Le vittime dell’affannosa e inutile
ricerca dei fantomatici “mandanti” dei delitti del Mostro furono molte. Tutte
persone che videro la propria vita messa sottosopra, e in alcuni casi rovinata,
in base a una teoria non soltanto priva di qualche seppur minimo riscontro, ma
anche assurda, mai presa in reale considerazione da nessun studioso di delitti
seriali. A rimetterci più di qualsiasi altro fu Francesco Calamandrei, lo
sfortunato farmacista di San Casciano la cui unica colpa era stata quella di
aver sposato una donna che covava in sé il germe della follia, e che per questo
lo aveva accusato, fin dalla seconda metà degli anni ’80, di essere il Mostro. Le
peripezie del povero cristo verranno trattate più volte in questa sede, anche
per illustrare fin dove si sia potuta spingere la cieca ostinazione delle indagini condotte su di lui. Tanto per darne un assaggio: si pensi alla montagna di danaro speso per
intercettare i suoi telefoni e quelli delle persone a lui vicine, in un periodo
protrattosi per ben 19 mesi, quando la normale prassi prevede i quindici
giorni, rinnovabili a fronte di valide motivazioni. E con risultati nulli.
In questo primo articolo
partiremo dal fondo, dall’assoluzione del 21 maggio 2008 pronunciata dal giudice
Silvio De Luca al termine
di un processo condotto con il rito abbreviato. Questo il verdetto: “In
nome del popolo italiano il giudice presso il tribunale di Firenze [...] visto
l'articolo 530 secondo comma c.p.p. assolve Calamandrei Francesco da tutti i
reati ascrittigli perché il fatto non sussiste”. A fine dicembre
venne resa nota la sentenza, pubblicata quasi integralmente tre mesi dopo dal
quotidiano fiorentino “Metropoli Day” in un libro dal titolo “Assolto perché il fatto non sussiste”. Dalla
presentazione del direttore Fabrizio Nucci:
Vi chiederete perché Metropoli ha deciso di
pubblicare, in forma pressoché integrale, le motivazioni (rese note a fine
dicembre 2008) con le quali il giudice Silvio De Luca, il 21 maggio 2008, ha
assolto Francesco Calamandrei dall’accusa di essere il mandante di quattro degli
otto duplici omicidi del cosiddetto Mostro di Firenze, “perché il fatto non sussiste”.
Lo abbiamo fatto perché le riteniamo
illuminanti sul modo in cui è stata condotta questa indagine, che per anni ha
caratterizzato la vita dell’ex farmacista di San Casciano e della sua famiglia.
Lo abbiamo fatto perché sarà dalle parole, dagli
interrogatori, da tutto quello che troverete e leggerete in queste motivazioni,
che potrete farvi davvero una vostra idea su questo processo.
Il libro risulta di difficile
lettura, soprattutto per chi non è motivato a sufficienza, ma la pubblicazione
si giustifica ampiamente per il suo significato simbolico: leggendo anche solo
in parte quelle 176 pagine, tutti possono rendersi conto di quali assurdità sia
stata capace la giustizia italiana. Ma il libro contiene anche la dimostrazione
di come sia possibile fermarsi in tempo, prima di giungere a conseguenze
estreme, il che non era accaduto per Pacciani in primo grado e per Vanni in
primo e secondo.
Pur in modo piuttosto garbato, la
sentenza demolisce tutti i capisaldi della ricostruzione accusatoria. Le
dichiarazioni della Ghiribelli vengono considerate contraddittorie, quelle di
Vanni farneticanti, i memoriali della Ciulli nient’altro che deliri di una
persona gravemente malata. Argomenti come magia, diavoli e mondo dell’occulto,
emersi in alcuni passaggi delle indagini, vengono ignorati essendo privi di “una qualche
influenza particolare con riferimento ai delitti”. Villa la
Sfacciata non convince affatto come possibile sede dei fantomatici festini per
le persone bene, come non convince la stamberga di Salvatore Indovino per
quelle di basso livello. Anzi, la sentenza si chiede se i festini siano mai
avvenuti, e in ogni caso non vede alcuna prova sulla partecipazione a essi di
Calamandrei.
Ma per illustrare il pensiero del
giudice De Luca sull’intera inchiesta è sufficiente esaminare il capitolo
finale, intitolato “Conclusioni”, la cui premessa è inequivocabile :
Occorre innanzitutto evidenziare come la
prospettazione accusatoria cada in una serie di sillogismi che mancano di una
base logica e, soprattutto, che non presentano alcun significativo riscontro
oggettivo, ognuno di loro essendo risultato non provato da quello presupposto o
successivo. Si prendano, ad esempio, le dichiarazioni rese dalla Pellecchia,
laddove ha riferito di “festini” in cui collocava sia pur non in pieno (avendo
parlato solo di due o tre incontri sessuali) il Narducci.
Il primo sillogismo è che, siccome
l'organizzazione di queste riunioni era della Giovagnoli (ma anche tale assunto
non risulta affatto provato) e la sede era San Casciano, doveva ritenersi ben
plausibile dedurre che il coordinatore-trait d’union fosse il Calamandrei, in
quanto cliente “storico" della Giovagnoli. Ebbene tale sillogismo, oltre a
non essere veritiero, non può di certo porsi a base di un ipotetico e non
accertato indizio a carico del Calamandrei.
Si tratta di una bocciatura
pesantissima. Secondo De Luca, nella propria ricostruzione l’accusa non
soltanto aveva tratto conclusioni non giustificate dalle premesse, ma le stesse
premesse non risultavano provate. Insomma, un castello di sabbia costruito
sulla sabbia. L’esempio scelto è illuminante. Una prostituta avrebbe
organizzato qualcosa di simile a dei festini in quel di San Casciano. Siccome
di tale prostituta era cliente Calamandrei, la conclusione è che anche lui
fosse coinvolto. Si tratta di un sillogismo errato, è evidente, poiché dalle
due premesse non si arriva per forza a quella conclusione, al massimo si può
coltivare un sospetto. Ma di più, la stessa premessa (la prostituta avrebbe
organizzato dei festini) non risulta affatto provata.
La sentenza riporta molti altri
esempi di errate premesse ed errati ragionamenti insiti nella ricostruzione
dell’accusa, poi così conclude:
Deve, in conclusione, evidenziarsi,
ricollegandosi a quanto sopra riportato circa l’enucleazione dei concetti di
prova, indizio, congettura o sospetto e del principio, oramai consacrato anche
nel codice di rito, secondo cui debba essere pronunciata sentenza di condanna
solo “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che nel caso di specie certamente
quest’ultima soglia non appare non solo superata ma nemmeno sfiorata: i
sillogismi sostenuti dalla Pubblica Accusa non solo non si sono tradotti in
indizi gravi, precisi e concordanti ma sono risultati solo ipotesi, inizialmente
anche plausibili, ma non collegate le une alle altre da riscontri di una
qualche oggettività. […]
Si impone, dunque, la pronuncia di una
sentenza con formula assolutoria “perché il fatto non sussiste”, che, oltre ad
implicare l’esclusione della condotta, dell’evento o del nesso di causalità o,
comunque, il dubbio su tali elementi, prevede, come nel caso di specie,
l’assenza o l’insufficienza della prova circa il presupposto del reato.
Come si vede, viene fatto
esplicito riferimento alla fresca modifica dell’articolo 533 cpp (20 febbraio
2006): “il
giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del
reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Si tratta
della formulazione del basilare principio, risalente al diritto romano, secondo
il quale nel dubbio è necessario assolvere. Ebbene, secondo De Luca, nel caso
in esame alla soglia oltre la quale avrebbe dovuto sparire ogni ragionevole
dubbio sulla colpevolezza dell’imputato neppure ci si era avvicinati.
La nettezza del proscioglimento di Francesco Calamandrei è dimostrata, in modo indiretto, anche dalla mancanza di impugnazione da parte della Procura, che accettò la sonora sconfitta senza batter ciglio. Eppure scrive Michele Giuttari nel suo ultimo libro, “Confesso che ho indagato”: “Il farmacista Calamandrei è stato prosciolto a Firenze dall’accusa di essere stato il mandante dei duplici omicidi, anche se con formula dubitativa”. Nel qualificare come “dubitativa” la formula scelta dal giudice De Luca (il comma 2 dell'articolo 530) l’intento dello scrittore non più investigatore è chiaramente quello di attenuare in qualche modo gli effetti demolitori che tale assoluzione produsse sulle sue indagini, insinuando nel lettore il dubbio sulla effettiva innocenza dell’imputato. Ma è veritiero quello che scrive? Possiamo dire di no, sia da un punto di vista formale che da uno sostanziale.
Da un punto di vista formale oggi
non è più possibile parlare di “formula dubitativa”, in nessun caso. Con essa si
indicava l’assoluzione per “insufficienza di prove” contemplata dal vecchio
codice (art. 430 comma 3), mediante la quale il soggetto veniva “liberato”
senza riconoscerne fino in fondo l’innocenza. Un esito processuale di questo
tipo poteva portare a conseguenze negative nella sfera sociale, con la reputazione
della persona macchiata comunque dal sospetto, soprattutto nei casi trattati
dai mass media, tanto è vero che era possibile chiedere appello al fine di
ottenere un’assoluzione piena, prevista dal comma 2 dello stesso articolo 430.
Nella scrittura del nuovo codice
era intento del legislatore abolire la norma in nome del principio di non
colpevolezza, sancito dall’articolo 27 della Costituzione e riconosciuto valido
in ogni ordinamento giuridico moderno, secondo il quale ognuno è innocente fino
a che non viene dimostrato il contrario. E dal giudizio di un tribunale non
possono uscire mezzi innocenti o mezzi colpevoli, ma soltanto innocenti o
colpevoli di reati più o meno gravi. In effetti la norma è stata abolita; c’è
da dire però che, almeno in certe situazioni, il rimedio si è rivelato peggiore
del male.
Nel nuovo codice le sentenze di
proscioglimento vengono disciplinate dall’articolo 530, suddiviso in quattro
commi, dei quali in questa sede interessano i primi due.
1. Se il fatto non sussiste, se l'imputato non
lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge
come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile [85 s.
c.p.] o non punibile per un'altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di
assoluzione indicandone la causa nel dispositivo [254 trans.].
2. Il giudice pronuncia sentenza di
assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova
che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce
reato o che il reato è stato commesso da persona non imputabile.
Come si vede il comma 2 assorbe
la casistica del comma 3 del vecchio articolo 430, il quale così recitava: “Se non risultano
sufficienti prove per condannare, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione
per insufficienza di prove”. Nel presumibile intento di togliere
ulteriore motivo per distinguere livelli differenti d’innocenza (in realtà in
un generale tentativo di limitare il ricorso alle impugnazioni), il nuovo
codice non contempla mai la possibilità dell’imputato prosciolto di chiedere
appello, neppure in caso di uso del comma 2, a parte casi specialissimi. Varie
sentenze della Cassazione lo hanno ribadito, ad esempio la 25928/2002: “Nel vigente
ordinamento processuale non può riconoscersi un interesse giuridicamente apprezzabile
dell'imputato a proporre impugnazioni avverso sentenza di assoluzione
pronunciata ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p. e cioè per ritenuta
mancanza, insufficienza e contraddittorietà della prova della colpevolezza”.
Quindi, secondo il legislatore e secondo la Cassazione, non esisterebbe
interesse “apprezzabile”
dell’imputato a passare da un’assoluzione per il secondo comma a una per il
primo, e di conseguenza non avrebbe senso chiedere appello. Tutto questo nello
spirito dell’art. 538 comma 4 (“Per proporre impugnazione è necessario avervi interesse”).
Ma proprio le frequenti chiamate dei supremi giudici a pronunciarsi
sull’argomento dimostrano che ciò non è del tutto vero. D’altra parte non è con
una legge che si possono cancellare i dubbi di chi guarda con sospetto anche a
prove dichiarate insufficienti o contraddittorie, procurando per questo un
danno che può diventare assai grave a chi davvero è del tutto innocente
(si pensi ai casi di accuse per pedofilia a personale insegnante, ad esempio).
Quindi si può senz’altro sostenere che da questo punto di vista la nuova legge
è peggiore della vecchia.
C’è un secondo problema
introdotto dalla nuova norma: nel medesimo comma 2 sono state fatte rientrare
sia le vecchie assoluzioni per insufficienza di prove, sia parte delle vecchie
assoluzioni piene, quelle per “mancanza”
della prova. Da un punto di vista logico e formale la nuova suddivisione appare
corretta, poiché nel comma 1 rientrano i casi in cui si è potuto dimostrare
l’innocenza dell’imputato, mentre nel comma 2 rientrano i casi in cui non si è
potuto dimostrare la sua innocenza ma neppure la sua colpevolezza (e quindi
vale la presunzione d’innocenza). Ma la suddivisione dimostra altresì che lo
stesso legislatore ha inconsapevolmente mantenuto la distinzione psicologica tra innocenti di
serie A e innocenti di serie B, anzi, ha finito per aumentare il numero di questi ultimi.
Ad esempio, chi oggi viene ingiustamente rinviato a giudizio per un
reato commesso da ignoti, se gli va bene finirà quasi sempre assolto per il comma 2, anche
quando neppure una delle prove a suo carico raccolte in istruttoria sarà
ritenuta valida dal giudice; a meno che la difesa non riesca a fornire in dibattimento prova positiva d'innocenza (un solido alibi recuperato tardivamente, la confessione del vero colpevole, e così via). E
poiché nessuna regola può sconfiggere atteggiamenti mentali radicati da tempo,
molti, soprattutto se hanno qualche interesse a farlo, si sentiranno in diritto
di equiparare quell’assoluzione alla vecchia insufficienza di prove, mentre
secondo il vecchio codice sarebbe stata piena per mancanza della prova. È
proprio il caso di Giuttari e Calamandrei, complice la mancata precisazione
di De Luca che il comma 2 si applicava non per insufficienza o contraddittorietà,
ma appunto per mancanza della prova, come si evince dalla lettura della sua stessa sentenza.
Tutte le presunte prove ne risultano infatti demolite; basti questa frase
a dimostrarlo: “i
sillogismi sostenuti dalla Pubblica Accusa non solo non si sono tradotti in
indizi gravi, precisi e concordanti ma sono risultati solo ipotesi, inizialmente
anche plausibili, ma non collegate le une alle altre da riscontri di una
qualche oggettività”. Quindi si può parlare di assoluta mancanza di
prove, non certo di insufficienza.
La bocciatura della ricostruzione
dell’accusa risulta totale anche nella scelta del momento logico in cui cade,
il primissimo, quello della individuazione del reato. Assolvendo Calamandrei “perché il fatto non
sussiste”, e non “perché l'imputato non lo ha commesso”, il giudice
mise in dubbio l’esistenza dello stesso reato. Quindi nella prospettazione
accusatoria non soltanto non vi era stata dimostrazione che Calamandrei avesse
partecipato a festini a base di feticci, ma neppure che quei festini si fossero
mai tenuti. D’altra parte un’assoluzione per il comma 1 non sarebbe stata
possibile poiché prove positive della non sussistenza del fatto, come ad
esempio la certezza del killer solitario psicopatico, non ce n’erano. In altre
parole, il giudice non poté escludere i festini (e la loro frequentazione da parte di Calamandrei) come pura ipotesi astratta (le “ipotesi inizialmente
anche plausibili”), quindi non assolse per il comma 1, ma non ne riscontrò alcuna
prova, quindi assolse per il comma 2.
In conclusione si può senz’altro
sostenere che l’affermazione di Giuttari “Calamandrei è stato prosciolto […] con formula dubitativa”
è scorretta sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale.
Ma forse lo scrittore non più investigatore voleva riferirsi alla cosiddetta ombra nera...
Grazie. Francesca Calamandrei
RispondiEliminaSi stenta a credere che la vostra dolorosa vicenda sia accaduta nell'Italia del 2000. Eppure al peggio non c'è mai fine, come dimostra la recente sentenza civile.
EliminaNon ho mai commentato in nessun blog, mai aggiunto niente, ma Lei se lo è davvero meritato. Mi lasci il tempo di leggere tutto e magari se ne ha bisogno di fornirle degli atti.Una vicenda come questa distrugge una famiglia, come sà mio padre e mio fratello sono morti, ho ancora mia mamma ( eh si la Ciulli ...) e voglio proteggere i miei figli in ogni modo possibile. Non dovranno mai vergognarsi del loro nonno e gridare a voce alta la sua innocenza e l'ingiustizia subita ! Sarò lieta di darle anche la sentenza gatta per la fox e il nostro appello
RispondiEliminaNota dolorosa a margine, persino degli avvocati penalisti accennano alla formula dubitativa trattandola alla pari di una condanna mancata, alimentando sospetti che offendono una famiglia vittima di malagiustizia.
RispondiEliminaHo intenzione di scrivere un nuovo articolo su questo tema, andando a esaminare con attenzione la sentenza De Luca per rintracciarvi le eventuali ragioni che portano Mignini e Giuttari a raccontarla a loro modo. Mi urta terribilmente leggere le esternazioni di due pubblici ufficiali che piegano la realtà per attribuire una qualche valenza al loro inutile lavoro, passando sopra al dolore che ancora provocano in una famiglia cui tutti gli italiani dovrebbero chiedere scusa. Come fece Cossiga ai poveri genitori della sfortunata bambina Miriam Schillaci:
EliminaQuale capo dello Stato e rappresentante dell' unità nazionale sono qui a chiedervi perdono per le ingiuste sofferenze che la terrena limitatezza dell' attività dello Stato vi ha così crudelmente inferto e per i peccati di indifferenza e leggerezza di cui una intera società si è resa colpevole verso di voi.
Fai benissimo, perfettamente d'accordo. Purtroppo non viene mai data ad assoluzioni e proscioglimenti la stessa risonanza data per arresti, indagini, rinvii a giudizio, condanne ecc. Un po' perché sono meno sensazionalistici, un po' perché i giornalisti di giudiziaria e cronaca nera campano di indiscrezioni e veline spesso provenienti dagli inquirenti, dunque hanno paura di indispettire le loro fonti segrete, forse.
EliminaNon a caso i giornalisti si sono arrabbiati quando finalmente un pm (caso Benno) si è rifiutato a lungo di far trapelare notizie ed informazioni riservate.
Cossiga aveva i suoi limiti ma sulla questione giustizia aveva mille ragioni, memorabile il rifiuto di dare la mano a Di Persia durante una seduta al CSM, ha accennato all'episodio anche la vedova di Enzo Tortora (non ricordo se fosse la sua ex moglie oppure l'ultima convivente).
A proposito della formula assolutoria "perché il fatto non sussiste" e che secondo qualcuno sarebbe adito a dubbi sull'effettiva estraneità ai fatti contestati, osservo che anni dopo anche Mignini e Giuttari sono stati assolti per tutt'altre vicende con questa formula.
RispondiEliminaIronia della sorte.
https://www.fioruccinews.it/2014/01/16/assolti-mignini-e-giuttari/
Non è quello il motivo, il motivo è l'uso del secondo comma dove si dice "quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste"
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