante lì sarebbe stata portata, e quindi un pedinamento dal cinema resta obbligatorio lo stesso.
      - altrettanto, è evidente che in pre-assenza di conoscimento di dove si sarebbero andati ad imboscare, era impossibile a chiunque, Vinci compreso/i, scegliere ed inserire s priori nel piano casa del Vargiu come un punto di appoggio.

      Tenuto a mente ciò, e tenuto a mente che il delitto era stato programmato e che quindi sarebbe stato attuato come avvenne:
      - che un Vinci, capito il luogo dove erano, possa in loco aver suggerito una direzione sul dove portare il NM, sfruttando il suo pre-conoscimento dei dintorni:
      - non pare nè improbabile, nè illogico, nè 'avvelenato dal bias vinciano' (che tanto fa pau a molti).

      Hazet

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    8. Allora ragazzi, dove si porta questo bambino?
      Ma, lo so io, c'è un posto che conosco perché ci stava un mio amico.
      E fu così che i De Felice entrarono nella storia.

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    9. Va bene siete davvero tutti preparatissimi ed è un piacere per me leggere quanto dite.
      Avrei una domanda(sic) e se ognuno mi risponde dal suo punto di vista lo ringrazio in anticipo.
      D'accordo il bambino viene accompagnato lì per ragioni logistiche e gli si insegna la lezioncina da dire quando qualcuno aprirà la porta.
      Ma chi lo accompagna cosa si aspetta che succeda?
      Il bambino viene riaccompagnato a casa dalla famiglia che lo accoglie?
      Oppure la famiglia avvertirà i cc e saranno loro che lo riporteranno a casa? ( ma il bimbo è preoccupato quando capisce che stanno arrivando i cc e non dirà più niente)
      Si aspettava, chi accompagnava il bimbo, che il delitto fosse stato scoperto così presto e proprio grazie a N ?
      Grazie a chi mi risponderà
      Stefania
      P.s. secondo me le frasi insegnate al bambino dovevano sortire un qualche effetto, altrimenti perché fargliele imparare?

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    10. NM viene accompagnato non fino al portone del DF.
      gli ultimi centinaia di metri li compie in solitaria.
      le ultime centinaia di metri sono una 'scelta autonoma' del NM.
      Sbagliò casa? gli dissero espressamente di evitare quella del Vargiu? gli dissero appositamente di suonare a quella del De Felice? era indifferente quale casa? non gli dissero nulla e lui suonò alla prima che gli è capitato?

      Impossibile saperlo. inutile quindi domandarselo.

      Ma se, raggiunto il luogo di imboscamento, chi conosce il Vargiu [e non è nemmeno detto che il Mele stesso non lo conosca visto quanto era legato al Vinci che era ben legato al Vargiu e quindi pure i due direttamente si potevano benissimo conoscere, abitazioni comprese] realizza che dalla sdc, si può indirizzare il bambino VERSO UNA DIREZIONE più utile di quella opposta, perchè vi è un collegamento di percorso ben più lungo e non frequentato fino ad una location nota dove potersi anche dare un gancio per riportare via l'accompagnatore, invece di ripercorrere 150mt ed essere sulla statale...
      beh, non stupisce mica che chi accompagna il NM lo accompagni in quella direzione.
      Tuttalpiù (ed è così da smepre) stupisce che NM 'da solo ed in solitaria' si sia diretto in quella direzione assurda per tutti quei km su quel pietrisco pungente e scalzo, contraria al senso di arrivo [e di apertura portiera], che non si sia fermato a nessun altra casa sul tragitto, etc.

      Se invece 'casa Vargiu' la si vuole mettere come parte integrante stabilita a priori nel piano:
      - tocca allora obbligatoriamente spiegare come gli assassini conoscessero a priori il fatto che proprio lì l'ALB avrebbe portato la Locci.
      E questo non è possibile da spiegare.


      //meno battutine, più ragionamenti//

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    11. Ma se il portone di De Felice era proprio all'uscita della sterrata, con un bel lampione sopra! Dove doveva suonare Natalino?

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    12. @Anto:
      dove voleva e dove ci arrivava col ditino, Antonio.
      E se è vero come è vero che quella del DF era quella con la lampioncino acceso, non significa che attorno ci fosse il deserto ed i vuoto.

      Poi [esempio genericissimo, non lo sostengo, lo propongo solo in chiave anti-assolutismi]:
      l'accompagnatore al momento di lasciarlo a vista di casa DF, poterebbe anche avergli detto: 'suona ma non alla casa con la lucina' ed il NM, piccolo, assonnato, stanco e spaventato e con già tanto da mandare a memoria, potrebbe anche aver capito 'suona alla casa con la lucina'.

      Gli assolutismi, a meno che dimostrati anche solo per esclusione logica, non servono a nulla nelle discussioni di analisi ed approfondimento.

      Anche lungo il tragitto altre case c'erano eppure a quelle non suonò.
      Come vedi, di 'obbligatorio' c'è ben poco.

      Come di 'obbligatorio' nel dirigersi in senso contario a quello di arrivo [ e muso macchina che anche un bambino sa riconoscere], dovendo addirittura girare attorno alla portiera per sceglierlo: allora risulta ancora più assurdo.
      NM 'scelse' quella direzione perchè qualcuno in quella direzione lo instradò e lo accompagnò.

      E se lo fece, e lo fece, quella direzione rispetto a quella del ritorno sui propri passi: aveva e doveva avere una funzione logica ed utilitaristica ben precisa.

      Che tale ragione fosse fargli suonare alla casa del DF con il suo bel lampioncino davanti, in quanto casa del DF: mi pare assai strano per non dire privo di ogni sostanza.

      Ed cmq, io non davo per obbligatorio nulla del tratto in 'autonomia' del NM.

      Resta inoltre come un macigno che 'chiunque' conoscesse bene il Vargiu [chi? ognuno scelga in libertà di pensiero], una volta che l'auto dell'ALB passa il Vingone e gira nella stradina per imboscarsi, sa due cose:
      - che lì: la coppia ha intenzione di imboscarsi
      - che da lì: proseguendo il viottolo, si può raggiungere l'abitazione [indefinita per tempi] del Vargiu

      Da ciò a dire che allora in quel momento si decise di ricorrere a quel punto di riferimento: ovvio che ce ne corre in quanto a prove.
      Ma, altrettanto, sempre in quanto a prove, il fatto non è escludibile.
      Il normale buon senso, calato nel contesto della situazione e dei nomi di contesto noti, può venire in aiuto nel dare peso ad una o ad un'altra opzione.

      Quella che non può essere presa a prescindere in considerazione, è invece l'ipotesi che 'la calamita' casa Vargiu potesse essere stato inserito nel piano antecedentemente, in quanto non vi era nessuna certezza che lì avrebbero dovuto imboscarsi alb e bl (e nm).
      SE (ribadisco: se) all'uscita dal cnema ALB avesse portato BL in direzione Firenze, di casa Vargiu, che se ne facevano? 2km e passa a piedi [ed in quelle condizioni] per un bimbo li giustifichi pure (se piacciono le favole), ma se i km diventano 4 5 6 7 8 9 etc: ovviamente non più.

      Davvero, guarda che non è questione di sardismo, vincismo, o quello che uno preferisce:
      è solo una constatazione di fatto + una 'coincidenza' [ di peso, parrebbe] che deve necessitare una spiegazione plausibile [e la mia su illustrata non è fuori parametri di plausibilità nè funzione nè capacità per gli assalitori] .

      Non piace e si preferisce dire che si trattò di un assoluto caso o di altro di altrettanto possibile e funzionale? non c'è mica problema;
      i punti salienti di quella notte e loro contorni: restano cmq cristallizzati ugualmente.

      Visto che su quella frase del Rotella si discuteva cercando di darne corretta interpretazione, io la mia lo espressa ed argomentata.

      Poi ognuno decide da sè.

      hzt

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    13. ====RICHIESTA====
      Antono, se non vado errato, in un tuo articolo avevi pubblicato una immagine presa da processo di Cagliari, dove si vede A FIGURA INTERA il SV dietro le sbarre e poco fuori da esse, un carabiniere.

      Non la ritrovo più ed ero convinto di averne salvato una copia (già anni e crash di hd fa).
      Non è mica che mi puoi mettere indicare il tuo articolo o la fonte etc.

      Grazie mille.

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    14. https://1.bp.blogspot.com/-9wMtnh2jPk0/X5ZluOl-aCI/AAAAAAAACcU/eLYvmufriNorxw4JKOnzAmSbxZZiBdWawCLcBGAsYHQ/s900/showimg.cgi.jpg

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    15. muy muy muy tenchiù!
      quella foto mi vale oro

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    16. Anche il carabiniere non era altissimo ! Ma quale è l'altezza minima richiesta per i cc? 1.70 ?
      Stefania

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    17. 1.71 per la precisione.
      e la banda circolare del berretto, è di 4,5cm

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  18. Come lei sa, non sono una vinciana, anzi.
    Benché io la pensi come lei su Lotti come unico mdf, prendo in considerazione un po tutto a volte facendo una gran confusione.
    Sempre leggendo la sentenza Rotella, ho scoperto che "il luogo non era frequentato da coppiette ect ect", ma GM dirà al riguardo qualcosa di diverso e mi piacerebbe tanto sapere cosa. E GB dirà di essersi appartato di notte con BL e anche qui non viene chiesto dove. E non mi sembra che a NM sia mai stato chiesto se lì il bambino fosse stato altre volte in compagnia della madre e di qualche "zio".
    Se non fosse che SM era certamente sulla sdc quella sera, si potrebbe ipotizzare che davvero il mdf abbia colpito a Signa per la prima volta. Peccato davvero.
    A proposito della sentenza Rotella, è possibile che ci siano pagine che risultano illeggibili? Oppure sono io che ho trovato un sito sbagliato?
    Grazie come sempre per la risposta
    Stefania

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    1. Il posto non era per guardoni, questo credo si possa dare per certo. Poteva anche capitare una coppia, ma lì come in qualsiasi altra strada buia della zona.
      Sulla sdc c'era anche Mucciarini. Al di là di chi fosse il MdF, non si può assegnargli anche questo delitto, sarebbe truccare le carte.

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    2. La sentenza Rotella può scaricarla trascritta e fotocopiata dalla mia pagina dei contenuti scaricabili. Non ci sono pagine illeggibili.

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    3. Ciao Antonio, volevo segnalarti che la versione trascritta della sentenza non è disponibile, da un generico errore 404, file not found.

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    4. Google drive dice che ci possono essere violazioni di copyright, non capisco davvero perché. In ogni caso ho inserito una seconda versione, prova adesso, e segnalami se funziona oppure no, grazie. Ciao.
      Eventualmente chi ha voglia di fare delle prove può pescare altri link non funzionanti, io non posso in modo semplice.

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    5. Adesso funziona! Ho testato i link di tutte le sezioni tranne quella dei giornali, per adesso l'unico link non funzionante è questo:

      1985 - Francesco de Fazio su delitti 1968-1984

      Volevo chiederti un'altra cosa: hai mai pensato di raccogliere in un'unica pagina una lista dei documenti d'indagine ancora mancanti o considerati "introvabili"? Personalmente mi piacerebbe darti una mano nella ricerca documentale, che mi sembra l'unica strada percorribile in questo momento.

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    6. Purtroppo non ne avrei il tempo, sono indietro di troppe cose. Per il documento che mi segnali più tardi controllo.

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    7. Il tempo è tiranno e il materiale davvero tanto, ma grazie ancora per il tuo lavoro e per il tempo prezioso che spendi sopra questo blog :)

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  19. Rotella era 'vinciano' come chiunque del campo dovrebbe, trovandosi davanti uno (e solo quello visto che altri sospetti degni di attenzione non c'erano in quel periodo) che per ben due delitti compiuti con la stessa arma, fornisce due alibi sicuramente falsi (etc. etc. etc.).
    E così 'vinciano' che in assenza di "cose concrete" lo prosciolse, anche se poteva mandarlo a processo, indiziario (come indiziario fu il processo a Pacciani, che eppure venne fatto e senza tanti patemi d'animo verso le "cose concrete").

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  20. Articolo pazzesco!!! Vorrei sapere la tua opinione in merito al passaggio della pistola che dalle mani di SV finisce nelle tasche di Mucciarini passando per il Mele. Non ho ben capito.
    Inoltre perchè, a tuo parere, l'ometto si incaponisce con l'accusare il Vinci Francesco anzichè Salvatore andando contro alla famiglia ? Provava rabbia verso Francesco ma non verso Salvatore? Chiedo una tua opinione... lo so che non eri presente. Peccato che non esiste nessun video sul Mele per capire il livello culturale del personaggio che ci viene raccontato come analfabeta totale e credo lo fosse. Baba

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    1. Secondo la mia ricostruzione, Salvatore cedette la pistola a Stefano dietro la consegna di 400 mila lire, la gran parte del rimborso per l'incidente di febbraio con la Lambretta del fratello nel quale anche lui era intervenuto dichiarandosi alla guida (Francesco non aveva la patente). La cedette per prendere i soldi, aizzando Stefano a uccidere la moglie, ritenendo però che non avrebbe mai trovato il coraggio. Non aveva tenuto conto dei parenti, ai quali Stefano consegnò la pistola. Questi pensarono di uccidere con Stefano a prendersi la colpa e Salvatore complice istigatore. Per questo la pistola venne lasciata sul posto.
      Ma Stefano non ci voleva stare. Sul perché scelse di accusare Francesco al posto di Salvatore si possono fare delle ipotesi. Probabilmente verso il primo provava rancore e verso il secondo no. Anzi, Salvatore aveva un grande ascendente su di lui, in fin dei conti non era stato soltanto un rivale, ma anche un amante, quindi non se la sentiva di accusarlo. A spingerlo erano i sui parenti, che invece lo preferivano al fratello come complice, se non altro perché aveva l'auto.

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  21. Off topic (o forse no): hai qualche idea sulla morte di Francesco Vinci ed Angelo Vargiu? Francamente non penso che quel delitto sia legato alla vicenda del Mostro, mi pare di più un regolamento di conti dettato forse da forti motivi di risentimento personale, ma rimane davvero un enigma.

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    1. Non mi sono mai interessato. Non penso proprio che la vicenda abbia a che fare con i delitti del Mostro, e neppure con quello di Signa.

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    2. Vorrei fare alcune domande. Per il duplice delitto del 1968 agli atti c è una descrizione dei bossoli repertati? Della.lettera H? È vero che i bossoli con la.lettera H erano diffusi perché sono SOLO l'iniziale di HENRY?

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    3. Può leggersi la perizia Zuntini, per la descrizione dei bossoli, scaricandosela da qui:

      1968 - Zuntini su Signa

      La domanda sulla "H" non l'ho ben capita. Probabilmente trova le sue risposte qui

      La scatola di cartucce

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  22. Leggo questo blog da poco giorni e cerco di leggere il più possibile per evitare domande a cui si è già data risposta. Cerco di essere anche sintetico. Premetto: complimenti per l analisi scientifica del vasto materiale e per cercare SOPRATUTTO di dare un ordine logico. Su qualche punto ho una opinione differente al momento ma voglio documentarmi meglio. In un video su youtube l avvocato di Pacciani sostiene che le cartucce serie H fossero molto diffuse e quindi non sarebbe provato che provengano dalle stesse due scatole. Ho un altra domanda. Che opinione ha di alcuni delitti simili ma non identici di coppie avvenuti nello.stesso periodo e rimasti insoluti? Potrebbero essere collegati al MDF? Su youtube si fa accenno ad una coppia uccisa a LUCCA (vado a memoria) e poi c è un omicidio simile di una coppia di tedeschi uccisa in Sardegna ad ARBUS (a 19 km da Vilalcidro paese di origine dei Vinci)

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    Risposte
    1. Per quanto riguarda la questione delle due scatole legga qui
      La scatola di cartucce
      Sul delitto di Lucca ritengo che non abbia nulla a che fare con quelli del Mostro. Non venne usata la stessa pistola, e le contorte spiegazioni dell'avvocato Filastò per darne giustificazione sono un'insulto alla logica. Fu semplicemente una rapina finita male.
      Del delitto di Arbus non avevo mai sentito parlare, ma una ricerca su Google mi dice che ha un colpevole. E comunque le modalità sono diversissime.
      Mostro di Arbus

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  23. Salve Sig.Segnini.
    Io le pongo una domanda....mi risponda secondo logica e buon senso:
    Mettiamo caso che i sardi con mele oppure i sardi senza il mele oppure il mele da solo avessero organizzato l omicidio della locci
    1-quale padre (se non x un raptus)potrebbe sparare all interno di un auto x uccidere la propria moglie e l amante con l altissima possibilità che un proiettile o schegge di esso non potessero colpire il bambino?
    2-quale o quali assassini potrebbero andare a sparare una coppia di amanti sapendo che all interno dell auto c è un ragazzino di 6 anni (potenziale testimone)x lo più conoscitore dei sardi visto che frequentavano la sua casa?
    È impossibile che qualcuno sia andato a compiere il delitto sapendo della presenza del bambino in auto...
    Chi ha sparato non sapeva della presenza del bambino (dormiva dietro)
    E sono convinto che Il Mdf abbia
    1-risparmiato il bambino
    2-volontariamente acceso la freccia dell auto proprio x il bambino (affinché qualcuno lo potesse trovare)
    Io sono convinto che il mdf non potesse immaginare che il bambino potesse raggiungere la casa ...
    Era convinto che il bambino fosse rimasto lì a vegliare il corpo della mamma

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    1. Guardi che la gente fa cose impensabili, di che si stupisce?

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    2. Tra le tante teorie....
      La sua riguardo al Lotti è quella più plausibile...
      L unica pecca...è il passaggio dell 'arma....non tanto x il ritrovamento.....
      Ma x il modo in cui Lotti potesse procurarsi 2 scatole di winchester.
      O rubandole o acquistandole

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    3. Ho provato a interessarmi con gente che conosce la materia, in un forum apposito. Mi hanno detto che non era così difficile procurarsi cartucce senza presentare il porto d'armi. Tenga conto che al tempo le 22LR venivano usate anche per la caccia, e i bracconieri erano mille. Infatti nel '78 vennero vietate proprio per quello, perché le carabine 22 facevano poco rumore, e rendevano più facile sfuggire ai controlli. Ora, secondo lei, di questi bracconieri, quanti avevano un regolare porto d'armi? E quelli che non ce l'avevano, le cartucce come se le procuravano?
      Lotti può darsi che avesse conosciuto qualche cacciatore, oppure avesse saputo di qualche armiere che non la faceva troppo lunga. Dopo l'alluvione di Firenze molte munizioni e armi passarono nel mercato nero, essendosi persi i registri. E non credo che chi ne fosse entrato in possesso pretendesse il porto d'armi.

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    4. Ok.....perché 2 scatole differenti?

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    5. Io ho sempre dato importanza alle pallottole ramate usate sia nel 68 che nel 74
      L ho sempre vista come una prosecuzione nel terminare la scatola e aprire dopo quella delle pallottole non ramate

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    6. Non c'è alcuna prova che le cartucce di Signa e di Borgo provenissero dalla stessa scatola. Se vuole qui c'è un articolo in cui ne parlo

      https://quattrocosesulmostro.blogspot.com/2016/02/la-scatola-di-cartucce-1.html

      Poi ci sono due video, con il secondo che cerca di confrontare i bossoli.

      https://www.youtube.com/watch?v=QqCe5nuZrqQ

      https://www.youtube.com/watch?v=gwNZK9Q8Okc

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  24. @Antonio
    ho guardato con attenzione il tuo secondo video sui bossoli, e lho trovato molto interessante.
    Ti faccio i miei complimenti.

    A margine, ti aggiungo due considerazioni:
    -La Prima:
    ----------
    accettando per molto plausibile un poutpourri di proiettili raccogliticci per Signa, come da te ben evidenziato coi confronti delle foto dei bossoli), e scaricate le immagini messe a disposizione:
    * anche io ho avuto la sensazione visiva da te descritta (anche se non sono riuscito a sbilanciarmi per 3 differenti configurazioni; al mio occhio 2 si vedono bene, la terza mi pare più dubbia e magari possa dipendere dalla luce delle immagini).
    Nell'ottica della disamina di raffronto da te proposta: cambia comunque poco la sostanza.

    -La seconda
    -----------
    che siano 2 (by 'mio occhio') o che siano 3 (by 'tuo occhio') o anche di più, restano IMHO però due possibili problemi irrisolti:
    1** il primo, strettamente legato a Signa
    2** il secondo, legato al reperimento dei proiettili pei i delitti successivi (nel caso in cui vi sia stato un 'passaggio' (qualunque esso sia) di pistola

    1** un miscuglio di proiettili a Signa:
    può essere spiegato anche come un mix di proiettili provenienti dai rimasugli (2 o più) scatole di munizioni già in possesso di chi a Signa uccise.
    Ossia: il miscuglio non implica nè direttamente nè univocamente che chi uccise a Signa ricorse a proiettili sfusi recuperati (non si come nè quando nè tramite chi) qua e là.
    [NOTA: cosa che, ovviamente, altrettanto non fa il supporre che chi uccise a Signa fosse in possesso di diverse scatole di munizionamento nel tempo pian piano aperte ed in parte consumate.].
    nessuna delle due possibilità può essere esclusa.

    2** in riferimento ai delitti successivi, ( e nell'ipotesi che avvenne un passaggio di arma tramite raccolta da terra sulla sdc del 1968 da qualcuno che col delitto non centrava affatto), concordo con te te il procurarsi qualche proiettile o qualche scatola di proiettili cal.22 (siano essi ramati o a palla nuda) non sarebbe stato un problema per quasi nessuno in quegli anni, MA ATTENZIONE:
    - qualche pallottola o qualche scatola di pallottole puoi non avere troppi problemi ad acquistarla in nero (specie in aree di cacciatori), ma nel caso dei delitti del Mdf (1974/1981 e a seguire) i colpi o le scatole che avrebbe comprato in nero [non sappiamo quando, ma si direbbe difficilmente nel subito post delitto, come minimo perchè poi fino al 1974 non tornerà a sparare quella cal.22] avrebbe dovuto avere la "fortuna" (si fa per dire) di comprarle:
    - in nero (e fin lì, tutto ok)
    - ricevendo delle cal.22 che il fornitore gli passava (e qui sorgono i 'problemi'), senza poter tanto nè stare a far lo schizzinoso nè avanzare pretese strampalate: vuoi delle cal.22 in ero, chi te le vende ti vende ciò che ha per le mani.
    Non è che puoi chiedere a chi illegalmente ti vende delle munizioni, che quelle siano state assemblate in data coerente con quelle di almeno una parte del miscuglio.
    Perchè ciò accada, ossia perchè comprando in nero sottobanco ed illegalmente delle munizioni dopo l'agosto 1968 (o meglio ancora dopo il 1974, ma peggio ancora a ridosso del 1981!!!), ci vegano in nero sottobanco ed illegalmente fornite delle munizioni coerenti per marchiatura del fondello almeno con parte del miscuglio del 1968 assemblate antes 1968:
    è decisamente un caso ben raro (on impossibile, ci mancherebbe altro, ma di certo ben raro).

    Un non-passaggio di arma, o al limite una cessione di arma con contestuale cessione del munizionamento annesso rimasto:
    è spiegazione a maggior confidenza di probabilità rispetto a quella di un recupero da terra di un arma e di un successivo (forse anche di anni) acquisto illegale al mercato nero di munizioni che però almeno in parte siano in coerenza con parte del miscuglio del 1968.

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